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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOSESTO
    • I
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I

Nel tempo in cui Beauharnais diede quella festa, che fu l'ultima del regno italico, la gloria e la potenza di Napoleone avevano raggiunto il loro apogeo. L'adulazione dei letterati cesarei, che si eran fatti imprestare dal Giove d'Omero i classici predicati d'Ottimo e di Massimo, per darli a Napoleone, rappresenta compiutamente quel periodo. Al pari e più di Nabuccodonosor, esso allora poteva dire: Non son più re, son Dio. Ma è una legge eterna della natura e dell'umanità che il grado massimo delle cose sia transitorio. Bonaparte impiegò quindici anni a toccare il vertice supremo d'una onnipotenza umana, che quasi rendea l'ideale dell'onnipotenza divina; ma in quindici mesi tutto precipitò. Il simbolo biblico del colosso dal capo d'oro e dai piedi di creta è la formola perpetua che riassume la biografia di coloro, i quali abusarono d'un genio smisurato per far violenza ai minori viventi, andando a ritroso delle leggi economiche della società. Con ventotto mila uomini in ciabatta, e dodici cannoni stracchi, Bonaparte in tre mesi spaventò l'Europa. Con ottocentomila soldati e milleduecento cannoni provocò il barbarico ghigno dei pidocchiosi Cosacchi.

Ma coi laceri e mal pasciuti battaglioni il genio aveva operato miracoli, perchè trovò un ausiliario nelle aspirazioni dell'universalità. Armato di una forza materiale quale non s'incontrò mai nella storia, il genio si degradò e fu umiliato perchè pretese di soffocare i desiderj legittimi delle nazioni. Assecondando le leggi della natura, un fanciullo può far portenti, movendo una macchina ben congegnata; ma un braccio d'atleta si spezza se pretende arrestare una ruota mossa dal vapore.

Il genio, essendo l'espressione massima della potenza delle facoltà mentali che si corroborano e si esaltano a vicenda per la virtù di una conflagrazione eccezionale che quasi esce dalla condizione fisiologica, se appena d'un grado sorpassa quell'espressione, tosto si altera in modo da diventare un accidente patologico. L'ingegno e il genio, già lo scrisse il Sarpi, non sono altro che una lenta infiammazione del cervello. Concesso che ciò possa esser vero, appena quell'infiammazione cresca di qualche poco, siamo già allo stato dell'encefalite. Romolo, che senza dubbio fu un uomo di genio, negli ultimi anni del suo regno ebbe tali afflussi di sangue alla testa e diventò così prepotente e insoffribile, che i padri coscritti, tanto per respirare, cogliendo l'occasione di un temporale, lo fecero scomparire dalla terra e lo trasmutarono in una stella meno incomoda a loro e ognor cara alle credule plebi. Il genio di Alessandro il Grande subì a trent'anni una così tremenda flogosi, che trucidava gli amici a titolo di passatempo. Alla possibile encefalite di Giulio Cesare apprestarono i congiurati la cura preventiva di ventitrè salassi.

Tornando a Napoleone, come è noto che a Parigi vi fu un momento critico in cui si pensò a farlo scomparire al pari di Romolo, così è un fatto che dopo la pace di Tilsit, quando si vide ai proprj piedi i troni degli altri re, e ricevette fumate di incenso adulatorio dal fallace Alessandro; e vestì la polacca di velluto verde coll'ermellino e l'oro e i rubini per sembrare più avvenente alla malfida di Varsavia, ei ritornò a Parigi tutto trasmutato e così furioso d'orgoglio che gli si oscurò la vista e non discerse più il vero.

Nelle spedizioni fatali della Spagna e della Russia son consegnate le prove della non breve malattia del suo genio. Ognuno sa come i suoi luogotenenti ad una voce si lamentassero ch'egli fosse diventato inerte e torbido e strano sui campi di battaglia. Ognuno sa come Ney abbia detto che sarebbe stato ben meglio ch'esso si fosse fermato a Parigi a far l'imperatore. Bensì la sventura doveva risanarlo; il ghiaccio di Russia e i disastri di Spagna dovean ricondurre la calma e l'equilibrio nelle sue prodigiose facoltà mentali, sebbene sia stato indarno, perchè fu troppo tardi. Il sansone ricuperò la forza fatale, ma non gli valse che ad infrangere le colonne per rimanere anch'egli schiacciato sotto alle rovine del tempio.

Piegando al concreto delle cose, tutt'Europa, negli ultimi giorni del 1812, era variamente attonita per la notizia degli orrendi disastri di Russia. Più di settecentomila famiglie gemevano in quei giorni o sconsolate o tementi; in quanto all'esercito d'Italia, sapevasi come fosse ognora avvolto in tutti i pericoli d'una disastrosa ritirata. Tutta Milano era in lutto; disotto al lutto scoppiavano gli odj e le ire in addietro compresse. I lodatori del nome napoleonico tacevano per paura; i giusti estimatori, che non si lasciavan vincere nemmeno dalla mutata fortuna, si chiudevano in se stessi, per non insultare alle piangenti famiglie; e tutti, stanchi delle voci vaghe e generali che accrescevano le proporzioni della sventura, col non definirla, aspettavano notizie più particolari, più esatte; aspettavano lettere di qualche attore del sanguinoso dramma; aspettavano con impazienza carriaggi di feriti. Il primo di gennajo del 1813 verso sera si sparse finalmente la voce che era giunto a Milano, insieme collo scudiere Alemagna, il notissimo corriere Barbisino, famosissimo allora per la sua robustezza fisica e per aver fatto più volte quasi d'un fiato il viaggio da Parigi a Milano. Durante la notte, il cortile dell'albergo dei Tre Re, dove il Barbisino alloggiava, fu per più ore gremito di gente che si rinnovava ogni minuto. Il corriere, mentre cenava, descriveva, raccontava, rispondeva a cento domande.

La tavola a cui esso sedeva, era tutt'all'ingiro circondata da una folla stipatissima di ascoltatori.

Senti, Trasella (così parlava il corriere, e Trasella era il nome del maneggione dei Tre Re), giacchè l'ora è tarda, dovresti far chiudere l'osteria e mandar a casa tutta questa santa croce di gente, che con tanto freddo sta lì ad aspettare in corte. Già è impossibile che io abbia potuto veder tutti i loro parenti e figliuoli che hanno militato in Russia... Bisogna dir loro che si preparino a non veder più nessuno. Di seicento o settecento mila uomini è molto se rivedranno le loro case da dieci a dodici mila giovani. Per duecento leghe continue io non ho visto che morti. Morti di freddo, di fame, di malattia. Chi è morto è morto, e non c'è rimedio. Io credo che, dal diluvio in poi, non sia mai successo un disastro così spaventoso. Il mio collega Brioschi è morto di freddo poco lontano da Vilna, e il corriere Rampini che viaggiava con lui ha dovuto di propria mano scavargli la fossa e seppellirlo. Bisogna averle viste e passate a cavallo quelle pianure sterminate di ghiaccio e di neve. Bisogna aver provato l'effetto di quelle solitudini immense, e di quel silenzio profondo e misterioso, che mi faceva credere d'esser fuori di questo mondo. Vi basti il dire che persin la vista dei cadaveri mi alleggeriva dallo spavento e mi faceva compagnia. Era per essi se m'accorgevo d'essere ancora a questo mondo.

Ma, e Napoleone?... chiedeva un ascoltatore.

E di tanto in tanto quell'orrido silenzio veniva rotto da scoppj violenti, i quali mi facevan credere che da lontano continuasse ancora la battaglia... E dite un po', che cosa era? Erano i tanti e tanti cavalli morti, che imputriditi e gonfiati e ingrossati come elefanti, crepavano per dar sfogo ai gas in fermentazione...

Ma, e Napoleone? chiedeva per la seconda volta il solito ascoltatore.

Questo signore l'ha sempre con Napoleone. Napoleone sta ora scaldandosi al caminetto... Per adesso non le posso dir altro... Ma a Parigi si sparla assai del suo contegno, e dell'aver abbandonato l'esercito, e dell'aver lasciato tutto nelle mani di Murat, che poi se la cavò per lasciar nell'impaccio il vicerè... Ma, a proposito di caminetto, Napoleone ha detto una parola che irritò tutti i Parigini, e segnatamente coloro che hanno perduto e piangono, o aspettano i loro figliuoli assassinati.

E che cosa ha detto Napoleone?

Ha detto, fregandosi le mani, ch'ei si trovava assai meglio al caminetto di Parigi che al ghiaccio di Russia...

Fin qui non poteva dir altrimenti. Sfido io!

Certe cose si pensano, e non si dicono... Ma, dopo tutto, non sarebbe mai escito in quelle parole se fosse stato in mezzo ai soldati. Sapete, a proposito, che cosa mi raccontò lo scudiere Alemagna, che ho trovato a Parigi, e che ha perduto a Brescia i dispacci del vicerè? Mi raccontò, dunque, che l'ira e la disperazione e l'insubordinazione erano a tal punto fra gli stessi soldati della guardia, i quali per il freddo soffrivano fino allo spasimo, che non seppero tollerare che Napoleone stesse chiuso in carrozza, e gli gridarono minacciosi: Giù dalla carrozza! e Napoleone, atterrito di quella dimostrazione per lui strana e nuovissima più che del pericolo di cadere nelle mani di Pultow (il quale, se non lo sapete, è un generale cosacco tutto pieno di pidocchi e in tanta famigliarità con essi che allorquando sta riposando si diverte a farne la caccia sulla propria testa)... Dunque... che cosa dicevo? Ah, dunque Napoleone fu così atterrito da quel grido d'indignazione disperata, che discese a piedi, calcando la neve, insieme cogli altri. Ma nemmeno questo bastò, perchè essendo tutto imbacuccato nella pelliccia, i soldati tornarono a gridare: Fuori la pelliccia! Ed egli si mise in redingote, perchè i soldati lo guardavano come chi ha volontà di metter altrui le mani addosso. Questi fatti precisi li seppe il conte Alemagna dall'ajutante del vicerè.

E che cosa dicono i Parigini?

Che cosa dicono? Se non fosse per la lingua, un forastiero potrebbe credere di essere piuttosto a Londra che e Parigi.

Cioè?...

Cioè... non mi capite? Voi altri sapete quanto Napoleone sia odiato dagli inglesi. Ebbene, fate conto che, in confronto dei Parigini, gli Inglesi possono passare per adulatori. In quarantott'ore che mi son fermato a Parigi, non ho sentito che bestemmie, e ingiurie e satire. In ogni modo, torneranno a tacere, perchè il ministro Fouché è l'uomo dei miracoli, e fra pochi dì chi non saprà parlar bene, starà in silenzio. Intanto è pericoloso a pigliar le difese di S. M. nei pubblici convegni, tanto è vero che (e questa che vi vendo è nuova di zecca) il nostro conte Aquila che trottò a Parigi, per vedere più dappresso il temporale, così almeno mi fu detto, e in un caffè, con quel suo fare altero e dispotico, diede sulla voce a un Francese perchè insultava alla sventura (tali erano le sue parole), poco mancò non venisse maltrattato da quanti erano presenti. E vi dirò inoltre che fu esclusa da qualche casa quell'intrigante petulantissima della moglie dell'avvocato Falchi, la quale andò a Parigi invece del marito; e colà faceva da profetessa, e assicurava vittorie grandi e prossime, e tutto ciò perchè le premeva di smerciar i boni del tesoro che l'avvocato ebbe troppa premura di acquistare. Queste cose io le sentii a Parigi da un commesso viaggiatore, e vi ripeto che due o tre case di banchieri, dove probabilmente ci sarà stato da piangere qualche giovane soldato morto sotto il ghiaccio, la misero sgarbatamente alla porta.

Queste parole franchissime, pronunciate in una pubblica osteria da un corriere pagato dal governo, dimostrano come fosse cessata, per il momento almeno, l'idea della sterminata autorità napoleonica, e come ognuno desse libero sfogo ai proprj sentimenti, avendo ritornato il dio alle proporzioni dell'uomo. I cittadini milanesi, seguendo l'impulso di quell'indole che ne costituisce il carattere speciale (ed è quello di trar materia di ridere anche da qualunque sventura), ricamavano di barzellette e dicerie ed epigrammi la tremenda epopea tragica di Napoleone; ma perchè non si creda che fossero spietati dell'altrui sventura, convien dire che continuavano le celie anche allorquando del gran disastro napoleonico, essi insieme col resto dell'impero, dovettero adattarsi a pagar le spese per tentar di rifare il disfatto colosso.

Ognuno sa come, appena Napoleone fu giunto a Parigi, a tutt'i sudditi del vasto impero fu fatto intendere dai ministri, dai prefetti, dai sottoprefetti, la necessità di fare a Sua Maestà delle oblazioni volontarie. Per fermarci a Milano, tutti i corpi pubblici mandarono copiosi doni all'imperatore; tutti i magistrati, tutti gli impiegati, tutte le classi cittadine, i banchieri, i negozianti, i giojellieri, gli orefici; gli ordini degli avvocati, dei notai, dei ragionieri, dei medici fecero a gara nell'offrir danari e doni, in virtù di quella volontà comandata, che spesso è più forte della volontà spontanea. L'Ospedal Maggiore e quello di S. Corona concorsero anch'essi, per mezzo degli amministratori, ispettori e giù giù fino agli infermieri, a quello scopo. Gli stessi preti in cura di anime nei due nosocomj si tassarono soldi quindici per ciascuno. L'impresario della Scala diede una serata a beneficio di S.M., e in quella sera tutti i virtuosi di canto e di ballo fecero una colletta, che trasmisero alla direzione del R. Teatro. Mad. Ribier, modista della viceregina, mandò al ministro la oblazione di franchi trecento. Ma, come dicemmo, se i Milanesi si distinsero per l'abbondanza delle elargizioni, nel tempo stesso se ne ricattavano con satire. Una mattina di gennajo molta folla s'accalcava per leggerne una, che a grandi caratteri era stata impastata sul portone di mezzo della Metropolitana. La satira era questa:

Milan l'è de vend:

In quaresma l'istrument.

General e uffizial

Hin tucc all'ospedal:

De soldaa ghe n'è pû;

Bonapart el cerca sù.

Questa era l'espressione comica del sentimento generale dei Milanesi, segnatamente della classe operaja e della gente minuta. Ma se l'espressione era comica, conteneva nella sostanza qualche cosa di terribilmente profetico, che potea dar da riflettere agli uomini serj. Il verso Milan l'è de vend , come un'effemeride astronomica, annunciava gli accidenti dell'anno successivo.

A queste satire in vernacolo, rappresentanti l'acume popolano che riassumeva il vero senz'odio e senza menzogna, facevano contrapposto altre satire che circolavano manoscritte e si leggevano ne' crocchj del teatro, nelle conversazioni, nei caffè; ed erano l'espressione delle ire e delle antipatie di qualche patrizio incarognito pel passato, di qualche letterato testardo, di qualche prete che aveva perduto la prebenda.

Già fin dal dicembre, quando Napoleone a grandi giornate s'affrettava a Parigi, erano corsi per tutte le mani i seguenti distici:

Napoleon quondam Magnus cognomine dictus,

Nunc merito in castris dicitur exiguus.

Coelo ipsum petiit furibunda superbia regis,

Dementem regem deprimit ipse deus.

Funditus absorpta est, Bonapars, victoria; avitos,

Si poteris, satis est, tutus adire lares.

Nei primi mesi dell'anno 1813 il cavaliere Aldini scriveva incessantemente ai ministri del regno italico, perchè sollecitassero indirizzi da tutte le parti a felicitare l'imperatore, ad assicurargli attaccamento e fedeltà, a lodarlo dell'avere saputo scappare perfino all'ira degli elementi, a far voti per nuove e più gloriose vittorie; e tosto corse per Milano un epigramma, che si disse mandato da Roma da Alessandro Verri al fratello Carlo, che fu poi presidente della reggenza. Il conte Carlo lo lesse in privato a pochi e fidatissimi amici, coll'esortazione preliminare di non parlarne in pubblico, o almeno di tacerne l'origine. Ma, come al solito, il segreto fu sparpagliato ai quattro venti, e l'epigramma lo ebbero anche i cioccolattieri, che se lo fecero tradurre da qualche canonico. Eccolo nell'originale latino:

Napoleon Regum dedecus, furumque magister,

Quem tota abhorret progenies hominum.

Attamen a cunctis laudari mandat et ambit.

Nec pudet heroem se celebrare virum.

A poco a poco però le satire scomparvero; un po' gl'indirizzi, un po' i giornali, un po' le notizie che venivano da Parigi, un po' il falso, un po' il vero; ma più di tutto il fatto che Napoleone delle oblazioni dei sessanta milioni di sudditi e dei mezzi finanziarj improvvisati per miracolo, e del novello esercito che si vedeva a comparire da tutte le parti, accennava di ristaurare il crollante edificio; tutte queste cagioni insieme fecero tale effetto, che l'ammirazione compressa ricominciò ad espandersi, che gli amori che parevano spenti si rinfocarono, che i suoi nemici vecchi si rintanarono, che i suoi devoti intiepiditi si riscaldarono ancora. E di giorno in giorno ritornavano gli avanzi dell'esercito italiano. Il popolo andava ad incontrarli alle porte; erano ovazioni, erano sfoghi d'affetti. Alcuni mesi prima Napoleone veniva maledetto; mentre, ad onta di tanti antecedenti avversi, il principe Beauharnais veniva esaltato pei suoi sagrifizj, per la sua costanza, perchè solo era rimasto a proteggere la ritirata degli estremi avanzi del grand'esercito.

Ma i convogli dei reduci feriti vennero a cambiare il favore popolare in odio; si raccontarono le ingiustizie fatte da Beauharnais ai soldati italiani, si raccontavano le controversie avute col general Pino; l'iniqua malizia con cui impedì alla divisione di quel generale di segnalarsi in più fatti d'armi ove il suo aiuto sarebbe stato tanto salutare. In una parola, Napoleone fu rimesso sul piedestallo, e il vicerè fu generalmente detestato. Ad accrescere quest'odio giunsero da Parigi a Milano il conte Aquila e la moglie dell'avvocato Falchi. Essi avevano fatto il viaggio in compagnia. L'ambizione che aveva spinto a Parigi il conte Aquila, e i boni del tesoro per cui la moglie dell'avvocato erasi recata a scandagliare le banche francesi, furono le cause funeste degli avvenimenti che racconteremo.




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