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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO SETTIMO
    • VIII
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VIII

Quando il Suardi ebbe messo il labbro all'orecchio dei Baroggi, si trattenne di colpo, come se un secondo pensiero avesse istantaneamente distrutto il primo; si trattenne, e a colui che stava in sull'ale:

- Quel che ti volevo dire te lo dirò domani. Il tempo passa, e se si giunge tardi non si fa nulla. Per ora, affinchè tu metta il cuore in pace riguardo alla purezza di quella fanciulla, ti propongo questo partito: se mai si riesce, come spero (chè allorquando una cosa la si vuole la si ottiene, purchè la volontà sia quella tale), se mai si riesce dunque a trarla dal monastero, ella rimanga, finchè sarà bisogno, presso tua madre. Tua madre che colle ginocchia logora i gradini degli altari, e si macera, poveretta, nelle preghiere e nei digiuni, pentita e strapentita e troppo pentita di avere... ma non richiamiamo il tristo passato, che, del resto, s'ella fu ingannata, non ha ragione di credersi colpevole, mentre non fu che una vittima. Tua madre sia dunque la sua custodia. Così tu non potrai avere più scrupoli... e mi presterai quell'ajuto, senza del quale non si può far nulla. Suvvia, coraggio... e pensa al tuo avvenire.

Capitò a molti, anche tra uomini i più tenaci del loro proposito, di avere a lungo respinte le insidiose insinuazioni degli scaltri con franchissimo coraggio, e che poi, o per qualche accidente inaspettato o per la stanchezza della lotta, si sentiron costretti a lasciarsi trarre nel laccio senza dir di sì e senza dir di no, e di seguire, sebbene contro genio, la volontà altrui. È sempre la storia del diavolo e delle sue tentazioni. Un tal fenomeno lo dovette subire anche il Baroggi. Quella uscita inaspettata del Suardi sulla facoltà che aveva detto d'avere, di poter cambiare dall'oggi al domani la fortuna di lui; le parole e i modi misteriosi onde egli avea toccato quel tasto, la tappezzeria rimossa dalla sua mano, quasi fosse per discoprire cosa della più alta importanza, e fino a quel punto gelosamente celata; tutto ciò gli mise una tale agitazione nel sangue, una tal commozione nel cuore, una tal confusione nella mente, che, in una parola, non si trovava nella condizione di prima. Egli sapeva la storia del Galantino, e la sua prigionia e la tortura subita e sopportata, e le carte importanti trafugate al defunto marchese, sicchè a queste cose egli corse di slancio col sospetto, appena il Galantino gli parlò con quel piglio misterioso. Allorchè poi quegli troncò il discorso, e, svoltandolo in un altro, propose al Baroggi di affidar la fanciulla a sua madre; non ebbe in quel momento il coraggio di costringerlo a palesar tutto, e d'altra parte non seppe persistere nel rifiutargli il proprio ajuto, perchè non voleva lasciarsi fuggir di mano l'occasione e il merito di poter penetrare in quel segreto, che era stato ed era, e, sino a quel punto, gli pareva che avesse dovuto continuare ad essere, il segreto di tutta la sua vita. Non rispose dunque nulla all'ultimo eccitamento del Suardi, bensì, come questi si mosse, gli tenne dietro sbalordito e pensoso e disposto a far tutto quello che colui avrebbe voluto in quel giorno. Così usciti dalla stanza, discesi in cortile, salirono nella carrozza che li aspettava, dicendo il Suardi:

- Strada facendo ti spiegherò il mio piano.

Mentre il signor Suardi, al pari di un comandante in capo, insieme col suo ajutante di campo, guardando di tratto in tratto l'orologio, si recava al quartier generale, lontano dalla mischia, e nel tempo stesso in situazione di accorrere al riparo, e d'improvvisare sul medesimo campo di battaglia un nuovo colpo strategico, quando mai un rovescio inaspettato fosse per mandare in dileguo il primo piano già da lungo meditato; i commessi incaricati della perquisizione, le guardie, gli sbirri, quelle col loro archibugio ad armacollo, questi colla sola sciabola girata dietro le reni, erano usciti dal palazzo della Ferma generale, e si avviavano difilati alla volta del monastero di San Filippo Neri. Le ventiquattro erano passate, e già stava per compirsi l'ora che ad esse succedeva. Il sole primaverile illuminava per carità qualche camerotto al quinto piano, dove degli estremi raggi stava approfittando con ansiosa sollecitudine qualche povera cucitrice, la quale voleva compir l'orlo di qualche camicia per risparmiare i tre soldi della popolana candela di sego. In quell'ora, nella chiesuola del monastero di San Filippo, nella parte ch'era segregata dal pubblico, erano discese la madre badessa, le suore maestre, le monache semplici, le converse, le incipienti, e il drappello delle educande. Il mantice dell'organo veniva caricato d'aria da due grosse e ottuse converse; intanto che, quasi a provare la quantità d'aria che era entrata nelle canne, e la propria valentia nell'arte, una mano percorrendo agilissimamente i tasti, ai profondi suoni della canna maggiore, con netta e rapidissima decrescenza, faceva succedere il sibilo acuto e flautato della canna ottavino. L'organo, come al solito, dava in sulla parte della chiesa aperta al pubblico, e i pochi che a quell'ora erano intervenuti, guardando attraverso la griglia di legno che dal parapetto dell'organo si alzava fino a due terzi della canna maggiore, vedevano per la luce di due ceri, i quali erano accesi al disopra della tastiera, muoversi tre teste. Ed eran le teste della suora maestra di canto fermo e d'organo, e di due fra le allieve più distinte in quell'arte. Di queste due, quella che, seduta alla tastiera, sbizzarriva colla mano velocissima, era la giovinetta Ada. Poco dopo, dall'altare, collocato dietro al muro che divideva la chiesa in due parti (e faceva riscontro all'altro posto oltre il muro, ed al quale si ufficiava per il pubblico), una suora intuonava le litanie della Beata Vergine; ad essa, le altre monache, le educande, il pubblico rispondevano, mentre l'organo colle sue echeggianti variazioni interpolava ogni tema di que' predicati, coi quali la più sublime poesia sgorgata dall'entusiasmo della fede e dell'amore decorò il nome di Maria.

Di qui passando altrove, il lettore può accompagnare di nuovo i commessi della Ferma, usciti dal palazzo dell'amministrazione generale per recarsi al convento, quando le litanie potevano essere al loro termine. Allorchè dunque il primo dei commessi, lasciati i compagni nella via di san Barnaba, entrava nell'ortaglia dov'era il nuovo casino del signor Suardi, per abboccarsi con lui, come aveva avuto ordine; la suora inginocchiata all'altare cantava già il concede nos famulos tuos, ecc., e quando, dopo avergli parlato, il commesso usciva frettoloso, in compagnia del sotto-tenente Giulio Baroggi, aveva già rintronato sotto alle vôlte della chiesa il sub tuum e l'a periculis cunctis libera nos semper.

Una mezz'ora dopo, il commesso e il Baroggi e gli altri erano già entrati in monastero, e fu allora che quel gentiluomo amico di casa Ottoboni, galoppando per diporto in quei luoghi, e saputa la cosa, s'era affrettato a raccontarla agli amici, e innocentemente a mettere la tempesta nell'anima del giovane Crall, che divorando e tempo e strada, corse alla loggia dei compagni Frammassoni di San Vittorello.

Il sole era scomparso, da qualche tempo, e anche i luminosi crepuscoli di quella serena giornata s'erano spenti affatto, e qua e là lasciavasi veder nel cielo qualcuna delle stelle più premurose, allorchè sboccò dalla contrada di San Vittorello quella scelta schiera di Frammassoni giovani e frementi, armati tutti di spade e qualcuno anche di pistola; dispostissimi tutti a far nascere un tale scompiglio e un tal disordine, che fosse poi atto a provocare un ordine. Ed ora dobbiamo dire quello che, sebbene non sia indifferente, pur ci fuggì di memoria allorchè parlammo di quella loggia di Muratori; ed è che fra coloro i quali si trovavano presenti alla tornata, v'era un uomo che abbiamo conosciuto fin dall'anno 1750, e che, se non fu il primo, non fu nemmeno l'ultimo ad aver parte attiva negli avvenimenti d'allora; vogliamo dire il signor Lorenzo Bruni, violino di spalla per l'opera, e primo violino del ballo al teatro Ducale. Il lettore deve ricordarsi e della lettera che lo stesso Bruni scrisse da Milano al signor Amorevoli, tenore al teatro di Dresda, per dargli informazioni intorno alla figliuola della contessa Clelia V...; e com'egli fosse venuto a Milano onde conchiudere di presenza, co' signori ispettori del teatro Ducale, la scrittura di sua moglie, madama Gaudenzi-Bruni, per la prossima stagione di carnevale.

Or dunque si aggiunga al resto che il Bruni, venuto a Milano solo, era stato poi raggiunto dalla moglie e da un suo figlio giovinetto, il quale non aveva ancora tre anni (Chi avrebbe detto a noi che questo fanciullo, figlio di un tal uomo, dovevamo poi conoscerlo vecchio novantenne in riva al lago di Pusiano, perchè ci fosse anello di comunicazione tra il passato e il presente!) Aggiunga inoltre il lettore, che il Bruni, per esser diventato marito e padre, non aveva cangiato carattere, idee, aspirazioni, abitudini. Che anzi in quegli anni, avendo percorso mezz'Europa, più e più s'era infervorato nelle sue opinioni; che, siccome voleva la nuova onda delle cose, s'era ascritto alla loggia dei Frammassoni di Parigi, che s'era messo in comunicazione colle logge erette nelle principali città d'Europa, e che arrivato a Milano, e saputo della loggia milanese, avea sollecitato di mettersi in comunicazione con essa; ch'era stato de' più caldi ad esortarla perchè dall'inerte discussione passasse all'azione pratica. Infine che, sebbene non avesse più trentacinque anni, ma cinquant'uno, pure alla proposta di lord Crall, s'era messo in compagnia de' giovani più deliberati, sfoderando anch'esso la spada, e giurando su quella, come voleva il formulare.

Ed or presto vedrà il lettore fino a che punto sappiano giungere i maledetti ghiribizzi della fortuna e gli strani giuochi della combinazione; e come il signor Bruni ogni qualvolta inciampava nei ciottoli delle contrade di Milano, avesse a dar della testa anche nelle corna del diavolo, occasionando trambusti serj, e dovendo alla sua volta rimanerne vittima.

 




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