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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOSESTO
    • VI
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VI

Lasciando questo incidente, e tornando al tema del precedente dialogo:

Domani andrò a Milano, proseguì il conte. L'umore d'una popolazione non si può conoscere davvero se non le si vive in mezzo. Vedrò e sentirò. Tutto per altro dipende dall'esito delle nuove battaglie; l'esito momentaneo, intendiamoci, perchè del finale mi tengo sicuro.

Se andate a Milano, fate di vedere il Milordino che fu con me testimonio della sfacciataggine del principe. Sentendo lui prima di parlargli di me, vedrete che alla pura verità non ho aggiunta nè levata una sillaba. Ed ora vorrei pregarvi di una cosa.

Che cosa?

Che la buona e brava signora contessa non debba avere nessun dispiacere per quello che vi ho riferito.

Siate tranquilla; io sono sicuro della sua innocenza. Io non le parlerò giammai di questa avventura. E voi, madama, dovete promettermi di non parlarne mai con nessuno. Il vostro silenzio vi sarà compensato... con usura... quando si tratteranno cose di ben più grave momento.

Ho taciuto tre anni, posso ben tacere tutto il resto della mia vita.

Mi annoja però che il Milordino siasi trovato con voi quella notte.

Esso è vostro amico, ed è nemico del vicerè. Quando io lo pregai di tacere, mi rispose che se si fosse risolto di parlare, non lo avrebbe fatto che con voi solo.

Dopo queste parole, il conte Aquila, serio ma tranquillo in apparenza, si licenziò da madama Falchi.

Abbiamo detto in apparenza; e in fatti quando fu solo passeggiò agitatissimo lungo la Senna. Il suo orgoglio non gli aveva permesso di dare alla Falchi lo spettacolo d'un marito geloso, furioso e tradito. Egli, come Alboino, non voleva degnarsi di domandar conto ad altri della fedeltà della moglie; egli lo diceva, e doveva bastare. Ma quell'orgoglio, in ragione che gli avea comandato di atteggiarsi da uomo calmo, gli avea addensato tanto livore e fiele nel fegato, che sentiva la tentazione di mordersi le mani per dargli uno sfogo meccanico qualunque. Egli pensava che se sua moglie fosse stata innocente, sarebbe stata e avrebbe dovuto essere la prima a manifestargli l'atto sfacciato del vicerè; pensava che questi doveva avere troppo timore di lui, per osare quell'atto, se non fosse stato certo che la contessa avrebbe taciuto. E qui, richiamandosi in mente le parole del vicerè, e le lodi da lui ricevute a nome dello stesso imperatore, si sentiva doppiamente umiliato, perchè sospettava che quella grande stima di S.M. poteva essere invenzione del vicerè stesso per abbonirlo e ingannarlo e tradirlo.

Sentiva, per conseguenza, che non solo il vicerè non lo stimava, ma lo disprezzava come qualunque altro uomo volgare, credendolo degno di prenderlo al laccio e di scornarlo poi. E qui, invece di provare compassione per sè, che si era lasciato ingannare; di nutrire ira pel vicerè, che lo aveva disprezzato, sentiva colmarsi il petto di un veleno e di un odio mortale contro la propria moglie; argomentando che per sola sua colpa era nato tanto scandalo. Povera donna! ed era innocentissima!...

Il giorno dopo si recò a far visita al marchese F..., nella cui casa trovò anche l'avvocato Gambarana di Pavia:

Prima di tornare a Milano, sono venuto a trovarti, marchese.

Ti ringrazio, e ti prego di un piacere. So che qui l'avvocato t'ha informato della lite che m'è stata intentata dal Baroggi. Ebbene, avrei bisogno che tu parlassi al ministro di giustizia; so che lo conosci... e che ti mettessi in comunicazione coi due presidenti del tribunale e con quanti giudici tu puoi. Qui all'avvocato fu scritto che il vicerè, in tono minaccioso, ha già fatto sapere a quei signori ch'egli voleva essere informato dell'andamento di tutta la procedura, e che avrebbe vegliato perchè si adempisse alla più scrupolosa giustizia. E anch'io voglio la giustizia; ma dico nello stesso tempo che il vicerè comincia ad infrangerla col far pesare la propria autorità sull'opinione dei giudici.

Il ministro di giustizia è più tremante del vicerè che dell'imperatore. I due presidenti poi tremano del ministro. Dunque per quella via non c'è da fare nulla, marchese: ma io me ne occuperò in ogni modo; è tempo di farla finita anche con questo asino prepotente di vicerè. Eppoi, eppoi... le liti giuridiche sono solite ad andare fino alle calende greche. Dio sa dove sarà Beauharnais quando uscirà la sentenza finale dei tribunali!

Ma non vorrei che intanto mi si sospendesse l'amministrazione della sostanza in quistione... Starei fresco, caro conte!

È qui il nodo, soggiunse l'avvocato.

E su questo tema quei signori continuarono a parlarne per un pezzo, e ne parlarono ancora quando accompagnarono il conte fino all'Ufficio delle Messaggerie del Moncenisio, il giorno della partenza di lui per Milano.

Come allorquando vediamo un piccolo nuvolo in sull'orizzonte, che non sembra dover turbare per nulla la tranquillità del cielo; ma poi quasi facendosi incontro ad altro nuvolo che non si sa donde siasi spiccato, si congiunge e s'ingrossa con quello, e a poco a poco altri si accumulano in modo che chi guarda può benissimo aver timore di un temporale; così, per caso, vennero a congiungersi in Parigi e il conte Aquila e la Falchi, poi l'avvocato Gambarana e il marchese F... e il vicerè, e il colonnello Baroggi, che rimasto pochi giorni a Parigi, era tosto partito per Milano.

La rivelazione di un fatto improvvisò di punto in bianco un nemico implacabile a Beauharnais; una quistione giuridica di indole puramente privata, per influenza onnipotente dell'interesse, avvicinò un altro patrizio al conte Aquila, nel desiderio di vedere in rovina il figlio adottivo di Napoleone; la Falchi, sollecitata dall'auri sacra fames, ci fece presentire un altro temporale, che dovrà scaricarsi su altre teste. Vedremo, tornando a Milano, di che qualità sarà la grandine.

 




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