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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOQUINTO
    • I
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I

Il conte Aquila, orgoglioso di posseder la contessina Amalia, in quella guisa onde un Arabo, nell'idea di perpetuare la celebrità della razza, tien preziosa una puledra nata in incliti presepj da inclita coppia, non desiderò altro che di avere un figliuolo: maschio, già si intende, forte, bello, ingegnoso, straordinario. Se gli avessero detto: "per adunare nel tuo primogenito tutte codeste qualità, è necessario che la madre muoja nel parto", ei non avrebbe esitato un istante a rispondere: Muoja. In simile maniera un possidente non ha nessuna pietà del baco morituro, per l'aurifera seta che gli dee produrre.

Da vero fisiologo e teologo, ei non considerava il matrimonio in sè stesso, ma pel suo fine. Il multiplicamini della Bibbia non fu mai interpretato con più spiegato rigore scientifico. La scienza non ha viscere. E il suo desiderio fu presto appagato; appagato in massima; e perchè il figliuolo fu esatto nel venire in luce nel più breve tempo possibile, e perchè fu un maschio. Ma la forza, fin dal primo momento che il fanciullo fece capolino dal nulla, non si rivelò nè al padre ansioso, nè all'ostetrico esperto. Non la forza e non la bellezza: due cose che, ad onta della speranza che stava sempre in aspettativa di qualche benefica sorpresa della natura onnipotente, non comparvero nemmeno in un anno, nemmeno in due.

Il conte Aquila cominciò allora ad amar la madre più del figliuolo, il quale, per dispetto, non accusava neppure svegliatezza di spirito. Il conte diventò cupo più che mai, e bisbetico, ed anche un po' inumano. Voleva come sciogliere e disnodare quella natura inerte e disadatta.

Senza volerlo, egli sfogava l'interna stizza quando al fanciullo, con intento ortopedico, stirava e gambe e braccia e collo, per vedere di migliorare coll'arte lo scarto della natura. Il lettore si ricorderà del dialogo tra il pittor Bossi e il canonico Zanoja, dove vennero a toccare della morte di quel fanciullo. Pur troppo il fatto era vero. Avendo egli l'abitudine di far subire al fanciullo una ginnastica intempestiva, qualche volta lo palleggiava, lo forzava a star dritto sul palmo della mano, lo gettava in alto per riprenderlo nelle proprie braccia. La contessina Amalia tremava e pregava e piangeva a que' giuochi perigliosi; il fanciullo strillava; ma il padre era irremovibile, perchè tenevasi certo di giovare allo sviluppo del figliuolo. E venne il dì che, siccome sappiamo, gli cadde in terra, e là giacque. La nutrice accorse, ma indarno; la madre svenne; il conte rimase attonito e atterrito. Fu mandato a chiamare il dottor Monteggia. Ma la scienza non risuscita i morti. Al racconto che fecero e nutrice e madre e astanti, il celebre chirurgo, preso di sdegno, stette per rimproverare acerbamente il conte. Ma il conte lo saettò collo sguardo in modo, che al professore non bastò l'animo di parlare. D'altra parte, dal rimprovero non scaturiva un rimedio.

Dopo questo caso funesto, la contessina Amalia sentì nascersi in cuore un'irresistibile avversione; per il conte, prima, non aveva provato che rispetto, stima, soggezione, amore non mai; nemmeno quell'attrazione istintiva e, quasi a dire, meccanica, che una giovinetta può sentire qualche volta per un uomo giovane perfettamente costituito. In ogni modo quando, dopo qualche tempo, venne diminuendo in lei il rammarico per la morte dell'unico figliuolo, diminuì anche l'avversione. Le rimase però nell'animo quanto basta per renderle incresciosa la vita maritale. Nè il conte desisteva dal suo contegno ottomano; la contessina era tenuta in casa il più del tempo; quand'ella riceveva visite così d'uomini come di donne (e a ciò v'era l'ora stabilita), egli non la lasciava mai sola; segnatamente colle donne, che dal punto di vista dei cattivi consigli e delle tentazioni, ei credeva assai più pericolose degli uomini stessi; e in questo non aveva forse torto. Quand'ella poi usciva di casa senza il signor consorte, per l'igienica necessità da lui ben compresa di cambiar aria, c'era l'obbligo della carrozza. Guai s'egli avesse saputo che, per snodare un po' le gambe, ella avesse osato far qualche passo nei pubblici giardini o sulle mura!

Per questa operazione era indispensabile l'accompagnatura maritale. Il tempo però, che cambia tutte le cose di questo mondo, e induce qualche lassitudine perfino negli uomini più rigidi e più tenaci, allentò le redini anche nelle mani del conte. Della sua giovane moglie egli non ebbe mai a lagnarsi; non mai una disobbedienza, non un atto di malavoglia, nè un segno, fosse pur fuggitivo e involontario, di malumore. Ben rassicurato adunque di avere per compagna una donna marmorea, cominciò a lasciarla sola qualche volta in conversazione; le permise d'andare a trovar sola qualche amica. Nell'occasione di alcune feste straordinarie, non già permise, perchè ella non gli domandò mai nulla, ma le ingiunse espressamente di comparire in esse pomposamente foggiata. Assaporando il trionfo di sentirla lodata e ammirata e citata dagli uomini e dalle donne, perfino dai galanti ufficiali, come un modello insuperabile di virtù, anzi come un'eccezione, rinnovò quei comandi. Era sempre la smania del primato che lo consigliava. Nè la contessa, sebbene qualche volta girando lo sguardo sentisse qualche lampo istantaneo di desiderio, poteva correre nessun pericolo. Quantunque bella e leggiadra e soave e simpaticissima, ella, in quanto agli effetti, era nella condizione di una donna diabolicamente deforme; chè nessuno dei giovinotti pretendenti e battaglieri osava accostarla con intenzioni oblique; nessuno si sarebbe fatto lecito di rivolgerle una di quelle frasi, che sono gli scandagli, gli ami e le reti della galanteria.

Non si spera se non ciò che è possibile, anche dando alla possibilità il più esteso confine. Ma l'impossibile non entra mai nel giro delle nostre ambizioni. Bonaparte quand'era colonnello a Tolone non sognò mai di diventare imperatore; ma lo sognò, lo desiderò e potè sperarlo quando fu console. Ora la conquista di quella donna era considerata dal bel mondo fuori affatto di ogni sfera di probabilità. Ella era forte e impenetrabile come il diamante; e, d'altra parte, il marito faceva assolutamente paura; paura mescolata di ammirazione, quando anche non voluta. Egli era uno di quegli uomini rari, che esercitano sugli altri un fascino arcano, sebbene potesse essere un fascino odioso. Anche il duellista più intraprendente, più sfacciato e provocatore, non avrebbe mai voluto aver brighe con quell'uomo là.

E il conte si accorse di tutto ciò; ed anche la contessina leggiadra se ne accorse, e, diciamolo pure, con un certo rammarico. Aveva toccati i venti anni; lo sviluppo fisico avea raggiunta la sua massima pompa; il sangue, che non domanda il permesso al signor curato, cominciava a bollire fieramente, ned ella conosceva il segreto del ghiaccio, tanto usufruttato da S. Francesco. Vedeva pertanto e guardava e contemplava gli attraenti splendori della vita viva, come il povero Mosè condannato a vedere in lontananza i grappoli della terra promessa, ed a morire senza poter mettervi il labbro. Povera contessina Amalia!

Per qualche tempo i nuovi pensieri passavano e ripassavano nella mente di lei senza fermarsi. Ella versava in quello stato di apatia incresciosa, senza gioja e senza dolore, che lascia gli occhi oziosi al pianto e rende il labbro incapace al riso. Stato molto simile a quel malessere indefinito, che alla lontana suole annunziare nel corpo umano lo sviluppo di una malattia di carattere. Ma se la cura profilattica e l'acqua imperiale può giovare talvolta nei turbamenti fisici a far dileguare il germe d'una infiammazione futura, pei turbamenti del cuore, che sono necessità della fisiologia sentimentale, non v'è acqua imperiale che giovi. Se non è oggi sarà domani; ma il giorno dell'eruzione è inevitabile.

Senza annojare il lettore col richiamargli alla memoria le grandi battaglie e le vittorie luminose ottenute da Napoleone nel 1809, gli diremo soltanto che quelle vittorie dovevano portare il disastro nel cuore della contessa. Che colpa ne avea Napoleone? D'altra parte, che relazione può avere la tattica e la strategia e il valor militare con una donna che vive in ritiro? In apparenza, nessuna. Se non fosse che, verso la fine del 1809, il vicerè Eugenio Beauharnais ritornò in Italia. Questi, per quanto ne portò la fama e per attestazione concorde dei prodi che avevano militato sotto di lui, si era coperto di gloria. I cittadini e gli uomini della pace, che da qualche tempo avevano cominciato, per delle cagioni anche giuste, ad avere in qualche uggia il vicerè, dovettero subire, volere o non volere, quel fracassìo di gloria. Gli uomini, che si erano intiepiditi a suo riguardo, lo celebrarono; i maldicenti cangiarono argomento; gli odiatori compresero le ire. Tutto questo in quanto al sesso forte. Rispetto al sesso debole, le cose avean proceduto e procedevano diversamente. Talune delle cagioni giustissime per cui i mariti, gli amanti, i fratelli, i cognati avean preso avversione per il vicerè, eran quelle cagioni medesime per cui alle donne invece era riuscito e riusciva tanto simpatico. La cosa è naturale. Il difetto capitale nel vicerè, lo abbiamo già detto, consisteva in un sistema continuo ed esagerato d'infedeltà conjugali. Il suo lato vulnerabile si scopriva ogni volta che veniva alle prese col nono comandamento. Ma le donne, in generale, che sono dispensate da quel paragrafo del decalogo, hanno un gusto matto che esso venga infranto dagli uomini. Le donne hanno tutti i torti; ma è una questione di gusto come un'altra, e bisogna lasciar andare.

La gloria esercita sulle donne un fascino speciale. Sia dessa d'oro o di princisbecco, fa sempre su di loro il medesimo effetto. Se poi è una gloria cogli spallini e gli sproni, non c'è più nessuno che le tenga. Povere donne, noi almeno le sappiamo compatire! Ad un uomo circondato di gloria, purchè sia un po' giovane (qualche cosa già ci vuole), le donne sono capaci di perdonare la calvizie incipiente, la ventraja incipiente, i labbri grossi, un naso che non sia perfettamente in regola col codice dell'arte greca, ecc., ecc. In questo esse sono assai più soprasensibili e spirituali degli uomini, i quali di solito preferiscono la bella faccia, la pelle fresca, e delle linee curve afrodisiache.

Premesso tutto ciò, quando Beauharnais fece, dopo il suo ritorno, la sua prima rivista in piazza Castello, gli istoriografi notarono che le mani che più applaudirono furono di femmine; notarono che la loro maggioranza aveva conchiuso col dire, che le fatiche delle battaglie lo avevano reso più simpatico; sopratutto che lo avevano fatto dimagrare. La magrezza è un altro ingrediente che, in generale, non dispiace alle donne. Paride era magro, Leandro era magro, Abelardo era magro, Romeo era magro, Jacopo Ortis non lasciò nemmen tempo al tempo di farlo ingrassare; se poi il Petrarca era grasso, è perchè non doveva essere corrisposto; ma andiamo innanzi.

Alle riviste militari tennero dietro le feste a corte; le feste in qualche casa patrizia, dove il vicerè si compiaceva d'intervenire. Fra tutte egli preferiva la casa Litta: casa proverbiale allora per la ricchezza e la cordialità. Il marchese Litta gran ciambellano, creato duca nel 1809, aveva una sostanza di più di 30 milioni, che oggi equivarrebbero a 60. Aveva il primo guardaportone del regno italico; il primo cuoco con nove mila lire di stipendio (la paga di un capo divisione di ministero); sopratutto possedeva il più sontuoso vasellame d'oro e d'argento che allora si conoscesse. La casa reale non arrivava a tanto. Baldassare avrebbe dovuto ricorrere a lui per adornare il suo festino. Il vicerè, che amava le pompe e gli sciali, e teneva dall'imperatore la commissione di eccitare il ricco patriziato a spendere e a rovinarsi, affettava per il duca Litta un'assoluta predilezione, allo scopo di far nascere imitatori e gare. Il vicerè si recò pertanto una notte ad una festa in casa Litta. Il conte Aquila che, sdegnando le aure di corte, si faceva sempre desiderare alle feste vice-reali, ostentò di figurare in casa Litta tra i primi amici del duca, non solo facendovi intervenire la moglie, ma adornandola con tanta pompa di gemme e di trine, che fu proclamata la regina della festa. Il vicerè che l'aveva vista altre volte in occasioni comuni e partecipava per lei al sentimento generale, e, diciamolo pure, anche un po' alla paura del marito, in quella notte si sentì fieramente colpito dalla contessa Aquila; non gli era mai sembrata così bella; era la prima volta che la vedeva splendida di vesti, ben si poteva dire, regali.

Il rispetto e la paura, che quasi sempre trattengono dal voler conquistare le cose che piacciono indifferentemente, si trasmutano di tratto in incentivi, che inviperiscono ed esacerbano il desiderio, se l'oggetto altre volte veduto ci sembra diventato prezioso oltre l'usato. Ed il vicerè sentì il coraggio e la irritazione degli ostacoli; e portata repentinamente l'indole sua, già baldanzosa e temeraria, all'estrema sua espressione, colse un momento che il conte non trovavasi nella sala dov'era la contessa: fu guardingo anche nel cogliere il punto che altri non potesse sentire; e con quell'accento francese pieno di fascino e di grazia ch'egli aveva ereditato dalla madre Giuseppina e teneva in serbo nelle grandi occasioni, le rivolse poche parole: poche e tronche e dove l'audacia d'una dichiarazione non preparata da nessun antefatto e che poteva anche venir giudicata come una scortesia, raggiunse invece quell'effetto che viene dall'ispirazione; press'a poco come certi trovati del genio, che sembrano spropositi, e sono miracoli.

Il vicerè parlò e partì e lasciò la festa, ed anche questo fu un capolavoro d'astuzia. Egli conosceva le donne. Povera contessa Amalia! Quelle parole essa non le aveva mai sentite da nessuno. Il superbo marito non ne ebbe mai. Quelle parole furono come un raggio azzurro di cielo, che si rivela dopo una lunga aspettazione a delle pupille desiose! Oh fatalità! Oh tradimento della nemica fortuna!

 




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