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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO QUINTO
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Quando codesta relazione, col voto dell'illustrissimo capitano di giustizia e colla nota - d'urgenza - fu portata in Senato, correva il primo di giugno. Essendo giorno di mercoledì, che, al pari del lunedì e del venerdì, era riservato alle cause civili, i segretarj del Senato la misero fra le cause da trattarsi in consiglio il giorno dopo (chè nei giorni di martedì, giovedì e sabato si discutevano esclusivamente le cause criminali). Ed ora giacchè si ha ad assistere allo spettacolo di questo Senato in sessione, di questo Senato che sta vivendo gli ultimi anni della sua vita (e dovremo assistere fra non troppo lungo tempo al suo totale scioglimento); per coloro che non hanno letto la sua storia scritta da Orazio Landi, nè il commentario del Garoni, nè le memorie di don Martino de Colla, nè il Lattuada; o che, anche avendoli letti, non li serbano tutti in memoria, è bene che riassumiamo qui con breviloquenza da telegrafo: che l'origine del Senato di Milano risale al primo duca Giovanni Galeazzo Visconti, quando, nel 1390, ottenne titolo e dignità ducale dall'imperatore Venceslao, non avendo allora che l'appellazione di Consiglio; - che, nel 1499, questo Consiglio ebbe titolo di Senato da Lodovico XII di Francia ed era un Consiglio di diciasette Senatori presieduti dal Gran Cancelliere; che, nel 1522, ritornato Francesco II Sforza in Milano, un nuovo regolamento portò a 27 il numero dei padri coscritti; - che, nel 1527, venuto a pigliar possesso del Ducato di Milano il Borbone in nome di Carlo V, venne sconvolto il regolamento sforzesco, e fu costituito il Senato da un presidente, quattro cavalieri, dodici giureconsulti con sette segretarj, per tramutarsi poscia e stabilirsi nel presidente con quattordici giureconsulti; di modo che al tempo in cui ci troviamo colla nostra storia, il Senato constava del presidente e di quattordici senatori, uno de' quali aveva titolo di senatore reggente o vicepresidente, come decano. Di quattordici però non risiedevano che dodici, perchè due venivano sempre impiegati nelle preture della città di Pavia e di Cremona. A questo illustre corpo si univano sei segretarj e nove portieri, vestiti di divisa color violetto cupo e portanti collane d'oro al collo nelle pubbliche comparse. Giova inoltre sapere, per coloro almeno che pel momento non hanno cosa di maggior importanza da imparare, che i senatori cambiarono due volte il vestito, perchè sotto i duchi e i re di Francia portavano berretta o giubbone colle divise bianco-rosse; e al tempo del dominio spagnuolo assunsero le toghe foderate, in tempo d'inverno, colle pelli di zibellino (ponticus mus), come lo chiama il Garoni, il qual zibellino distingueva i senatori dagli altri magistrati togati, onde è probabile che i più vanitosi dovessero nutrire una certa avversione per l'estate.

E come l'eccellentissimo Senato cambiò titolo, numero, ingredienti, vestito, più d'una volta, medesimamente dovette cangiare spesso il luogo delle sue adunanze; onde sotto il primo duca probabilmente, e, di certo, sotto l'ultimo, si radunava in porta Vercellina presso la parrocchia di san Protaso al Foro; poi, sotto i re di Francia, nella casa pure in porta Vercellina assegnata al gran cancelliere: infine si traslocò in una parte del medesimo reale palazzo.

Ed è in questo luogo che noi adesso dobbiamo recarci. Un'ora dopo mezzogiorno del primo giovedì del mese di giugno, il presidente e i senatori intervenuti, che in quel giorno erano in numero di otto (non era necessario che tutti quanti intervenissero), dopo avere ascoltato la santa messa nella cappella del palazzo medesimo, come voleva la consuetudine, entrarono nella gran sala, che nel 1750 si denominava ancora delle udienze, perchè sotto i duchi e i re di Francia vi si tenevano infatti le udienze pubbliche; entrarono e si posero a sedere intorno ad una gran tavola con tappeto verde; i senatori si assisero quattro per parte, nelle cattedre che si chiamavano ancora de' padri coscritti; il presidente nella più rilevata cattedra posta in capo alla tavola. Dietro di lui, ad una tavola più piccola sedette uno de' sei segretarj. Tutto era augusto e solenne in quell'aula. Al disotto dei dipinti a fresco della metà superiore delle pareti si vedevano cinque grandi quadri, dov'erano dipinte ad olio le proprietà della giustizia, portanti al disotto dell'ampia cornice i titoli latini a caratteri cubitali, cioè Æquitas, Legislatrix, Distributiva, Commutativa, Vindicativa, del che ha lasciato memoria il Lattuada. Intercalati a queste tele si vedevano i ritratti di Giovanni Galeazzo Visconti, di Francesco II Sforza, di Carlo V, Filippo II, Filippo III, Filippo IV, Carlo II di Spagna, e dell'imperatore Carlo VI, che stava in faccia alla cattedra del presidente. Più basso, a coprire in parte i magnifici arazzi, rigiravan l'aula alcuni quadri con cornici ad intaglio messo ad oro, rappresentanti i principali misteri della passione di Gesù Cristo, tra' quali spiccava per eccellenza d'arte quello di Gesù portante la Croce sul Calvario, dipinto dal Daniel Crespi, e regalato al Senato dall'arcivescovo di Milano, cardinale Monti successore di Federico Borromeo. Vedevasi pure un altro gran quadro rappresentante il trionfo di san Michele sopra Lucifero, quasi a simboleggiare la trionfante giustizia.

Aperta dall'eccellentissimo signor presidente la seduta, il segretario mise in prima sul tappeto due o tre cause criminali estranee affatto al nostro argomento, di quelle cause che non provocano discussione, e in cui le opinioni e tutti i sistemi si mettono d'accordo; indi pose innanzi all'eccellentissimo signor presidente le carte relative al processo del lacchè Suardi, dichiarando ad una ad una le pezze, a dir così, di tutto il costituto, e domandando se doveva far lettura del rapporto presentato dal signor capitano. Il presidente, com'era di pratica, accennò che facesse; e il segretario lesse adagio adagio il rapporto, facendo, quel che in musica si direbbe, delle appoggiature sui punti che costituivano le saglienze della tesi; ed esponendo il voto del capitano con una chiarezza particolare, che potea significare la deferenza dell'egregio signor segretario per quel voto medesimo.

Finita che fu una tale lettura, prese la parola il senator M ...tone che era decano.

Dopo il senator Morosini, svizzero ticinese (perchè i senatori, come già notammo, si eleggevano da tutte le città e capiluoghi del Ducato ed anche da altre città fuori del Ducato stesso), il M...tone era il più caldo partigiano della giustizia armata di cavalletto e di scure, onde propendeva al rigore, non per l'indole perversa, ma per quell'impulso che viene da ciò che oggi si chiamerebbe l'arte per l'arte. Per di più non essendo di Milano, non era in gran dimestichezza col patriziato milanese e però non era nè intrinsico nè conoscente del conte F... Questi elementi dovevan dunque farlo presumere più propenso che mai al voto del capitano di giustizia. Ma forse perchè non avea avuto torto il popolo milanese, quando col suo senso comune vendicatore lo aveva ferito, avventandogli l'aculeo di quella strofa che già abbiamo accennato in addietro; v'era probabilmente una ragione per cui la spinta naturale in lui si trovava in lizza con una controspinta avventizia. Del resto, comunque fosse la cosa, egli cominciò a parlare cercando di giustificare i motivi che dovevano aver provocato il voto del capitano, ma conchiuse, dichiarando che non trovava gli estremi per decretar la tortura al costituito Suardi.

Se non che, non aveva esso finito di parlare, che il senatore Morosini, di temperamento impetuoso e bilioso, pronunciò, affoltandole, molte parole che parevano schiuma, quand'esce a dirotta da una bottiglia dove ha dovuto per troppo tempo fremere chiusa. Nè in prima quelle parole parevano aver senso, ma a poco a poco, rallentandosi, si disposero in ordine e il discorso procedette perfettamente intonato colla solennità del luogo.

- I sommi capi, così egli proseguì, pei quali non si troverebbe di sottomettere alla tortura il costituito Suardi, si ridurrebbero dunque al non aver avuto il Suardi per proprio vantaggio un eccitamento al furto; all'avere nel primo interrogatorio risposto con tale aggiustatezza e conseguenza alle domande del giudice, da far presumere in uomo indotto quella tranquillità d'esposizione che deriva dal non aver altro a fare che ripetere la pura verità; alla ritrattazione del primo testimonio, alla proposta del giuramento; al non poter bastare le sole deposizioni del secondo, per non verificarsi in lui la qualità dell'essere superiore a qualunque eccezione; e, quand'anche vi si verificassero, all'essere state infirmate dalle cagioni di vendetta che dovevano presuntivamente aver eccitato il secondo testimonio a danno del costituito. Ora dunque, in quanto al primo punto mi meraviglio come ancora possa mettersi in campo la mancanza d'una causa che, direttamente e spontaneamente sorta in lui stesso, doveva eccitare il lacchè al furto; quasi che non fosser noti a migliaja i casi di sicarj prezzolati, i quali assassinaron persone da essi nemmen conosciute. Il vantaggio che doveva raccogliere il costituito Suardi dal furto, non deve cercarsi nel furto in sè stesso e per sè stesso, ma nel premio che presuntivamente deve essergli stato dato o promesso da chi poteva avere interesse a far scomparire le carte più preziose del defunto marchese. In quanto al secondo punto, se nel primo interrogatorio appare l'astuzia del costituito, faccio osservare che non ci appar sempre la coerenza là dove, eccitato dall'ira, esce a dire che la contessa lo ha tradito... (prego l'egregio segretario di leggere quel passo, ch'io notai, appena le carte furono portate in Senato e di cui non ricordo bene le parole).

Il segretario cercò, trovò e lesse il passo.

- Or mi pare che sia difficile il dimostrare esserci coerenza qui, quantunque subito dopo il costituito, con arte diabolica, torca le parole a diverso significato. Ora la mancanza di coerenza in un uomo di sì manifesta astuzia, fa presunzione che vi sia colpa. Venendo ora ai testimonj: se il primo si è ritrattato accusando una memoria infida, per la paura che nelle persone ignoranti desta l'idea di dover giurare; pure le sue deposizioni fatte prima vanno d'accordo colle deposizioni del secondo testimonio, il quale, per soprappiù, spontaneamente dichiara di volere confermare gli asserti con giuramento. Bene io sento a dire che il secondo, essendo solo a testimoniare, non basta a formare un indizio, perchè non si verifica in lui la qualità di essere superiore a qualunque eccezione. Ma perchè, domando io, non si verifica? Ma quand'è che un uomo è superiore a qualunque eccezione in faccia a un tribunal criminale? Io credo, allorquando la sua vita è senza macchie criminali di sorta. È la vita senza rimproveri che costituisce la qualità dell'essere superiore a qualunque eccezione; non la condizione alta, nè la ricchezza, nè i titoli. Il marchese Alfieri, che l'anno scorso ebbe il bando dalla Repubblica di Venezia per attentato di veleno contro il marito della sua amante, non è più oggi superiore a qualunque eccezione, sebbene sia titolato e ricchissimo. Due anni or sono, il sagrestano di San Satiro, solo testimonio contro il Faldella che rubò la lampada dell'altare maggiore, bastò a formare legale indizio, perchè fu dichiarato superiore ad ogni eccezione. Perchè dunque non lo potrà essere anche questo Barisone Cipriano? In ogni modo, non merita si dica neppure una parola a dimostrare l'assurdità dell'essere egli stato mosso da spirito di vendetta; sopratutto è a considerare, eccellentissimi colleghi, che egli trovavasi a Cremona, dove tanto era lontano dal pensare a vendicarsi, che si dovette andarlo a chiamare e pregarlo per farlo venire a Milano. È a considerare, finalmente, se mentre questo Cipriano Barisone non ha note criminali di sorta, il costituito ha contro di sè la pessima sua fama, e il fatto d'aver già commesso un furto nella casa stessa del suo padrone che, notoriamente, pur lo amava e lo proteggeva.

Il senatore Morosini avendo a tal punto fatto pausa:

- Se bastasse, gli subentrò tosto il senatore conte Gabriele Verri, la morale convinzione di un giudice a determinare la legittimità degli indizj per mettere un uomo alla tortura, io per il primo non esiterei a farla applicare al costituito Suardi. Ma questa convinzione non basta, perchè può procedere da errore di giudizio, da false parvenze, dall'impossibilità di vedere tutti i lati delle cose. È dunque necessità l'aderire in tali casi quasi passivamente alla legge.

- E sia fatto, osservò il Morosini, giacchè la legge rimette gl'indizj all'arbitrio del giudice.

- Ma il nostro predecessore senator conte Bossi, ribatteva il Verri, nel suo aureo trattato, al titolo De indiciis ante torturam assegna all'arbitrio del giudice l'obbligo di esaminare con coscienza la verisimiglianza e la probabilità (indicium verosimile et probabile sit). Ora la coscienza ci ammonisce di non prestar fede soverchia alle convinzioni morali, e, torno a ripetere, di aderir positivamente alla legge. Ma giacchè la legge nuda e nel diritto romano e negli statuti criminali di Milano lascia questi indizj all'arbitrio del giudice, bisogna chieder consiglio a coloro che hanno continuata la legge stessa, interpretandola.

- Ma la parola degli interpreti, interruppe il Morosini, non è Vangelo, e tanto si può esser tratti in errore dalle loro convinzioni come dalle nostre.

- C'è un divario notabile. Essi, interpretando la legge, non erano circoscritti da un fatto speciale; bensì erano rischiarati da un complesso di fatti molteplici che hanno la virtù di costituire una norma assoluta. Noi invece, al cospetto di un fatto solitario, siamo tratti, non volendolo, a decisioni condizionate e relative. Gl'interpreti hanno questo vantaggio su di noi, di aver meditato e scritto in circostanze lontane dall'influenza pervertitrice della passione fuggitiva del momento, dalle opinioni correnti e dai pericoli che presenta all'intelletto un fatto unico; epperò essi hanno il diritto di essere ascoltati, noi l'obbligo di ubbidire; di modo che assumono virtù di legge in mancanza d'una legge scritta, determinata, sanzionata, comandata; e come avviene delle gride, che le ultime possono derogar le prime e sostituirle, e però, come tali, sono le sole che devono essere seguite; così avvien degli interpreti, de' quali gli ultimi più acclamati dal consenso universale dei giurisperiti e dei magistrati, devono essere di preferenza consultati e seguiti. Ora il consenso più generale è pei due celebri giureconsulti, il Casoni e il Farinaccio; e costoro, spaventati dagli eccessi a cui nell'amministrar la tortura furon tratti giudici o troppo crudeli o troppo confidenti nelle loro convinzioni, o troppo ciechi, sono giunti a conchiudere, il primo: che la tortura non è arbitraria; il secondo, che non sono arbitrarj nemmeno gli indizj. Communis error judicum putantium torturam esse arbitralem - dice il primo, e non sbaglia; - Non immerito audivi plures jurisperitos dicentes posse melius formari regulam, inditia ad torquendum, non esse judici arbitraria, dice il Farinaccio chiarissimamente. Però dal processo verbale relativo al costituito Suardi non risulta provata la bugia dell'accusato, che sarebbe uno degli indizj legittimi; perchè mancano i due testimoni, quali son voluti dal Farinaccio che qui fa testo di legge. Può esser vero che il primo testimonio non abbia giurato per sgomento. Ma può essere, non vuol dire è. - Può esser vero che il secondo testimonio abbia abito di onestà, ma intanto sussistono presunzioni contro di lui provocate da gravi disgusti passati prima del preteso furto tra accusato e testimonio. E, anche qui, il può essere non vuol dire è - poichè la giustizia è come l'aritmetica, nella quale, se manca la verificazione, non può asserirsi che il calcolo sia giusto.

Dette queste parole, il conte Verri si tacque; e quasi nel momento istesso, entrato nell'aula uno de' segretarj, s'accostò al segretario in seduta, che, alzatosi, parlò all'orecchio dell'eccellentissimo signor presidente, il quale, rivoltosi ai signori senatori :

- Un'ora fa, disse, ha cessato di vivere l'illustrissimo conte F... Come l'egregio segretario Carlo fu sollecito di portarne l'avviso, così io lo ripeto ai senatori qui congregati; faccio presente che la morte del conte F... nella causa che ora qui si sta discutendo... può essere forse un fatto significante.

Questo annuncio fece l'effetto di quei congegni dell'arte nautica, che di punto in bianco fanno galleggiar ritto e baldanzoso un naviglio che, appena uscito dal cantiere dell'arsenale, procedeva impacciato e piegato sull'un dei fianchi.

I diversi pareri degli otto senatori tacitamente si armonizzarono in un consiglio unico, quantunque due o tre altri senatori prendessero la parola, parlando con varia sentenza. Se non che, mentre il Morosini, in quel giorno, tornò impetuoso a ribattere gli argomenti degli avversari, il conte Gabriele Verri parve minor di sè stesso, e lasciò dir gli altri; nè più parlò il senator M...tone. Per le quali circostanze, venuta la votazione, la determinazione del Senato fu che il costituito Suardi, soprannominato il Galantino, si dovesse sottoporre alla tortura lieve e semplice. La voce pubblica che cominciava a parlar alto contro la lentezza onde si procedeva verso il Galantino, e dicea chiaro che si voleva salvare il lacchè, per non compromettere la riputazione del conte F..., fu per il momento placata dal decreto del Senato, di che tosto gli eccellentissimi membri, al cui orecchio eran giunte le pubbliche querele, fecero divulgar la notizia. E per quel giorno e pel successivo tutta la città di Milano non s'interessò che a quell'unico tema della tortura del Galantino e della morte del conte F...

Il giorno 3 giugno la piazza Borromeo era tutta gremita di popolo, chè si celebrarono le solenni esequie del defunto nella chiesa di Santa Maria Podone, sulla cui facciata, tutta coperta a nero e ad oro, si leggeva il seguente cartellone sormontato dalla corona e incorniciato dagli stemmi:

COMITI A... F...

EQ. HIEROSOL

PIO MUNIFICO

CHARITATE IN EGENOS EX CORDE

DOMESTICAM GERENTI FELICITATEM

EXCESSO ANNO LV

ÆTATIS SUÆ

FILIUS COMES ALBERICUS MOERENS

FIDELIUM PRECES POSCIT

Due giorni dopo, al costituito Andrea Suardi, chiamato a nuovo esame, venne intimato si risolvesse a dire la verità, altrimenti verrebbe messo alla corda, così portando la determinazione dell'eccellentissimo Senato, pel concorso di molte circostanze atte a formare indizio; segnatamente per le deposizioni del Barisone Cipriano, confermate con giuramento. Nel rescritto del Senato era stato ingiunto al capitano di giustizia di far adempire al secondo testimonio l'atto formale del giuramento prima d'esaminar di nuovo il costituito.

Questi, che nel confronto col Barisone avea creduto di essere riuscito a togliere ogni forza alle di lui deposizioni; che, per soprappiù, stando in prigione e tastando gli sbirri e mettendo insieme le sparse parole che loro eran cadute di bocca, come chi si affanna di riunire i minuti pezzetti di un foglio lacerato, era riuscito a sapere che il conte F... era morto, e però erasi lasciato andare alle più allegre speranze; rimase come sbalordito a quegli inattesi propositi del giudice; e lo sbalordimento fu di tal natura, da preparar la via ad una susseguente indignazione, anzi ad una esasperazione così aperta e dichiarata, che potea benissimo parer quella di un innocente calunniato. Le parole pertanto che rispose al giudice furono quelle della collera che non ha nè ritegno nè riguardi; e questa volta non già pel calcolo consueto del suo ingegno lungoveggente e scaltro, ma per l'accensione spontanea del sentimento offeso. Erasi messo al posto dell'innocente, s'era lusingato d'aver fatto per potersi fermare a quel posto usurpato; di più attendeva a raccogliere il frutto dei suoi calcoli e della sua fortuna, allorchè di punto in bianco e crudissimamente si vide frustrato nella sua aspettazione; l'ira sua doveva dunque essere naturale e spontanea.

Se un ladro giunge a involare con fortuna una somma di denaro, e avendola nascosta in luogo da lui creduto sicuro, allorchè va per riprenderla non la trova più, il dolore ch'ei ne prova, è simile in tutto a quello del legittimo proprietario stato derubato. E così nè più nè meno avvenne del Galantino al cospetto dell'accusa e del giudice; egli sentì ed espresse tutti i fenomeni dell'innocenza oltraggiata; li sentì anzi e li espresse in modo che il capitano di giustizia ne fu colpito.

Il marchese Recalcati, d'indole mite, aveva avversione a quella barbara eredità del diritto romano, la tortura; tanto è ciò vero che al Suardi la volle decretata dal Senato, mentre egli stesso avrebbe potuto infliggerla; e qui, di passaggio, dobbiamo notare, che la maggior parte dei giudici del suo tempo che avevan viscere, avevano cominciato a detestarla. Viveva essa gli ultimi anni, a dir così, della sua vita feroce, e lo spirito pubblico, senza dichiararlo manifestamente, le s'era rivoltato contro, a preparare e ad accelerare quella morte che le doveva poi venire dal colpo meditato e risoluto di un grand'uomo.

I medesimi sostenitori d'essa, a forza di commentarla e confortarla e mostrarne la validità, facendo passare e ripassare innanzi alla mente degli ascoltatori non propensi, nei momenti più caldi della disputa, la lettera del diritto romano e quella dello statutario e quella dei criminalisti, avean fatte balenare molte verità che dimostrarono la fallacia; verità inchiuse in quegli articoli medesimi stati scritti per darle vigore.

Molte volte il senator Gabriele Verri, che era un partigiano della tortura, aveva detto e ripetuto in Senato quel titolo cospicuo del Digesto, dove è parlato della fragilità e del pericolo della tortura; esso lo aveva ripetuto perchè, avendo fede in quel mezzo, pretendeva che si adempissero tutti i suoi preliminari con rigore di scrupolo; persuaso com'egli era, che, adempiendo con esattezza a tutti i dettami della legge, prima di decretar la tortura, questa non poteva infliggersi che al veramente reo, la cui ostinazione poi era presumibile potesse domarsi solo coi tormenti. L'uomo dialettico e preoccupato, correndo con precipitazione alle conseguenze ultime, non aveva mai saputo fermarsi un momento di più su quel titolo, ch'ei non adduceva che per provare la necessità dell'esattezza aritmetica nel raccogliere indizj; ma che, in realtà, inchiudeva già tutta quanta la condanna della tortura nel punto stesso che le dava sanzione; bensì vi s'erano fermati gli uomini meno preoccupati e meno oppressi dal cumulo della dottrina e più illuminati dal raggio del sentimento, e ne eran rimasti colpiti, e tra questi il marchese Recalcati appunto, il quale, per consueto, andava sempre a rilento e come di malavoglia quando trattavasi di ministrare la tortura.

Se dunque stette perplesso e quasi pauroso di quanto egli stesso aveva fatto allorchè sentì prorompere il Galantino con tanta sincerità di sdegno, è facile a comprendersi. Se non che, a confortarlo ne' suoi dubbj e nelle sue ansie, entrò qualche momento dopo nella sala stessa degli interrogatorj il senator Morosini; colui che propugnava la tortura, non per una convinzione scientifica al pari di Gabriele Verri, nè per considerarla una fatale necessità della procedura criminale, ma per una di quelle arcane voluttà della mente, anzi del senso viziato, che pur talvolta si riscontrano in individui non affatto pervertiti e talvolta, come nel caso nostro, persino onesti; una di quelle arcane voluttà onde si spiega il fenomeno di qualche fanciullo che si gode a denudar la farfalla delle sue ali, o a spennare il pulcino vivo, o a percuotere fieramente in sull'aja il pollo in fuga. Tale era il senator Morosini. Egli veniva in carrozza al palazzo del Capitano di giustizia ogni qualvolta trattavasi di qualche bel caso di tortura. Compiacevasi a far egli stesso le parti d'auditore e d'attuaro, abilissimo come era a gettar scaltre insidie negli interrogatorj; più abile a farle riuscire, accennando agli stessi aguzzini i modi dell'atroce arte loro; press'a poco al pari di un maestro di musica (ci fa ribrezzo l'apatica e spietata similitudine, ma un carattere dev'essere messo a nudo tutto quanto), al pari dunque di un maestro compositore che all'orchestra imponga e faccia sentire gli accelerati e i rallentati. E tanto dilettavasi quel senatore di sì feroce passatempo, che si faceva portar la cioccolata, già lo abbiam detto, nelle aule medesime del capitano, e l'assorbiva lentamente dove s'interrogava, dove davasi la corda.

Quando il senator Morosini entrò, tutti, compreso l'illustrissimo signor capitano, si alzarono; ed egli, nella seggiola che gli fu messa innanzi, si calò, a dir così, con quella pesantezza convenzionale che quasi sempre affettano gli uomini costituiti in una gran carica, anche allorquando non hanno a portare nè il peso degli anni nè quello dell'adipe. Si assise dunque, e nel punto che dal panciotto cavò la scatola d'oro, tutta a figure ed ornamenti in rilievo e a smalto, e porse il tabacco all'illustrissimo signor capitano:

- È il lacchè? domandò; e al cenno del marchese Recalcati non rispose che caricando a più riprese di rapato vecchio le ampie narici di un naso abbastanza senatoriale.

Il Galantino intanto s'era fatto tranquillo, squadrando solo il nuovo venuto (che non era in toga, ma in giubba rosso-fuoco gallonata, e panciotto di teletta d'oro) con certe occhiate fra l'iracondo e il beffardo, che parea dicesse:

- Oh se fossimo noi due a quattr'occhi, non so come l'andrebbe, caro nasone, con quella carta d'oro che hai sulla trippa, eccellente per avvolgere il mandolato di Cremona!

Ma l'attuaro, come tutto tacque e il senatore ebbe rimessa la scatola nell'ampia saccoccia del panciotto:

- Ancora dunque, così parlò al Galantino, vi esorto a dire la verità; e a risparmiarci il dolore di dovervi far mettere alla corda.

- Quello che ho detto ripeterò sempre, rispose il costituito, perchè è la pura verità, e sfido qualunque prepotenza a farmi dire quello che non è.

- Prepotenza di chi? domandò blandamente il senatore, sebbene fosse per indole focoso.

- Di chi ha la forza, e l'adopera per tormentare chi non l'ha.

- Ma che ostinazione è la vostra, soggiunse allora con lentezza quasi soave il senatore, di non voler confessare quel che manifestamente risulta dai fatti e dalle deposizioni di testimoni giurati?

- Che cosa risulta? vostra signoria illustrissima mi illumini, perchè da quello che io so e ho l'obbligo di sapere non risulta nulla, nulla affatto contro di me, e sino ad ora non sono che la vittima di una maledetta calunnia. Io sono accusato d'aver rubate delle carte al marchese F... ma chi può asserirlo? chi m'ha visto a rubarle?... Dove sono questi pretesi testimonj?

- Se qualcuno v'avesse veduto, caro mio, non farebbe bisogno di mettervi alla tortura. Sareste condannato addirittura come convinto. Ma voi avete detto una bugia... asserendo di trovarvi altrove nella notte del furto mentre eravate a Milano. Però se avete negato questa verità secondaria, vuol dire che avevate interesse a negarla... Dunque se si procede oltre, è perchè colla vostra ostinazione voi stesso comandate la severità alla giustizia.

- Io ero a Venezia otto giorni prima della settimana grassa, e ripeto che chi dice di no è un bugiardo infame.

- E questo è quel che si vedrà, soggiunse l'attuaro.

Allora il senator Morosini parlò sottovoce al capitano. Questi si alzò. L'attuaro fece un cenno ai due sbirri che stavano dietro le spalle del Galantino; ed essi, presolo per le braccia, lo trassero fuori di quella sala per condurlo nella vicina, dove soleva darsi la corda. Il senator Morosini, il capitano, gli altri entrarono anch'essi in quel tristo camerone, e si posero a sedere, rinnovando in prima l'attuaro al Galantino l'esortazione di dire la verità, poscia accennando agli sbirri di fare il loro dovere.

Questi, avendolo pigliato di sorpresa, gli levarono il vestito e il panciotto, e l'afferrarono per le braccia, traendolo presso la corda che pendeva dalla carrucola.

Il volto del Galantino che, siccome dicemmo, s'era da qualche tempo fatto pallido, si caricò allora improvvisamente di un rosso cupo che gl'invase la fronte e gli orecchi; e l'occhio, naturalmente bieco e serpentino, vibrò sugli sbirri uno sguardo così infuocato di furore, che fece un'impressione strana sugli astanti; poscia, flessuoso e forte come un leopardo, diede uno squasso irresistibile ai manigoldi, avventando loro bestemmie a furia. Per un istante fuggevolissimo ei si tenne disciolto, ma i manigoldi lo ripresero e, ad un cenno dell'attuaro, altri due sorvennero ad ajutare i primi. Ned egli perciò si ristava dal dare squassi formidabili. La camicia, slacciata e laceratasi in que' forti sbattimenti, metteva a nudo collo, petto, braccia. La chioma, sollevata e scomposta e gettata or da un lato or dall'altro della testa in movimento assiduo, or copriva or lasciavagli scoperto il viso. L'animale-uomo non comparve mai così bello, così sfolgorante, così formidabile nella sua giovinezza come in quel punto. Nella pelle e nella tinta v'era la delicatezza di una fanciulla; nelle forme, ne' muscoli, nelle proporzioni perfettissime l'aitanza di un gladiatore giovinetto. Il medesimo senator Morosini, rivoltosi al capitano, non si potè trattener dall'esclamare: - Che bel ragazzo!

Ma il bel ragazzo fu incontanente tratto in alto come un fascio di fieno; e un gemito ferino che sordamente gli muggì in gola, perchè una volontà di ferro avea tentato di trattenerlo, accusò il dolor fisico derivatogli dalle braccia squassate.

Così sospeso per aria, all'attuaro che gli ripeteva se risolvevasi a dire la verità:

- La verità l'ho detta, rispose, anzi urlò.

Il senator Morosini suggerì allora ai quattro manigoldi di alzare la vittima più presso la carrucola, e accompagnò le parole caricando di nuovo le nari di rapato, e scuotendo colla punta del pollice e dell'indice la cadente polvere dalle ampie lattughe di pizzo di Fiandra della camicia, asperse di oscura goccia.

Rialzato così il Galantino, potè sentirsi lo stridere della carrucola e il fruscìo della corda; non però un lamento di lui, che, alla sempre uguale domanda rinnovatagli, rispose sempre le stesse parole.

A tal punto, per ingiunzione del capitano, venne calato giù. Sotto al labbro inferiore del Galantino i giudici videro una striscia rossa. A respingere il dolore col dolore s'era ficcati i denti superiori nel labbro inferiore, al punto di farne sprizzar vivo sangue.

Allora venne di nuovo ammonito con mitissimo linguaggio dal marchese Recalcati, il quale gli mise innanzi il pericolo che, per la sua ostinazione, si sarebbe dovuto passare alla tortura grave col canape; ma di nuovo rispose il Galantino che, giacchè essi volevano sapere la verità, questa l'aveva già detta; e nemmeno abbruciandolo a fuoco lento, sarebbero riusciti a fargli dir la bugia. Nè il capitano avrebbe insistito più oltre; ma il senatore Morosini lo interrogò di nuovo, e di nuovo lo fece mettere alla corda, sempre però infruttuosamente; laonde quando il Galantino fu rimandato in prigione, il capitano e l'attuaro e gli auditori espressero il dubbio che il costituito potesse per avventura essere innocente.

- È giovane e forte, forte di corpo e d'animo, disse il senator Morosini. La tortura semplice non basta. Vedrete che confesserà tutto alla tortura grave.

E al Senato fu spedita relazione del fatto, con interpellanza se si dovesse passare alla tortura grave appunto.

Ma il senatore Gabriele Verri parlò e parlò forte e mostrò come tutti gli interpreti andassero d'accordo nel proibire di passare alla tortura grave, se non fossero sopravvenuti altri indizj; onde, per mancanza di essi, la giustizia dovette accontentarsi del risultato della prima tortura.

E qui ci conviene tagliar crudelmente il filo del racconto, e dare un addio all'anno 1750; perchè un altro periodo, secondo noi, abbastanza curioso della storia della città nostra, c'intima di affrettarci, essendo ben lungo il còmpito che ci siamo assunto.

 

 




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