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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOTERZO
    • II
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II

Il palco scenico, dove gli attori della compagnia Rosier dovevano declamare stentoreamente i versi di Voltaire, per farsi sentire da chi stava sulle più alte gradinate, non era che un impalcato di forma ellittica, inscritto nella proporzione di due terzi nell'ellissi dell'anfiteatro. Era dunque un palco che si vedeva da tutti i lati, senza siparj, senza scenarj, senza nulla di tutto ciò che, comunemente, costituisce un palco scenico. Bensì quell'impalcato, dovendo rappresentare il Campidoglio, aveva delle gradinate di legno, e dei portici rivestiti di tela imitante il marmo, e sotto agli archi, delle statue con pallj di canovaccio spalmati di gesso e di creta. Gli attori dovevano aggirarsi tra quei portici, intorno a quelle statue, discendere da quelle gradinate. Per verità che c'era qualche cosa di nuovo, e, se vogliamo, anche di più naturale del solito. La cosa poi che più di tutto giovava a crescere quel che si chiama l'illusione teatrale, e a ravvicinare più che mai il finto al vero, era la statua colossale di Pompeo, quella veramente, ai piedi della quale, come voleva e vuol la fama, venne ucciso Giulio Cesare, e che è la stessa che oggi ammirasi ancora in una delle sale del palazzo Spada. Essa era stata collocata presso al portico costrutto appositamente; e l'importanza che le si volle dare, e le lettere cubitali con cui nell'avviso al pubblico venne accennata, quasi ci trarrebbe a credere che siasi voluto rappresentar la tragedia per usufruttare la statua.

Ma, domanderà taluno, i signori comici che dovevano per un pajo d'ore trasmutarsi in Giulio Cesare e Marcantonio e Bruto e Cassio e Dolabella, da qual parte, in mancanza di quinte, dovevano uscire per fare i colpi di scena con qualche illusione degli spettatori? A questo bisogno si adempì con più naturalezza e spontaneità che non si crederebbe; sotto all'impalcatura delle gradinate e dei portici avevano il loro dietro le scene, e là aspettavano il momento opportuno di uscire sul palco e far la loro parte.

Lo spettacolo finalmente incominciò in mezzo al silenzio generale, che durò pochissimo; perchè dei trentamila spettatori accorsi, ventimila, ad essere cortesi, non comprendevan nulla; altri perchè non capivano il francese, altri per l'inevitabile rumore che vi si faceva. I ragazzi del popolo, che s'eran arrampicati fin sulle ultime gradinate, dopo essere stati attenti un momento, per l'istinto della novità, al comparire di Antonio, che aveva il manto turchino filettato in bianco, e di Giulio Cesare che lo aveva color porpora, si diedero a schiamazzare senza tanti rispetti, e a correr innanzi e indietro, a sfoggio di agilità e di coraggio, sui cornicioni praticabili. Ad ogni modo. Antonio potè declamare la prima parlata:

César, tu vas regner...

sino al verso:

Qui peut à ta grande âme inspirer la terreur?

e Cesare potè rispondere quasi d'un fiato:

L'Amitié, cher Antoine:

e attraverso a sessanta e più versi conchiudere, abbracciando Antonio:

Ta promesse suffit, et je la crois plus pure

Que les autels des dieux entourés du parjure.

Quelli tra gli spettatori che avevano un posto, abbastanza vicino per sentire le voci, e intelligenza sufficiente per afferrare il concetto delle parole, e, quel che più importa, la conoscenza della lingua francese, ascoltarono tutta la prima scena senza annojarsi e senza divertirsi, e senza dar segni nè dell'una cosa nè dell'altra. Necessariamente, quand'anche Giulio Cesare fosse stato rappresentato da Garrik, da Kean, da Talma, da Modena, un buon repubblicano non poteva applaudirlo in coscienza, e meno ancora quello scellerato adulatore di Marcantonio. L'indifferenza continuò fino alla scena terza, quando Cassio, Cimbro, Cinna, Casca e Bruto entrarono in iscena, e schieraronsi innanzi a Giulio Cesare assiso sotto ad uno degli archi.

Bruto avrebbe dovuto uscire insieme cogli altri colleghi ed amici, chè non v'era nessuna necessità drammatica di far diversamente; ma Bruto era il primo attore della compagnia; doveva produrre un grande effetto soltanto col farsi vedere; uscì dunque ultimo, dopo qualche momento d'aspettazione ad arte prolungata. I battimani scoppiarono strepitosi, lunghi, susseguiti da migliaja di grida: Vive la république, vive la liberté, vive l'égalité. Perfino i seminudi birichini correnti e ricorrenti sulle cornici dell'anfiteatro, si arrestarono anch'essi schiamazzando, evviva! E Bruto, che non s'inchinò mai nemmeno a Giulio Cesare, fece un inchino a tutti costoro, e li ringraziò.

Cessato lo strepito e gli evviva, ricominciò la recita. Anche il Camillone, che pur non sapeva il francese, ma che aveva per interprete uno scultore di Parigi che da più anni dimorava a Roma, ci racconta che si sentì trasportato a tutto ciò che Bruto nella scena terza disse a Giulio. Aggiunge poi che l'entusiasmo di tutto il pubblico, anzi la frenesia, andò al colmo a quei versi onde si chiude, la scena:

Tout mon sang est à toi, si tu tiens ta promesse;

Si tu n'es qu'un tyran, j'abhorre ta tendresse:

Et je ne peux rester avec Antoine et toi.

Puisqu'il n'est plus Romain, et qu'il demande un roi.

Dopo una tal scena, non ci fu più interesse di sorta; e il primo atto si chiuse tra una specie di bisbiglio sedizioso, soverchiato dalla voce sonora di un uomo del Trastevere il quale, allorchè Cesare e Antonio uscirono dalla scena:

E che ve pigli un accidente, gridò tra le risate universali e le interrogazioni dei soldati francesi, che domandavano che cosa significasse quel motto.

Tra il primo e il secondo atto ci fu un intermezzo abbastanza lungo, il quale, pur troppo, per la nostra storia, ha un interesse assai più grave che la recita del Giulio Cesare e l'esposizione della statua di Pompeo Magno.

In mezzo all'ufficialità, presso a Massena e al generale Cervoni, sedeva colui che il lettore forse desidera di conoscere da un pezzo: il colonnello Achille S...

Vestiva la divisa d'ussaro, tutta coperta di argento; stava seduto militarmente, senza tanti rispetti forse per essere seduto a mal agio, teneva con un braccio il ginocchio della gamba destra, che era piegata sin quasi a toccargli il mento; la gamba sinistra, stretta nei calzoni rossi e negli stivali succinti, si stendeva quant'era lunga a toccare il gradino sottoposto. Un raggio importuno di sole, attraverso una tenda stata innalzata per far ombra, annaspandogli la vista, lo aveva costretto a piegare innanzi il caschetto piumato e a tirar l'ala fin quasi sul naso. Della faccia si scorgevano perciò soltanto i baffi enormi congiunti a delle enormi fedine, che finivano precisamente alla regione della bocca, lasciando rasa la parte inferiore delle mascelle e il mento. Chi lo guardava dal basso in alto vedeva a girare di sotto all'ala del caschetto un pajo di pupille piene di lampo provocatore e protervo, al quale aggiungevano una tinta sinistra tutte le parti alterate della cassa dell'occhio, come di chi, non ostante una tempra robustissima, deve adattarsi a portare in qualche parte le impronte degli stravizj, delle veglie abusate, degli abusati liquori. Quell'uomo aveva allora quarantotto anni, ma non ne dimostrava quaranta, perchè la barba foltissima e perfettamente nera faceva le spese delle parti alterate del viso, e la corporatura lunga, elegante, forte, asciutta, come quella di un tigre reale maschio, con delle coscie atletiche di cui i muscoli si pronunciavano di sotto alla pelle di daino tinta in rosso, faceva le spese di tutto il resto. Egli, durante l'intermezzo dal primo al secondo atto, senza cambiare posizione, teneva fisso lo sguardo, dove lo tenevano fisso quasi tutti gli spettatori che si trovavano presso a lui o in quel raggio di veduta. Ciò che attirava quegli sguardi e provocava le domande, i discorsi e i commenti di tante persone, erano due persone. È quasi inutile il dire chi fossero. Il Baroggi, in completa divisa di capitano dei dragoni, a non molta distanza del colonnello S..., stava seduto vicino ad un milite, che a tutta prima sembrava un giovinetto, ma che ciascuno, dopo un'occhiata, riconosceva benissimo per una fanciulla; ed era infatti donna Paolina in assisa di dragone. Il veder fanciulle travestite militarmente, seguaci di mariti ed amanti, era un fatto così comune allora, che per sè solo non avrebbe fermato l'attenzione di nessuno. Ma se un vestito portato da una persona non fa nè freddo nè caldo, portato da un'altra può mettere l'entusiasmo, le vertigini e il capogiro anche negli uomini più calmi. Un effetto di questo genere produceva appunto su tutti la giovinetta compagna del capitano Baroggi. Donna Paolina, noi l'abbiamo già delineata in addietro; ma il ritratto si risolse piuttosto in quattro segni generali, tirati giù colla matita tanto per fermar la macchia e il contorno, che in un quadro disegnato e colorito coll'intenzione che debba essere messo in una cornice. Chi ci fece a voce la descrizione della figura di donna Paolina S..., ci mostrò anche la copia a lapis rosso di un ritratto che il giovine Pinelli fece di lei dal vero in Roma stessa. Quello che dunque noi stiamo per delineare colla penna, non è altrimenti una creazione di fantasia; ma una riproduzione esatta del vero, sebbene sia una copia di un'altra copia.

Il lettore si ricorderà, che, essendo essa della statura di un uomo comune, paresse eccessivamente alta come donna, anche per la piccolezza della testa, la quale, a misurar la figura intera, sarebbe stata un'eccezione a quella regola che decretò dover essere la settima parte del corpo umano. Ma tutta la persona s'illeggiadriva dominata da quella testina elegante, aerea; sebbene le forme del corpo, al primo, sembrassero sottili e quasi gracili, osservata poi parte a parte apparivano consistenti e ampie più di quello che comunemente suol presentare una fanciulla di diciott'anni. Vestita da dragone coi calzoni di daino stretti alle coscie, e gli stivaloni pei quali riusciva ancor più attraente il contrasto del piccolo piede muliebre, vi assicuro, i miei cari amici, i quali ponete ancora qualche interesse in questo genere di studj, che c'era da perdere la testa. Seduta sugli scaglioni del Colosseo, teneva così a bardosso su d'una spalla il mantello verde; aveva l'elmo in testa piantato assai indietro colla criniera che le cadeva sullo spallino sinistro. Colla gamba destra sormontata dall'altra stava movendo macchinamente il piccol piede. Quello però che più di tutto fermava gli sguardi altrui, era il volto dilicato e fino incorniciato dall'elmo; volto pallido con linee squisite, sebbene accentatissime, segnatamente alla linea del mento; con un giro di bocca di eleganza ineffabile e con un naso (il naso ha un gran posto nelle quistioni della simpatia), con un naso che, sebbene piccolo ed elegante, aveva però una forma speciale, perchè le nari si disegnavano più alte del setto divisore, il quale mostravasi troppo più di quello che avrebbe voluto la regola perfetta.

Ma che mestizia meditabonda e accorata era su quel volto; ma quante e quante cose pareva volesse dir l'occhio eloquentissimo ogni qual volta lo girava a guardare il suo Baroggi!

O perchè tanta mestizia? e non eran forse marito e moglie?

Oh no... non lo erano; non si volle che lo fossero... Avevan dovuto fuggire, e viaggiavano incalzati da timori e da sinistri presagi. Da Bologna eran giunti a Roma in quel dì che il Baroggi aveva ottenuto dal suo colonnello alquanti giorni di permesso.

E qui è necessario che col racconto noi ritorniamo indietro... Oh come la commozione ci assale pensando a quanto era avvenuto, a quello che avverrà di loro! Davvero che la fortuna scellerata par che provi una compiacenza crudele nel perseguitare quelle esistenze squisitamente infelici, che la natura, la sola natura, non la legge umana inesorabile, ha mostrato per mille indizj d'avere voluto espressamente avvicinare e legare in nodo non dissolubile.

 




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