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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO UNDECIMO
    • II
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II

Fin dai tempi più remoti dei Bramini, il tirannico proposito di spaventare le moltitudini coi terrori della divinità, avvolgendole in una catena inestricabile di riti arcani, che avessero la forza della legge, corroborata dalla minaccia di orribili pene, passò di generazione in generazione, quasi per fedecommesso, agli ordini sacerdotali di tutte le religioni. Il cristianesimo solo, nella sua prima istituzione e nei primi anni della sua vita, recò e mantenne nel mondo una luce serena, a consolazione dell'umanità. Ma fu per poco. I sacerdoti snaturarono l'istituzione; la lettera mite del Vangelo fu torta a diverso significato. La scienza della teologia turbò di commenti tortuosi la semplicità del testo. Allorchè il successore di S. Pietro si dimenticò della povertà primitiva, e della prima rete e della prima navicella, e vestì la pompa mondana dei re e dei sacerdoti di Babilonia e di Ninive, il limpido zampillo della parola di Cristo scomparve nell'onda impura dell'interesse umano. Il potere temporale del papa fu la più grande sventura del cristianesimo. Quei pontefici, che gli diedero la massima espansione, intentarono alla religione una guerra funesta. Gregorio VII, che venne canonizzato santo, non fu che un genio d'ambizione e d'astuzia; egli offese non solo la religione vera, ma offese l'umanità, condannando i sacerdoti all'assurdo obbligo di un celibato impossibile, che gli avvezzò ai raggiri dell'ipocrisia, all'odio dei fratelli più privilegiati. Pur troppo, dal giorno che il monaco Ildebrando cinse la corona, la storia della corte romana è uno spettacolo che contrista la ragione.

Senza rammentare le pagine più cupe di codesta storia; senza ripensare ai più tortuosi avvolgimenti della politica dei pontefici; senza rinnovarci il fremito dei patiboli e dei roghi da essi accesi; senza ponderare i due memorandum delle Marche e delle Legazioni, dove sono consegnate tutte le accuse e le prove irrefragabili dei delitti ufficiali dell'ultimo periodo del potere pontificio; per rimanere percossi di stupore, basta scorrere soltanto un libro, che pur si limita a prudenziali intenti: questo libro è l'Indice dei libri proibiti.

Non ricorriamo ad altri documenti, non sommoviamo la storia, lasciamo gli apostoli e i santi padri in pace. Questo libro, nella sua semplicità numerica, nella sua laconica grettezza, è il riassunto di tutti i capi d'accusa, di tutto il corpo delle citazioni erudite, di tutte le argomentazioni della sapienza, di tutte le strettoje della logica inesorabile. Il potere pontificale è giudicato in ultima istanza dal suo Indice dei libri proibiti. L'uomo colto si faccia passare innanzi alla memoria tutte le opere del pensiero che più hanno beneficato l'umanità, quelle che hanno determinato un nuovo atteggiamento della civiltà, che apersero nuovi mondi alla scienza, che vivificarono coll'incanto del linguaggio poetico i pericolosi ozj della vita; eppoi consideri, che quasi tutte codeste opere furono messe all'indice pontificio dei libri proibiti: le più splendide emanazioni delle menti privilegiate, tutte son segnate a condanna in quell'Indice, che si riduce ad essere il rifiuto documentato dei doni più insigni del genio che, in terra, è l'ombra più sublime della divinità.

I Paria erano maledetti dai sacerdoti del Dio Brama: gli uomini più benemeriti della società lo sono dal potere pontificale. Per negare questo fatto spaventoso, bisogna mettere sul rogo il libro dell'Indice. La più sofistica dialettica del più astuto figlio di Lojola non può che ammutolire al cospetto di questa verità.

Quando Gioberti consolandosi, per un violento artificio del suo forte intelletto e delle sue generose aspirazioni, col primo jeratico posseduto in proprio dall'Italia, cosperse di lodi convenzionali il pontefice e la sua corte, coll'intento di placarlo e di renderlo propizio all'Italia e al mondo, mise per condizione, che fosse tutta quanta ristaurata l'educazione dell'ordine sacerdotale, ma senza pensare che era impossibile la florida vegetazione degli sparsi rami, senza provveder prima al tronco dell'arbore vetusto. Ben se ne accorse dieci anni dopo, e con ritrattazione coraggiosa scompose tutto quanto il suo edifizio, e propugnò la necessità inevitabile della distruzione del poter temporale del papa, e venne a conchiudere, che l'ordine sacerdotale non avrà mai educazione propizia al sincero progresso dell'umanità, se non si procederà innanzi tutto alla riforma radicale della corte romana.

Da quella fonte corrotta derivano tutte le torbide gare che infestano il libero progresso.

Nei seminarj, la scienza che si amministra ai giovani adepti è una scienza intralciata e caotica, quando non è mendace e sovversiva. Se gl'intelletti che vi si abbeverano, hanno, per una particolare benedizione del cielo, il privilegio della serenità e della forza, col dono del sentimento e dell'istinto del bene, i sacerdoti ne escono intatti, non conservando che la veste sacerdotale, ma senza appartenere in realtà all'ordine clericale; soltanto allora che vi si raccolgono menti volgari e fiacche, oppure ingegni forniti di quella prontezza meccanica delle facoltà con cui s'imparano e si esercitano molte discipline, ma senza il benefizio del buon senso e del sentimento, soltanto allora dai seminarj escono i sacerdoti nel mondo, secondo l'intenzione di Roma, ciechi al progresso, testardi di falsa scienza, propugnatori crudeli di oscurantismo, nemici degli uomini, contristatori assidui delle povere anime ingenue, alleati naturali di tutti i tristi.

Di quest'ultima classe, erano alcuni sacerdoti, che, nel lunedì della settimana grassa del 1797, si trovarono, verso il mezzodì, in quella tal casa in Santa Maria Fulcorina; casa che noi non dobbiamo designare esplicitamente, per un riguardo ad uomini morti di recente, consanguinei di persone tuttora vive, e, ci confidiamo, ben pensanti e ben volenti.

In un ampio salotto, a pian terreno verso corte, stavano, alcuni seduti, alcuni in piedi, da dieci a dodici tra preti e frati, uniti in quel punto in domestichezza, quantunque vi fosse tra loro la discrepanza portata dai diversi gradi della gerarchia ecclesiastica a cui appartenevano. Quei dieci o dodici preti e frati erano tutti in abito secolare completamente nero, col cappello tondo, protetto dall'inevitabile coccarda, incaricata di stornare dalle loro schiene le probabili bastonature della folla capricciosa. Quello di loro che stava seduto nel mezzo, era nientemeno che il vescovo di... di una città non molto distante da Milano, e non era di quelli che la natura, ne' suoi momenti di probità, compone apposta, perchè il mondo esperimentato non rimanga ingannato dalle apparenze; testa grossa, fronte ampia e fatta a cofano, naso corto e quadro, bocca larga, con labbra sottili e in tutto rendente la somiglianza di una sferla fatta con un coltello in una zucca; gli occhi si vedevano, e basta. L'uomo, come vescovo, era giovane, vale a dire non varcava i quarantatre anni; era di corporatura breve, ma densa e pettoruta, con un lieve sintomo di quella rachitide, che distingue i nani tarchiati e petulanti dai gobbi mingherlini e gentili. Colui era stato uno dei migliori allievi usciti dal Seminario di Milano. Avendo predicato nella chiesa di S. Gottardo a Corte, ebbe la protezione dell'arciduca Ferdinando, e quindi dell'arcivescovo, del vecchio Kaunitz, e di Leopoldo II; e in breve, di curato fatto prevosto e arciprete, balzò alle insegne vescovili. Alle scuole ginnasiali era stato l'antipatia de' suoi condiscepoli giovinetti, che l'avevano odiato perchè aveva avuto l'abitudine di far la spia presso al maestro; ed anche perchè, fornito di gran memoria ed essendo un gran sgobbone, era salito al grado d'imperatore, come voleva il costume a que' tempi.

Venuto alla scuola di belle lettere in Brera, il Parini, lettore sagacissimo di fisionomie, e acre e bisbetico, lo ebbe talmente in sulle corna, che lo espose spesso alle risate della scolaresca. Dalla giovine società che lo aveva circondato, non ebbe mai dunque che segni d'antipatia e di disprezzo in tutto il tempo de' suoi primi studj. Però il seminario riuscì per lui un luogo di sicurezza e di tranquillità, dove fu ben felice di sentir l'odore de' sornioni suoi pari, che l'odorarono a gara, e gli si accostarono e si strinsero in lega seco. In simile maniera s'accovacciano insieme nelle cantine, e accanto ai focolari delle vecchie pinzochere, i gatti soriani, in odio al mondo e all'allegra brigata dei cani barboni.

Vicino a quel vescovo v'era un monsignore del Duomo, stato professore in seminario di lingua ebraica, poi di casistica; dottissimo interprete di scritture antiche, e forte in numismatica, specialmente nella romana. Costui era dotato di quell'ingegno specialissimo, a cui riescono agevoli tutte quelle discipline che non hanno viscere, e che al più degli studiosi presentano insuperabili difficoltà. Era un uomo non cattivo; viveva e lasciava vivere; era modesto, pacato, non pretendeva nulla, non offendeva nessuno. Ma sebbene paresse fatto di ghiaccio, e nella maggior parte delle quistioni fosse inclinato alla mitezza la più indulgente cogli avversarj, toccato nelle cose di religione, mandava di repente fuoco e fiamme, e, contrariato, muggiva come un tigre ferito. In conclusione, pare che fosse un po' tocco nel cervello, e che le facoltà dello spirito che più aveva ricevute perfette dalla natura, e più aveva esercitate, avessero provocato uno strano squilibrio nelle altre. Barnaba Oriani, che aveva studiato seco, lo qualificava per quel furioso cretino pieno di sapere. Gli altri astanti erano stati frati di varj ordini regolari, di quelli che Giuseppe II, il quale aveva fatto male anche il bene, dall'oggi al domani aveva gettati senza ricovero e senza pane sulle pubbliche vie, provocando per essi nelle moltitudini una pietà, che quei frati aboliti non avevano meritato per sè stessi, ma che meritavano come uomini aventi il diritto di vivere, e di non sentire la necessità di confederarsi alla colpa per vendicarsi dei concittadini secolari, e di quel monarca esaltato e presuntuoso, che fece parere atti di tirannia crudele e insopportabile, anche le più benefiche riforme volute dalla filosofia. Quei frati, dopo aver passato un pajo d'anni in una vita che non fu certo una meraviglia nè d'agiatezza nè di buone azioni, avevano finalmente trovata la protezione di quel monsignor vescovo e dell'altro monsignore del Duomo, e furono messi curati e vicarj in alcuni villaggi della diocesi milanese, coll'incarico di guastar le teste della povera gente. Di coloro uno era anche buon predicatore, per quella parte, già s'intende, che non sta nel raziocinio, ma nell'aria del polmone.

A sospendere i discorsi di costoro, entrò nel salotto con burbero cipiglio il marchese F..., accompagnato da un conte T..., dal milionario Mellerio, da un tal Vincenti, provveditore della repubblica di Venezia, e dal banchiere Suardi.

 




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