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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DUODECIMO
    • IV
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IV

Abbiamo detto che nell'atto stesso di sborsare la prima rata dei cinquemila scudi imposti dall'armistizio di Bologna, il governo di Pio VI tentò di far assassinare dal popolaccio il ministro francese e i commissarj incaricati di ritirarla. Pure, se questa volta il tentativo andò a vuoto e i primi denari dovettero esser sborsati, ben si pensò di non adempiere alle condizioni rimanenti, e di trarre in lungo il tempo per non pagare la seconda rata; e invece si fece circolare un manifesto, il quale invitava tutti i cittadini atti alle armi ad accorrere al suono delle campane nel caso che le truppe repubblicane avessero invaso il territorio romano.

Noi non siam disposti a concedere troppa sincerità agli atti del primo Bonaparte; ma egli è un fatto che, confrontata la sua colla condotta del Santo Padre, fanno pietà e schifo gli ingiusti giudizj dell'epatico Botta. E Bonaparte infatti scrisse al papa per sapere se quel manifesto era stato promulgato d'ordine suo; ma il santissimo padre non ebbe nemmeno il coraggio nè di affermare, nè di negare, e si chiuse in un pauroso e traditore silenzio, riponendo la sua fiducia nell'ajuto del Borbone Ferdinando IV; e attendendo prodezze e dalle reclute che andava mettendo insieme d'ogni conio e di ogni risma, e dalla sapienza di un consiglio di guerra fatto di cardinali e vescovi e frati e preti; e dall'esperienza strategica di un nipote di papa Rezzonico, e dal valore di un brigadiere Gandini, sotto del quale i soldati del papa, per assicurazione non sappiamo se di Marforio o di Pasquino, ebbero fama di portare quella famosa patta di rame, custode di coglie e di ernie, che diventò proverbiale.

Ma il papa che, se era fedifrago, era anche incauto e per nulla conoscitore degli uomini e delle cose, ben presto dovette accorgersi che conto potesse far egli dell'ajuto del Borbone, quando pervenne nelle sue mani un proclama, che pubblicamente leggevasi per Napoli e nel quale, tra l'altre cose, dicevasi: "che importa a noi che i Francesi entrino in Roma e che in quella città penetri la rivoluzione? Si pianti pure l'albero della libertà in Campidoglio, in piazza Navona, in piazza San Pietro, e venga intanto il papa a rifugiarsi tra noi, e faccia circolare nel nostro regno le trafugate ricchezze. Un paese privo di derrate, di coltivazione, di commercio, spopolato e mancante di braccia, dee presto o tardi riuscire a carico della repubblica conquistatrice, e spogliato che sia, non potendo mantenersi senza il papa, dee cadere nelle nostre mani, come ai tempi di Roberto, di Ladislao, di Giovanna."

E fin qui abbiam creduto bene di diffonderci sulle cose romane e sulle vertenze tra la Santa Sede e le armi repubblicane; per essere fedeli all'intento principalissimo di questo lavoro, che costituisce la sua ragione di essere, ed è quello di pubblicare ciò che si tenne celato o nei manoscritti o in quegli opuscoli coraggiosi, che, avendo circolato liberamente allorchè il tempo lo concedeva, furono poi violentemente messi sotto chiave, o, senza più, vennero abbruciati dalle gelosie, dalle ire e le vendette posteriori; e ciò facciamo per rimediare, in parte almeno, alle bugie, alle simulazioni, alle dissimulazioni di alcune tra le storie più riputate e più lette, e che, protette dalla bandiera della verità, portarono in giro molta merce di contrabbando. Non parleremo, dunque dei fatti che conseguirono alla subdola condotta del pontefice; nè della rotta vergognosissima che al Senio toccò alle armi romane; nella qual circostanza fu manifesto che il potere temporale, affidato al sacerdozio, mentre snatura e deturpa il sacerdozio stesso, degrada, corrompe tutto ciò che viene nelle sue mani; e ha il funesto privilegio di avvilire eziandio quelle nobili e generose schiatte, che sono, a dir così, la gloria della natura; e tra le quali, per testimonianza di tanti secoli, la romana conquistò appunto il primato. Di quella rotta vergognosa, noi dunque non parleremo, perchè è registrata in tutte le storie; come non parleremo del famoso trattato di Tolentino, e perchè si legge dovunque, e perchè noi stessi già ne abbiam fatto cenno, quando assistemmo al ballo del Papa rappresentatosi al teatro della Scala; il qual ballo fu suggerito appunto e da quel trattato e dell'avvilimento in cui venne la Santa Sede, e dall'onta che toccò al generale Colli, da cui tante cose attendevasi il papa e i suoi cortigiani e i suoi fautori, e che in allora rappresentò nel dramma italiano quella parte che oggi vi rappresentò l'avventuriere Lamoricière.

Ma, a proposito di codesto trattato di Tolentino, che cominciò a scassinare di fatto il poter temporale, ossia a dimostrare che ciò che per donazioni o per forza si acquista o si conquista nel tempo, si può perdere col tempo; alcuni scrittori, a provare che Bonaparte non ebbe mai di mira quella riforma radicale, citano una lettera di lui al pontefice scritta durante le negoziazioni del trattato, e una risposta di Pio VI a lui. E veramente quelle due lettere, considerate oggi nel silenzio del gabinetto, col proposito di non tener conto che del valor delle parole, parrebbero quelle di due innamorati, e per la dolcezza dello stile e per la qualità delle espressioni e per l'espansione delle proteste. Ma quando si pensa da che uomini erano scritte, e in che circostanze, davvero che ci fanno ridere coloro che da esse vorrebbero indurre una reciproca simpatia esistente tra Pio VI e Bonaparte. Se vi fu uomo simulatore, e pronto a fare tutt'all'opposto di quel che diceva e scriveva e prometteva e giurava, fu Pio VI appunto, e ne è prova la prontezza con cui fu sottoscritto l'armistizio di Bologna, e la maggior prontezza onde fu messo sotto i piedi; in quanto a Bonaparte, non ci par vero che, per dare un valor letterale alle parole, si possa dimenticare la preoccupazione ognora vigile di lui a celarsi in perpetuo mistero, per riuscire ne' suoi intenti tanto sicuro quanto inaspettato. Ma, dopo tutto, per dare il giusto valore alla lettera bonapartiana, e per non ingannarsi e non ingannare altrui sulla pretesa propensione di Bonaparte a conservare alla Santa Sede il poter temporale, oltre al fatto delle molte provincie tolte da esso al Papa, il quale basta a toglier di mezzo ogni dubbio; v'è un altro fatto, che rimase tra i segreti passati di bocca in bocca, ed omessi dagli storici o per proposito deliberato o per ignoranza: ed è che egli incoraggiò a perdurare nelle sue sedute il sinodo di Pistoja, aperto molti anni prima dal vescovo de' Ricci; il qual sinodo si proponeva di discutere tutte le questioni relative alla Chiesa romana, tra le quali primeggia quella del potere temporale; e oltre a ciò fu sollecito nell'incoraggiare la pubblicazione di un voluminoso manoscritto, che nel marzo del '96 era stato presentato a Pio VI, intitolato: Disordini morali e politici della corte di Roma, esposti dai difensori della purità della prima Chiesa cattolica; e che infatti venne poi stampato a Siena nel principio dell'anno 1798; nel qual libro, con dottrina non facilmente superabile, e con tranquilla dignità pari a quella dottrina, e con tutti gli attributi di uno zelo intrinsecamente religioso, ad una ad una si passavano in rivista tutte le piaghe della Chiesa, e a ciascuna si suggerivano rimedj salutari, dandosi la parte massima alla questione del poter temporale, che trionfalmente vi era dimostrato illegittimo, assurdo e funesto, con una potenza di argomentazione avvalorata da citazioni infinite, tolte da Gesù Cristo, dagli Apostoli, dagli Evangelisti, dai santi Padri, dai pontefici stessi più benemeriti dell'umanità e dell'Italia e della religione.

Richiamando ora alla mente del lettore quel che abbiamo detto di Bonaparte alcune pagine addietro, esso, per acutissima sagacia, si accorse che di tutti gli elementi della vita sociale ristacciati dall'indagine coraggiosa dei pensatori, l'elemento religioso era il solo che, nella persuasione della maggior parte, era rimasto ai vecchi pregiudizj; però sentì la necessità di preparare il popolo a comprendere interamente quelle quistioni con libri popolari, compilati da penne d'uomini di Chiesa; chè manifestamente vedeva che, in tal materia, la volontà e le leggi dell'autorità civile non potevan nulla sulla convinzione dei vulghi; nè sopra di sè volendo prendersi così pericoloso carico, desiderava che il terreno si preparasse in palese da altri, quantunque in segreto i consigli venissero da lui.

Infatti col trattato di Tolentino dischiuse per la prima volta il varco agli elementi necessarj a compire la riforma della Chiesa romana; quando poi si ritrasse dall'Italia, chiamato da gravissimi eventi in Francia, condusse le cose in modo, che il fratello Giuseppe, il quale era docile a' suoi voleri, fosse spedito a Roma; poi, quando il Direttorio formò di mandare un esercito contro il papa a vendicare le vecchie e le nuove ingiurie, troviamo scritto in un opuscolo di quel tempo, che fu Bonaparte stesso ad eccitare a ciò il Direttorio; fu Bonaparte a proporre che il generale della spedizione fosse Berthier, per la ragione che, essendo questi obbediente ad ogni suo consiglio, al pari di Giuseppe Bonaparte, non si sarebbe dipartito per nulla dalle sue vedute; in ultimo fu egli che mise accanto a Berthier il côrso Cervoni, conoscendo gli spiriti risolutissimi di quel suo compatriota, il quale era di tal natura da far nascere o presto o tardi di quegli scompigli che il senno e la giustizia debbono biasimare e proibire; ma che quando sono avvenuti, si comprende che erano indispensabili per risolvere certe quistioni.

Però, se va il paragone, Bonaparte fece come chi, credendo necessaria un'inondazione, togliesse gl'incastri di propria mano, per recarsi poi altrove nel punto che le acque irrompono dappertutto, onde non essere costretto a rimediare ai disordini istantanei, persuaso che da questi, lasciando andar le cose a beneficio di natura, sia per generarsi quell'ordine che nessuna antiveggenza e fermezza di volontà vorrebbe mai produrre. Ma per che cosa, domanderanno alcuni, al giovane Bonaparte doveva premer tanto di toglier di mezzo la temporalità del papa, se questa fu ed è una piaga non fatale che all'Italia, e perciò stesso opportuna agli stranieri che vogliono tenerla in soggezione? Una tale questione non potendo essere sciolta risolutamente, è permessa una congettura. Nel primo fervore della gioventù, e nell'impeto primo e spontaneo del genio, e nella sua natura italianamente e romanamente costrutta, Bonaparte deve avere provato per la sua patria vera una simpatia irresistibile, la quale, guidata dal fortissimo giudizio, gli deve aver mostrato la massima piaga di lei, e fattogli sentire il desiderio di sradicarla. Testimonj di vista e di udita, dei quali citiamo un Porro, che fu prefetto del Lario, ci assicurano che a Mombello, nel '97, discorrendo Bonaparte dell'Italia, in un momento di quegli impeti generosi, che, come un lampo, rischiarano un immenso buio e svelano cose nemmen sospettate, egli uscì in queste memorabili parole: In Italia non devono stare NI FRANCIOSI NI TODISCHI. parole che, pronunciate risolutamente dalla profonda e rauca sua voce, e in un pessimo e quasi selvaggio italiano, colpirono gli astanti in modo da lasciar loro un'impressione per tutta la vita, tanto in que' detti e nel modo onde furono pronunciati sembrò fremere l'affetto e il dolore al cospetto di una gran patria avvilita. Come è amaro il pensiero che una smisurata ambizione abbia poi soffocato questo naturale affetto!!

 




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