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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOQUARTO
    • II
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II

Nella sala delle Cariatidi, non al tutto allora compiuta, ma così ornata di velluti e veli e frange auree e festoni e fiori, che a nessuno appariva qual parte di essa avessero lasciato in sospeso l'architettura e le arti sorelle, fervevano le danze, ma fervevano più nei cuori caldissimi degli ufficiali e delle dame sospiranti in segreto agli spallini ed ai petti onorati di aquile ferree, che nel muover dei passi misurati a convenzionale lentezza. La musica era diretta da Alessandro Rolla e dal Pontelibero.

I vecchi, che erano vivissimi nel 1810, e vivono ancora oggi, e tennero dalla natura una tempra così robusta, e il tubere della giovialità così pronunciato, e pilori a macina di costruzione così prodigiosa che ancora s'arrischiano a vegliare ad ora tardissima; e se c'è una festa che esca dalla sfera comune, son là pronti in cravatta bianca prima dei giovani ad assaporarla, ci assicurano colle mani sul petto, che se le beltà femminili, per qualità e quantità, sono oggi in una condizione ancor molto prospera, mezzo secolo fa fiorivano con insuperabile rigoglio; ma sopratutto ci assicurano che oggidì la razza grande è quasi spenta affatto la razza delle donne, vogliamo dire, dai colli e dalle braccia di Giunone; o che, volendo lasciare in pace le olimpiche deità, potrebbero servire allo statuario per modellare qualcuna delle virtù teologali.

Di quel tempo splendeva una Falchignoni, che poi fece da Semiramide in teatro per usufruttare i grandi occhi e il naso d'antica perfezione e le ineffabili spalle; splendeva una Doria alta trentasei oncie, come una cavalla normanna; splendeva o, per dir meglio, nereggiava una R..., che al pari di Cleopatra avea fermata l'attenzione di Cesare. Splendeva una donna che vive ancora, e serba nella faccia settantenne, più che l'arco di Tito e di Costantino, le prove irrefragabili d'una sontuosità senza esempio. Ella partorì a tutto vantaggio delle arti belle un'inclita figlia, che proseguì poi alla sua volta il lavoro e le benemerenze materne.

Splendevano due contesse, il cognome delle quali cominciava dalla lettera A..., sacerdotesse assidue alle are di Cipro, e velate di devota incontinenza nei riti notturni della pallida Diana.

In quella parte della sala delle Cariatidi, che veramente poteva chiamarsi il dipartimento olimpico della reggia, circondata dalle dame di palazzo, che erano la marchesa Parravicini, la contessa Carcano, la contessa Montecuccoli, la contessa Gallo d'Otimo, la contessa Aquila, sedeva la viceregina principessa Amalia, leggiadra e soavissima d'aspetto:

Novella speme

Di nostra patria, e di tre nuove Grazie

Madre e del popol suo; bella fra tutte

Figlie di regi e agli immortali amica;

come allora, ad onta dei rancori col vicerè e dell'opposizione che esercitava contro il governo imperiale, aveva dettato Foscolo inspirato e placato dalla bellezza e dalla virtù.

Affollatissimi intorno a quel gruppo di stelle si vedevano i senatori, i conti, i baroni, i commendatori di fresca data. Dei senatori si distinguevano Veneri, Boara, Prina, Borioli arcivescovo d'Urbino, giovane di bell'aspetto, trasmutato nelle vesti in modo che di vescovile non mostrava più nulla se non forse il bianco della camicia trinata; Boara e Brême portavano il gran cordone della corona di ferro. Cavalieri recentissimi erano il marchese Trivulzi, il cugino del ministro Prina, che era provveditore del liceo di Novara, il ciambellano Martinengo, i professori Borda e Tamburini brevettati tutti nella grande sfornata dell'ottobre 1809, insieme con tanti altri che avevano avuto il merito di essere arrivati in tempo. A costoro e dalla sala e dalle tribune guardava la curiosità maschile; ma la femminile pareva concentrasse il fuoco collettivo delle sue pupille sull'alta maestosa figura del pittore Giuseppe Bossi, che in assisa di panno color caffè a bottoni d'acciajo volgeva la parola ad un ometto piccolo, tutto vestito di nero con eletta semplicità.

Il pittor Bossi poteva contare trentadue anni, e quantunque fosse tanto trasandato nel vestito, che comunemente lo chiamavano il foldone, era caro alle dame; caro tanto, che i mariti ringhiavano sordamente alla sua comparsa come cani sospettosi. Ma egli era bello di una bellezza all'antica, in istile greco-romano. Portava i capelli alla brutus, fitti, lunghi, ricci, fulvo-cupi, cadenti a ciocche pittoresche sulla fronte fino a toccare la regione dei sopraccigli, che aveva folti e piegati in così elegante arco, come se Fidia ci avesse messo lo stecco. E come augusto era l'arco del sopracciglio, insigni erano la linea del naso e i contorni della bocca e del mento; dalla qual cosa ognuno può farsi capace guardando uno studio fatto sul vero dal pittore Appiani. Ad una bellezza così eccezionale dava risalto, e fors'egli lo sapeva, la negligenza medesima che metteva nell'acconciatura; negligenza portata a tal segno, che molti sospettavano costasse molto pensiero precisamente a lui che ostentava di non pensarci; ma anche noi, ai nostri giorni, abbiamo conosciuto un elegante giovane, che poi uscì dalla folla, il quale faceva tali studj sulla negligenza del vestito, che tutti i giorni rinnovava sempre lo stesso sbaglio nell'abbottonarsi il bianco panciotto alla Robespierre.

Con tutto ciò le fisiche qualità del pittor Bossi non avrebbero bastato a mettere il capogiro nel bel sesso, se non ci fosse stata in lui quella prodigiosa versatilità di intelletto e di attitudini, che ne costituivano un'individualità veramente distinta. Dopo Leonardo, sebbene in una sfera meno eccelsa, egli fu il primo fra gl'illustri italiani, che abbia rappresentato in sè solo i caratteri di cinque o sei uomini. Pittore, poeta, scrittore, oratore, musico. Come pittore ci diede il disegno del Parnaso; come scrittore i suoi studj d'alta critica intorno a Leonardo; come oratore i suoi discorsi accademici; come poeta, segnatamente nel vernacolo, fu emulo di Porta, e tale emulo che Porta medesimo ne ingelosì; della musica sapeva quanto potea bastare per innestare sul piano delle variazioni leggiadre a quelle poesie che, nel crocchio amico e per puro passatempo, improvvisava declamando.

A ciò si aggiunga una vena inesauribile di epigrammi arguti e di buon genere, una grande scorrevolezza di spirito, un fare penetrante e lusinghiero, un'amabilità continua. Ma rare volte è inamabile chi fu il prediletto della natura e della fortuna. Ci vorrebbe un'indole da cannibale per essere arcigni e rozzi sotto alla pioggia dei dolci sguardi e dei cari sorrisi e delle lodi e dell'ammirazione universale. Diciam questo perchè non si creda che noi facciamo il panegirico al pittor Bossi, il quale aveva poi un gran difetto, quello di lasciarsi troppo facilmente vincere dalle continue tentazioni; anzi se ne gloriava e vantava, e ci annetteva tanta importanza, da tener nota delle sue più minute avventure e speranze amorose, in un diario ch'egli giorno per giorno scriveva, e che noi abbiam potuto vedere. Eccone un saggio: Questa sera, al teatro della Scala, nel corridoio dei palchi, ho baciato la marchesa P..., ed ella mi strinse fortemente la mano: All'erta adunque e avanti. La moglie del comandante Baraguais d'Hillier è tanto bella e cara quanto è odioso il marito. Ieri sera mi ha pregato e ripregato di lasciarmi rivedere. Io dunque la rivedrò, ma non per niente. La principessa D.... di Roma fu ieri la regina della festa. Che maestà, che orgoglio! Mi si dice che sia invincibile; ma altre fortezze capitolarono, ed io le ho da fare il ritratto. Esco adesso dalle stanze della Grassini divina. Chi me lo avesse detto! Ed ora sono cognato di sua Maestà.

Non oziosamente ci siam diffusi nel parlare del pittor Bossi; anzi preghiamo il lettore a tener nota di quanto abbiam detto, per tutto quello che accadrà in avvenire. Ma egli continuava a parlare col suo amico e collega, il cav. Zanoja, canonico di S. Ambrogio, predicatore, professore d'architettura in Brera, e poeta satirico. La saetta dell'epigramma mordace e l'acredine della satira gli si vedevano in volto, segnatamente nel labbro inferiore più sporgente del superiore.

Sua Altezza pare di buon umore, diceva Bossi.

Tutte le cingallegre son liete.

Egli non ha motivo d'esser triste.

Colla sua testa e col suo cuore no.

Voi alludete al divorzio cui fu costretta sua madre; ma già era indispensabile.

Lo so, ma non toccava a lui a far in Senato l'elogio dell'imperatore perchè ripudiava la madre.

Ora, credete voi che il divorzio avrà per tutti un posto nella legislazione?

Toccherà al ministro Prina a pensarci.

Volete dare al dicastero delle finanze gli attributi del culto?

Quando occorreranno altri danari, e col sistema corrente non c'è oro che basti, il ministro Prina consiglierà la sanzione del divorzio; e valutando la consolazione di tanti mariti liberati una volta per la virtù d'un paragrafo dai ceppi sacramentali, metterà sulla universale consolazione tali tasse da empire due erarj. Avete visto come egli ha fatto l'anno scorso colla caccia? Prima era un privilegio di pochi, che nessuno osava toccare; ma al ministro occorrendo danari, Il tempo dei privilegi è finito, proclamò; tutti gli uomini sono eguali, tutti devono dunque andare a caccia, e mise una tassa enorme sulle licenze. Quando una misura finanziaria può comparire in maschera di salute pubblica e di umanità, è certo che prospera. Così il divorzio entrerà nel regno italico sotto il braccio del ministro di finanza e il settimo sacramento riceverà scacco matto dall'erario esausto. E chi sa che il primo ad imitare S. M. non debba essere Sua Altezza?

Bisogna bene che il divorzio gli abbia dato alla fantasia, per dimenticare così indegnamente i riguardi dovuti alla propria madre. Se poi al fatto del divorzio aggiungete l'aumento di un milione all'anno con cui S. M. gli pagò la perfida mediazione, è facile a comprendere l'allegria che brilla sulla faccia del vicerè.

Caro cavaliere professore, non deve esser questa la ragione, io ci vedo altro. Ma io posso penetrare in luoghi che son vietati a un canonico di S. Ambrogio. Or fatemi un piacere. Per qualche tempo tenete d'occhio il vicerè e la contessa Aquila, che oggi ha ricevuto la nomina di dama di palazzo, e sappiatemi dire il vostro parere. Or va ad avviarsi una monferrina, e il vicerè sta invitando la contessina a volere ballar seco. Credetemi che l'allegria di questa notte non gli deriva nè da Giove, nè dal tesoriere Plutone.

Fauni, Satiri, Silvani, Dei cornuti... e che cosa dirà il conte Aquila.... il Vice-Lucifero?

L'osso da rodere sarà più duro degli. altri. Ma l'orgoglio del conte lo salverà da qualunque sospetto.

Ma guai se il sospetto romperà nel suo orgoglio!

Io mi meraviglio però come esso abbia concesso alla propria moglie di accettare la carica di dama di palazzo.

È presto pensato.

Cioè?

Perchè facesse più rumore il suo rifiuto alla carica di ciambellano. Siccome poi è voce che circola in piazza, che il vicerè è il gallo della Checca, il conte avrà pensato di stornare la taccia di marito geloso coll'ostentare noncuranza e disprezzo. Costui è giovane della più strana e straordinaria natura. È un miscuglio di Catilina e di Giulio Cesare. Ora ei si tiene in disparte dalla cosa pubblica, rifiuta cariche, respinge onori per il solo motivo che non è vacante un posto d'imperatore. Per quello presenterebbe volentieri le sue petizioni. Io lo conosco benissimo.

Lo conosco anch'io assai bene; e tanto che, se sua moglie fosse mia sorella o mia figlia, io vivrei dì e notte in continuo timore.

Vada per la moglie, ma la cosa più pericolosa è il nascere suoi figli.... il suo primogenito lo ha provato.

Possono esser calunnie.

Lì c'è il dottor Monteggia. Interrogate lui. La cosa fu messa a tacere; ma quel che è avvenuto non si può negare. Pare che il conte abbia voluto imitar Giovanni de' Medici, quando per interrogar l'avvenire ed esplorare a che cosa era destinato il suo unico figliuolo, ingiunse alla moglie di gettarglielo giù in braccio dalla finestra. Ma se Cosimo bambino fu accolto sano e salvo dalle braccia paterne, perchè doveva diventare il Tiberio della Toscana, al figlio del conte non toccò la stessa fortuna.

Il conte però non fece come il Medici...

No; ma gettando egli stesso in alto il bambino, come se fosse una palla, e ripetendo, ad onta degli strilli infantili, il giuoco spietato, venne la volta che gli cadde in terra, e là giacque.

Mentre costoro parlavano, avendo il maggiordomo di corte fatto segno al direttore d'orchestra Alessandro Rolla che annunciasse una monferrina, primo il vicerè, dando braccio alla bella contessina Aquila, s'avanzò nel mezzo della sala per aprire la danza.

Beauharnais, quantunque contasse appena ventinove anni, non aveva nessuna fisica attrattiva; era già calvo, era atticciato. Ma, per compenso, aveva modi gentili e insinuanti, e una grand'arte nel darla ad intendere, specialmente alle donne. Era francese in tutta l'estensione della parola, con un viso a zigomatici rilevati e a naso rivoltato, di quelli che tanto abborriva l'italico Alfieri; ma, per sua fortuna, le donne, non essendo sempre profonde in estetica e lasciandosi lusingare troppo facilmente dalla possanza, dalla gloria o dalle sue apparenze, dalle vesti pompose, lo giudicavano assai favorevolmente. Egli poi aveva la prerogativa di essere, sul terreno d'amore, un cacciatore instancabile; ben potevano le beccaccie e le beccaccine deviare, nascondersi, tentar voli subdoli, fargli perdere interi giorni; egli non abbandonava la preda, finchè veniva il punto d'aggiustar bene il tiro, e di lasciar la fuggitiva con qualche ala infranta.

Queste sale, contessa, posso giurare d'averle aperte espressamente per voi (così nel suo francese diceva Beauharnais alla contessa Amalia). In febbraio io vi attesi invano tutta la notte al ballo che mi diede il Senato: però, quantunque fosse mia intenzione di non dar feste altrimenti in quest'anno, perchè devo partir subito per il matrimonio di S. M., pure ho cambiato consiglio, sapendo che la vostra novella carica vi costringeva a intervenire alle feste di corte.

Se sono venuta, disse gentilmente la contessa, è perchè mio marito me lo ha permesso.

Se vostro marito ve lo ha permesso, è perchè non poteva impedirlo.

Poteva impedirmi di accettare la carica di dama di palazzo.

Io dunque non ringrazierò che vostro marito.

Oh.... ma non fate, altezza, ch'io debba lamentarmi della sua condiscendenza....

Il vicerè si sentì esaltato da queste parole, dando loro la più ampia interpretazione.

Dallo sguardo che solo aveva insinuante ed espressivo, gli traspariva l'intima gioja. Nel passare in mezzo alle vive cariatidi dell'impero e del regno, volgeva parole amabili a tutti e loro comunicava quelle notizie che potessero dar piacere e soddisfazione.

Eccellentissimo signor duca, diceva, passando dinanzi al gran ciambellano Litta, da questo momento ho finito di chiamarvi marchese. Il governo di S.M. ha riconosciuta la dote che voi avete assegnata al ducato cui foste innalzato fin dall'ottobre passato. Caro marchese Trivulzi, oggi è venuta per voi la nomina di ciambellano; preparate le chiavi. Il signor conte Annoni permetterà che lo saluti commendatore; e via su quest'andare.

Ma Rolla diede il segno, e il vicerè aprì la monferrina. Assai presso al vicerè e alla contessa Aquila, trovavasi madama Falchi, atteggiata anch'essa per la danza. Il pittor Bossi, amico suo di casa, staccatosi dal collega Zanoja, s'era messo a sedere al posto di lei, intanto che ella erasi alzata. Appena la monferrina finì, il pittore fu presto a levarsi per restituire il posto a madama.

Ma, non ho volontà di sedere, essa gli disse; piuttosto accompagnatemi a fare un giro per le sale. Se il pittore, ch'era ottimo di cuore, avesse saputo di che si trattava, certo non avrebbe accompagnata quella donna. Però non lamentiamoci della sua condiscendenza fatale; la Falchi in ogni modo avrebbe trovato l'accompagnatore. In quanto a noi, stiamo attenti a ciò che sarà per fare colei, che fu davvero in quell'occasione:

L'infernal dea ch'alla vedetta stava.

 




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