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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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VI Il terzo giorno dopo l'ingresso delle truppe francesi, nel quale ricorreva l'anniversario dell'incoronazione di Pio VI, fu, a significazione d'antitesi, dedicato invece alla solenne instaurazione della repubblica romana. I grandi ritorni della storia, esaltando l'immaginazione, commuovono gli uomini ad insolito entusiasmo, anche allora che non arrecano vantaggio. Se poi la grandezza si marita all'utile o alla speranza di raggiungerlo, l'entusiasmo non ha più limiti. Un sublime delirio investe le moltitudini, senza che occorra a ciò nè potenza di fantasia, nè straordinaria squisitezza di sentimento. Quelli che insieme con noi nell'anno 1848 a Venezia hanno visto balzar fuori di repente l'alato leone di sotto alle aquile austriache, e l'antico stendardone risventolare davanti a San Marco, e i gondolieri e i pescatori e i vecchioni di Canareggio e di San Pier di Castello comparire in piazza colle vecchie stampe, tenute in serbo, effigiate di dogi, possono far testimonianza più sicura di codesto fenomeno. Per analogia dunque ognuno potrebbe immaginarsi, anche senza che ci fosse attestato da testimonj di veduta, quale sia stata l'esaltazione dei Romani il giorno in cui risalendo il corso di mille ottocento anni, si trovarono a faccia a faccia col loro grande passato. Quando diciamo i Ronani, ognuno lo pensa già, non vogliamo dire tutti i Romani. Anzi bisogna fare l'esclusione quasi totale dei due estremi della scala sociale; ossia della più alta gerarchia ecclesiastica e civile, e dell'ultima feccia del popolaccio al di qua del Tevere, a cui quella gerarchia medesima avea spesso ricorso per tentar di stornare con opere scellerate i nuovi giorni. A coloro poi bisogna aggiungere un'altra classe di Romani: ed era quella costituita, in prima, da alcuni letterati ed eruditi di professione, quali il Guattani, l'Orlandi, il Cicognini, ecc., ecc., uomini innamorati del quieto vivere, del silenzio e del pranzo settimanale in casa Braschi, in casa Albani, in casa Massimi: tutta gente che idolatrava Roma antica nei libri, nelle lapidi, nelle monete, in tutto ciò che era morto; ma non avrebbe mai fatto sacrificio di un solo pranzo per rivederla viva e risorta; in secondo luogo, da altri letterati, chiari d'ingegno, e galantuomini, e anche indipendenti da cardinali e da principi e da duchi, ma non indipendenti da sè stessi e dai caparbj pregiudizj; tra costoro certamente primeggiava il nostro Verri Alessandro, in molte cose tanto simile al fratello Pietro, e in troppe altre così diverso; il quale Alessandro, ad onta delle sue Notti Romane, avrebbe voluto veder ruinare tutta Roma, piuttosto che essere spettatore dell'invasione ognora crescente delle idee rivoluzionarie. Finalmente venivano alcuni artisti, architetti, scultori, pittori già saliti in gran fama, e già adagiati nella ricchezza, e che dell'una e dell'altra eran debitori alla protezione e del papa e dei cardinali e dei ricchi patrizj, tra' quali si distingueva il celebre Mariano Rossi e il Tofanelli e il Nocchi scolare del Battoni, e il Pacetti Vincenzo che, quantunque fosse un ottimo uomo, avea sempre crollato la testa alle notizie di Francia, e avea consigliato Canova, che non si fece molto pregare, a cavarsela da Roma prima che arrivassero i tempi bruschi. Queste categorie d'uomini non sentivano dunque l'esaltazione generale. Gli uni, o stavan celati, o passeggiavano nelle vie remote, o tutt'al più, se erano sollecitati dalla curiosità, traevano, sempre però a una rispettosa distanza, dove traeva il pubblico schiamazzante, e guardavano e notavano ogni cosa senza aprir bocca; o se l'aprivano a qualche evviva forzato, era perchè s'accorgevano che qualcuno li guardava in cagnesco. Pur, a dispetto di tutti costoro, rimanevano quanti bastavano per affollar piazze e contrade, e per empir l'aria romana di acclamazioni, di evviva, di grida. V'erano intanto tutti gli uomini di Trastevere, nei quali il vecchio sangue latino è trapassato senza alterazioni d'innesti spurj; uomini ignorantissimi di tutto quello che sta oltre la cerchia romana, e che credon che il Tevere vada in Francia e in Inghilterra e in America e in tutto il mondo conosciuto; ma perciò appunto orgogliosissimi di esser romani. La storia della loro patria è per essi passata di bocca in bocca attraverso a venti secoli, per raccogliersi e far sosta nel loro rione; onde parlano ancora di Giulio Cesare, e Cicerone, e Catilina, e Bruto, e Catone, e Pompeo come se fossero loro fratelli e li avessero visti a crescere, e avessero bevuto con loro il falerno nell'anfora stessa; uomini che, per questa parentela, sentono il privilegio di un'aristocrazia speciale e guardano d'alto in basso quanti stranieri, comunque grandi e illustri, vanno per curiosità a visitarli; e lor parlano col tu di Roma antica, e ad un bisogno, senza tanti rispetti, anzi in atto di protezione, mettono loro sulle spalle le mani poderose. "Come stai, re Michele?" diceva ai nostri giorni un beccajo di Trastevere a don Miguel; e mentre con una mano gli batteva una spalla, coll'altra gli porgeva l'ampia caraffa rasa d'orvieto; e accompagnava quest'atto con tale posa e tale espressione di volto, che pareva dicesse: Io mi degno di abbassarmi fino a te. Quest'ignoranza e questo costume non impedisce però che essi abbiano acutissimo l'intelletto; e giova poi a conservar loro un carattere intero, il quale, nella sua medesima fierezza, è spesso custode di nobili affetti, della santità dell'amicizia, dello scrupolo della fede. I giovani artisti, che anche allora, come adesso e come sempre, mescolandosi a quella gente per gl'intenti dell'arte, erano i loro più intimi amici, e però li avevan messi a parte di tutte le belle e grandi cose che l'onda rivoluzionaria avrebbe portate in Roma, li trassero adunque entusiasti e plaudenti sulle piazze. Quegli artisti, ad onta dei tempi burrascosi, soverchiavano sempre le due e le tre migliaja, e quantunque di tutte le città d'Italia: di Napoli, di Bologna, di Firenze, di Venezia, di Milano, di Genova; e di tutte le nazioni d'Europa: di Russia, di Spagna, d'Inghilterra, di Germania; pur dall'arte e dalla gioventù bollente e dalle aspirazioni messe in comune eran ridotti come se fossero figli di una patria sola, e seguaci di una sola bandiera. Essi bastavano a mettere sottosopra tutta Roma, e con tanto più di esaltazione e quasi di furore, in quanto che i pensionati delle accademie di Francia e tutti gli artisti di colà, poco tempo prima, erano stati violentemente espulsi dal governo pontificio, siccome fu già riferito. Duce degli uomini di Trastevere era il Camillone, il Ciceruacchio d'allora; quello di cui teniamo parte del Diario, ch'egli dettò per non saper scrivere; uomo tanto amato da quelli del suo rione, e perciò di tanta autorità, che il governo stesso dovette più volte far capo a lui per riuscire a sedare dei tumulti. Fra gli artisti v'era il famoso Pinelli, giovanissimo allora, ma già di fantasia così potente, così feconda e veloce nell'improvvisazione di disegni istoriati, che quando voleva, lavorando in piazza Navona sotto gli occhi del pubblico e dei tanti forastieri che accorrevano a quello spettacolo per loro insolito, raccoglieva tante monete d'oro e d'argento da empire il proprio cappello; oro e argento ch'egli convertiva poi tosto in tante misure di vino; perchè la sua compiacenza e la sua gloria era di poter dar da bere a tutto il popolo romano con luculliana munificenza. Amico del Pinelli e amico del Camillone, i quali erano come i re confederati di due schiatte diverse, era quel Corona giureconsulto, al quale spontaneamente si trovarono uniti tutti i giovani avvocati e tutti gli studenti, e tutti coloro che eran nati per andare avanti e per affrettarsi a qualunque costo, anche con pericolo di stramazzare e fiaccarsi il collo. Tutti costoro uniti insieme costituivano buonamente una truppa di cinque o seimila persone, sufficienti, in qualunque città anche popolatissima, a rappresentarla, a comunicarle la propria volontà e il proprio impeto; e a condannare all'inazione e al silenzio tutti quelli che per combinazione non dividessero cogli agitatori le opinioni correnti. Fin dall'alba dunque del terzo giorno quella folla capitanata dal Camillone, dal Pinelli e dal Corona, mosse festosa a piantare l'albero della libertà nelle piazze principali di Roma. Era da quasi due anni che sentivano a parlare con invidia della nuova condizione delle città dell'alta Italia, e di Milano segnatamente; della libera vita che vi si godeva, dell'utile delle nuove istituzioni, della pubblica felicità, dei clubs, dei teatri, della libera stampa, dei discorsi in piazza, dei nuovi costumi introdotti; e la fama, magnificando ed esagerando il bene senza toccar punto del suo contrario, e dissimulando gli abusi, gli eccessi, i disordini, aveva talmente esaltati i desiderj e le speranze di que' cittadini, che quando finalmente le videro appagate, la loro gioja non ebbe più ritegno e proruppe con un impeto che la stessa Milano non avea mai sorpassato. Ma seguiamo l'onda del popolo, e fermiamoci con essa nel foro romano per sentirvi il discorso che l'avvocato Corona improvvisò nell'istante che si piantò colà, per la prima volta, la simbolica pianta coi motti: libertà, eguaglianza, virtù, patria. Colui, salito sopra un capitello corinzio rovesciato che giaceva da tempo immemorabile tra la colonna di Foca e le tre della Curia, così prese a dire: "Romani, siete liberi. L'albero della libertà è piantato. Libertà, eguaglianza, virtù, patria; ecco le quattro pietre su cui s'appoggia a perpetua durata il sacro vessillo della comune nostra rigenerazione. "Libertà è questa, la quale non iscuote il ferreo giogo della tirannia con altro fine che con quello di garantire a ciascun uomo i suoi diritti naturali inalienabili. "Eguaglianza è questa, la quale, santamente sprezzando e privilegi e titoli, colla bilancia del diritto e della legge, eguaglia l'uomo all'uomo; e non sa, non può, non vuole conoscere altra distinzione che quella che passa tra il vizio e la virtù. "Virtù è questa, la quale, divinizzando l'uomo, fa che egli non trovi la felicità se non se nel far felice altrui; ond'è che l'uomo veramente virtuoso si crede fatto più per la patria e pe' suoi simili che per sè stesso. "Patria è questa risorta a nuova vita. "Virtù premiata, vizio disonorato, merito riconosciuto, vanità cadente, verità svelata, ipocrisia vilipesa, innocenza sicura, oppressione bandita, emblemi tirannici distrutti, umanità vendicata, giustizia imparziale, santuario restituito all'antica purezza, genio marziale ridestato. Ecco i frutti che oggi ne promette questa patria risorta. "Falsi sacerdoti, superbi patrizj, tirannucci iniqui, ipocriti maliziosi, impostori ignoranti, intendete qual libertà, quale eguaglianza, quale virtù, qual patria servano di base al grande edificio della nostra rigenerazione? E voi, anime timide e deboli, sentite quali sono le radici che prodigiosamente alimenteranno la simbolica pianta?" Queste parole, dette con enfasi e con quell'accento speciale che significa la sincerità e la convinzione profonda di chi le pronuncia, furono coperte da una salva di applausi e di viva la libertà, viva l'eguaglianza, viva la repubblica, viva Roma. "E viva Roma," continuò allora l'avvocato Corona, approfittando di quel grido per dare una piega al discorso, e dalle generalità, che parevan quasi divenute di convenzione, veniva a cose particolari e di utilità più pratica ed evidente. "Viva Roma. Se, infatti, v'è città nel mondo alla quale la rivoluzione attuale torna vantaggiosa di preferenza, è questa appunto; è questa Roma, a cui davvero oggi comprendo perchè si competa il predicato di eterna. Dopo l'avvilimento in cui la gettarono gli ultimi pontefici; dopo la fuga ignominiosa di Annibale Albani, che fece parere i Romani vilissime pecore; dopo l'ultima rotta del Senio, dove si raddoppiò quella prima ignominia, qual posto potea vedere per sè nell'avvenire quest'infelice città? "O dirò meglio: che cosa sarebbe stato di lei, se gli avvenimenti si fossero troncati di colpo; e se la fortuna, obbedendo alla Provvidenza, non avesse fatto in modo che l'errore e il disordine e l'ingiustizia nel proprio eccesso medesimo trovassero la morte? Pio VI ricorrendo alle ambagi, alle subdole scaltrezze, al tradimento, nella speranza di poter riuscire ad arrestare il corso fatale degli avvenimenti, e non potendo ottener ciò colla forza del proprio potere, ossia colle proprie armi, ha messo in evidenza che codesta larva di potere a cui i papi, dal giorno che tennero il dono funesto dai re della terra e non dal cielo, stanno attaccati coll'avida e gelosa cura onde gli avari guardano l'illegittimo tesoro, non è che un'occasione perpetua di disordini, di ingiustizie, di viltà, di delitti, non è che un potere che svela l'impotenza, e intacca la pura santità del Vangelo e della Chiesa primitiva e dei primi pastori, i quali tengono il santissimo mandato di guardare e provvedere alle anime e alle coscienze; ma non già ai corpi, non agli interessi terreni, non all'uso della forza per respingere la forza. Se fosse vero che la divinità avesse decretato che il suo rappresentante in terra avesse a farsi temere coll'uso della forza materiale, avrebbe permesso che i più degli altri monarchi fossero materialmente più forti di lui? Avrebbe permesso che la maestà e la santità del re pontefice potesse rimaner vinta e avvilita dall' altrui preponderanza? "Ma lasciamo una tal questione a chi non parla in piazza, ma scrive pei libri. Piuttosto dirò, che il vantaggio maggiore che produsse la pessima condotta di Pio VI, fu di aver stancata la pazienza di chi appunto era materialmente più forte di lui; e nel tempo stesso che era più forte, era anche più pietoso dell'umanità conculcata, più vergognoso della vergogna d'Italia, più innamorato della grandezza e della gloria di questa Roma; e Italiano di avi e di nascita e d'intelletto e d'anima, ha sentito la necessità di ajutare la sua vera patria sollevando il cuore di essa dall'incubo assiduo, che, alterando la completa e libera e normale circolazione del sangue, viziava e rendeva inette tutte le altre sue membra; perchè Roma, questa Roma che fu l'urbe dell'orbe; questa Roma che, per antonomasia, fu chiamata la città eterna; questa Roma che, ad onta della sua degradazione, è ancora la prima città del mondo, o per dir più giusto, serba ancora intero il germe e le condizioni del suo primato; questa Roma è veramente il cuore dell'Italia; onde per far la cura dell'Italia non si dee far altro che ristorarne il cuore. "O Romani, e voi uomini di Trastevere, nelle cui faccie e nelle cui membra vedo rivivere l'antica saldezza, guardate ai miseri avanzi di questo fòro romano; e se siete capaci, ricostruitevi in pensiero la solenne maestà dei tanti edifizj che, sulle varie e graduate eminenze nei colli, d'ogn'intorno un tempo gli facean corona; edifizj di marmo e d'oro, ciascuno dei quali era la dimora di un nume, di un semidio, di un eroe. "Là in alto stavan gli edifizj dell'Arce Capitolina: più sotto, in gradazioni succedevoli, il tempio di Giove Tonante e quel di Saturno; qui nel mezzo era il cavallo gigantesco di Domiziano, e dietro, gli antichi rostri; più in alto era il portico del Tabulario, sotto del quale stavano i due templi di Vespasiano e della Concordia; e dietro all'arco di Settimio, nella parte più eminente, il tempio di Giove Capitolino, che soprastava alla basilica Emilia; e v'eran gli edifizj del Palatino e la Curia Giulia e la basilica Giulia e il Miliario Aureo e la basilica di Costantino; e statue equestri, e colonne commemoratrici, e bighe e quadrighe e sestighe trionfali... Ma se, guardando le presenti rovine di questo fòro, dieci anni fa, due anni fa, un anno fa, ripensavate con rammarico alla folla dei vostri gloriosi avi irruenti a quei rostri famosi che ora non sono più; oggi è cessata la cagione del rimpianto; un anno fa pareva impossibile in perpetuo il ritorno dell'antica gloria di Roma; ma ora possiamo vedere in un futuro non remoto la prospettiva rinnovata e accresciuta e migliorata della grandezza antica. Tutte le città d'Italia, soli minori giranti in astronomica armonia intorno a questo massimo sole di Roma, qui manderanno i loro figli più preclari di virtù, di operosità, d'intelletto, di genio; qui si faranno le leggi; qui si tratterà della guerra e della pace; qui si decreteranno le leve; qui si distribuiranno gli onori ai generosi che saranno stati prodighi del loro sangue per l'indipendenza della gloriosa nazione; e il pontefice intanto, ritirato a pregare nel suo Vaticano, colle porte aperte, senza satelliti e senz'armati, benedirà e ringrazierà quel Dio di cui ora è rappresentante indegno; lo benedirà e lo ringrazierà di aver decretati gli avvenimenti che gli tolsero il potere e la forza materiale, per fargli il dono più prezioso della venerazione dei popoli, i quali non sentiranno più le coscienze contristate da colui che tiene il mandato di consolarle.".
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