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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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II La gioja più intensa e sopracuta che fa provare l'amore, così almeno ci assicurano i professionisti e i dilettanti, succede quand'esso fa la sua annunciazione, come l'arcangelo Gabriele; quella gioja è d'un prezzo inestimabile, perchè in quella prima ora non vedendosi che la faccia radiante della novella condizione in cui l'ingaggiato viene a trovarsi, quella gioja non è alterata da nessun elemento eterogeneo; non ha lega nessuna nè di rame, nè di zinco; è oro puro a mille. Ma l'oro puro a mille convertito in moneta si piega nelle mani, e va soggetto a delle avarie. Gli usurai tosarono senza pietà gli zecchini di Venezia. Ora anche la prima gioja dell'amore si riduce presto ai minimi termini. La gioja, intendiamo bene, non l'amore; questo anzi cresce a dismisura e in ragione inversa della gioja stessa. L'amore s'alimenta d'affanni e di spasimi. Chi ci ha trasmessa quest'asserzione, ci disse altresì di fidarci della sua parola, senz'altre indagini. Dunque proseguiamo. La contessa Amalia, appena il vicerè fu partito, si sentì come tutta inondata dal calore e dalla luce di quella gioja. Fu una rivelazione, fu una scoperta, fu un genere di sensazione intorno a cui ella aveva potuto in addietro far delle congetture in via filosofica. Ma quando quella sensazione si rivelò e la invase, la contessa si accorse che la filosofia era stata assai lontana dal vero. Per dare una giusta idea di quella sensazione, noi avremmo in pronto una similitudine precisa e calzante, ma non potremmo dirla che all'orecchio di un professore di fisiologia. Essa poi è tale che produce per consueto un fenomeno speciale, migliora cioè di tratto l'indole di quanti la subiscono; chi è chiuso diventa loquace e aperto; chi è acre e mordace diventa alla mano e indulgente; chi odia si placa e transige. Però la contessina, quando si trovò col conte marito, fu dolce seco e piena di grazia e pazzericcia anche un poco. Il conte non aveva mai trovata la moglie tanto cara e carezzevole come in quella sera. Quando le mogli si mostrano cortesi coi mariti oltre l'usato, non è sempre una ragione perchè questi debbano rallegrarsi. Una tale esaltazione continuò nella contessa tutta la notte; nel tempo dell'apatia e della noja matrimoniale ella aveva sempre dormito le sue otto ore saporitamente e d'un fiato solo; diciamo ore otto, perchè il conte, che s'intendeva d'igiene, decretò che la moglie non dovesse dormire che quelle ore. Se la cameriera l'avesse svegliata qualche momento dopo, poteva correr pericolo di essere scacciata. Tuttavia se esso poteva impedire alla moglie di dormire nove ore, se la sua giurisdizione era implacabile sul più, bisognava pure che si adattasse sul meno. Se gli occhi si fossero potuti chiudere e mettere sotto custodia, certo ch'egli ne avrebbe ritirata la chiave; ma per combinazione la natura decretò diversamente. Ecco perchè la contessa ebbe diritto in quella notte esagitata di non consumare nel sonno nemmeno una di quelle ore statele concesse, e di lasciar vagare liberissimamente il pensiero per campi che non aveva mai nè percorsi, nè sospettati in addietro, ed anche di gettare, durante la veglia rischiarata dalla notturna e opaca lampada, qualche occhiata sulla faccia del conte addormentato. Vi sono dei casi in cui tanto più si guarda un oggetto quanto più dispiace; questo fenomeno strano è forse fratello di quell'altro per cui chi soffre il mal di denti, ritorna spesso colla mano quasi ad esacerbare la parte addolorata. Ella dunque guardò e riguardò e ritornò a guardare il conte; e che frutto ne ricavasse, ognuno lo può pensare. Fu per quella vista e, per quell'esame ripetuto che la prima gioja solenne, sopracuta, completa, quell'oro a mille, senza lega, non potendo snaturarsi affatto, s'accartocciò, si raggrinzì; fece come il sole, che non si oscura, ma le nubi temporalesche non lo lasciano più vedere. Ed infatti sul sereno tutto raggiante del suo pensiero si alzò una fitta nube d'affanno e di spavento. La contessina provò quello che tutte le anime calde, appassionate, ma generose ed oneste, provano ogni, qualvolta sono assalite da uno di quegli amori per cui i mariti e le mogli possono gettare e gettarsi dalla finestra; per cui il confessore non suol dare l'assoluzione alle sue divote; per cui gl'interessati possono adoperare i fulmini delle leggi: gli uomini e le donne, i quali non hanno altro pensiero che quello della digestione, adoperano parole d'ironia e di scherno; e i bigotti inquisitori avventano maledizioni e saette; di quegli amori per cui non sente pietà che qualche uomo il quale tenga un piede nella filosofia e l'altro nel bel mondo, ed abbia potuto essere a un tempo e don Giovanni e fra Cristofaro. Quando le donne vengono assalite dal tifo erotico, si trovano sempre in una condizione molto più grave e allarmante degli uomini. Questi possono far nascere gli avvenimenti; le donne devono aspettarli: d'altra parte, a meno che non siano vedove, il quale stato dev'essere, a parer nostro, il non plus ultra della felicità muliebre, non possono nè andare, nè stare, nè uscire quando vogliono, nè penetrare in certi luoghi, nè passeggiare sub luna, ecc. Le pene così dette dell'inferno debbono avere qualche analogia con quelle di una donna, che, sia essa nubile o maritata, non aspira che a vedere e trovarsi con colui che gli sta sempre in pensiero. Nè la contessa Amalia potè andar sciolta dalla legge comune. Sebbene in sul principio, come avviene sempre delle donne che non fanno all'amore per capriccio e passatempo, ella avesse fatto proponimento di non dare alcun alimento a quella passione, di troncare di colpo ogni via di comunicazione tra il desiderio e il suo adempimento, di fingersi ammalata, di non uscir più di casa, di non recarsi più a nessuna festa, perfino di palesar tutto al marito, onde terminar ogni cosa in un momento; pure non fece nulla di tutto ciò. Certo che avrebbe fatto assai bene a mettere in atto quei propositi, e chi non lo sa? Ma la cagione del non esserci riuscita sta nel fatto che erale davvero entrato in petto il demonio della passione, il quale vuol quel che vuole, ed è onnipotente. Taluno potrebbe domandare in che modo alcune poche parole, dette in un momento fuggitivo, abbiano potuto suscitare un incendio così pronto e così generale; ma noi risponderemo appunto colla teoria degli incendj. Una favilla di sigaro acceso, la quale voli per caso in un covone di paglia, basta a distruggere un villaggio; mentre talvolta, se ci proviamo ad accender fuoco per il bisogno di riscaldarci, un mazzo di zolfanelli è poco per arrivare a far sorgere qualche fioca fiammella dalla catasta indarno disposta con arte sugli alari. Quel che è degli incendj materiali è degli incendj morali. Or continuando, se la contessa non aveva nessuna virtù di far nascere una combinazione per cui potesse rivedere il vicerè, questi non istette ozioso, e dispose le reti in maniera che non dovessero rimaner sempre vuote. Egli aveva bisogno di avvicinarsi alla contessa; di avvicinarsi al conte; di trovarsi un po' a lungo e coll'uno e coll'altra; aveva bisogno che il luogo del ritrovo fosse numerosissimo di persone come una festa; ma che avesse anche una base d'operazione infinitamente più estesa. Pensò quindi ad una partita di caccia. In una partita di caccia c'è rumore e disordine: le compagnie dei cacciatori si sparpagliano; chi va da una parte, chi dall'altra; la maggior parte degli amori del medio evo si manipolarono a caccia sotto gli auspicj degli alani e dei falchi. Virgilio non trovò miglior modo di mandare a perdizione Didone, che con una partita di caccia ajutata da un buon temporale. Noi non sappiamo, se Beauharnais fosse ben forte nelle classiche reminiscenze, nè se avesse pensato ai baroni e ai trovatori dell'evo medio, che ingaggiavano amori col corno da caccia, il fatto sta che pregò il suo carissimo duca Litta a dare un invito per una partita di quel genere a Lainate. Il duca Litta, che era felicissimo quando poteva appagare un desiderio del vicerè, non si fece pregare due volte; e mandò fuori gl'inviti. Anche il conte Aquila lo ricevette e lo accettò, per la solita ragione di far vedere a tutti che egli non odiava nè le feste, nè i numerosi convegni, ma che soltanto si asteneva da quelli che si davano a corte. Ora se, invece di scrivere oggi, fossimo addietro quarant'anni, quando Walter Scott era l'autore più avidamente letto in Europa e gli scrittori di Francia e d'Italia se la godevano ad imitarlo, ce la godremmo anche noi a descrivere quella caccia in ogni suo momento, in ogni suo accidente; a fare il nome di tutti i cacciatori illustri che v'intervennero, di tutte le Diane seguaci col cappellino alla Bolivar; a dar l'elenco di tutti i levrieri più celebri che addentarono l'orecchio alle lepri fuggitive. Sopratutto poi non ci lasceremmo sfuggire la bella occasione di descrivere parte a parte la villa di Lainate, che allora era in tutta la sua voga e la sua celebrità. Ma, per nostra fortuna, la moda delle descrizioni interminabili è passata; onde, lasciando ai lettori il permesso di dipingersi il fondo, ci occuperemo soltanto delle macchiette e dei gruppi che staccano su di esso.
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