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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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IX Don Alberico F..., il quale è pur quegli che, a perfetta vicenda col finanziere Baroggi, dee dividere il seggio di protagonista in questo lungo dramma; fino a questo punto lasciò che tutti gli altri personaggi facessero liberamente e con tutto agio le loro evoluzioni sul davanti del proscenio, senza ch'egli, nella sua indolenza, siasi mai mostrato un istante in prima fila. Soltanto ha permesso che lo nominassimo spesso e senza lode; e una volta sola, quando non aveva ancora vent'anni, è comparso in iscena per pochi minuti, a contemplare nello specchio la sua bella faccia con gran compiacenza, tutto preoccupato ad aggiustarsi un neo, crediamo alla destra pozzetta; e tutto ciò nel punto solenne che all'illustrissimo suo padre il conte F... stavano per suonare i tocchi dell'agonia a Santa Maria Podone. E riepilogando il già detto ed aggiungendo quello che non fu ancor detto; quando don Alberico marchese e conte F... rimase erede, a vent'anni, delle grandi ricchezze del padre e delle maggiori dello zio marchese, liberato dalle stringhe paterne e dalle più tenaci dei maggiordomi che s'eran proposti di gratificarsi il conte padrone, fin che fu vivo, coll'imitarlo; fu repentina e compiuta l'eruzione di tutti suoi istinti, e di tutte le sue, non le chiameremo nè facoltà nè doti, ma semplicemente tendenze; i quali istinti e le quali tendenze, un po' native un po' acquisite, parve che si fossero accumulate in lui precisamente com'era avvenuto della eredità del padre e dello zio. Il padre era stato il più indomabile egoista del suo tempo; riservato, pacato, avaro, non erasi occupato che ad ammontare ricchezze; al quale intento, con tutte le arti e con astuzia squisita, ogni qualvolta si presentò il pericolo, s'era adoperato affinchè il fratello non riuscisse a sperdere altrove i suoi grandi averi con qualche matrimonio. Questo egoismo orgoglioso, inteso soltanto alla prosperità del casato, aveva fatto le spese di tutti gli altri suoi vizj. I preti non avevano mai potuto rimproverargli un peccato: le Lidie astute e le crescenti Cloe non arrivarono mai ad involargli uno zecchino. Il più ricco fratello, all'opposto, in bagordi, in cene, in giuoco, in donne, aveva profuso largamente il suo; e se, sparnazzando a dritta e a sinistra le copiose entrate, non era mai riuscito ad intaccare il capitale, era perchè il fratello potè sempre accorrere a prevenire i disastri, con una prontezza e una importunità da provocar la collera e gli strapazzi e le ingiurie violenti del marchese, ingiurie ch'ei sopportava senza turbarsi, non fedele che all'ultimo intento. Di questi due fratelli ognuno dunque può vedere che la pasta del maggiore era stata di gran lunga meno trista di quella del cadetto. La prodigalità talvolta avrebbe condotto il marchese a qualche beneficio; e la sensualità talora lo avrebbe messo al tu per tu di provare qualche meno impuro sentimento, qualche affetto; e quantunque fosse assiduamente passato di amori in amori, come fossero larve d'una lanterna magica, con una incostanza sempre sazia di tutto e sempre sitibonda, pure era stato spesso al punto di fermarsi in una affezione durevole, e più specialmente dopo che era caduta nelle sue insidie l'infelice che fu poi la madre del Baroggi. Se il conte cadetto non fosse sempre accorso a recitar le parti di Creonte quando vedeva il vizio disposto a capitolare, c'è da scommettere cento contro uno che la povera Baroggi sarebbe riuscita a diventar la moglie del marchese. Ma abbandoniamo i due fratelli morti; è dell'erede vivo che dobbiamo occuparci. Le qualità del padre e dello zio confluirono dunque tutte in lui, cospirando a farne un originale stranissimo; poichè egli era avaro e fastoso, prodigo e taccagno, continuamente raggirabile dalle proterve beltà, ma pur sempre presente a sè stesso quando alcuna minacciava di voler durar troppo in carica; splendido mecenate di cantanti e di ballerine ed anche di artisti, e sovventore spontaneo delle loro povere famiglie; e pur nel tempo stesso egoista e spietato, chè il beneficio era apparente, e non si risolveva all'ultima che in una paga anticipata alle insidie future. Avaro e prodigo, come dicemmo, ad onta della contraddizione per soddisfare ad un capriccio fuggitivo avrebbe gettato un tesoro colla spensieratezza di un fanciullo; ma era poi capace di condurre i creditori di camera in sala per mesi e mesi onde usufruttare la loro bisognosa impazienza, e angariarli in mille modi coll'avidità insaziabile di un usurajo. Dopo tutto ciò, egli aveva qualche non vulgare qualità; qualità, state bene attenti, non virtù; conosciamo benissimo, il valore delle parole, e le misuriamo, non volendo che i farisei fiscalizzino, per trovarci lodatori di quella che vituperiamo; e codesta qualità era un'abitudine di eleganza che aveva recata nella sua vita orientalmente voluttuosa. In Milano possedeva due palazzi, quello del padre e quello dello zio. La casa paterna era stata da lui abbandonata. Invece aveva arricchito il palazzo dello zio di statue e quadri e vi dimorava nell'inverno. Per la stagione estiva s'era poi fatto fabbricare appositamente un palazzino sibaritico tra platani e tigli, in una parte di quell'area che fu poi tutta occupata appresso dai pubblici giardini. I fratelli Galliari e il Bibiena vi dipinsero prospettive; del Tiepolo juniore di Venezia vi erano raccolti quadretti di genere, rappresentanti scene di una giocondità tutt'altro che irreprensibile. Aveva fatto acquisto d'una Galatea del Maratta, della toilette di Venere del Lazzarini, di una bellissima Leda col cigno dello Zuccari, e di altre tele molte d'antichi e contemporanei. Aveva commesso al giovinetto Biondi, scolare del vecchio Porta, una copia del ritratto della Fornarina di Raffaello, un'altra della Gioconda di Leonardo. Amava dunque l'arte e se ne circondava, quantunque la pagasse scarso e lento. E come amava l'arte, così prediligeva la beltà femminile, nella stima della quale poteva sostenere la discussione con un intero corpo d'artisti accademici; e la giudicava anche di sotto alle dubbie apparenze col colpo d'occhio d'un trafficante di schiave, commissionario d'harem; o come un mercante di puledre, estimatore infallibile d'incollature e terga e fianchi e popliti e garetti. Frequentatore assiduo del palco scenico, quantunque fosse intendentissimo di musica e della grande arte delle capriole, pure non era già nè il trillo più agile, nè la scala più granita, nè la nota tenuta più limpida, nè il salto più imperterrito che lo esaltavano; bensì era capace di attaccarsi con sembianza d'amore (aprendo però sempre la borsa, per la gran pratica che aveva nel mondo) anche alla stonatrice più perversa, purchè avesse il collo di Diana; di scegliere anche l'ultima danzatrice in linea d'arte, purchè fosse la prima nella linea del corpo. In codesta sfera di erudizione nessuno lo vinceva; qui era tutta la forza del suo genio. Circondato da' suoi colleghi di stravizzo, il signore del luogo, tra le alunne di Citerea e le bottiglie di Sciampagna e le carte micidiali, vi passava in trista giocondità, non i giorni ma le notti quando trovavasi a Milano. Diciamo le notti perchè di giorno tutto taceva colà, e nelle ore in cui tutta la città era operosa, quel luogo poteva meritar l'appellativo di Casa del sonno, quantunque il popolo per antonomasia continuasse a chiamarla argutamente La casa del diavolo. Abbiamo detto che vi passava le notti quand'egli trovavasi a Milano, perchè spesso trovavasi in fazione, aggiunto al presidio militare di qualche città del Ducato, nella sua qualità di capitano del reggimento Clerici. Chè egli aveva a danaro comperato quel grado nella milizia, essendo vaghissimo di sfoggiar le insegne militari come quelle che più che mai lo rendevano accetto alle donne. E non sempre eran le venali alunne di Tersicore e di Pafo quelle di cui si compiaceva; ma faceva la corte anche alle dame, e spesso accompagnava al teatro la pudica d'altrui sposa a lui cara, che capricciosamente cangiava quasi ad ogni cangiar di luna: e l'assisa e le spallette e gli speroni facevano l'effetto del guizzasole negli occhi ingenui anche di qualche fanciulla inesperta, e qualche fratello, rovinato da lui al giuoco e da lui soccorso con diabolica intenzione, diventava spesso il funesto intermediario d'amore. Ad onta di tutte queste scellerate qualità, il più delle volte protette dall'oscurità e dal silenzio, perchè il danaro faceva miracoli, ed era interesse della vergogna di non lasciarsi vedere in pubblico; esso non era, pur troppo, come si sarebbe meritato, in odio alla moltitudine. I suonatori d'orchestra, per esempio, parlavano benissimo di lui, perchè quando taceva il teatro, era per lui se scansavano il pericolo di andar ad impegnar il contrabbasso o il violino; i portinai del teatro lo portavano a cielo, perchè non c'era nessuno che lo superasse nell'abbondanza e nella frequenza delle mancie. Gli impresarj, i mediatori teatrali che da lui avevano tante incombenze d'ingaggio ed erano ben pagati, tra le altre cose ebbero persino a lamentarsi perchè non fosse nominato direttore perpetuo del regio ducale teatro. Ed anche fuori di Milano, anche nelle altre città del Ducato non si parlava male dì lui, perchè se alla testa dei suoi soldati non vi recava la scuola dei buoni costumi, vi metteva bensì in movimento molto denaro; chè s'era proposto d'imitare il celebre general Clerici, il quale, quando si moveva, trasportava seco un'intera compagnia teatrale d'opera e ballo pur nelle stesse fazioni di guerra, avendo fatto erigere più volte a proprie spese dei teatrini posticci per rallegrare i bivacchi notturni. Fido infatti a questa imitazione, il marchese Alberico aveva lasciato buonissimo nome di sè anche fuori d'Italia, quando nel 1759, giovane di ventott'anni, aveva militato ad Hohenkirchen sotto al generale Lascy, il Vauban della Germania. Dopo tutto ciò, questo Sardanapalo cogli spallini e in calzettina di seta; questo Baldassare non minacciato da nessun motto arcano e non intercedente spiegazioni da verun profeta di sventure, in quella notte dei banchetti generali, per mantenersi nel suo primato di sibarita scialoso, aveva aperto intorno a sè una specie di corte bandita. Alla mensa apparecchiata per lunghissimo tratto innanzi al suo casino, mezzo nascosto dalle alte piante, i convivi sedettero in gran numero. Se vi fu profusione d'imbandigioni, vi fu buon gusto straordinario nella disposizione, diremo, ornamentale del banchetto; vi fu originalità nel modo onde venne servito; chè in luogo di camerieri incipriati e livreati e passamantati, dodici donzelle, præstanti corpore, alla più matura delle quali la Parca, appena appena - Il decimo ed ottavo anno filava - dodici donzelle foggiate in vario costume e discinte anzichè no facevano il servizio della tavola, e ad un cenno degli invitati, da espertissime Ebi a cinquanta soldi al giorno, versavano spumante lieo nei calici lucenti. Allorquando poi i convitati furono saturi, e la mensa presentò come la scena di un campo di battaglia, e rovine di pasticci, e ruderi di bomboniere, e una selva inestricabile di bottiglie e di vasi e di calici, allora cominciarono le danze, e più decine di cavalieri colle loro ballerine intrecciarono quadriglie ed eseguirono il lento minuè, tanto propizio alle digestioni. Innanzi a questo banchetto, con pochi amici e col bicchiere alla mano, continuò a star seduto il marchese, intanto che fervevano le danze, e negli intervalli la bella e capricciosa Agujari cantava nell'aperto salone del palazzino mettendo il delirio in tutti gli ascoltanti; la bella Agujari che costava tesori a chi la voleva corteggiare, e che da poco tempo s'era degnata di accordare la sua benevolenza allo splendido marchese, perchè un giorno, dopo il pranzo, le aveva concesso di fracassare un ricchissimo servizio di porcellana del Giappone; e un altro giorno che don Alberico era smontato da un bellissimo cavallo arabo, ottenne da lui, se non voleva ch'ella il piantasse sui due piedi, di poter tirare un colpo di pistola nell'orecchio di quel nobile animale. Mentre adunque l'orchestra suonava e i ballerini ballavano, oppure quella viziata virtuosa sfoggiava sghiribizzando le note più acute della voce più estesa che, al dire degli esperti, allora vi fosse al mondo; egli s'indugiava a tavola, e precisamente per aspettare l'arrivo della carrozza della contessa Clelia e della sua figliuola. - Don Alberico quasi poteva dire di non conoscere la prima e non aveva mai veduta la seconda; onde per le avventure strane dell'una e dell'altra, e per la gran fama della loro bellezza aveva una grande curiosità di vederle e di complimentarle; e tanto più che s'era banchettato per loro e bevuto alla loro salute. Aspettava dunque da qualche tempo, e si maravigliava che, essendo già tardi, non si vedessero ancora a comparire; quando, all'improvviso, fortissimi evviva e battimani che venivano da coloro i quali avevano estese le danze fin quasi alla porta della città, lo avvisarono che ciò doveva essere pel loro passaggio. Infatti, allorquando la contessa diede ordine al cocchiere di procedere per porta Orientale col trotto il più serrato, il cocchiere spinse i cavalli, sicuro della felice riuscita; ma appena dal bastione ebbe svoltato verso il borghetto, che le loro signorie, la contessa e la contessina, furono salutate con urla di gioja matta da quelli che ballavano sub luna; e le danzatrici ebriose, alcune fermarono i lacchè con violenza, lor togliendo le torcie, e agitandole come tirsi con faunina protervia; altre si fecero imperterrite al muso de' cavalli, quasi offrendo quella scena che si presenta al viaggiatore nauseato, quando nella città di Napoli si avventura a passar per via Capuana. Pure, ad onta di tutto questo, la carrozza potè andare innanzi, sebbene con lentezza, e quando fu per passar presso la mensa abbandonata, il marchese Alberico, circondato da' suoi, quasi diremmo, camarlinghi, si presentò allo sportello. Or guardate caso stranissimo! - Ada, nel vederlo, tirò la mano intrecciata a quella di sua madre, e mandò un'esclamazione di maraviglia paurosa che a tutti sfuggì, com'è naturale, ma non a sua madre, la quale si volse a quel sommesso grido, interrogandola cogli occhi indagatori più che colle parole. Che dunque significa ciò? Significava.... ma non mettiamoci in apprensione, significava un fatto naturalissimo. La giovinetta Ada, quando vide il conte Alberico, credette, a tutta prima, di vedersi innanzi il Galantino in divisa militare, e ciò per la ragione che, infatti, tra il Galantino e il marchese Alberico era una gran somiglianza, di quel genere però che forse poteva passare inavvertita agli indifferenti, ma non a chi aveva imparato a palpitare per la prima volta sotto il fascino di quelle tali forme, di quelle tali linee caratteristiche e distinte. Or che cos'è, dirà il lettore, codesta storia della somiglianza? È anche questa una conseguenza d'un altro fatto naturale, poichè bisogna ricordarsi che l'Andrea Suardi era nato in casa F... da un Giovanni Suardi stalliere, salito poi al grado di cocchiere. E ora è da aggiungere che il cocchiere Giovanni, quando da una bellissima moglie del contado di Cremona gli nacque il fanciullo che fu il primo e l'ultimo, non potè più salvarsi dalle celie de' suoi compagni di scuderia e di rimessa e di tutta la servitù di casa F...; e le celie crebbero col crescere del fanciullo, il quale, se il marchese avesse avuto moglie, tutti avrebbero detto che era suo figlio. Al conte Alberico che, siccome avviene sovente tra consanguinei, per le misteriose bizzarrie della natura, rendeva più le sembianze dello zio che del padre, toccò dunque in sorte di somigliare al figliuolo d'un cocchiere; somiglianza che andò dileguando col tempo, e che, a dir così, non guizzava che di sfuggita dai muscoli dei loro volti e da certi movimenti caratteristici dei loro corpi; perchè il lacchè, anche per quelle ragioni fisiologiche sviluppate dal bastardo Filippo Faulconbridge nel Re Giovanni di Shakespeare, aveva sortito due gambe poderose dove l'altro aveva avuto de' fuseragnoli; due braccia atletiche dove l'altro avea dovuto ricorrere alla correttrice ovatta; un viso della più bella tinta incarnata e porporina dove l'altro non aveva potuto rinunciare ai beneficj del minio. - Ecco dunque come nacque lo scambio che mise sottosopra il sangue della povera Ada, e la rituffò ne' suoi tristi pensieri, onde sollecitò la mamma di partire di là, gettando però alla sfuggita un'occhiata al protervo marchese; come chi non può staccarsi dalla contemplazione di un ritratto che ricorda un originale il quale, a proprio dispetto, non si può dimenticare.
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