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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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VII L'albero della libertà, per il quale l'avvocato Corona improvvisò il suo discorso, fu il primo che sia stato piantato in Roma; e lo si pose appunto là dove si riputava trovarsi il sito dell'antico fòro romano, giusta le conclusioni archeologiche allora pronunciate dagli eruditi più stimati, segnatamente dal Piranesi e dal Visconti; conclusioni che vennero poi modificate in qualche parte dagli eruditi posteriori, tra cui il Venuti, il Nibby e il Canina, che portarono le congetture fino alla condizione della certezza. Quel sito, con cerimonie quasi rituali, venne allora determinato e segnato con una barriera che ne girava la periferia; e la quale venne coperta con drappi a tre colori, bianco, rosso, nero, i colori emblematici della Repubblica. Adempiuto a ciò, tutta la folla lasciò l'antico fòro, per recarsi nelle altre principali piazze di Roma, dov'eran già scavate le buche per ricevere le radici degli altri alberi di libertà che, al pari dell'antico, ben potevano simboleggiare la scienza del bene e del male. Salita finalmente al Quirinale, dopo un'altra breve allocuzione all'albero e una specie di ballo rituale saltato dai più enfatici intorno ad esso, stette aspettando il generale Berthier, che alloggiava nel palazzo apostolico, col suo stato maggiore. Esso, alla testa delle truppe, doveva in quel dì salire in Campidoglio ad instaurarvi solennemente la repubblica romana. La notizia di quella solennità chiamò tanta gente dalle città vicine e lontane che a memoria d'uomini nessuno si ricordava d'aver veduto sì numeroso popolo in Roma; e gli osservatori sagaci, i quali guardando al presente miravano al futuro, pensarono all'attrazione irresistibile che quella città avrebbe esercitata su tutti gli Italiani d'Italia, quando fosse divenuto il teatro principale de' fasti nazionali; diremo che coloro i quali, per aver molto viaggiato, hanno pronte e sicure le occasioni d'instituire confronti, si accòrsero del quanto Roma vincesse tutte le altre più celebri città nella maestà solenne del suo aspetto, quando assistettero allo spettacolo che presentò il Campidoglio allorché Berthier salì sul poggio del palazzo del Senatore, e tutta la truppa si schierò nella piazza sottoposta, e l'onda del popolo si agitò in tutte le direzioni, e su tutte le salite che mettevano a quel luogo eminente; e sull'alta ed ampia scalinata che dalle falde del Campidoglio ascende fino alla chiesa d'Ara Cœli, offrì l'aspetto di una cascata che ribollisse in sè stessa, per precipitarsi sulle onde sottoposte; e quando un così formidabile movimento e fremito di vita, e frastuono di voci e di grida si arrestò di colpo nell'immobilità e nel silenzio, appena che la parola sonora del generale Cervoni tuonò dall'albero della libertà eretto nell'aja capitolina, tra i colossi di Lucio e Cajo e i trofei di Augusto e la statua equestre di Marco Aurelio. Del resto, il profondo silenzio, fatto da tanto popolo accorso non giovò che a coloro che si trovavano sull'aja propriamente detta; agli altri fu molto se l'onda sonora portò qualche perduto monosillabo; e in questa condizione ci troviamo anche noi, posteri non lontani; chè quel discorso non fu messo a stampa, nè serbato manoscritto, onde non possiamo farlo riecheggiare agli orecchi dei nostri lettori. Nè il Camillone di Trastevere che lo sentì a suo agio, perchè stette ben vicino al generale, si occupò di riferirlo; bensì conchiude con queste segnalate parole: "Chi poi si lamentasse del tacere nostro, pensi a credere che dopo le parole del nostro buon Corona, quelle del generale ti paiono più che altro fuochi di festa e di luminaria che rintronano nell'aria senza lasciare traccia nè di lume nè di colpo." Stando infatti anche al giudizio d'altri testimonj, il generale Cervoni deve aver dette tante e tante cose in quell'occasione, e con tale esagerazione e di pensiero e di parole, che nel troppo andò perduto anche il poco, e nelle pompose generalità rimase celato il concetto chiaro delle cose. Ma ciò è naturale: Cervoni, quantunque fosse italiano e, al pari di Bonaparte, sentisse tutta l'importanza della questione romana, pure parlando sotto l'orecchio di quell'oca di Berthier (è Napoleone che così lo chiama), non voleva parlar dell'Italia in modo che il Francese si adombrasse. Compiuta la solennità dell'instaurazione della repubblica romana, alla quale assistettero cinque pubblici notaj che rogarono l'atto, in quel medesimo giorno il generale Cervoni si presentò a Pio VI per intimargli a nome della repubblica francese, che si preparasse a lasciar Roma e a partire per Siena, facendogli sentire come il papato avesse a entrare in una nuova fase e l'Italia fosse chiamata a nuovi e grandi destini. Tutti coloro che hanno letto le storie conoscono la risposta del pontefice, e il suo contegno in quel momento; tutti dalle storie stesse furono tratti come a sentir l'obbligazione di venerare il pontefice per la sua fermezza di non voler cedere quel che gli era stato tramandato da' suoi antecessori; e, per l'opposto, a biasimare la condotta di Cervoni per ciò che ha fatto in quella gravissima quistione, e per il modo con cui lo ha fatto. Ma ci troviamo sempre allo stesso nodo; chè la venerazione e il biasimo non sono altro che le conseguenze del diverso modo di valutare i fatti. Certo che, se la condotta del pontefice fosse stata sempre irreprensibile, se tutta la sua vita privata e pubblica fosse stata l'attuazione continua di quanto costituiva il carattere e il dovere della sua dignità; se fossero stati palesi e innegabili i beneficj e i sacrificj da lui resi e da lui fatti alla religione di cui era capo, alla nazione di cui doveva essere il figlio più devoto per essere il padre più amoroso, all'umanità intera alla quale, come rappresentante del Dio in terra, doveva rivolgere tutte le sue cure, la pietosa commozione che si proverebbe per lui, dovrebbe essere pari all'indignazione provocata dalla condotta del generale Cervoni, o da chi gli aveva dato quel mandato: ma le parti si tramutano compiutamente alla vista di chi considera i fatti coll'inesorabile sindacato del vero e del giusto; tanto che, mettendoci a contatto con quei fatti stessi, senza attraversare il prisma fallace delle interpretazioni degli storici, ben si è tratti a conchiudere che il generale Cervoni non fece nè più nè meno di quello che aveva dovuto fare; e che nè l'età ottantenne del papa, nè il suo venerabile aspetto, nè le sue infermità stesse sono motivi sufficienti per placarsi al cospetto di una non interrotta serie di debolezze e di colpe. Che se, messe le cose a un punto ancor più alto e più solenne di veduta, la tarda età del pontefice e le sue infermità corporali si dovessero mettere in cumulo colle debolezze e colle colpe medesime, per farle tutte insieme oggetto di una suprema pietà filosofica; anche in tal caso la pietà non escluderebbe la giustizia; anche in tal caso la condotta di Cervoni sarebbe giustificata dal dovere e dalla necessità. Dovere e necessità che si verificherebbero pur nel supposto che Pio VI fosse stato lo splendore del pontificato, la gloria della nazione, l'onore dell'umanità, perchè non era più la persona del pontefice che entrava in questione, ma sì le condizioni alterate del pontificato che invocavano una riforma; non era già Pio VI a cui si faceva ingiuria, ma era il potere temporale che, sentenziato assurdo e infesto dal voto concorde dei savj, doveva essere abolito per sempre, a beneficio dell'umanità ed a vendetta della stessa religione. Se non che, per le ragioni medesime che ci comandano di giustificare il generale Cervoni nel suo colloquio con Pio VI, non troviamo sufficienti parole di biasimo e di condanna per la condotta del commissario Haller che ebbe l'incarico di provvedere all'arresto del pontefice; per verità che quell'uomo non fu pari alla delicatezza del suo mandato; e Pio VI, nel modo onde si comportò con colui, diede prova di una dignità che sembrò persino una deviazione dall'indole sua; ma sempre avviene che chi non sa usufruttare della buona causa, costituisce in un'apparenza di ragione anche chi è dalla parte del torto. Così, fu per colpa di quel volgarissimo commissario francese se un fremito irresistibile d'indignazione corso nel sangue degli uomini intemerati pel modo onde fu eseguito un disegno necessario, modificò i giudizj anche sul disegno stesso, e non lasciò veder più chiare le cagioni prime, e diede pretesti e capi d'accusa ed armi ai nemici del sincero progresso, e preparò le vie delle storiche menzogne. Ma, lasciando il papa, ripercorriamo la città di Roma nei giorni più agitati della sua vita repubblicana, per far tesoro d'esperienza, e per vedere come l'ottimo può diventar pessimo, se una cauta prudenza non governa le cose, e se gli uomini non si preparano con sapienza a godere dei frutti della libertà.
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