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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOQUARTO
    • III
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III

Mentre la pantera, fiutata l'orma della gazzella, si appiatta adocchiando ed aspettando, diciamo qualche cosa della contessa Aquila; teniam conto de' suoi diporti in casa e in collegio; interroghiamo i suoi maestri, la sua governante; tentiamo di eccitare il suo confessore a svelar qualche segreto; sopratutto vediamo di far cantare qualcuna delle sue più intime amiche, di quelle che dall'infanzia l'accompagnarono fino ai quindici, fino ai vent'anni.

Che interesse desterebbe il nostro racconto se ci fosse concesso di manifestare il nome e cognome di questa nuova eroina! Quando si pensa che vivono ancora tante persone che l'hanno conosciuta più o meno dappresso, ed è infinito il numero di quelle che la conobbero di vista, è un dolore per noi, che siamo artisti nemicissimi del convenzionale, l'essere costretti a trattare questo personaggio come se fosse un ideale, mentre fu vivo e vero e realissimo. Ma se è un dolore, non è un ritegno; anzi, per consolarci, è un'occasione di più per lasciar libera l'uscita a tutta quanta la verità e per mettere allo scoperto tutti i segreti. Però, se non potrà essere appagata la curiosità del bel mondo, troverà maggior pascolo il filosofo investigatore, che, al pari del medico, ha bisogno di conoscere i più minuti elementi che produssero ed esacerbarono malattie ed ammalati celebri.

Cominciamo intanto dal dire, che il titolo di contessina, essa lo trovò in casa, bell'e fatto da molti secoli. Il suo casato, se non ricchissimo, era cospicuo. I suoi genitori, tanto il maschio che la femmina, furono buoni, per taluni anche ottimi, e di costumi assai rigorosi: così rigorosi, da non parer contemporanei di quella generazione lieta e gaudente che inventò il topé e la cipria. Le amiche della fanciulla, che vissero con lei gli anni dell'infanzia nel monastero di S. Giuseppe (d'una delle quali noi abbiam conosciuto il figlio, che dalla madre tenne molte notizie), furon tutte d'accordo nel dire, che indole più mite, più soave, più angelica della sua non ci fu mai; aggiungendo però che tutte queste qualità erano mantenute nel loro più perfetto stato di conservazione da una gran dose di ghiaccio nativo: press'a poco come avviene di alcuni prodotti vegetali, che, se non si tengono in fresco, si corrompono.

Non era per altro del parere comune la madre di quel tal figlio che noi conoscemmo, la quale per combinazione fu la sua amica più intima e più costante. Per suo mezzo potemmo raccogliere che la calma serafica era tutta nell'apparenza di quella creatura, ma di sotto all'onda gelata, non ostante una gran bontà e gentilezza di natura, ferveva e bolliva e scorreva la lava. Di questo però il mondo non ne seppe nulla. Bensì quand'ella fu uscita di monastero, e dopo che, avuta in casa una educazione di perfezionamento più varia, più ampia e più squisita, toccò i quindici anni, fu generale la voce che, tra le adolescenti da marito, non v'era in tutta Milano fanciulla più educata, più bella, più santa. Ora, in quel periodo appunto, tra i giovani patrizj milanesi, per vigore d'intelletto, per suppellettile di cognizioni, per energia di volontà, per prepotenza d'orgoglio aveva un assoluto primato il giovane conte Aquila. E poichè in tutto ei voleva essere il primo mise gli occhi su quella che si diceva essere la più eletta tra le maritande del patriziato milanese.

Ma più che tutte le distinte qualità della contessina, ciò che davvero aveva determinata la scelta del conte Aquila, era la giovinezza di lei. Tra le fanciulle da marito ch'ei conosceva degne di lui, era la sola che avesse compiuto da pochi giorni gli anni quindici, l'età legale. Se la legge, come in Sicilia, in Egitto, in Arabia, avesse permesso di sposare una fanciulla a dodici anni, egli avrebbe scelta quella che non avesse sorpassata quell'età. E a ciò era portato, non già perchè fosse amante dell'eccessiva giovinezza: il suo gusto lo portava anzi a vagheggiare la donna che, al pari di una mela e di una pesca, avesse tocca la più completa maturanza; ma sì perchè, conoscendo il mondo e gli uomini ed anche le donne, pensava che, a sorprendere in sui primi albori una rosa sbocciata di notte, ancor madida delle gemme della rugiada, si poteva quasi esser certi che altri non aveva potuto accostarvi le nari.

Era sempre l'orgoglio che lavorava; era il tormento del primato. Il conte poneva lo sguardo alla futura sua sposa, press'a poco come un bibliomane lo pone a un libro, che è avido di acquistare non già per la materia che contiene, nè per il pregio del dettato; ma perchè sa che dell'edizione principe, fatta in pochi esemplari e involata dal tempo, è l'unico che sia rimasto. Quando una ragazza che va a marito è destinata a far la figura di un libro in cartapecora, il lettore può ben comprendere che nemmeno la prima luna abbonderà di miele.

Ora, per disgrazia della giovinetta, il signor conte Aquila, ricco di tutte le doti che possono rendere appetitoso uno sposo, più ai padri e alle madri, già s'intende, che alle figliuole, chiese la mano di lei, che senza un ostacolo al mondo gli venne concessa dai parenti, e così fu conchiuso e stretto il matrimonio; matrimonio modello, perchè, come un contratto di compra e vendita, come un atto ipotecario, come un passaporto, recava tutte le firme e tutti i bolli voluti dall'autorità.

Gli uomini che portarono dalla natura il dispotismo e la gelosia, ed hanno sì poca fiducia nelle donne, che se la civiltà lo permettesse, adotterebbero volentieri il sistema orientale degli eunuchi custodi e spie; o rimetterebbero in vigore le consuetudini dei baroni del medio evo, che chiudevano sotto chiave la fedeltà muliebre, hanno sempre fatto malissimo i loro conti. Essi non hanno pensato, che non è il possesso materiale della donna che importa; ma il suo affetto. Ora l'affetto non s'impone, non s'imprigiona, non s'ipoteca; come tutti gl'imponderabili, esso non può essere contenuto in nessun recipiente. I poeti e gli storici ci hanno assicurato, che la donna non fu mai tanto idealizzata, rispettata, idolatrata come nel medio evo, perchè in quel tempo s'introdusse l'invenzione delle così dette regine delle feste e dei cuori. Ma se i nomi sono speciosi e lusinghieri, e se le apparenze sono belle e buone, cari i miei poeti sempre pronti a scaldarvi d'entusiasmo, storici egregi sempre corrivi a far dei sistemi, abbiate la bontà di considerare che invece non fu mai tanto materializzata la donna come dal giorno che, per assicurare la loro fedeltà corporea, fu messa la ceralacca sul loro pudore, come se si trattasse di uno scrigno da consegnarsi al tribunale. Non è così che si rispetta la donna, signori storici e poeti.

Gli uomini del mondo romano, che voi avete condannati come dispregiatori e conculcatori della dignità delle donne, si fidavano, o fingevano almeno di fidarsi, della loro parola. È un bel tratto di cortesia. Le donne, sul terreno dell'amore e della fedeltà, eran le sole custodi responsabili di sè stesse. È a questo patto che si rispettano. Ora il conte Aquila era un vero barone del medio evo. In attestato della più profonda devozione all'onore di sua moglie, se avesse dovuto fare un viaggio armato in Terra Santa, avrebbe prese tutte le misure per assicurarsi che non sarebbe stato violato il casalingo tesoro. Ma il signor conte, al pari di qualunque cavaliere della spedizione di Palestina, faceva i conti senza l'oste. Considerando la donna come se fosse una statua d'inestimabile pregio, ma senz'anima e senza sangue, non pensava che la fedeltà si può rompere con un desiderio, con uno sguardo; non parliamo dei baci, Dio ci liberi; e che i desiderj vengono e che gli sguardi si comincia a mandarli in giro allora appunto che si sente il peso delle catene. Non c'è nessuno che più del prigioniero sia avido di cielo e d'aria. Ben è vero che il proverbio: l'occasione fa l'uomo ladro, consigliò molti mariti a non lasciar mai sole le proprie mogli, a vegliare dappresso, a farle vegliare. Ma se questo proverbio può dar molto da pensare, non fa minor senso quell'altro: la proibizione genera l'appetito. Comprendiamo assai bene che un marito, collocato tra questi due proverbj, sta peggio di un soldato collocato tra due fuochi. Ma bisogna pur pensarci e prendere una risoluzione. Il conte Aquila non ruminò che il primo proverbio, e a quello s'attenne, e non ascoltò che le sue inspirazioni, e qui fu il danno. Quanti guai di meno se da filosofo indulgente, che vive e lascia vivere, non si fosse regolato che col secondo!

Quando la contessina entrò sposa nella casa di lui, oltre ad essere giovine come l'acqua, aveva tutte le virtù di cui può andar fornita una fanciulla. Ma, se la soave timidezza del suo contegno poteva far sospettare quel ghiaccio di cui abbiamo parlato, il ghiaccio non c'era. Noi confessiamo di portare una avversione speciale, accanita, per tutti gli uomini, per tutte le donne che son bravi e virtuosi perchè sono gelati, che non bevono perchè non hanno mai sete. Ora la contessina aveva la sua sete, come il suo sangue aveva i suoi bollori, come il suo cuore i suoi sussulti e i suoi slanci. È appunto per questo che ella era una cara fanciulla; una fanciulla, cioè secondo natura, e secondo la più perfetta e la più florida natura. Tutto però era in germe, nulla v'era di sviluppato. Quindici anni son pochi; e un marito che si piglia in casa una creatura da far crescere e sviluppare, se non ha una dose abbondante d'intelligenza e d'esperienza, ma sopratutto di bontà e d'amabilità, è un affar serio tanto per il coltivatore che per la pianta. L'intelligenza nel conte c'era, c'era l'esperienza; ma la bontà mancava affatto, e l'amabilità. Il conte era un uomo, lo ripetiamo, orgoglioso ed ambizioso; sempre tormentato dall'idea che in tutto il regno, per quanto girasse lo sguardo, non v'era un posto degno di lui; sempre pensieroso del fatto che, fin che durava quell'ordine di cose di cui Napoleone era stato il generatore e il padrone, la fortuna stava tutta per quegli uomini che erano sorti con lui e per lui. Codesto tormento ei lo sentiva tanto più forte in quanto non vedeva per allora nessuna nube, nessun lampo, nessun segno atmosferico che accennasse a un cambiamento di tempo. Il barometro segnava sereno costante. Guai per chi desiderava un temporale! Fantasticava ei dunque continuamente, trasportato da strani desiderj in campi ignoti; press'a poco come chi ambendo vivamente una prodigiosa ricchezza, pensa a fortune ed eredità, senza sapere da che parte gli possano venire.

Sempre pieno di queste idee, era meditabondo e cupo. Non era cortese se non con quegli amici che, tirati nel vortice delle sue idee, la pensavano come lui, e lo applaudivano quando, mettendo l'ipotesi d'una possibile caduta di Napoleone, con quella fantasia e quell'eloquenza che deriva dal pensiero più costante della vita, accennava a future combinazioni europee, alla caduta di tutti quelli che chiamava adulatori e satrapi e schiavi e vili. Una fanciulla di quindici anni che abbia un simile marito, si trova ben peggio che in monastero o in casa. Esso non si pigliava veruna cura della felicità della contessina: a lui bastava che fosse virtuosa, fedele, intangibile. Credeva che non avendo mai conosciuto il mondo non l'avrebbe desiderato; ma spesso la vegetazione prospera in sè stessa e per le occulte virtù della natura; ma il non aver mai provato le passioni prima di quindici anni, non vuol dire che non si debbano provar dopo, perchè l'isolamento non basta a prevenire dei mali, che sono sfoghi necessarj nella vita morale, come certi esantemi nella vita fisica. Il vajuolo può investire anche chi vive da molto tempo isolato dagli uomini; e spesso l'elemento venefico vien recato da regioni nemmen sospettate. E così fu della contessina. Se il conte avesse saputo da che periglio ell'era attesa, l'avrebbe piuttosto gettata nelle braccia di mille spasimanti volgari.

 

 




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