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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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IV Uditi gli scalpori della Falchi per quella fortuita omissione del duca Litta, il ministro Prina, che stava una sera giuocando all'ombretta spagnuola coll'avvocato: La si tranquillizzi, signora Teresa, diss'egli, così tra il buffo e il serio; il signor duca la inviterà. La caccia deve essere dopodomani; dunque a quest'ora tutti gl'inviti non possono esser fuori. Che, se mai fosse stata dimenticata, già ella sa che chi manda fuori gl'inviti è il maggiordomo della casa, il quale è un balordo, e si regola così a vista di naso, e può benissimo essersene dimenticato. Il maggiordomo ha passato i sessantacinque anni; ha altro per la testa che le belle donne della città (il ministro calcò su questa frase, perchè, ridendo fra sè stesso, sapeva che quello era il lato da solleticare per far cessare il temporale). Ma in ogni modo, signora Teresa, faccia conto di essere bell'e invitata. Prima di andare a letto devo passare dal duca, e tutto anderà a suo posto. Ma che il signor duca non creda poi che io faccia impegni... Il duca non crederà niente... lasci fare a me, signora Teresa, e cessi di riscaldarsi. E non vorrei che quelle smorfiose dei quattro quarti venissero a sapere... Ma, e che vuol mai, che si venga a sapere?... Cara la mia signora, m'accorgo in conclusione che ha ragione Andrea, il cameriere, quando dice che la signora padrona ha buon tempo... Come, come, il cameriere ha avuto coraggio?... Ma io lo scaccerò su due piedi. La signora Teresa non verrebbe con ciò che a dare ragione a quel buon diavolo di Andrea, il quale disse per giunta che tutte le belle donne dal più al meno hanno un poco del matto e che chi le rovina sono i cicisbei che lor dànno l'incenso. L'avvocatessa Falchi si placò di colpo; il ministro partì, passò al duca Litta, il quale, essendo buonissimo e non dando molta importanza a cosa nessuna, accontentò i desiderj e dell'amico e dell'avvocatessa. Sorse il giorno della caccia: al mattino di quel giorno, dal palazzo di corte, da quasi tutti i palazzi della città uscivano le carrozze col tiro a sei, col tiro a quattro, col tiro a due; uscivano a cavallo i giovinotti ufficiali e non ufficiali, in costumi strani, cosidetti alla cacciatora, come allora portava il Corriere delle Dame del Lattanzi; il poeta Monti sorse anch'egli mattutino, e venne a pigliarlo la carrozza del conte Paradisi; il Foscolo, che allora corteggiava la contessa A..., galoppò a cavallo in soprabito di panno verdolino con pantaloni di casimiro color piombo e stivali a trombini. La contessa A..., bellissima fra le belle, aveva molto spirito, molto ingegno, molta coltura (parlava quattro lingue); era buona, generosa e affabile; costituiva insomma il complesso rarissimo di egregie qualità; ma tutte parevano sfasciarsi sotto all'uragano di un difetto solo. Ella faceva dell'amore l'unico passatempo; ma un passatempo tumultuoso, fremebondo, irrequieto; nè occorre il dire che quell'amore era parente di quello rimasto nudo in Grecia e nudo in Roma, come disse Foscolo; e che, mancando di un candido velo, non era stato meritevole di riposare in grembo a Venere celeste. Ma Foscolo, nonostante la sua poetica distinzione, si trovò un bel giorno avvolto e impigliato nell'ampia rete che la contessa teneva sempre immersa nella grande peschiera della capitale lombarda. Il lettore non può immaginarsi quanti belli e cari giovinetti si trovarono a sbatter le pinne convulse in quella rete ognora protesa: giovani cari e belli, e, ciò che fu il danno, senza punto d'esperienza, che pigliando fieramente in sul serio le care lusinghe di quella sirena, ebbero poi a subire disinganni orridi e desolazioni lipemaniache! Ma non solo i giovinetti di prima cottura, non solo i paperi innocenti del ruscelletto; ma frolli don Giovanni, stati più volte immersi nel fiume Lete; ma grossi topi veterani del Seveso, dovettero sovente parer novizj al contatto maliardo di quella donna. Colei, lo ripetiamo, non era cattiva, ma nel suo intelletto e nel suo cuore non era mai penetrata l'idea della costanza in amore. Nè è a credere che non amasse; amava assai, amava ardentemente; e nei primi istanti che le entrava nel sangue la scintilla incendiaria, ella non aveva pace, e si struggeva finchè non avesse potuto accostare l'oggetto de' suoi desiderj. Ma un amante nelle sue mani non era nè più nè meno di un cappone messo in sul piatto di un ghiotto. In pochi momenti non rimanevano che le ossa, e la fame chiedeva tosto altro cibo. Povero Foscolo! indarno ti stettero intorno le sante muse Del mortale pensiero animatrici. A ogni modo quella contessa, sebbene fosse così eccezionalmente volubile e cangiasse gli amanti come i guanti e le scarpe, aveva però le sue predilezioni. Nella lunga sfilata dei suoi adoratori, ella si rammentava di taluno che davvero amò, e che forse avrebbe voluto aver sempre seco, sotto condizione peraltro che si adattasse ai capricci suoi, e chiudesse un occhio quando ella sorrideva agli altri. Com'è naturale, non trovò mai nessuno che si acconciasse a codesto patto. Ella era tanto bella e cara e seducente, e nel periodo acuto del suo innamoramento faceva provare tali estasi a chi ne era il passeggiero oggetto, che questi subiva tosto quella passione acuta che non soffre commensali alla medesima tavola. Ognuno voleva essere il solo possessore di quel caro bene. Ma il caro bene non volendo vincoli di sorta, e dando accademia d'amore, come la si darebbe di poesia estemporanea, metteva tosto alla porta i pretendenti che ambivano un trono assoluto, ed erano avversissimi alla monarchia mista. Ugo Foscolo, che aveva una predilezione particolare pei grandi occhi lucenti, guardò spesso in teatro colei, che in vero ne possedeva un pajo di primissima qualità. Egli, sentendo a sparlare di quella divinità volubile da coloro che erano stati e trionfatori e vittime, ne assunse la difesa con quella sua eloquenza procellosa e invadente, fatta di sentimento e d'erudizione classica. Tuonava in favore del genere di vita ch'ella conduceva, e la raffrontava alla greca Aspasia, che diede lezioni d'amore anche a Socrate. La contessa seppe di quelle arringhe di Foscolo, e come donna di vivacissimo ingegno e di molta coltura, essendo innamorata dell'Ortis e dei Sepolcri e dell'Ode per la Pallavicini, un giorno scrisse un letterino a Foscolo, pregandolo a passare da lei. Foscolo ci andò; le prime parole che la contessa gli rivolse, appena esso comparve sulla soglia del gabinetto, furono precisamente queste: "Ho sentito che voi mi chiamate Aspasia; accetto la lode e, purtroppo, anche il biasimo; ma voi, che siete greco, dovreste fare assai bene la parte di Pericle; se ci state, rinnoveremo i bei tempi di Atene; fra tanti asini che le stanno intorno, se Aspasia è volubile non è poi da condannarla; si provi adunque Pericle a far miracoli." Certamente che una dichiarazione così esplicita e più che audace, fatta da donna ad uomo, era un fatto che doveva peggiorare il concetto ch'altri potesse avere di lei, e anche a Foscolo avrebbe dovuto non far buona impressione. Ma se avrebbe dovuto, non lo fu. Con quell'animo ardente di Ugo, con quel temperamento in esaltazione, con quell'entusiasmo per la bellezza, con quel naturale orgoglio che gli fece tosto trovar spiegabile e giusto quella specie di privilegio in cui la contessa costituiva lui solo a petto di tanti; alle lusinghiere parole della contessa, ei si sentì di punto in bianco preso d'amore; uno di quegli amori roventi che lasciano segno e solco e piaga. Povero Foscolo! Quando ci fu la caccia a Lainate, già da quasi un mese era egli l'assiduo cavalier servente della A..., e in quel tempo non era mai comparsa nessuna nube ad intorbidare quel nuovo cielo in cui la procellosa anima di lui erasi rasserenata. La contessa in sul principio sentì l'orgoglio di avere nel proprio dominio quella fiera generosa e indomita; si compiacque di quei tête-à-tête, che per lei riuscivano una rivelazione. I dialoghi erano veri capolavori di eloquenza, di poesia, di sentimento. È facile immaginarlo. Se Foscolo non aveva quella che comunemente si chiama bellezza; anzi, allorchè stava immobile e taciturno, potesse sembrare passabilmente brutto alle ragazze che prediligono il bel nasino e i mustacchietti; assumeva, per dir così, una bellezza transitoria, allorchè animavasi, la quale gli derivava dal raggio dell'intelletto che gli balenava tra ciglio e ciglio; oltredichè era ancor giovane d'anni e ben costrutto di membra, e una selva pittoresca di capelli fulvi e inanellati gli comunicava un aspetto poeticamente selvaggio, che lo faceva diverso da tutti gli altri. Lungo lo stradale egli galoppò accanto al carrozzino della contessa. Altri cavalieri avrebbero assai volontieri fatto corteggio a lei; ma dal giorno che Foscolo fu in carica, nessuno osò più accostarsi, perchè era nota l'indole del poeta soldato, e il suo coraggio e le sue furie e la storia dei duelli, ne' quali a' suoi avversarj non era mai riuscito di ferirlo. Tra via furono raggiunti dalle carrozze del vicerè, che salutò cortesemente la contessa, e non rispose al saluto di Foscolo. Di lì a poco passò la carrozza della contessa Aquila. Il conte la seguiva a cavallo insieme con altri suoi amici. La contessina Aquila e la A... si salutarono gentilmente nell'avvicinarsi delle carrozze. Quando la A... tornò ad esser sola con Foscolo: Conoscete voi la contessina? gli disse. Non la conosco, ma la vidi più volte, e mi piace, e mi commove la sua santa virtù... Siete tanto devoto dei santi? Ammiratore, non devoto. Quella donna non mi farebbe mai impazzire d'amore; ma la onoro e l'ammiro e sento una pietà profondissima quand'odo a dire che il marito la tiene in dominio di tirannia. Essa mi fa pietà anche perchè mi son fitto in testa che sia una di quelle creature nate sotto alla cattiva stella! Così parlava Foscolo, ed era così difatto; chi avrebbe pensato allora che persino la generosa pietà dell'autore dei Sepolcri doveva riuscire a danno di lei?
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