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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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XVI Ritornando tre ore indietro, e rientrando nel teatro della Scala, saliamo le scale de' palchetti fino alla quarta fila e facciamo capolino all'ingresso del N. 18 di facciata. Per una strana combinazione le tappezzerie, gli specchi, le dorature di quel palco anche oggi sono ancor quelle dell'anno 1813, e se il lettore se ne vuol persuadere, ne esamini lo stile decorativo, guardi gli specchi pallidi, e smonti, consideri l'oro ridotto al punto da sembrare un signore decaduto. Al parapetto di quel palco sedevano il colonnello Baroggi, che per la ferita ostinata e ribelle non aveva potuto seguire al campo il reggimento; sedeva donna Paolina femminilmente abbigliata, con gran dispiacere di chi amava vederla sempre in assisa di dragone, ma rilevante la nudità delle sue olimpiche braccia in compenso delle gambe scomparse sotto la veste prolissa. Vicino a donna Paolina stava il vecchio Andrea Suardi, il Galantino del 1750. Sessantatrè anni eran passati sulla sua persona; ma nella lunga lotta con essi egli era rimasto in piedi, tutt'altro che disposto a lasciarsi atterrare. Gli occhi aveva vivissimi e viperini, e l'abitudine a volgerli obliqui, per quell'espressione indefinibile di astuzia maligna e sardonica che fu sempre il carattere dominante della sua bella faccia, erasi impadronita dei muscoli al punto, che quel modo di guardatura, in gioventù fuggitivo e a guizzi, in vecchiaja era divenuto costante. Il colore della sua pelle che, se il lettore se ne ricorda, si protrasse con molle freschezza quasi muliebre fino agli anni virili, aveva cessato di essere equabilmente diffuso su tutta la faccia, ma s'era invece come rappreso e ritirato agli zigomatici, con lievi screpolature salsedinose. Le guancie si erano emunte, mancato il sostegno di parecchi denti molari; a malgrado di ciò, la bocca avea conservata qualcosa della prisca eleganza. I capelli avea bianchi come l'argento, ma lucidi come quello, ma ancor fitti e inanellati e cadenti in una ciocca tra le tempie, a lambire la divisione de' sopraccigli. Era insomma un bellissimo vecchio, com'era stato un bellissimo giovane; nè, in quanto alla foggia del vestire, s'era dimenticato dell'eleganza onde gli venne il soprannome. Portava una giubba color oliva a larghe falde, giusta le prescrizioni dell'antipenultimo figurino di Parigi; calzava stivali di sommacco con fiocco agli orli delle gambiere e increspature al collo del piede. Dai taschini gemelli de' calzoni uscivano, di sotto al panciotto di casimiro bianco, due catenelle con suggelli di corniola e d'ametista, ad indicare il costume non ancora cessato dei due orologi in vicendevole controlleria. Il musico Velluti aveva finito di cantare il suo arione, quando entrò in palco un servitore di teatro per dire al Suardi che un signore desiderava di parlargli, e domandava il permesso di entrare. Ma entri pure, disse Galantino. Poco dopo entrò infatti il signor attuaro Tagliabue, che il Galantino si fece seder vicino, col solito: In che posso servirla? Ella avrà ricevuto dal tribunale civile di Milano l'invito a comparire innanzi al signor giudice cavaliere F... Per l'appunto, signore; sono arrivato oggi stesso e domani mi lascerò vedere. Il signor giudice, che è in teatro e ha saputo che V. S. era qui, a guadagnar tempo e a levarle il disturbo, mi ha mandato a dirle, ch'egli era disposto a parlarle questa sera stessa, e che perciò l'attendeva nella sala del Ridotto. Per me tutti i momenti son buoni. Allora io l'accompagnerò. Mi rincresce che l'opera non sia finita... Ella faccia come crede... No, no andiamo pure a Milano mi fermerò alcuni giorni, e avrò tempo di sentire il resto un'altra volta. Con queste parole il Galantino si alzò; disse a donna Paolina: torno subito e partì coll'attuaro. Il cavaliere F... era seduto al camino nella solita sala del Ridotto; mosse incontro al Suardi, quando questi entrò in compagnia dell'attuaro, se lo fece sedere vicino e: Ella mi perdonerà, disse, se l'ho costretto a mettersi in viaggio di questa stagione. Non stia a darsi fastidio, signor giudice, fu anzi per me una buona occasione di scuotermi d'addosso la poltroneria. Quand'è così, tanto meglio. Intanto mi figuro che ella avrà già indovinato il motivo per cui l'ho fatto chiamare. Avendo saputo che la causa del colonnello Baroggi era stata affidata a lei, cavaliere, tosto ho imaginato che la mia chiamata dipendesse da questo oggetto. Le dirò anzi, che sarei venuto a Milano anche senza essere chiamato; perchè ho pensato che avrei forse potuto gettare qualche luce in quella materia imbrogliata. Or dunque, come stanno le cose? Ho sentito dal colonnello, che il suo avvocato non gli dà troppe speranze. Non so che dire. Se non si sa da qual parte è saltato fuori il testamento, tanto fa che avesse continuato a dormire dove dormì per sessant'anni. Qui il giudice diede al Suardi una di quelle occhiate che assomigliano agli specilli dell'arte chirurgica. Esso, dal marchese F... per mezzo del conte Aquila, recentissimamente aveva ricevuto una lauta caparra, in anticipazione d'un più lauto compenso finale; di maniera che le bilancie della Giustizia nelle sue mani eran ridotte alla condizione di un orologio le cui sfere si menano a dito, a seconda dell'ora che meglio si desidera. Ma contuttociò, siccome era stato criminalista e aveva sortito dalla natura la smania dell'indagine legale, e aveva sempre riposta tutta la sua compiacenza nell'abilità di far cantare un delinquente; così e per impulso naturale e per abitudine di mestiere, sentì la tentazione di gettare un laccio al vecchio Galantino. Ma siccome le trappole anche meglio dissimulate sono viste alla lontana e scansate dai topi veterani, così il Galantino, ridendo fra sè e delle parole e dell'occhiata del giudice: Eh... pur troppo, rispose, sono anch'io del suo parere, signor cavaliere, e mi rincresce pel colonnello che ho visto nascere e a cui voglio bene; il quale, benchè siasi imparentato con una delle più nobili famiglie di Milano, il fumo non gli ha lasciato mai veder l'arrosto, perchè quello scavezzacollo di suo suocero ha portato via tutto ed ha mangiato tutto. Ma capisco anch'io che tutti i buontemponi, che si divertono alle spalle del prossimo, potrebbero tutti i giorni inventare dei testamenti, così a titolo di passatempo, mettere la confusione nei tribunali e la disperazione nelle famiglie. In questo caso però dovrebbero essere stati i buontemponi di sessant'anni fa. E il giudice scandagliò ancora acutissimamente il Galantino. Questo io non lo posso sapere. Bisognerebbe che, al pari del signor giudice, avessi potuto vedere il testamento. La carta, il carattere, l'inchiostro... che so io... Io ho delle scritture di quaranta, di cinquant'anni fa, che nessuno direbbe essere di quest'anno. Una tale diversità, secondo me, dovrebbe già costituire un indizio... Come fa ella a dir questo? Io sto alle parole del signor giudice; per qual cosa ella ha parlato dei buontemponi di sessant'anni fa? Così per modo di dire... Qui il Galantino diede al giudice una di quelle sue occhiate oblique, saettanti, lunghe. Parve, per un momento, che si fossero scambiate le parti. Il cavaliere F... taceva. Ora, se è lecito, continuava il Galantino, domanderei a che oggetto ella mi ha fatto venire a Milano? Per sentire da lei tutto quello che potrebbe sapere in proposito. Ciò che so io è ciò che dovrebbero sapere tutti quelli che possono vantare una fede di battesimo al pari della mia... Ella però... Continui pure; cavaliere, e non abbia paura d'offendermi. Sì... io ebbi più volte dei replicati incomodi per questo malaugurato testamento... e parrebbe di dovere ch'io dovessi saperne più di tutti... ma in conclusione, io non posso dir altro se non che i giudici e avvocati e criminalisti sono come i medici, i quali in presenza di certe malattie, si trovano imbrogliati al pari di qualunque idiota. Come sarebbe a dire?.... Mi perdoni, signor giudice; ma che in sessant'anni non si abbia mai potuto scoprirne nulla... è cosa che fa senso... per cui devo dire che quell'avvocato e quel giudice, il quale in tale occasione arrivasse a coglierne qualche filo, meriterebbe un posto d'onore vicino a quel professore di Pavia che ha inventato la pila. Non occorre che sia nè giudice nè avvocato... Ella che fu contemporaneo alla scomparsa inesplicabile di quel testamento, ella solo potrebbe avere i mezzi di acquistare tanta gloria... E qui un'altra occhiata acuta e profonda. Tutto quello che potrò fare, lo farò, perchè mi sta veramente a cuore la sorte del Baroggi e di sua moglie; ma avrei bisogno di essere ajutato. Si spieghi. Intanto non reticenze. Vale a dire? Vale a dire che io vorrei sapere da lei se il testamento che tiene in sua mano ha i caratteri di essere stato fatto sessant'anni addietro o adesso? Un momento fa mi pare d'averglielo domandato, e non mi ha risposto. Davvero che non dovrei parlare. Ma a lei dirò, che quel documento ha tutti i caratteri della vecchiaia. La carta è ingiallita, l'inchiostro è svanito. Allora siamo in casa. Cioè? Bisogna cercare altre carte dell'autore del testamento. È un provvedimento che viene in testa a chicchessia... Ma non c'è più nulla, e non s'è trovato nulla... Io m'impegnerei a trovarne. A queste parole, sul volto del cavaliere F... si svolse un'espressione involontaria che fu notata dal Galantino; non era l'espressione di un giudice che deve essere soddisfatto nel sentire che c'è uno spiraglio per riuscire a scoprire la verità. Però il Galantino, che conosceva il marchese F..., ed aveva l'idea fissa che i giudici fossero tutti venali, si mise in sospetto. Suvvia dunque, continuava il cavaliere, sentiamo i suoi disegni. Sono semplicissimi, e non mi par vero non siano già venuti in mente ad altri. Ebbene, sentiamo. Tutta Milano sa, perchè è un fatto che fece gran rumore, e perchè, se la maggior parte dei padri sono morti, i figli hanno sentito a parlare i padri di tutte le circostanze di quel fatto stesso; che il notajo che assisteva il marchese F.... era il dottor Macchi, morto nel 1802, e di cui ogni due anni vedesi il ritratto esposto sotto i portici dell'Ospedale Maggiore. Io so, e tra gli altri deve saperlo anche l'avvocato Strigelli, il quale ora è conte del Regno, che fu lo stesso Macchi che stese il testamento, perchè il marchese lo copiasse di proprio pugno. Quel notajo era tanto esatto che, certissimamente, deve aver tenuto copia di quello scritto; di più, è assai probabile che nelle cartelle abbia serbato anche qualche lettera del marchese defunto. Tutto va bene, ma se il notajo è morto... Mi lasci dire: io so che il notajo Agudio, nipote del famoso avvocato, che fece pratica presso il Macchi, acquistò tutti i libri e tutte le carte di lui. C'è dunque da mettere cento contro uno che presso l'Agudio si deve trovare quanto basta per distruggere ogni dubbio. Se tutti i disegni di lei stanno qui, rispose il cavaliere F... accigliato, non ne faremo nulla, caro signore. L'Agudio avrà conservato le carte di qualche valore, non delle lettere inutili, nè una minuta inutile di testamento. In ogni modo vedremo. E il giudice si alzò, assumendo, per la prima volta in faccia al Suardi, quella dignità gerarchica che prima non aveva mostrato; e dicendo per conclusione del suo discorso: Nonostante le parole che abbiam tenute questa sera, avrò ancora ad incomodarla, signor Suardi; però la pregherei a volersi trattenere a Milano per qualche giorno ancora. Per un pajo di settimane io mi fermerò qui. Spero che basterà; e intanto le do la buona notte. Ciò detto, partì.
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