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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOQUINTO
    • V
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V

La caccia era incominciata fin dall'alba. Anzi i cacciatori entusiasti, della specie di coloro che opprimono gli amici obbligandoli a star sempre in ascolto di racconti venatorj, e darebbero dei punti ad Esaù, pronti a cedere un regno per una starna, s'eran trovati sul posto che era notte ancora. Però quando i personaggi di nostra conoscenza arrivarono a Lainate, giunsero più in tempo per far colazione che per empire il carnajo. Tra questi personaggi non si poteva defraudare il primato al conte Paradisi, a Vincenzo Monti, al librettista legulejo Anelli, e ad altri dell'inclita classe dei letterati, che il duca Litta voleva invitar sempre. In quanto al vicerè ed ai giovani ufficiali del suo stato-maggiore, sebbene sentissero l'obbligo di fare entro la giornata la loro mezza dozzina di fucilate, avevano altro per la testa. Essi erano cacciatori in ogni modo; ma cacciatori di cacciatrici. Le più eleganti e desiderate di queste, dalle carrozze passarono sulle selle inforcate dei leardi più o meno docili ed ammaestrati, che il duca Litta aveva fatto loro apprestare.

Così venne preparandosi una cavalcata, che poteva assomigliare a qualcuna delle più pittoresche del medio evo. Dopo qualche tempo la schiera, che era numerosa, cominciò a scomporsi, a dividersi, a sciogliersi in vari gruppi di otto, di sei, di quattro...

Dopo qualche tempo ancora si potè notare che non v'erano più gruppi ma coppie, e che taluna di queste coppie, a scoprir nuovo terreno e a veder nuovi accidenti di prospettive, s'era sbandata senza domandare il permesso a nessuno. Il vicerè per lungo tratto di via s'era sempre intertenuto a parlare col ciambellano marchese conte Pallavicini; poi a un certo punto, come se fosse per caso, si portò di slancio vicino al conte Aquila. La contessina Amalia, che cavalcava anch'essa, erasi dilungata di tanto quanto misura un cavallo, perchè un suo fratello l'aveva soffermata per raccorciarle la staffa. Il vicerè disse una parola di complimento al conte, e fece fare nello stesso tempo al cavallo due o tre impennate, che lo portarono innanzi d'un gran tratto e si volse come ad attendere il conte; il quale, sebbene di malavoglia, si trovò costretto a portarsegli di fianco. Così l'uno e l'altro si trovarono lontani dalla schiera comune.

Giacchè i cavalli, disse allora il vicerè al conte Aquila, ci han tratti fin qui, assecondiamo il loro capriccio, e teniamoci un po' in disparte dagli altri.

Il conte non rispose, perchè non comprese. Beauharnais mise allora il cavallo a un trottino sollecito, che costrinse il conte a far lo stesso. Così in pochi secondi furono fuori affatto della vista altrui, e si trovarono in solitudine perfetta.

Perdonate, signor conte, se vi ho tratto fin qui.

Il conte volse al vicerè uno sguardo, in cui la sorpresa non bastava ad ammorbidire l'orgoglio e un non so che di sdegnosamente imperioso da far dubitare chi dei due fosse il vicerè.

Questi continuava:

Sapete, signor conte, perchè oggi il duca Litta ha dato questa caccia?

No, rispose asciutto il conte.

Perchè io ne l'ho pregato, soggiunse il vicerè.

Il conte fece un movimento lieve colle spalle, quasi pensasse: E che m'importa?

E sapete perchè l'ho pregato, e a qual condizione?

Il conte taceva.

L'ho pregato perchè desiderava di trovarmi con voi; e la condizione fu appunto che egli facesse di tutto perchè voi non mancaste. Mi rincresce che la illustrissima signora contessa abbia dovuto affrontar l'aria del mattino; ma io credevo che aveste a venir solo.

Il conte capiva sempre meno; fermò uno sguardo acuto sulla faccia del vicerè, e nel punto stesso, per un movimento spontaneo, fermò il cavallo. Beauharnais fece altrettanto, mentre continuava:

È precisamente così, caro signor conte. Egli è da qualche tempo ch'io doveva parlarvi. Voi siete stato un mese fa il soggetto interessante di un lungo dialogo tra me e l'imperatore, che durò più di due ore.

Il conte, sebbene non amasse l'imperatore e tenesse in basso conto il vicerè, provò a quelle parole una soddisfazione d'orgoglio che non aveva mai provato in tutta la vita. La sua faccia si colorò, la circolazione del sangue gli si accelerò.

Per cagion vostra ho dovuto sentir dei rimproveri da Sua Maestà.

Per cagion mia?

Vi ripeto le sue parole testuali: "Io so che a Milano, nella classe dei nobili, c'è un giovine di una straordinaria capacità e di un carattere antico. Perchè non me ne avete mai parlato?" L'imperatore mi disse precisamente così. Io gli risposi che non glie ne ho mai parlato perchè sarebbe stato inutile, e gli toccai del tenore della vostra vita e dell'ostinazione a tenervi in disparte da ogni pubblico ufficio. So anche questo, mi replicò allora l'imperatore, e ne so anche la ragione, aggiunse. Ditegli adunque che egli giri uno sguardo per tutto l'impero e tutto il regno; consideri i seggi più difficili, e ne scelga uno. Questo ebbi io l'incarico di riferirvi.

Gli odj e le antipatie bene spesso non sono altro che una conseguenza dell'amor proprio offeso. L'uomo che è avido della stima altrui, sente un'avversione invincibile, per chi egli sospetta non ne abbia punto per lui. Quando uno dice: quel tale mi è orribilmente antipatico, e non so il perchè; non gli credete; il perchè lo sa benissimo; egli teme che colui non lo tenga in quel conto a cui egli aspira. Ma in conseguenza di ciò appunto, se per caso quel tale, contro l'aspettazione, si fa innanzi con degli attentati di grande considerazione, l'antipatia scompare di colpo e si converte nel suo contrario. Ecco perchè soventi volte vediamo diventare amicissimi due che si scansavano per antipatia. Dopo tutto, non è facile dar l'idea della repentina trasformazione che avvenne non solo in tutti i pensieri, ma, quasi diremmo, nello stesso carattere del conte Aquila, durante lo strano colloquio avuto col vicerè. Il suo orgoglio non fu mai sì appagato, lusingato, gonfiato, come in quel giorno. Quello fu per lui il più grande dei suoi trionfi; fu un trionfo inatteso che lo mise sossopra tutto quanto. Fece l'effetto di quei poderosi agenti chimici che improvvisamente decompongono e snaturano una sostanza. Nulla però ne trasparì al di fuori; il conte Aquila si contenne, e rispose pacato:

Mi fa meraviglia, altezza, come l'imperatore abbia potuto avere il tempo di pensare a me; come altri abbia osato fargli perdere il tempo parlandogli di me. Mi rincresce però che ciò sia avvenuto; che S.M. mi abbia dato un valore mille volte superiore al vero. Il fermo proponimento di rimanere nell'oscurità in cui mi trovo potrebbe parere scortesia e peggio; mentre non è che un bisogno, una necessità della mia vita fisica, morale, intellettuale. Io amo l'oscurità.

Perdonate, conte; ma lasciatemi dire che è l'oscurità dell'orgoglio.

Siete in errore, altezza. Dite piuttosto: della disperazione.

Disperazione... ma di che?

Dispero degli uomini e delle cose. Gli eventi che la fortuna onnipotente ha scatenati nel mondo da gran tempo, non appagano la mia natura; nè io ho tanta forza da mettere, per trattenerla, le mie braccia tra i razzi della sua ruota. Se però io vivo nell'oscurità e nell'inazione, S. M. mi deve ringraziare.

E perchè?

Perchè sarei pericoloso se operassi. Pericoloso a lui, pericoloso alla patria.

Non vi comprendo.

Vi dirò tutto. Ancora io dubito... se le mie opinioni avessero raggiunta la certezza, io sarei già stato un ribelle. Così versando ancora e nell'incertezza e nell'investigazione affannosa di chi cerca e ancora non trova, faccio atto di sapienza a star celato in casa nell'aspettazione della parola estrema che mi spieghi tutto il passato; nell'aspettazione dell'ultima pagina, in cui sia consegnata la prova e la riprova dell'idea madre di tutto il libro. Se domani io potessi convincermi che il costrutto architettonico dell'edificio napoleonico è perfetto, io sarei il più operoso capomastro dell'architetto sovrano. Spero, altezza, che voi mi saprete grado della mia sincerità. Io non potrei mai essere uno strumento nella mano di chi non comprendo.

Se il lettore è stato attento alle parole del conte Aquila, si sarà accorto come il disegno del suo edificio, ch'egli improvvisò dopo che la sua ambizione venne lusingata dal discorso del viceré, fosse fatto in modo da lasciare l'addentellato per un edificio di tutt'altro stile. È carattere dell'ambizione, quello di non aver nessun sistema prestabilito e inconcusso, ma di odorare il vento e virare e atteggiarsi a seconda degli avvenimenti e dell'invito delle circostanze. Al conte Aquila non parea vero che Napoleone avesse potuto parlare di lui in quel modo e avere di lui quel concetto; però, quando ebbe quella rivelazione inattesa, il suo pensiero fu tosto di approfittare della fortuna e di giganteggiare con Giove, giacchè era assai arduo il rinnovar l'impresa dei Titani. Così parlò in guisa da innalzarsi sempre più nel concetto di Beauharnais; facendo vedere, coll'apparenza della massima sincerità, quanto egli poteva essere pericoloso, e per conseguenza che magnifico e solenne compenso ci sarebbe voluto per renderselo amico; nel tempo stesso poi lasciò aperto un varco ad una nobile ritirata in quelle parole: Ancora io dubito. Il vicerè rispose:

Io vi ringrazio, conte; ma posso sapere se questi vostri sentimenti li avete manifestati ad altri prima che a me?

Ad altri sarebbe stato inutile; con voi, altezza, era indispensabile.

Io dunque vi ringrazio: ma ben più vi ringrazierò il giorno che vi compiacerete di uscire da una oscurità dannosa. Tutto quello che mi avete detto oggi stesso, lo scriverò all'imperatore, e mi lusingo che ci rivedremo presto. Ma ora ci conviene raggiungere il campo di battaglia. Sento le fucilate. Ecco l'Ajace dei cacciatori: il marchese Sannazzaro... È meglio che ci dividiamo, caro conte; questa dev'essere l'ala destra della caccia. Io vado a capitanare la sinistra; a rivederci in casa Litta.

Il marchese Sannazzaro, giovinotto alto, forte, bruno, peloso come un Esaù, era assai intrinseco di Beauharnais, e suo ajutante di campo nelle battaglie di Pafo e di Cipro. Beauharnais, senza dirgli il perchè, lo aveva incaricato di non lasciar più in libertà il conte Aquila, quando gli fosse comparso innanzi. Il vicerè, che era stato tante volte a caccia nei dintorni di Lainate, e conosceva benissimo i luoghi, era andato d'accordo col Sannazzaro, il quale co' suoi cani lo attendeva da qualche tempo a un posto determinato della campagna. Il conte Aquila, che era amico del Sannazzaro, rimase così dunque con lui.

Se vuoi fare qualche colpo, disse il Sannazzaro al conte, questo è un bel posto. I cani sono in lavoro. Discendi da cavallo, e dàllo lì al palafreniere, che lo condurrà in quel pagliajo.

Il vicerè intanto, di generoso trotto, preso per una scorciatoia che conosceva, raggiunse il grosso della comitiva.

Al generale Saint-Hilaire, suo ajutante di campo, aveva dato incombenza di farsi presso al cavallo della contessa Aquila, di allontanarla, con qualche pretesto, dal resto della schiera. Non vedendo adunque nè il Saint-Hilaire, nè la contessa, chiese agli altri dov'era il suo ajutante.

La contessa A..., che parlava enfaticamente con un colonnello dei dragoni reali:

Sono andati per di qui, rispose; c'è il poeta Foscolo con loro.

Il motivo per cui Foscolo s'era staccato dalla contessa A... fu perchè vide che il generale Saint-Hilaire s'era fatto a parlare colla contessa Aquila, e manifestamente aveva voluto allontanarla dal resto della compagnia. Come sa il lettore, egli aveva espresso all'amica un grande interesse per quell'infelice signora. Vedendola cogitabonda e mestissima, gli parve che fosse quel genere di mestizia a lui troppo noto: al vedere poi il vicerè parlare al conte Aquila e trarlo seco, gli entrò il sospetto e si confermò in esso quando osservò l'ajutante di campo di Sua Altezza fare altrettanto colla contessa. Non sapeva nulla, non capiva nulla, ma deliberatamente spronò il cavallo, e si portò ai fianchi della contessa Aquila, la quale un momento prima gli aveva domandato qual'era l'edizione più compiuta e più corretta dell'Ortis. Egli non poteva spiegarlo a sè stesso, ma conoscendo il vicerè e sapendo che l'ajutante lo serviva nelle tresche amorose più che sul campo di battaglia, quei movimenti lo misero in apprensione. Ugo Foscolo poteva essere rimproverato di tutti i peccati, ma era generoso; generoso oltre la sfera comune, generoso e cavalleresco.

Or continuando, Beauharnais mise il cavallo al galoppo. Dopo pochi secondi vide infatti la contessa tra Saint-Hilaire e Foscolo, li raggiunse, saettò con occhio iracondo l'ajutante; non osò far nessun atto dispettoso con Foscolo; disse alla contessa:

Il signor conte vostro marito vi chiama.

Saint-Hilaire rallentò il cavallo: Foscolo, incerto, lo rallentò esso pure, e si fece a parlare con Saint-Hilaire.

Il vicerè si pose a lato della contessa. Foscolo l'avea veduta smarrirsi alla comparsa di lui. Stette attentissimo durante il breve tempo che si trovò con loro. Quando Foscolo tornò presso alla contessa A...:

Sentite, le disse, se voi siete pentita di qualche vostro peccato, oggi potete acquistarvi mille anni d'indulgenza, facendo una carità.

Di che si tratta?

Quel che vidi e quel che sospetto, lo terrei chiuso in me per sempre; ma tacendo si può lasciar aperta la via ad un gran disastro. Voi siete amica della contessa... Se le siete amica, ditele dunque che stia in guardia. Ditele che quel gallo furfante di vicerè vuol disonorarla; che però sappia ritirarsi a tempo da un vergognoso abisso. Io abborro il conte; ma più di lui abborro il vicerè.

Ma come ora potete dirmi tutto questo, mentre un momento fa non sapevate nulla?

Ho l'occhio medico, madama, e quando lo fermo sulla faccia altrui, tutto quello che è di dentro m'appare di fuori. Avvisate dunque la contessa. Ma che ogni cosa stia segreta fra me e voi. Nè che la contessa venga a sapere mai ch'io ho parlato. Siete voi che avete visto, voi che date i consigli. Intanto fate in modo che la contessa ed il vicerè non stiano più soli. A me non conviene accompagnarvi. A rivederci alla villa.

Ugo Foscolo avrebbe fatto molto meglio a tenere in sè il sospetto, e non a incaricare una donna di dar consigli a una donna. È sempre un'impresa pericolosa. Ma è l'indole degli uomini generosi di mettere tutta la propria confidenza nella persona amata, di metterla a parte di tutti i proprj segreti, di desiderare che, in loro vece, s'innalzi con azioni gentili nell'altrui concetto. Ugo Foscolo della contessa A... volea farne una gentildonna perfetta; ma era arrivato troppo tardi.

In ogni modo, essa che non amava il vicerè (la ragione già ci sarà stata), acconsentì al desiderio di Foscolo, girò intorno gli occhi, chiamò il colonnello dei dragoni reali che già abbiam visto seco: Mettete gente insieme, gli disse, e seguitiamo il vicerè.

E molti si misero al galoppo. Il colonnello stava ai fianchi della contessa A...

Ed ora è certo che il lettore farà gli occhi attoniti, ad onta di tutto quello che abbiam detto sul conto della A...; ma pur troppo le faccende non eran nette con quel colonnello; Jacopo Ortis e all'Ombra dei cipressi non furono rimedj abbastanza eroici per far la cura radicale di colei. Essa in quel giorno sentì per il dragone, che aveva visto altre volte, una di quelle accensioni di cui già parlammo; di quelle accensioni che le facevano cacciar dietro le spalle ogni rispetto. Senza perder tempo, secondo il suo costume, con quei suoi modi, dove la sfacciataggine (già non c'è altra parola) si rendeva amabile per un garbo tutto suo proprio, aveva fatto la sua dichiarazione al colonnello, il quale dal canto suo pare che abbia voluto tener conto del proverbio che a caval donato non si guardi in bocca.

Raggiunsero il vicerè, che rimase sconcertato, e a tale che a un certo punto dovette lasciar la contessa. Questa si mise con altre dame. La A... era tanto infervorata del colonnello, che non si curò più della raccomandazione di Foscolo. L'ora si fece tarda. Scavalcarono alla villa Litta a Lainate. La contessa A... condusse le cose in modo da rimaner sola sotto un androne col colonnello. Questo, tirato nel vortice, baciato, baciò; ma in quella una scudisciata da cavallerizzo infierito fischiò e piombò sul tergo afrodisiaco della contessa A... Era Foscolo, il quale avea visto, e che accompagnò la scudisciata che fu il fulmine, con parole orride d'ingiurie che furono la gragnuola.

Il colonnello guardò Foscolo, che lo guardava furibondo.

Vi fu un momento di silenzio.

Io sono il colonnello Baroggi.

Ed io sono Ugo Foscolo.

Allora a domani.

A domani.

Fu un parapiglia di un istante, nessuno vide. La A... entrò nelle sale infuocata di erotismo insaziato, di vergogna e di rabbia.

Ma è possibile e probabile questo fatto che abbiamo narrato? È codesta una questione inutile. Dal momento che un fatto è realmente avvenuto, potrà essere strano, inverisimile, incredibile; tutto ciò che si vuole, ma non cessare per questo d'essere avvenuto.

Foscolo, poeta sentimentale; Foscolo, cavaliere degno della Tavola Rotonda; Foscolo che aveva tuonato nei caffè per difendere la rediviva Aspasia, ha potuto percuoterla come una cavalla da maneggio? È un tormento a pensarci, ma non c'è rimedio. Egli è certo che non fece bene; è certo che egli doveva appagarsi di disprezzarla e di abbandonarla. È certo che anch'egli se ne pentì e se ne vergognò nel punto stesso che vide contorcersi sotto il flagello spietato le bianche spalle tanto care un minuto prima. Ma si può disfare e rifare un verso; non distruggere una battitura. D'altra parte, volendo metterci un istante ne' panni di Foscolo; volendo considerare che il suo temperamento era tutto di materia incendiaria, non è possibile pretendere che all'inatteso spettacolo dell'amante che bacia un dragone dovesse imitare quel professore di diritto romano che si accontentò di mostrare al ganzo della moglie infedele che cosa un marito offeso avrebbe potuto fare se si fosse attenuto al codice Giustiniano.

Ma che Foscolo abbia avuto ragione o torto, è una questione affatto secondaria. Le serie conseguenze furono che il segreto ch'esso per generosità comunicò alla A... cessò di essere un segreto; che la contessa in quel dì stesso lo comunicò alle altre sue amiche e alla Falchi e...

Vedremo in seguito quel che avverrà di questa istoria.

 




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