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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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I Abbiam lasciato i coniugi Falchi al loro sonno, che non fu certamente quello del giusto, per ritornare in teatro onde assistere al colloquio tra il Galantino e il giudice F... e tener dietro alle sue conseguenze; ed ora ci convien staccarci dal notajo Agudio e dal Galantino per rifarci ventiquattr'ore addietro e ritornare di nuovo nelle sale del Ridotto. Il nostro amico Giocondo Bruni erasi fatto guida al conte Aquila, al conte-milord, ed agli altri che costituivano il partito italico assoluto, per vedere la faccia di un conte, che il Bruni aveva conosciuto a Parigi come emissario austriaco. È lui, assolutamente lui, disse il Bruni al conte Aquila, allorchè furono vicini a un tavolino da giuoco, Quell'ometto là piccino? Quello là appunto. Con quella faccia da coniglio? È una maschera naturale, che a lui serve benissimo. Gli avete parlato voi qualche volta? Non ho mai voluto mangiare di quella carne; però l'ho sentito a parlare molte volte, nè egli lo sa, nè mi conosce. Che cosa credete voi che sia qui per fare? Quello che faceva a Parigi: giuocare, perdere spesso, e mettersi al paretajo come la civetta, per attirare gli uccelli di brocca. Adesso giuoca, poi perderà. Scommetto che è già in perdita... Ecco qui, sentite, signor conte?... Questa interruzione derivò dalle parole di due astanti, i quali dicevano: Ha un gran sangue freddo, colui... È già la terza volta che mette sul tappeto cento napoleoni d'oro; e al risolino continuo che fa si direbbe che è in guadagno. Vedete se ho detto vero, signor conte?... ebbene, fra un'ora va a cena con tutti quelli a cui ha riempito le saccoccie; e là parla di politica; compera per un pezzo; poi vende e fa propaganda. Alla mattina, poi, credo che riferisca il risultato dell'opera sua e mandi la cacciagione a Metternich e a Bellegarde. Converrebbe renderne avvertita l'autorità. Converrebbe certo. Ma chi se ne piglierebbe l'incarico? Io, no davvero, che stetti fuor di paese troppo tempo. In questo punto entrò nella sala un personaggio ancor giovane, bene incravattato, che il conte Aquila salutò ed avvicinò. Guarda un po', gli disse questi, tu che sostenevi avere l'Austria deposto ogni pensiero della Lombardia. Che cosa? Vedi quell'ometto là, che giuoca, perde e ride? Sì che lo vedo... lo vedo e lo conosco. Oh!... Lo conosci davvero? Sì... è un prodigo senza testa. È venuto a Milano da poco tempo, e s'è innamorato della città nostra. Ha voluto persino farsi inscrivere nella guardia civica; per la sua generosità, lo si voleva nominare ufficiale; ma egli si accontentò di essere sergente. Il conte Aquila guardò il Bruni come se pensasse: or chi di voi due dice il vero? Il Bruni non disse parola. Questo ci raccontò poscia, tanti e tanti anni dopo, come ebbe a scoprire esservi stato accordo, tra quell'emissario austriaco, e colui al quale il conte Aquila aveva parlato. Chi poi fosse quel personaggio, è subito fatto intendere al nostro lettore, se appena egli ha l'abitudine a sciogliere sciarade e logogrifi. Colui, dunque, noi lo abbiamo visto molte volte; e alla processione del Corpus Domini e ai Te Deum per gli anniversarj ed i giorni onomastici austriaci, col suo collo torto, colla sua aurata assisa di consigliere intimo, e colla sua fascia traversale bianco-rossa dell'Ordine di Maria Teresa. Egli era conte, quantunque i suoi avi di sessant'anni prima avessero fatto carbone presso Ossola. Era ricchissimo, e di una ricchezza ereditata da un padre che, pur avendo usufruttata la pubblica fame, ebbe fama di uomo onesto, forse per l'effetto dei confronti. Ma siccome dev'essere vero che la farina del diavolo si converte in crusca, così tutta quella ricchezza fu da esso adoperata per la massima parte ad alimentare i magazzinieri delle indulgenze plenarie, ad ammorbare le pusille coscienze di pregiudizj e di bigottismo, a scapito della religione vera e del sincero progresso. E il conte Aquila continuava ad interrogarlo: Sai tu almeno come si chiami questo prodigo sventato?... Il nome non me lo ricordo. Ma non credo ne valga la pena. E voi lo sapete? domandava poscia al Bruni. Sto appunto tormentando la memoria per richiamarmelo, ma non mi riesce. So per altro che è un conte, e un conte che conta assai poco in quanto a ricchezza; per ciò non si sa bene a che tesoreria vada a prender il danaro che sparpaglia a piene mani. Mi sembra, caro mio, continuava il conte Aquila rivolto all'altro conte, che questo signore, venuto or ora da Parigi, ne sappia più di te. Può darsi anche questo; ma torno a ripetere che non vale la pena di far tante indagini sul conto suo. Gli ho parlato due o tre volte, ed è un uomo perfettamente nullo. Qui, un'onda di pubblico entrò nella sala, e scompaginò quei gruppi di persone che stavano intorno ai tavolieri. L'Aquila, il Bruni e gli altri si trovarono divisi dal futuro consigliere intimo, e lasciarono il Ridotto. Di lì a poco, il conte Ghislieri (che così chiamavasi quella civetta al paretajo): Per questa notte, disse, possiamo spegnere i lumi: chè s'è perduto abbastanza. Ora, se questi signori mi favoriscono, potrem passare il rimanente della notte al Gallo. Il futuro consigliere intimo trasse allora per un momento in disparte il conte emissario, e: Stanotte, gli disse, continuatela pure in compagnia di quest'allegra brigata, ma domani partite. Perchè? Qualcuno ha messo gli occhi su di voi. Davvero? ma come mai? Il come non lo so; ma se vi avviso, è perchè desidero che le cose ben avviate non si guastino. Se parto, parto per ritornare. Ritornate, ma a suo tempo, ma quando il frutto sarà maturo. Intanto vogliate passar da me, prima di lasciar Milano. È arrivato da Parigi il marchese F..., che, quantunque sia un consigliere di Stato, è dei nostri. Troverete pure in casa mia alcuni de' meglio pensanti. Or vi saluto. E il piccolo contino Ghislieri, emissario, spia di prima classe, anzi Gran Cordone di quell'Ordine, e sergente intruso della guardia civica, ritornò alla sua brigata e lasciò il teatro. Il conte Aquila intanto, accompagnato da dieci o dodici del suo partito, era ritornato a casa. Com'era suo costume far sempre colla servitù, entrò accigliato e burbero nella stanza del guardaportone, che stava inferraiuolato innanzi ad un gran braciere: Tirate la campana, e chiamate i domestici di settimana. Presto. Il guardaportone obbedì, s'affrettò, suonò la campana. Discesero i servi. Accendete fuoco nel camerone terreno. Presto. I due servi obbedirono. Il conte entrò coi colleghi nel camerone. Dopo alcuni momenti, una gran catasta di legna crepitava già e mandava scintille su per la cappa di un camino monumentale, con iscolture rappresentanti gli stemmi del casato. Andate a dormire, disse il conte ai due domestici. Solo il guardaportone stia sveglio finchè questi signori partiranno. Andate ad avvisarlo. Quella società che s'era adunata in casa del conte Aquila, era composta da dodici a quindici persone, la maggior parte patrizj, quasi tutti ricchissimi, e per ciò influenti sul popolo della città e sugli abitanti della campagna. Tra essi v'era un B..., capo battaglione della guardia civica; un E... V..., giovane di straordinario ingegno e di altrettanta coltura, ma eccentrico e strano; un G... di Como; un V... di Lodi; il conte-milord, l'avvocato Gambarana, ecc. ecc. Il nostro Giocondo Bruni, dal quale sappiamo tutto quanto verremo raccontando, fece parte anch'esso della comitiva, e come amicissimo del conte-milord, e perchè aveva espresso degli intendimenti assai conformi a quelli del conte Aquila. Intorno al gigantesco camino eran state disposte in semicerchio delle vecchie sedie di bulgaro a bracciuoli. Tutti sedettero. La catasta accesa illuminava la scena. La parte accessoria e pittorica di quell'adunanza pareva ne accrescesse l'importanza e il mistero. L'E... V..., che era un ingegno letterario e caustico, e soleva parlare con epigrammatica amenità anche delle cose gravissime: Chi ora ne sorprendesse, cominciò a dire, ci piglierebbe per altrettanti personaggi del Noce di Benevento. Però sarebbe bene per un'altra volta radunarci più presto e scegliere un luogo men fantastico. Più presto non è possibile, osservò il conte Aquila, perchè ci bisogna a noi tutti di lasciarci vedere in teatro. In quanto al luogo, non fu fabbricato apposta, e poi ha il vantaggio di essere lontano da chi può vedere e sentire. Ma veniamo a quel che importa. Che cosa, o signori, pensate di fare? Jeri non si trattava che di cogliere l'opportunità che la Francia si sfasci, per liberarci di lei e fare da noi le cose nostre: oggi ci siamo accorti che, di dietro alla Francia che si va sprofondando come un fantasma da palco scenico, torna a spuntare lo spettro dell'Austria. L'affare è spinoso, osservò l'E... V...; pure, se il duca di Lodi avesse vent'anni di meno e non soffrisse di gotta, potrebbe raccogliere nelle proprie mani il supremo potere nel punto che tutte le acque fossero in alluvione. Il fatto di Bernadotte, che era un mangia-carte e diventò re di Svezia, non farebbe parer strano che un privato, il quale è stato il vice-Napoleone durante la Cisalpina e il Consolato, possa un bel giorno, dal voto nazionale, essere eletto re d'Italia. Il duca di Lodi, osservò il conte Aquila, sarebbe sempre un uomo stracco, quand'anche fosse sano e contasse vent'anni meno. Questo non sarebbe un ostacolo, basterebbe che piacesse al popolo. Ma se non può piacere, non se ne parli più. Per tener lontana l'Austria, e per disfarci di Beauharnais, bisognerebbe almeno che ci fosse un italiano, il quale, o negli ordini civili o nei militari, avesse talmente fermata l'attenzione dei suoi connazionali, che l'imitazione dei Longobardi che innalzavano sugli scudi il loro re eletto non sembrasse una burattinata. Ma dov'è quest'italiano? Lo domando a te, che, per un mal inteso orgoglio, come ti dissi mille e mille volte, hai voluto sempre vivere in disparte. Il conte Aquila tacque, ma il petto gli ansò forte per la sistole e la diastole dell'ambizione. Chi aveva parlato non era adulatore, e sebbene per ingegno non fosse inferiore al conte, pur aveva di lui una stima gigantesca. Questo fenomeno avviene spesso tra gli uomini, che taluni vengono apprezzati in ragione del nulla che fecero, e solo perchè alcune loro attitudini, viste in iscorcio e sotto ad una luce passeggera, lasciarono un'impressione di una grandezza virtuale non provata mai alla cote dell'azione e dei fatti. A ciò si soggiunga che, se essi hanno dato segno di qualità incontestabilmente superiori, e pur tuttavia, in opposizione della tendenza del più degli uomini, si tennero celati o comparvero in pubblico qualche volta per iscomparir subito, come il sole temporalesco; il buon prossimo se ne esagera talmente la potenza, da crearne tosto una divinità in fieri. Questo era veramente il caso del conte Aquila. Il suo carattere altero, la sua coltura ampia, la sua parola forte, cruda, tagliente, e quel mai non aver voluto imbrancarsi col resto dei viventi, avevano fatto concepire di lui un'idea così alta, che qualunque più eccelsa opposizione non pareva soverchia per lui. Io non credo, disse egli poi all'E... V..., che tu voglia pigliarmi in canzone: ma se hai la persuasione che, se io mi fossi accostato alle cariche o civili o militari, avrei fermata l'attenzione de' miei connazionali, pensa che non avrei potuto farlo se non imitando tutti quelli che diedero nell'occhio al pubblico: col girare, cioè, come un satellite intorno al sole di Napoleone. Ed è ciò appunto che non ho voluto fare. Se ci ha ad essere un capo italiano, un presidente, un dittatore, che so io? la parola re mi fa ribrezzo (il lettore non ci creda), deve essere appunto un uomo nuovo, che non abbia servito a nessuno, che non abbia avuto onorificenze da nessuno, che non sia stato nè Gran Cordone, nè Grande Ufficiale di nessun Ordine. Tu mi dirai che pure è necessario aver fatto qualche cosa in passato, a saggio e a prova dell'avvenire. Ma in questo caso ritieni che una pagina bianca vale meglio di una pagina tutta coperta di caratteri, dove alcuni luminosi pensieri sieno deturpati da propositi e da concetti servili. Tu parli bene, ma bisognerebbe farla intendere al popolo; ma bisognerebbe che Iddio volesse di nuovo pigliarsi l'incarico di ungere i re per mano di qualche Samuele. Anzi, il popolo oggidì non crede più nulla ai sacerdoti, poco a Dio, e vuol fatti e fatti e poi fatti. Non occorre che essi siano meraviglie sostanziali, ma che abbiano almeno la virtù di abbagliare il mondo. Tu hai ragione, e parli da quell'uomo che sei. Ma io ti so dire, che se in questi giorni io fossi eletto, per esempio, colonnello della guardia civica, con questa semplice carica, io saprei far miracoli. Lo credo, ma il colonnello non è morto e non vuol morire; nè vuol nemmeno cedere il posto. Io so, entrò allora a parlare il B..., capo battaglione della civica, io so che tu sei nella terna per essere nominato capitano del mio battaglione... E domenica, nell'occasione della rivista, una fascia ricamata in oro da mia moglie sarà appesa alla vostra bandiera e benedetta in piazza Castello... Ebbene, allorchè tu sarai nominato capitano, ti cedo subito il mio posto di capo battaglione. Io non faccio nessun sacrificio; e nelle tue mani può essere utile ciò che nelle mie non giova a nulla. A queste parole succedette un po' di silenzio; l'avvocato Gambarana, uomo torbido, non amico, nè ammiratore di nessuno, e istintivamente oppositore: Faccio osservare, uscì a dire, che nelle osterie e nelle bettole si parla talvolta degli interessi del paese con più acume che altrove. Egli pronunciò queste parole con una certa asprezza sardonica, perchè era stato nauseato dall'eccessiva ammirazione che l'E... V... avea mostrato pel conte Aquila; e perchè, più che strane, gli erano sembrate ridicole (e non aveva tutti i torti) le mal dissimulate aspirazioni di quest'ultimo. Allora tocca a voi, caro avvocato, soggiunse tosto l'E... V... colla sua causticità consueta, a fare in modo che noi possiamo aver l'onore di pensare come i frequentatori delle bettole e delle osterie. Vi è andata la mosca al naso più che a un filosofo non convenga, soggiunse il Gambarana, ma io non ho fatto che ripetere un passo d'oro di quel Rousseau pel quale voi andate in deliquio. Non mi ricordo del passo d'oro; ma quand'è così, continuate. Una di queste sere, mi trovavo all'albergo del Gallo col mio praticante Valesi. V'era gente di tutte le qualità; ma il più eran mercanti, giovani di banco, bottegaj, gente che voi altri signori avete il torto di non voler mai nè avvicinare, nè sentire. Parlavan tutti alla distesa e alla libera; e parlavano appunto del tema corrente; si venne persino, come abbiam fatto noi stanotte, a mettere in questione: Chi mai fra gl'Italiani avrebbe avuto le qualità necessarie per tenere in mano, pel momento almeno, le redini del governo, quando mai le grandi potenze, troppo caricate d'affari, ci avessero lasciati in vacanza. Tutti tacevano e pareva che nessuno sapesse dove dar la testa, quando uscì a dire un giovinotto: "Diavolo! a me pare poi che d'uomini adatti ce ne sia più d'uno. Ma, a caso disperato, v'è un tale che non può a meno di saltare agli occhi di tutti. Sentiamo, sentiamo, gridavan gli altri. Non è vero, proseguiva colui, che Murat, il quale nacque in casa di un oste e fece il postiglione per qualche tempo, diventò poi re di Napoli? I tempi si sono cambiati, e Napoleone ha fatto vedere che non è più necessario di trovar la corona bella e fatta nel ventre della madre. Or bene, noi in casa nostra abbiamo un tal uomo, che nacque di casato distinto, che ebbe un'educazione compiuta, che fece prodigi di valore, non in una nè in due, ma in una dozzina di battaglie, al punto da destare l'invidia persino del vicerè; un uomo, un soldato, un generale che è adorato da tutto l'esercito italiano. E non potrebbe dunque costui essere il re d'Italia? Viva il re Pino, gridò allora un altro... Viva, viva, gridarono tutti. Finalmente abbiamo trovato il re, e un re di cavalli! "È un gran difetto che abbiam noi Italiani, quegli proseguiva, di disprezzare tutto ciò che è nostrano, e di volere a tutti i costi fare acquisto della roba forastiera. E com'è degli uomini, così è delle mercanzie e di tutto. Il vino di Francia ci avvelena, ma si paga mezzo marengo al boccale: noi con sedici soldi si beve un vino che fa resuscitare i morti: se venisse di Francia, non lo beverebbero che i gran signori. Ma vivaddio, che il re è trovato, e se il nostro disgraziato paese arriverà finalmente ad avere e ad apprezzare un re nostrano, tutto il resto verrà da sè e tutte le piaghe si chiuderanno." Così diceva quel giovine, non so se mercante o lavorante; ed ora domando a voi tutti se non parlava con fior di senno? Molte volte ho pensato anch'io al general Pino, osservò il conte Aquila; ma senza giro di frasi, vi dichiaro schiettamente che io abborro il regno della sciabola. Quando un soldato si fa capo di uno Stato, tutti gli ordini della società vanno a fascio e la caserma diventa il Sancta sanctorum. "Del rimanente (continuò) qui non si tratta di andare a cercare dei re; si tratta di provvedere al modo di tener lontana l'Austria; e d'impedire che l'incapacissimo Beauharnais abbia ad acquistare un regno nel punto stesso che Napoleone perde un impero. Pino sia pure, chè lo merita, il generalissimo delle truppe italiane; ma lo Stato deve essere governato dalla toga e non dalla spada. Che se si volessero ancora dei re o, se anche non volendoli, ci fossero imposti dalle grandi potenze vittoriose e tutte monarchiche e tutte paurose d'altre forme di governo; v'è pure in Italia e a poche miglia da noi un re di antichissimo ceppo italiano, la storia della cui dinastia è una epopea continua di battaglie, di vittorie e di gloria. Ma questo, per ora, è un discorso immaturo. Ciò solo che dobbiam pensare a far oggi è di premunirci contro gli attentati dei servili, i quali rappresentando la nazione senza regolare mandato, potrebbero, data l'opportunità, mercanteggiarla a loro beneplacito e per loro uso e consumo. Ma per ciò fare, conviene appunto metterci in possesso di qualche forza, di una forza materiale, voglio dire, di una forza armata; questa noi l'abbiamo in una istituzione a cui oggi nessuno pensa, perché è considerata come uno spettacolo da parata e da teatro; ma che nelle mani di chi avesse la virtù di pensare, di calcolare e sopratutto di volere, potrebbe diventar poderosa e onnipotente da un momento all'altro. Ecco perchè desidero che voi altri tutti entriate a far parte della guardia civica; ecco perchè m'affannai per avervi grado di capitano; ecco perché da mia moglie feci trapuntare una ciarpa da consacrarle in dono; ecco perché avrei carissimo se potessi essere capo battaglione o colonnello. Or m'avrete compreso, o signori, e a rivederci domani". La seduta fu sciolta; tutti partirono; il conte stesso li accompagnò al portone. Disse al custode, sempre in tuono burbero: "Ora puoi andare a dormire"; e senza più altro, salì nei proprj appartamenti. Quantunque fosse ora tardissima, il conte, entrato in camera, non andò a letto. L'opposizione dell'avvocato Gambarana gli aveva dato gran noja, e in quanto a sè, pentivasi di aver messo innanzi il nome del re di Piemonte. All'intento di mascherare le proprie aspirazioni, più che temerarie, strane ed incredibili, egli aveva giuocato di dissimulazione e d'astuzia. Ma gli pareva d'essere andato troppo oltre, tanto più che quella proposta ei la stimava di tal natura da mettere d'accordo tutte le opinioni controverse. Esso aveva l'ingegno robusto e la veduta sicura e, quasi diremmo, infallibile, ogni qualvolta pensava e giudicava senza passione. In quel momento che, per mettere a tacere vittoriosamente l'avvocato, gli era occorso dimenticarsi di sè stesso, la sua mente sgombra gli aveva fatto vedere d'un colpo ciò che nessuno allora avrebbe pensato, e che doveva poi sembrare una scoperta tanti anni dopo; ma appena fu solo e lasciò le verità generali per l'interesse proprio; e l'ambizione che in lui quasi toccava il grado di quel che si chiama ramo di pazzia, tornò ad esaltarlo, non sappiamo qual cosa avrebbe fatto per ritirare quella proposta. Ai nostri lettori, al pari che a noi, un tal fatto potrà sembrare, più che incredibile, assurdo: ma quanti abbiamo interrogato di coloro che avvicinarono il conte e poterono leggergli in fondo all'anima, alla quale di tanto in tanto eran guida ed interprete alcune sue fuggitive espressioni, ci assicurarono che l'idea di poter mettersi alla testa degli Italiani e di recarsi in mano la somma del potere, lusingò davvero per qualche tempo l'amor proprio di quell'uomo strano, le di cui più alte e più nobili attitudini vennero turbate dall'eccesso dell'orgoglio e dalla mancanza di cuore. Quando il conte fu per mettersi a letto, rammentandosi della ciarpa destinata per la guardia civica; si recò nel gabinetto della contessa, scoperse il telajo, e gli sembrò che il lavoro fosse in ritardo e mancasse il tempo necessario ad apprestarlo pel dì della rivista. Il sangue a tal pensiero gli andò al capo; tirò, strappò più volte il campanello. Comparve un servitore in mantello e mutande, tutto rabbuffato. Chiama qui la Maria, presto! gli disse il conte. Venne una donzella discinta e sgomenta. Tu e la tua padrona, che avete fatto in questi giorni? Nemmeno in un mese avrete finito. Le parole non eran che queste; ma l'aspetto del conte faceva paura, ma la sua voce era così forte, così furibondo l'accento, da mettere a rumore tutta la casa. Destata infatti da tutto quello schiamazzo, comparve la contessa frettolosa e tremante, e avvolta in un ampio scialle. Il conte la guatò, la saettò, la coperse di contumelie. Ella diede in un dirotto pianto; piangeva la donzella, l'una e l'altra supplicavano e promettevano. Tutta la famiglia era in iscompiglio. Quasi ci fu men terrore nelle case di Priamo, quando le fiamme avvolsero Troja. Tanto è feroce e spietata e demente un'anima ambiziosa!
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