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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO NONO
    • VI
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VI

Verso le sette ore, ovvero sia un'ora dopo mezzanotte, il carrozzone di gala scoperto che il conte V... mandò in casa Pietra-Incisa, uscì trionfalmente dal portone di questa. La contessa Clelia e donna Ada vi stavano adagiate sole senz'accompagnamento di cavalieri. Donna Paola se ne stette nelle sue stanze perchè, sebbene fosse paga della buona riuscita di ciò che le avea dato tanto affanno, pure aveva troppi dolori proprj per poter essere perfettamente all'unisono colla gioja universale. Anzi dopo che le ultime tormentose sollecitudini furono cessate, il pensiero rimasto solo della condizione di suo figlio parve che fosse più forte di tutti gli altri dolori che in cumulo aveva prima provati. Ella dunque se ne stette in casa; nè il conte V... uscì del proprio palazzo, o fosse determinazione sua, o fosse consiglio anche questo di donna Paola, perchè, dopo tutto, se riusciva un fatto edificante la riconciliazione tra lui e la moglie, non era poi la cosa più conveniente che in quella notte il conte figurasse in carrozza colla contessa. Il mondo nella contemplazione di alcuni spettacoli trova il modo di ammirare insieme e di deridere; trova degno del più grande elogio che una cosa sia stata fatta, e non sa nel tempo stesso capacitarsi che vi possano essere stati uomini di pasta così molle da lasciarsi indurre a farle.

La contessa e la giovinetta uscirono dunque sole; la prima in tutto quello sfarzo imposto dalla solennità; la seconda in quella semplicità, ben s'intende riccamente decorosa, voluta dalla sua condizione non ancor cessata di educanda, e fors'anche, chi lo sa? dal desiderio materno che la semplicità facesse parere ancora più giovane d'anni quella beltà adolescente. Il topè necessariamente ci doveva essere, e la polvere di cipro aveva dovuto imbiancare quelle chiome di seta bruna, la cui bellezza era un geloso segreto di cui non era a parte che la governante e la mamma; ma il grembialetto di levantina nera colle spalline non venne dimenticato; tanto era piaciuto a donna Clelia che l'aura infantile circondasse quella sua figliuola più di quello che l'età comportasse. Una rosa purpurea, intrecciata nei capelli, era il solo ornamento accessorio che alterava di qualche poco la sobrietà di tutto il resto.

Vicina alla contessa, a cui lo sfarzo sovrabbondante aveva come scemata quella perfetta somiglianza che due sere prima mostrò d'avere colla figlia, questa poteva rendere l'imagine dell'arte pura del quattrocento posta a raffronto coll'arte sfoggiata di poi a Venezia da Tiziano e Paolo; pareva - già le similitudini non costano niente - la giovinetta e primitiva Etruria messa a paro colla Roma imperiale, decadente sotto il manto di porpora e d'oro. Nè il cocchiere tutto passamantato in argento, e che, come un oggetto prezioso, poteva far gola ai ladri e venir rapito, seduto in alto sulla cassetta a drappi e a frangie del carrozzone, e i tre servitori ritti in piedi di dietro, gallonati senza risparmio, anch'essi, collo scialacquo della prodigalità che ha smarrito il senso del gusto, le facevano il fondo più adatto.

La corsa della carrozza ne' luoghi principali della città doveva assomigliare ad un lungo viaggio, perchè i cavalli avevano a camminare di passo, come avviene negli ingressi trionfali, e perchè ad ogni momento era d'obbligo una fermata per rispondere agli evviva ed alle cortesie di chi stava banchettando; e precisamente in piazza Borromeo, appena uscite dal portone di casa Pietra, le due donne dovettero sostarsi innanzi al palazzo Borromeo, onde ricevere le congratulazioni del conte padrone. Nel mezzo della piazza era stato eretto un obelisco di legno posticcio tutto coperto dal vertice alla base da cento fiammelle in vetri di vario colore che rischiaravano all'intorno la piazza, e davano migliore aspetto alla facciata onde Fabio Mangone decorò quella chiesa, fondata tanti secoli prima da quel figliuolo di un soldato di Carlo Magno, che si chiamava Podone. Di qui svoltando a sinistra e procedendo lentamente tra i consueti evviva che passavano di mensa in mensa, la carrozza non fece altra fermata se non quando arrivò nella piazza dei Mercanti.

La scena che in quella notte offriva questa piazza era in vero delle più pittoresche. Qui non v'erano banchetti di famiglia, ma quelli delle rappresentanze del nobil Collegio de' giureconsulti, e delle Università dei libraj, degli orefici, dei mercanti d'oro, dei bindellaj. Attraverso alle colonne dello splendido edificio che Pio IV fece murare con disegno del Seregno per le adunanze de' giureconsulti, stando in piazza si vedeva al vivo quella scena che ci si offre nelle cene di Paolo Veronese; chè le mense erano state disposte sotto ai portici stessi, per quanto erano lunghi. Il lusso dell'architettura, le colonne doriche binate che tagliavan la scena ad intervalli; la luce delle lumiere che pendevan dalla vôlta, la fiamma dei doppieri che stavan sulla mensa; quei cinquanta o sessanta parrucconi bianchi, que' colori delle giubbe d'ogni generazione, il fumo delle vivande che involgeva quelle teste, tutte in agitato movimento, la luce in tremolìo che sbizzarriva per mille accidenti fuggitivi e tramescolava tutte quelle tinte vivaci e forti, tra cui dominava segnatamente il rosso fiamma, il verde pomo e pistacchio, il fiordaliso, il croco, ecc. - chè la giovialità del secolo pareva quasi cercare la sua espressione anche nel colore de' panni - tutto questo miscuglio di cose produceva in vero un effetto de' più bizzarri e pittoreschi.

Al basso poi, intorno ai portici del Pretorio, oggi Archivio generale, erano apprestate quattro lunghe mense; verso il lato che guardava il Collegio dei giureconsulti stava seduta a tavola in gran numero l'Università dei Libraj e Stampatori; al lato che prospetta l'ingresso all'Archivio v'era la mensa dell'Università dei mercanti d'oro e chincaglie, ecc.; al lato verso la loggia degli Osii, la numerosa Università degli orefici; a quello guardante lo sbocco nella contrada dei Profumieri, l'Università dei mercanti di cordaria e canevazzi, ecc.

Il palazzo dell'Archivio aveva smarrita l'unità della primitiva architettura che fu convenuto di chiamar longobarda; il tempo e, peggio del tempo, gli uomini lo avevano già reso informe per cattivi riattamenti, per aggiunte importune, per la preoccupazione di servire al comodo passeggiero senza rispetto di sorta alla forma decorosa; pure, con tutto questo, nella sua apparenza di un edificio che aspetta di essere compiutamente ristaurato, presentava ancora alcune parti solenni della vetusta architettura, e segnatamente i finestroni sopra i portici. Per questa stessa mescolanza poi di più elementi, il talento pittorico ne avrebbe al certo potuto cavar qualche bizzarro partito per una scena prospettica, quando si fosse saputo fare una bella scelta del punto di vista.

Quei sei finestroni aperti in alto nei lati più ampi dell'edificio bastavano a ricordare e il tempo in cui esso era stato innalzato, e tutte le idee concomitanti che quello svegliava: finestroni aperti a grand'arco tondo, circoscrivente tre bassi e piccoli archetti addentrati e sostenuti da due leggiere colonne. Tanto i pittori però, che gli architetti di quel tempo, erano così lontani dal vedere con buon occhio la conservazione di quelle, secondo loro, barbariche finestre, quanto noi dal congratularci cogli architetti vandalici che fecero poi scomparire quelle aperture, richiamanti l'età splendida dei liberi Comuni ed apersero nel piano aggiunto i giganteschi occhi di bue i quali comunicarono a tutto l'edificio quella pesantezza goffa, onde tutta la piazza e i decorosi e squisiti edificj di essa par come che ne rimangano oppressi. Nè gli architetti nè i pittori di allora sapevano veder di buon occhio nemmeno la loggia degli Osii, la quale per miracolo rimase salva dal compasso devastatore degli architetti posteriori, i quali portarono la confusione delle lingue in tutti i luoghi che ebbero a ristaurare. E la loggia degli Osii era allora in tutta la sua primitiva schiettezza, nè erano anco restate incastrate nel muro aggiunto le colonne su cui posano gli archi acuti. Ma dell'essere rimasto incolume questo squisitissimo pezzo d'architettura nessuno si congratulava in quel tempo, perchè i Bibienisti, che erano sul tramonto della loro gloria, erano ben lontani dall'amare quello stile; e la nuova, diremo, setta dei Pacisti, che spuntava allora a Roma ed in breve ebbe eco per tutta Italia, prese una tale avversione a tutto ciò che non era greco e romano, che guai se invece di pacifici architetti fossero stati conquistatori armati: dell'Italia non sarebbe rimasta salva che una metà. Ma nè la contessa Clelia nè la sua figliuola Ada ebbero tempo di far queste considerazioni architettoniche, e dopo aver risposto agli evviva dei Giureconsulti che sorsero tutti in piedi a far libazioni gratulatorie al passaggio della carrozza, e dopo che la fanciulla Ada colla sua gentile manina mise il rotolo di prammatica nell'urna che stava sotto alla bandiera portante il nome delle Università, e in quella che stava ai piedi di un Sant'Eligio di legno dorato, il santo protettore degli orefici; la carrozza svoltò in santa Margherita, e passò innanzi alla chiesa di santa Maria alla Scala, e traendo per le Case Rotte nella piazza san Fedele, venne a fermarsi davanti al palazzo Imbonati che allora era tra i più splendidi della città, e oggidì mal si ravvisa in quella casa che sta rimpetto a san Fedele.

Innanzi dunque alla porta di casa Imbonati, dove era distesa una lunga mensa che occupava tutta la sua fronte, dovette necessariamente arrestarsi la carrozza delle festeggiate. Su quella mensa v'eran tutti gli sfoggi della ricchezza che converte in eleganza, diremo intellettuale, anche le imbandigioni. Intorno ad essa erano seduti i più segnalati fra gl'ingegni di Lombardia. L'antica accademia dei Trasformati, sorta per la prima volta a Milano nel 1546, per opera di dodici letterati insigni, fra cui il Majoragio e il Gallerano, e in breve tempo venuta in gran fama in tutta Italia, aveva dovuto per l'avversa condizione dei tempi ammutire e spegnersi, nè per un secolo e mezzo non vi fu chi più tentasse a rinnovellarla. Soltanto nel 1743 il conte Giuseppe Maria Imbonati, in cui la squisitezza dell'ingegno era pari alla squisitezza dell'animo, avendo pensato di farla sorgere a nuova vita, per raggiungere questo intento si associò alcuni fra i più alti ingegni milanesi, ed aprì nella propria casa le aule per i convegni de' socj. Gli statuti dell'accademia antica avean dato ai trattenimenti più ampio cerchio di quello che comunemente allora era adottato; onde non solo s'era occupata di letteratura amena, ma aveva dato opera anche alla filosofia morale ed alle altre scienze.

La nuova società inaugurata da Giuseppe Imbonati si propose dunque i medesimi scopi, ed anzi ne allargò la sfera, e tosto divenne celebre per gli uomini eminenti che furono ascritti ad essa. A quella mensa sedevano Pietro Verri, Gian Rinaldo Carli, il Tanzi, Cesare Beccaria, il professore Teodoro Villa, Paolo Frisi, Giuseppe Parini, il conte Giorgio Giulini, il Quadrio, il Baretti, e vi sarebbe seduto anche colui che dalla bontà prodigiosa del cuore sembrò aver attinto l'ingegno, vogliam dire Gian Carlo Passeroni, ma in quel tempo viveva a Colonia qual segretario di monsignor Lucini, nunzio apostolico presso gli elettori e principi pel circolo del Basso Reno; vi sedeva il poeta Balestrieri, il successore del più grande Maggi: il Fogliazzi, il Guttierez, ed altri molti. Nell'aula di questa società si può dunque dire che furono primamente ventilate quelle questioni organiche che si proposero il più razionale ristauro della vita civile. Qui il Parini si consigliò spesse volte col Passeroni sull'orditura del suo Giorno. Qui il Passeroni fece lettura del suo poema il Cicerone, dove, dissimulato dalla forma semplicissima fino a parer disordinata, e dall'ingenua giocondità, e da quella bonomia di chi è e non vuol parere, è sì prezioso tesoro di sapienza, di sana morale e di coraggio. Nell'attrito della discussione qui si mostrò l'acuta penetrazione di Pietro Verri, qui il più giovane Beccaria, sollecitato dall'amico, imparò a liberare il potentissimo ingegno dall'indolenza. Però ripensando a queste cose, e al tanto bene che iniziarono alcune accademie in Italia, e, segnatamente questa dei Trasformati a Milano, non par vero come siasi potuto avvolgerle tutte quante in un fascio, e multarle di ridicolo tutte; ma la storia delle pecore, e quel che fa la prima e l'altre fanno - si presenta sempre a ripetere qualche sbagliata opinione pronunciata per la prima volta, e messa in corso non si sa da chi e perchè.

Nel mezzo dell'ampia mensa, fra vasi d'argento, di cristallo, di porcellana, sorgeva un ramo di platano portante scritto su di un largo nastro il motto virgiliano: Et steriles Platani malos gessere valentes, che era l'impresa dell'accademia. Al fermarsi della carrozza s'alzaron tutti, e il conte Giuseppe Imbonati insieme coll'unico figlio, e col genero don Francesco Carcano e colla moglie contessa Bicetti, anch'essa valorosa poetessa, si tolsero dalla tavola e si recarono allo sportello della carrozza: i primi a fare i loro speciali complimenti a donna Clelia, l'ultima a deporre un bacio sulla fronte della fanciulla Ada. Nel tempo che succedeva questa amorevole intervista, stettero in silenzio tutti i commensali dell'Imbonati, intenti a guardare le festeggiate, commosse a tanta benevola accoglienza. E mentre si faceva silenzio, in quel punto si sentiva il vasto e vario rumore che l'aria vi portava da tutti i punti della città. La scena era grandiosa e interessante tanto per l'udito che per la vista. La maestosa mole del palazzo Marino era illuminata dalla luna. In quel tempo non era ancora stata edificata, a toglier la prospettiva del tempio di san Fedele, quella casa che nel 1814 doveva poi essere l'orrida scena di un gran delitto pubblico; però la piazza, se si eccettui il palazzo della Bella Venezia, stato costrutto in seguito dall'architetto Zanoja, offriva press'a poco l'aspetto d'oggidì: l'aspetto di una gran sala a cielo scoperto, solenne ed elegante pei due cospicui edifici, senza contare la facciata di casa Imbonati che presentava linee grandiose e ricchezza di ornato, linee e ornato che scomparvero nel ristauro che se ne fece molto tempo dopo.

Ma la carrozza passò oltre, e giù per san Raffaello se ne venne al Duomo, e giacchè il cocchiere aveva come a dire l'itinerario e quasi la nota dei luoghi dove aveva a far le fermate, deviò verso Camposanto dov'era un altro banchetto che meritava una distinzione, quello della scuola degli scultori, la quale aveva sede precisamente in quel luogo. A quella mensa insieme cogli scultori si trovaron alcuni architetti. Tra i primi v'era il Franchi e il Bussi, e con essi un fanciullo di nove in dieci anni, Angelo Pizzi, che lavorava in qualità di garzone scarpellino per la fabbrica del Duomo, e che avendo poi mostrato uno straordinario ingegno per l'arte figurativa, invece di fermarsi a far gli spigoli alla pietra di Viggiù e al granito, era destinato a competere con Canova, e forse a superarlo nel ritrarre in apoteosi e in dimensioni gigantesche la figura di Napoleone ottimo massimo. Tra gli architetti poi sedevano il prospettico Bibiena sessagenario, e il giovane Simone Cantoni, i quali rappresentavano in sè stessi il tramonto dell'arte che sbizzarrisce e si perde per eccesso di fantasia e di audacia, e il sorgere della scuola severa inaugurata a Roma, a cui sono impacciati i voli per l'esclusiva adorazione delle tradizioni italo-greche. Vicino a questi sedeva un fanciullo, anzi un abatino di dodici anni, che il Bibiena sessagenario aveva carissimo per l'acutezza d'ingegno che mostrava, e per la non comune attitudine che aveva alle arti del disegno. Quel fanciullo era Giuseppe Zanoja d'Omegna.

Il Bibiena, che aveva condotto alcune opere nel palazzo del conte V..., si alzò e si mosse e s'appressò allo sportello per inchinarsi alla contessa, la quale nel girar lo sguardo su tutti quegli artisti là riuniti, non potè a meno di chiedergli, maravigliando, per qual motivo fosse tra loro quel piccolo abatino; e l'abatino, chiamato dal suo maestro, dovette lasciar la tavola e farsi innanzi e rispondere alle domande della contessa, senza saper togliere gli occhi dal volto della fanciulla. Ed ora se il lettore sente le minacce della noja, costretto com'è a passare in rivista tante cose, di cui probabilmente gli importa poco o punto, lo consoleremo con un po' di pausa, e colla promessa di un avvenire migliore.

 




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