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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO PRIMO
    • II
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II

È dunque la fine del carnevale dell'anno 1750, e ci troviamo nella platea del Regio Ducal teatro di Milano, detto volgarmente il Teatrino. Mancano pochi momenti alle due di notte, le otto dell'odierno orario. - Le sedie della platea sono tutte quante occupate; il semicerchio che corre dall'ultima fila delle sedie alla porta d'ingresso è affollato. - Al davanzale dei palchetti s'affacciano dame e cavalieri; e succede, in una parola, tutto quello che avviene anche oggidì in que' dieci minuti che precedono l'incominciamento di uno spettacolo ne' nostri teatri. - Ma se in un teatro e in un pubblico sono perpetue alcune abitudini, non per questo si confidi un pittore di poter ritrarre lo spettacolo di quella sera, regolandosi con quello che vediamo oggi. - Il teatro Ducale, meno ampio del teatro Carcano, con quattro ordini di palchi, era sovraccarico d'ornamenti barocchi. - Volute in oro e vermicelli e ghirigori e nastri, colle indispensabili maschere della tragedia e della commedia, l'una trapassata in un occhio dal pugnale di Melpomene, l'altra colla bocca sghignazzante piegata in arco. - Il velario è un Febo in quadriga, a cui s'attraversa Diana colle bianche sue cerve, forse a significare la lotta in cui è impegnata la notte per tener lontano il giorno; il tutto nello stile di un allievo di Tiepolo, che abbia l'immaginazione e il colore e la pratica e i vizj del maestro, insieme al manierismo ed agli svolazzi del cavalier d'Arpino. - Il sipario rappresenta la primavera, trionfante sopra le altre stagioni, e coronata da Minerva; bel lavoro dei fratelli Galliari, che oggi farebbe arrossire i nostri contemporanei della tolleranza onde lasciano che tutti i siparj de' teatri in Milano offrano a' forestieri la più misera idea delle arti nostre. - Ma se un amante della pittura poteva congratularsi con quel sipario, un amante della luce doveva protestare contro il nebuloso crepuscolo che avvolgeva tutto il teatro. - Non v'era lumiera che pendesse dal velario; qualche luce soltanto usciva dall'interno de' palchetti, tutti messi sfarzosamente; e, prima che comparissero i ventiquattro becchi di fiamma al luogo della ribalta, gettavano intorno un poco di albore le candelette che alcuni, seduti in platea, tenevano fra mano per leggere il libretto dell'opera. - L'abitudine a quelle mezze tenebre aveva però avvezzate le pupille del frequentatore del teatro a vedere e ad osservare. Tutta la sala era piena; sui rossi, i verdi, i gialli, gli azzurri, e tutta la varietà delle gradazioni di questi colori, il fiordaliso, il pistacchio, il vigogna, il tortorella, l'isabella, il tané, il testa di pavone, ecc., onde in qualche modo aiutavano la poca luce le giubbe, le marsine, i gilets dei messeri buongustaj dell'opera, adagiati in platea, si distendeva uno strato tutto bianco, ed era la polvere di cipro di quelle seicento parrucche di varia foggia, e, come allora dicevasi, costrutte alla reggenza, a tre martelli, alla circostanza. - Se da questa nevicata che copriva tanta varietà di colori, si alzavano gli sguardi ai palchetti, il quadro si faceva più ancora stranamente pittorico. Era il tempo in cui le pettinature femminili, che già avevano cominciato a rialzarsi sotto alla reggenza, si spingevano a tale altezza, che bene spesso una testa cessava di essere la settima parte del corpo umano. - La contessa Marliani, bellissima ed elegantissima fra le eleganti di Milano, quando comparve al suo palchetto in second'ordine vicino al proscenio, mise in mostra una pettinatura che dalle tempia si alzava quasi un braccio, allargandosi come una piramide capovolta, sulla piatta superficie della quale erano fiori e frutti, e due tortore imbalsamate che si beccavano gentilmente. Codesta acconciatura veniva denominata il puff di sentimento. E se in quella sera il puff della bella contessa Marliani superava tutti gli altri puff, la gara aveva generata una tale varietà negli oggetti accumulati su di essi, che sarebbe soverchio tenerci dietro colla descrizione. - Pappagalli, aironi, uccelli di paradiso, foglie e fiori e frutti disposti in modo che una testa pareva un capitello corinzio; le quali mode, se piacevano alla maggior parte, tanto che venivano seguite ansiosamente, non per questo cessavano di far ridere gli uomini di gusto e quegli altri che ridono anche delle cose serie.

- Che ve ne pare delle nostre Milanesi, diceva un giovinotto colla sua bianca parrucca ad ala di piccione, ad un altro che gli rispondeva in dialetto veneziano.

- Non sono nè più belle nè più pazze delle veneziane.

- Ma chi è quella dama là che porta la passionata?

La passionata era una delle tante denominazioni che si davano alle mosche e a' nei onde le gentildonne facevano, quel che si direbbe, la loro professione di fede; la passionata era la mosca che si portava all'angolo dell'occhio, la sfrontata quella che stava sul naso, la civetta al labbro, la galante alla pozzetta, l'assassina all'angolo della bocca. E chi o davvero o per bizzarria voleva o intendeva di avere le qualità morali rispondenti a quegli aggettivi, portava una di queste mosche, come un tempo i cavalieri erranti recavano i motti sugli scudi. Il più delle volte però non erano che simulazioni, onde chi avrebbe dovuto aver l'assassina portava l'appassionata, e sempre poi quelle gentildonne cangiavano posto alle mosche, onde tutte quante in una stagione riuscivano e passionate e galanti e civette e sfrontate e assassine.

Ma que' due, tenendo fissi gli occhi in quella che recava all'occhio la passionata, e continuando un discorso incominciato: - Colei è una delle nostre più infocate dilettanti di musica; del resto non v'ha bella signorina in Italia, la quale, nel ricevere la visita di un giovane cavaliere, dopo aver fatto pompa delle sue grazie, non passi al cembalo a cantare un'arietta per rendersi più amabile. - Quella dama là della passionata pigliò molti alla rete cantando l'arietta, - Se tutti i mali miei - ed è così bizzarra che, quando di recente gli fu presentato un giovanotto per essere il suo cavalier servente, così lo interrogò sulle qualità che lo dovevano far degno di quel posto: Signore, sapete la musica? - No, quegli rispose. - Ebbene, ripigliò la dama, andate ad impararla e poi venite a ritrovarmi. La musica nel mondo galante è divenuta indispensabile; senza di essa un amante corre sovente pericolo di cadere in disperazione per non essere in istato di cantare un'arietta. - E quel cavalierino che ora siede rimpetto a colei, fu respinto più volte dalla crudele, ed egli sarebbe morto se non avesse imparato a memoria quell'aria del Buranello:

Ah che nel dirti addio,

Cara, morir mi sento...

che gli salvò la vita - e così press'a poco fan tutte... E qui cangiando discorso, il giovane di Milano nominò a quel di Venezia tutte le principali beltà che in quella sera mostravansi al palchetto: la marchesa Serbelloni con puff a nastri azzurri, la marchesa Dadda con puff ad airone, la marchesa Litta con puff a capitello corinzio, la contessa Borromeo del Grillo senza puff, ma con un sistema di riccioni altissimo e intrecciato con dieci braccia di nastro, e la contessa Verri e la marchesa Beccaria, ecc., tutte insomma le arcavole delle nostre più distinte patrizie. - Ma già i suonatori, incipriati anch'essi, eran tutti al loro posto in numero di trenta, e il primo violino, signor Belletti, aveva dato un primo colpo d'archetto. Il maestro Galuppi soprannominato il Buranello, il quale era il compositore della Semiramide riconosciuta, stava già alla sua spinetta, in tutto quello sfarzo di vestito che era la caricatura di tutte le caricature che si trovavano in teatro. Seduto tra il contrabbasso e il violoncello, aveva dietro di sè due viole da gamba, strumento soavissimo, che scomparve per dar luogo alle catube, ai bombardoni, ai serpenti, ai pelittoni, e a tutto il parco di artiglieria della musica di oggidì; e sedevano innanzi a lui due suonatori di flutte, due di oboè, due di corni. Il resto eran contrabbassi, viole e violini.

Quando il maestro Galuppi comparve alla spinetta:

- Costui è il sopracciò di tutte le case di Milano, disse uno de' suddetti interlocutori; chi vuol farsi d'accosto a qualche dama non dee che appigliarsi alle grandi falde quadrate della sua marsina, ed è tosto introdotto. Come compositore val più del nostro Lampugnani, suo collega concertatore, il quale è un buon ambrosiano e un forte contrappuntista, ma quando non assorda fa dormire; codesto Buranello invece compone con molt'arte, va in traccia dell'espressione, e la trova; tuttavia se la sua musica è la scuola dei professori, ne guasterà molti, perchè ha troppi passi pericolosi, e convien essere eccellentissimo nell'arte per collocarli a proposito, com'egli ha saputo fare.

In questa si alzò il sipario e si mostrò allo spettatore un - Gran portico del palazzo reale di Babilonia corrispondente alle sponde dell'Eufrate - lavoro di quei fratelli Fabrizio e Bernardino Galliari, che furono i primi fondatori della nostra scuola scenica, che recaron poscia oltremonte. Essi non conoscendo tutti gli stili architettonici e non avendo erudizione archeologica, applicavano il greco-romano dappertutto, in Babilonia, a Menfi, alla China; ma avevano una tal pratica nella prospettiva e una così sterminata immaginazione nel costrutto architettonico e nella combinazione delle linee, dei contrapposti, degli interrompimenti, delle fughe, che lo spettatore ne rimaneva abbagliato e anche oggi ne sentirebbe meraviglia. Le scene poi a quel tempo raggiungevano il più completo effetto, perchè la quasi oscurità della platea concedeva tutto lo splendore al palco scenico, e la ribalta non ancora riboccante di fiamme (chè le lucerne ad argand s'introdussero posteriormente) permetteva che la distribuzione della luce si facesse nel modo più conveniente e più proporzionato alle leggi prospettiche.

Ma lasciando ora i pittori Galliari e la scenografia, dopo la comparsa del palazzo reale di Babilonia, comparve Semiramide tra gli applausi del pubblico, Semiramide in abito virile, sotto nome di Nino, ed era la virtuosa signora Cassarini, che cantò il recitativo: Olà, sappia Tamiri, con quel che segue; dopo del quale venne fuori Sibari, o la seconda donna signora Ghiringhella, e lì s'impegnava un lungo recitativo intercalato di guaiti di violoncelli e viole, sino al punto che Semiramide, con solenne portamento di voce, diceva alla seconda donna: T'accheta, ecco Tamiri; e usciva Tamiri, ossia la signora Giuditta Fabiani-Sciabrà; e quando, dopo alquante parole di complimento, Semiramide s'assideva in trono in mezzo a Tamiri e a Sibari, e una guardia recavasi sul ponte a chiamare i principi rivali, tosto, preceduti dal suono di strumenti barbarici, passavano il ponte Minteo, Scitalce e Ircano. Allorchè questi si mostrò, successe un movimento nel teatro, come quando il vento investe una selva, e scoppiò di poi un applauso strepitoso e unisono che pareva fuoco di plotone fatto da un reggimento di veterani. L'opera nel complesso annoiava anzichè no, chè il pubblico aveva ancora nell'orecchie l'Olimpiade di Pergolese, e l'Artaserse di Scarlatti, rappresentate poco tempo prima; e non era pago gran fatto nè della Casserini, nè della Sciabrà, perchè esso ricordavasi troppo della voce stupenda della Turcotti, della grazia dell'Aschieri, del prodigio della Tesi che commoveva irresistibilmente al pianto, e della soavità dell'Agujari che veniva chiamata il rossignuolo della scena. - Però, essendo inferiori le prime donne di quella stagione, alle altre che aveva già sentite, il pubblico si rivolse al nuovo sole che era Ircano, ovvero il tenore Amorevoli, l'occulta passione delle donne. - Applaudito al suo primo comparire, fece fremere d'entusiasmo la platea ad ogni emissione di voce; ma il segreto di mettere in pericolo la mente sana degli spettatori se lo serbò all'aria:

Maggior follia non v'è

Che, per godere un dì,

Questa soffrir così

Legge tiranna. -

Alle cadenze di questa cabaletta il teatro parve dividersi in due per lo scoppio d'applausi.

- Vengano ora i musici - gridava un giovinotto - ora che finalmente questo Amorevoli canta come un uomo e non come una donna.

Il tenore Amorevoli diffatto fu il primo che, per l'ineffabile dolcezza d'una voce naturale e pel gusto squisitissimo del suo canto, fece sperare che col tempo si potesse far senza de' musici. Ma così non la pensavano i vecchi, uno de' quali diceva indispettito:

- Tutto va bene, ma bisognava sentire Carestini a cantar quest'aria. Egli aveva gli estremi dei bassi e degli acuti, tanto che il Ciardini tenore disse, che voleva farsi evirare per poter cantare il basso come lui.

- E dove lasciate Cafariello? - diceva un altro che portava ancora la parrucca a riccioni; - giammai uomo mortale spinse così lungi l'audacia del canto.

- E Bernacchi il patetico?

- E dove lasciate Egiziello, il grande, l'unico Egiziello, il re dell'espressione? fu egli che nell'opera Artaserse fece piangere tutta Roma per questo solo accento:

E pur son innocente.

E dopo lui Guadagni e Salimbeni e Monticelli e Reginelli e Garducci e l'Elisi; se il men valoroso di costoro fosse qui, codesto Amorevoli non piacerebbe nè poco nè assai...

- Intanto si compiaccia a sentirlo.

- Per forza, non c'è altri...

E l'opera continuò... e Amorevoli dalla voce piena di fascino e dall'aspetto bellissimo, fu chiamato sei volte al proscenio, dopo che, con un'espressione e un ardore indicibile, ebbe cantato quell'aria con cui finisce l'atto primo:

Empio fato se m'opprime,

Seguirà le mie ruine

Chi superbo mi contende

La beltà che mi piagò.

Le ultime due volte che Amorevoli uscì, tenne fisso lo sguardo ad un palchetto... Nessuno però nè s'accorse, nè prese informazione di quell'atto...

Solo il gentiluomo veneziano che teneva dietro alle beltà lombarde, guidato macchinalmente da quello sguardo ad osservare egli pure il palchetto, chiese all'amico che gli serviva d'interprete:

- Chi è quella bellissima dama là, al numero quattro del second'ordine?

- Bellissima, se avesse imparato a sorridere, e se ricevesse la grazia dalla bontà... Quella è la contessa Clelia V..., odiata dalle donne ed anche dagli uomini.

- Odiata?

- Sì, odiata... Sa il latino, il greco e la matematica... e dall'alto del suo tripode ci guarda tutti come una divinità sdegnata. - Mentre il cavalier servente è dovunque un mobile di casa, ed è adottato da chi lo considera come un'imposizione della moda e nulla più, ella non ha mai patito d'averne uno. La natura le ha messo il cuore in ghiaccio per preservarlo dalle infiammazioni.

- Ha marito?

- Altro che marito! Vedetelo là nel palco dirimpetto... È un ex-colonnello di cavalleria, fatto con sangue di Spagna e con sangue lombardo. Nobilissimo, del resto, e ricchissimo; ma serio come un cavaliere del tempo del Cid. - Sposò la sapienza, perchè s'accorse che la grazia lo avrebbe fatto diventar geloso come il Moro di Venezia...




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