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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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II Pio VI e Pio VII, avendo usurpata una fama mille volte superiore al merito, e comparendo al cospetto della storia in sembiante di oppressi, di martiri, di eroi del cattolicesimo, riuscirono funestissimi all'Italia, e furon cagione che si prolungassero nel mondo i falsi concetti sulla natura e sui diritti del papato. Ma più ancora di Pio VI e Pio VII, Napoleone fu quegli che imbrogliò il pubblico giudizio relativamente alle quistioni della Chiesa, e consacrò nella maggior parte del mondo cristiano una specie di mistica paura, che rese formidabile il re-pontefice; e nella moltitudine, la quale si lascia sopraffare dalle catastrofi, depose la persuasione che le basi del poter temporale fossero inconcusse. La luce della ragione indipendente che, in sul finire del secolo passato, dai pensatori solitarj era passata alle assemblee nazionali, da queste agli eserciti, dagli eserciti alle popolazioni, si spense tutt'a un tratto, per concentrarsi ancora nella chiusa lanterna d'alti pensatori aspettanti con fiducia i tempi migliori. Bonaparte fu il gran colpevole. La risoluzione ch'ei prese contro a Pio VI, ossia contro al poter temporale del papa, quando nel 98 da Roma lo fece portare a Siena, invece di sembrare al mondo, siccome era, il colpo deliberato della sapienza che, confederata alla forza, voleva richiamare una istituzione degenerata alle sue origini primitive, parve un'ingiustissima violenza, allorchè col concordato conchiuso nel primo anno del secolo corrente egli mostrò, o di non aver saputo quel che si facesse, o di pentirsi di quanto aveva fatto. Il mondo in quella fatale transazione imparò a rispettare il poter temporale, al quale s'inchinò sempre più quando vide Napoleone inchinarsi egli stesso al Chiaramonte, per poi ritornare agli atti della prima violenza. Questa ineguaglianza di condotta fu quella, lo ripetiamo, che imbrogliò il pubblico giudizio; perchè i disastri sorvenuti e il grande eroe fulminato, nell'opinione del vulgo, parvero vendette del cielo; e come ai tempi di Samuele e di Saulle, si riputò che Iddio avesse colpito il re della terra che avea osato offendere il suo luogotenente. Ma qual fu la causa di quella strana condotta di Bonaparte? Quella causa stava intera nel pubblico europeo, che non tutto si era lasciato persuadere dalla parola dei savj, perchè dieci anni non bastarono a mettere in fuga i pregiudizj di dieci secoli, e perchè la rivoluzione delle idee non si era attuata che alla superficie, senza penetrare nella carne, nelle ossa e midollo delle moltitudini. Bonaparte ebbe dunque paura della gran massa del pubblico, per conseguenza di quella sagacia che non gli permetteva d'illudersi sulle apparenze. Ma la sagacia del tornaconto non è il genio magnanimo del sacrificio; però i calcoli dell'ambizione gli consigliarono le transazioni, sebbene gli sdegni naturali dell'uomo salito al massimo potere gli consigliassero poi le violenze. Se non fosse stato ambizioso, non avrebbe avuto paura della moltitudine, la quale, alla sua volta, nella imperterrita continuità degli atti di lui, avrebbe trovata la riprova dei principj annunziati dai pensatori, e avrebbe finito a liberarsi dai pregiudizj. Così il pubblico corruppe l'uomo di genio, e questi, di rimando, rituffò il pubblico negli errori secolari; così rimase interrotta la più radicale riforma che, quando sarà adempiuta, sarà la più gran pagina della storia moderna. Ma ritorniamo a Pio VI. Questo pontefice, essendo morto ottantenne e in esiglio e inflessibile, trovò gli storici indulgenti fino ad essere dissimulatori, fino ad essere bugiardi; trovò il pubblico europeo disposto a non vedere in lui che un'altra vittima della prepotenza, un altro martire glorioso del cattolicismo. E anche in ciò gli storici imitarono Napoleone I; vogliam dire che anch'essi ebbero paura del pubblico e tacquero la verità, la quale, se avessero adempito all'obbligo dell'indagine scrupolosa, certissimamente lor si sarebbe data a conoscere. Or chi era Pio VI? ovvero sia: chi era l'uomo che, sotto tal nome, doveva rappresentare una delle parti più vistose del suo tempo? È subito risposto: Colui, se non fosse salito al potere, sarebbe stato gettato alla rinfusa nel carnajo degli uomini più spregevoli. La natura che fu avara seco delle doti della mente e del cuore, volle invece essergli liberalissima di doni fisici. L'avvenenza fu la sola qualità che in lui poteva valere, se fosse stato e rimasto un uomo privato, a distinguerlo dagli altri. Ma di essa egli s'invaghì al punto, che mal non si appose chi nel tempo ch'egli era semplice vescovo, lo chiamò il Narciso mitrato. Adunque, persin la forma decorosa, che è sempre un pregio, come è un beneficio della cortese natura, trovò il modo di tramutarsi in lui, se non in un vizio, certo in una debolezza vituperosa, e per l'eccessiva importanza ch'ei le diede, e più di tutto perchè, accarezzata a quel modo, faceva uno scandaloso contrasto col carattere ch'egli vestiva. Ma se questa tuttavia rimaneva una debolezza facilmente condonabile, ben v'erano nello spirito di quell'uomo altre abitudini assolutamente perverse. Egli era vano, invidioso, orgoglioso; e fin da quando salì al vescovado, ossia fin da quando potè esercitare qualche autorità sui soggetti, si mostrò bisbetico, oppressore, ingiusto. Per mancanze leggerissime maltrattava coloro che avevano la dura sorte di servirlo o come prelati di camera o come semplici domestici. Ma se un uomo collerico è facile a dar corso agli impeti primi, egli non aveva poi quella qualità che per consueto è il compenso degli uomini irascibili, la generosità prontissima a riparar le ingiurie; bensì una volta che avesse punito qualcuno, quand'anche se la verità fosse venuta a galla a mostrare l'innocenza del povero malcapitato, egli faceva il sordo alla voce della giustizia, e lasciava che i suoi atti di violenza avessero intero corso. Avvenne un giorno (ed egli era già salito alla sedia pontificia) che uno de' suoi camerieri venisse accusato di grave colpa. Pio VI precipitosamente, senza esame, senza processo, non solo lo discacciò da sè, ma lo fece sottoporre ad una gravissima pena corporale. Ora l'accusatore fu trovato bugiardo; che risultò evidentissima l'innocenza del povero sventurato, e che, per necessità legale, lo si dovette rimetter libero. Tuttavia Pio VI non pensò mai a ritornarlo alla sua prima condizione, e per quanto colui avesse pregato e fatto pregare la Santità Sua, e messo Roma sottosopra per ottenere una grazia, che infine non era che nuda giustizia, Pio VI non ne volle sapere, ed avendogli detto taluno che quell'uomo per l'insopportabile angoscia avrebbe potuto tentare qualche partito disperato, il padre santissimo non si mosse punto a pietà; e quando gli venne riferito che colui si era affogato nel Tevere, ascoltò quella notizia senza riscuotersi nè poco, nè assai, e tosto si volse ad altro. Di questi atti di vilissima crudeltà, il santissimo Pio VI ne commise più d'uno. Se non che, dopo quanto abbiam detto, sentiamo la necessità di convalidare le accuse con delle testimonianze; le quali accuse sono di tale enormità che, se, non avessimo avuto per testo che il Diario del citato Camillone, gli avremmo quasi negato fede; o, per dir meglio, non l'avremmo spinta al punto da farne un uso pubblico. Ma la testimonianza del Camillone si trasmuta in valida autorità, e perchè è appoggiata dalla testimonianza d'un altro, e perchè è aiutata dalle qualità insigni di quest'altro appunto. Esso è Alessandro Verri; la sede dove depose quella testimonianza è la sua Storia delle vicende memorabili dal 1789 al 1801. Nessuno speri però di trovarla nei due volumi usciti in luce due anni sono; chè coloro i quali tennero il manoscritto dall'egregio nipote di Alessandro, stettero intorno ad esso colla preoccupazione gelosa di chi compilava i libri ad usum Delphini, e però non ebber cura che di amputare crudelmente dal corpo del libro quella dozzina di pagine le quali si riferivano appunto alla vita privata di Pio VI, pagine che per la novità inaspettata delle notizie e per l'amore coraggiosissimo del vero onde venivan pôrte, risolvevansi in quella che si chiama una rivelazione. Per caso però, anzi per cortesia dell'editore-tipografo, noi abbiamo veduto quel manoscritto e lette quelle pagine, e ne abbiam tenuto conto pel nostro libro. Ad ogni modo, preghiamo coloro che operarono la barbara amputazione, a porvi riparo, col pubblicare in seguito la parte espunta o nelle copie rimaste, o in una nuova edizione di quella storia. E questo nostro desiderio è tanto più caldo in quanto, non avendo potuto serbare a memoria quelle pagine preziose, oggi siamo stati costretti a limitarci all'unico fatto dianzi citato, il quale sta nel Diario di Camillone; e ad omettere, per timore di alterarli in qualche parte, altri fatti simili e peggiori che il Verri racconta distesamente. Ora non v'è considerazione di sorta che valga a scemar fede alle parole del Verri, chè anzi tutto concorre a comunicar loro una autorità incontrovertibile, e perchè Alessandro Verri dimorò costantemente a Roma durante il pontificato di Pio VI, e ha potuto conoscere di presenza tutti quei fatti intimi che, sebbene importantissimi e di gran peso nelle valutazioni storiche, pure sono di tal natura che non varcano sempre il recinto della città, nè talora quello del palazzo; e sono poi gelosamente mantenuti all'ombra da uomini interessati; e perchè il Verri era uomo tutt'altro che avverso al potere pontificale; e del nuovo ordine di cose, che procellosamente si annunziarono alla fine del secolo passato, era estimatore severo e sospettoso e timoroso, e spesso anche denigratore; non per difetto della sua mente, nè per mal animo, ma per il punto di vista a cui si trovò o si pose per osservare la prospettiva che gli si svolgeva d'intorno; punto di vista disadatto a comprenderla tutta e a giudicarla spassionatamente. Però tanto più fa senso che un tal uomo, il quale si atterriva ai pericoli di Roma e della santa Sede, abbia riferite tante cose pregiudicievoli alla fama di Pio VI; ma tanto più anche bisogna convincersi della verità di esse, quando si considerano le parole onde conchiuse la sua relazione; parole che noi non possiamo ripetere testualmente, ma delle quali il senso è precisamente questo: "Tale è la virtù della grazia divina, che di un uomo (Pio VI) per sè stesso tanto spregievole ha saputo farne un eroe e un martire del cattolicismo." Ora, lasciando da un lato la grazia divina, alcuni potrebbero dire che non sempre le debolezze, le tristi abitudini, le colpe della vita privata possono impedire che un uomo si faccia glorioso nel mondo; e a prova di ciò si potrebbero addurre esempj cospicui della storia. Ma concedendo pure che questo sia possibile in cento condizioni speciali della vita pubblica, come nella milizia, nella politica, nelle scienze, nelle arti; non può assolutamente esser fattibile nella vita di chi assume il nome di padre santo. In tutti i modi però siamo d'avviso che in nessuna condizione chi è tristo nella vita privata, possa farsi veramente grande in pubblico ed essere benemerito dell'umanità; chè ad onta degli esempj della storia, mal citati perchè male interpretati, esplorando con profonda sagacia nella vita degli uomini grandi, eziandio di coloro che, o per prepotente invito delle circostanze, o per momentaneo errore di giudizio, o per impeto di natura, poterono commettere qualche atto colpevole; nella vita furono esperimentati continuamente buoni e miti e generosi; per la ragione, che è ben più facile che le intime virtù si corrompano nell'attrito esterno degli uomini e degli eventi, di quello che un'indole viziata si trasformi in virtù quand'ella esce all'aperto. E la vita pubblica di Pio VI viene appunto a prova di questo; e negli anni in cui il pontificato stette sotto alla sua amministrazione, il cristianesimo fu in Roma sempre ingiuriato, al cattolicismo non si ebbe riguardo nè punto, nè poco; e soltanto si sollecitarono i bassi interessi terreni, al segno che indirettamente la santa Sede tentò di portar soccorso anche ai Turchi allorchè minacciarono di rovina gli uomini che volevano le riforme invocate dalla civiltà. Queste notizie e le altre che daremo ci serviranno di norma quando si dovrà entrare in Roma cogli uomini della Francia e dell'Italia rivoluzionaria. In quell'occasione, se avremo reso sempre più evidente il fatto che Pio VI, ad onta de' suoi ottant'anni, non fu degno di quella pietà onde si fece tanto scialacquo nelle storie; rispetteremo rigorosamente il vero, pur narrando le enormità e di quei generali e di quei soldati, per vedere come una perversa esecuzione di un disegno sapientissimo rovinò le cose talmente che, spostandosi i termini e scambiandosi le sorti, chi doveva essere condannato dal pubblico giudizio, fu al contrario chiamato martire ed eroe. Sul qual fondo procelloso e grande nel tempo stesso compariranno alla lor volta i personaggi che per poco abbiamo abbandonati, a proseguirvi un'azione, che loro malgrado dovrà respirare ed inspirarsi di quella pubblica tempesta, e pigliare senza volerlo delle proporzioni non indegne di quel suolo romano e delle sue memorie.
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