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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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VIII Quello che don Alberico avea pronosticato al maggiordomo di casa, che cioè il dottor Gallaroli avrebbe fatto, tornando alla visita della sera, un grande scalpore al sentire che non s'era ancor mandato a chiamare il prete, avvenne per l'appunto. Il conte F..., in quelle sei o sette ore che erano passate dal consulto al suono della campana serale, aveva peggiorato a furia; onde il bisogno del prete erasi fatto più necessario che mai. Come dunque montasse in collera il medico della cura, sebbene per abitudine gioviale e cortese ed anche un po' adulatore, è facile imaginarsi. Si trattava di spargere di sè e delle sue osservanze religiose un'opinione favorevole, la quale lo avrebbe ingraziato al clero in cura d'anime, certo che un medico dee necessariamente tenersi confederato; e il dottor Gallaroli tanto più salì sulle furie, quanto più era straordinaria e cospicua l'occasione. Data pertanto una buona sgridata al maggiordomo, perchè in quel momento la collera serviva al suo intento, come altre volte la giovialità e la condiscendenza, partì facendosi promettere obbedienza intera, e raccomandandosi in ispecial modo, e qui cangiando tono e frasi e faccia, a don Alberico. Non però cessarono le dispute tra questo e il maggiordomo, dopo che il medico si fu partito. E il Rotigno non faceva che ripetere i paralogismi sfoderati fin dal mattino col figlio del signor conte, difendendo il suo proposito con tanto maggiore insistenza e caparbietà, quanto più disperava della possibilità di potervisi mantenere; anzi l'insistenza e la caparbietà crebbe al punto che diventò iraconda petulanza; tanto la considerazione del pericolo vicino lo avea fatto uscire da quelle misure di rispettosa convenienza che pur gli erano comandate dalla sua condizione e da quella di don Alberico. Ma ciò gli partorì appunto l'effetto contrario a quello per cui si crucciava; che don Alberico, inasprito da quella così audace contraddizione, ordinò a' domestici che tosto andassero a chiamare don Giacinto di Santa Maria Podone. I domestici di casa F... non erano mai stati i più pronti esecutori degli ordini di don Alberico, perchè il conte padre e il maggiordomo erano sempre stati i soli a far paura alla servitù; ma in quel momento successe una repentina diversione. Il conte padrone potea morire; e allora il maggiordomo, cessando a un tratto di essere dopo di lui la persona più autorevole della casa, doveva diventare invece il servitore devoto di don Alberico, non rimanendo, in quanto al resto, che l'uomo il più abborrito dai dipendenti; perchè questi, se lo avean sempre obbedito con prontezza, lo avevano anche sempre odiato con effusione, per quelle relazioni di sudditanza oppressa e di tirannia che intercedono quasi sempre tra un maggiordomo e le livree d'una casa. Don Giacinto fu dunque mandato a chiamare. Il vicario di Santa Maria Podone, indignato di essere stato messo alla porta dal maggiordomo quando erasi presentato a visitare il conte, non s'era più mosso, ma sentendo peggiorar sempre le notizie della salute del conte, aspettava di venir invitato. Quando pertanto il servo di casa fu a dirgli, che venisse subito perchè il conte padrone stava a malissimi termini, tosto accorse. Il maggiordomo, allorchè vide il prete entrar nella stanza da letto del conte F..., provò quell'oppressione di cuore e quello sgomento onde è assalita una moglie infedele che, sorpresa dal marito, lo veda entrar nella stanza dove avea creduto di poter nascondere il furtivo amante. Don Giacinto il quale, per una lunga abitudine al letto degli ammalati, aveva fatto, come suol dirsi, l'occhio medico, avvistosi tosto del massimo pericolo in cui versava il conte, senza por tempo in mezzo gli propose la confessione, che dall'ammalato incadaverito fu accettata. Quando la vecchia cameriera uscì per lasciare il padrone da solo a solo col prete, trovò il maggiordomo che s'indugiava nella sala vicina. - Or come sta il padrone? quegli le chiese. - Sta con don Giacinto e si confessa. Usciamo tutti di qui, e non si lasci entrar nessuno. - Io mi fermerò, e non entrerà alcuno; disse il maggiordomo preoccupato; e, uscita la vecchia, in prima egli si diede a passeggiare per la camera, rallentando di tratto in tratto il passo, per finire a fermarsi poi del tutto in un angolo della sala, raggruppato in un atteggiamento che significava la più profonda concentrazione in un pensiero unico. Ma a riscuoterlo entrò improvviso don Alberico che gli disse con accento di meraviglia: - Or che fate lì rincantucciato? E la sua voce risuonò in quel profondo silenzio: chè tutti i servi si erano allontanati. Alla voce di don Alberico, la quale distintamente arrivò fin all'orecchio dell'ammalato, rispose un sospiro grave, anzi un gemito rantoloso dell'ammalato stesso. I due, scossi da quel gemito, stettero un momento immobili e senza quasi tirare il fiato. - Or su, coraggio, dica pur tutto. Era il prete che parlava; ma il prete quasi nel punto medesimo usciva, e vedendo i due: - Presto, si chiami qualcuno, che al padrone è sorvenuto un deliquio. - E diede egli stesso una strappata al campanello, e s'udì lungo le sale silenziose l'oscillazione prolungata del filo metallico. Accorse incontanente la vecchia cameriera, ed entrò col prete nella stanza del conte. - Or vedete, disse allora il Rotigno a don Alberico, i buoni effetti da me pronosticati di queste negre sottane. - E che si doveva fare? rispose il giovane. Dopo una mezz'ora il conte erasi tanto quanto riavuto, onde don Giacinto, fatta di nuovo uscir la vecchia, ripigliò la confessione. Ma ora non creda il lettore di potere, introdotto da noi in quella stanza di morte, mettere la testa tra le orecchie del prete e la bocca del conte. No; di quella confessione noi non sappiamo nè principio, nè mezzo, nè fine. Chè il sacramento della penitenza non è costituto criminale, e non si traduce in processo verbale a saziare la curiosità dei posteri curiosi. Soltanto possiamo dire che, allorquando il prete uscì, il maggiordomo che lo attendeva alla porta per leggergli in volto e penetrargli l'anima, non vi potè legger nulla; o, diremo più giusto, non vi notò altro che quell'abituale tranquillità del sacerdote che ha fatto il suo dovere; ed anzi quella tranquillità era tale che se la sentì trasfusa in se medesimo. In quanto a noi, volendo avventurare qualche congettura, regolandoci con quello che avvenne dopo, ci pare di poter sospettare, che il conte fosse al punto di fare al sacerdote la rivelazione intera d'ogni cosa; ma la combinazione fatale avendo voluto che in quel punto la voce dell'unico erede gli suonasse all'orecchio, quella bastò per impietrargli il segreto in gola. L'indomita ambizione e il pensiero della grandezza del casato perpetuata nel figliuolo, fu più forte d'ogni altra angustia, e tacque; vogliamo dire, è assai probabile che sia avvenuto così, perchè, del rimanente, ripetiamo, non sappiam nulla di preciso. La mattina successiva, sacerdote e dottore furono al letto del conte; e il malore, durante la giornata, progredì al punto che, nel dopo pranzo, fu indispensabile accorrere col Viatico, in vista del quale, coi cappelli devotamente levati, ci staccammo da quella schiera di giovinotti avventori del caffè del Greco. Ma come essi per raccoglier novelle della salute del conte F... lasciarono il palazzo del Capitano di Giustizia; a noi conviene invece ritornare di necessità in quel luogo, nell'aula degli interrogatorj. E dobbiamo ricordarci anche della Gaudenzi, venuta colà a visitare Lorenzo Bruni. Se non che il dialogo che s'impegnò tra questo e la bellissima danzatrice, e il terzetto a cui si allargò il duetto, al sorgiungere di Pietro Verri, interessa un ordine di fatti che qui potrebbero far sbadigliare il lettore, tutt'altro che disposto a tener dietro al corso generale delle cose di quel secolo in un punto che più ci attirano le particolarità del processo; per la qual cosa omettiamo un tal dialogo, reclamando il diritto ai ringraziamenti. Dall'auditore che parlò nel cortile del palazzo di Giustizia cogli amici del caffè del Greco, abbiamo sentito come il primo cameriere dell'albergo dei Tre Re messo agli interrogatorj abbia, in prima, deposto contro il lacchè Suardi, dicendo di aver giuocato con lui in una delle sere della settimana grassa; poscia, interpellato se fosse disposto a raffermare la deposizione col giuramento, siasi ritratto di un passo, accusando la possibilità che la memoria avesse mai potuto tradirlo. In tal guisa veniva a riuscire secondo l'espressione dell'attuaro, irrita affatto la sua prima dichiarazione, e però a risolversi in un indizio, più che insufficiente, nullo. Se non che il causidico praticante nello studio dell'avvocato Agudio, che era un tal Gerolamo Benaglia, recatosi a Cremona, aveva trovato all'albergo del Sole il secondo cameriere, e interrogatolo, lo aveva sentito confermare l'asserzione del primo, dichiarandosi inoltre pronto e a giurare e a sostenere il confronto col medesimo Galantino; perciò, senza por tempo in mezzo, avealo condotto seco a Milano; del che avendo dato avviso al signor capitano di giustizia, questi avea ordinato che il dì dopo dovesse comparire per essere sentito in giudizio. Il marchese Recalcati, se per le molte circostanze sorvenute era disposto a lasciar corso liberissimo alla giustizia senza riguardi obliqui per nessuno, e nel bisogno a parlare anche in Senato, dove il capitano spesso era chiamato e sentito; non però aveva mai avuto gran voglia di comunicare una velocità straordinaria all'andamento del processo. La sua natura onestissima era pur sempre alle prese con quella sommessa deferenza ch'egli sentiva per chi voleva virare il naviglio in modo, che finisse per perdersi in alto mare, lontano dalla vista del pubblico. Ma l'esame fatto alla contessa Clelia V..., le franchissime parole di lei, le calde sue sollecitazioni raddoppiarono la sua onestà e scemaron la deferenza ch'egli avea per altri. Però venne in pensiero di dar corso più rapido al processo, e a tal fine volle, che il secondo cameriere venuto a Milano col causidico praticante Benaglia dovesse comparire in giudizio quel dì medesimo, senza attendere il giorno successivo; e siccome l'ora erasi fatta tarda, così dispose che l'esame si avesse a fare dopo i vespri a chiaro di lucerna, e gli esaminatori dovessero, al bisogno, vegliar la notte perchè "col sorgere del sole (togliamo queste parole dal processo) qualche lume di verità dovesse rischiarare la casa della giustizia".
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