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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOSETTIMO
    • III
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III

Quando la notizia dell'aggressione del colonnello Visconti e del colpo andato a vuoto e della pronta di lui difesa, insieme colla più grave che l'aggressore era stato il vetturale Giosuè Bernacchi, vennero all'orecchio della Falchi, ella, per quanto fosse perversa e imperterrita, ne ebbe un tale sgomento da sentire per la prima volta in vita sua che cosa fossero le irrequietudini convulse. Per un momento ella si tenne perduta, pensando che l'aggressore, sottoposto a un esame criminale, probabilmente avrebbe messo fuori il suo nome, esponendola ad uno scandalo inaudito e facendola segno dell'ira pubblica. Ma la fortuna maledetta, che si compiace di far l'interesse dei malvagi, condusse le cose in maniera che il Bernacchi, o fosse veramente in una violenta alterazione mentale, provocata da una eccezionale esaltazione erotica, quando pensò di assalire il colonnello; o l'operazione chirurgica della mandibola fracassata, interessando le parti più delicate del capo e affini del cervello gli avesse prodotta una infiammazione violentissima, il fatto sta che ei diede in tali escandescenze delire, che dalla perizia medica fu giudicato essere in istato di alienazione mentale; e però, tolto al processo criminale, venne trasportato al manicomio della Senavra, per essere assoggettato a cura normale. La Falchi a questa notizia si riebbe, respirò, e riacquistò quell'appetito vorace ch'erale abituale, e che l'oppressione patologica delle facoltà digestive le aveva per alcuni giorni sospeso.

È inutile il dire che il conte Aquila in quella congiuntura, come di consueto, venne a farle visita, e solo e insieme con qualche suo collega; è inutile il dire che il ferimento del colonnello Visconti fu più d'una volta il tema dei loro discorsi. Ma giova che il lettore sia messo a parte della seguente frazione d'uno di quei dialoghi.

Anch'io, disse un dì il conte Aquila alla Falchi, vo d'accordo in questo con Napoleone. Voglio dire che ho una grande credenza nel destino. Però questo fatto del colonnello mi ha messo sottosopra. Si vede che il destino ha fatto di tutto per giovarmi, e tentò quella via appunto che a me pareva la sola efficace. Ma non c'è riuscito nemmeno lui. Bisogna dunque cambiar strada. Oggi mi dimetto dalla supplenza di capo battaglione, e rassegno anche il grado di capitano. O tutto o niente già lo dissi. O aver la Civica in pugno, o uscir dalle sue file, perchè non voglio trovarmi obbligato all'altrui comando, nè essere impedito di tentare quel che ho in testa.

E il conte fece infatti come disse. Prodotta una ragione plausibile, lasciò il grado di capitano, e si recò per alcuni dì in villa a meditare un nuovo piano di battaglia.

Intanto i tristi giorni si venivano avvicinando. Si era già oltre la metà d'aprile; il conte Aquila fece venire a Milano a proprie spese alcuni uomini che vivevano di contrabbando, furiosi tutti contro il governo, e segnatamente contro il ministro Prina, perchè da qualche tempo faceva esercitare dalle guardie di finanza che stavano al confine svizzero una vigilanza così insistente e rigorosa, che a coloro non rimaneva più che consegnarsi o morir di fame. Il conte che, e per il fatto del colonnello Visconti e per altri ostacoli che non gli pareva di poter superare a seconda delle proprie vedute, s'era venuto attiepidendo, si sentì riardere d'ira e di vendetta a certe parole della Falchi che astutamente gli tornò a parlare dell'offesa fatta dal vicerè alla povera contessa di lui moglie.

Alla sua volta, l'avvocato Gambarana avea fatto venire in città alcuni barcajuoli del Ticino, che dalle nuove gabelle erano stati ridotti a mordersi le mani per mangiare. La vasta polveriera dell'ira pubblica era dunque tutta spalancata ai quattro venti, quantunque i tizzi incendiarj stessero in mano di pochi. Non si aspettava che un'estrema notizia da Parigi, la quale, come un colpo di cannone, fosse il segnale di lasciarveli cader dentro. E il colpo alfine tuonò, che doveva provocare il dì nefasto del venti aprile.

Già noi ci siam diffusi intorno ai varj partiti che s'eran costituiti in Milano durante la rovinosa guerra di Francia i quali, nell'aspettazione quasi generale di una catastrofe che inghiottisse l'imperatore e l'impero, stavan tutti in agguato, coll'arme al braccio, pronti a balzar fuori improvvisi e ad operare giusta i preparati disegni e i diversi intenti, all'estremo segnale che fosse venuto da Parigi. Codesto segnale, sebbene per Napoleone fosse tutto finito sin dal giorno 11, non giunse a Milano con tutti i caratteri della certezza che il 16 aprile. I partiti principali e d'azione, il lettore non se lo sarà dimenticato, erano tre. Quello delle marsine ricamate, ossia dei sostenitori del vicerè; quello del regno d'Italia indipendente con un re italiano; il partito austriaco. Il più numeroso era l'ultimo, è inutile dissimularlo. Il più possente avrebbe potuto essere il primo. Ma il secondo partito, non avendo un piano ben determinato e negli estremi giorni essendosi ingrossato di uomini più odiatori del nome francese che desiderosi del bene della patria, non servì che a togliere ogni potenza al primo partito, per darla tutta al terzo, il quale essendo già il più numeroso, diventò presto il più potente. Il partito italiano puro ebbe inoltre a subire delle defezioni in sull'ultimo. Tra gli altri, l'avvocato conte Gambarana, o perchè non patisse la preponderanza soverchiatrice del conte Aquila, o perchè veramente avesse cangiato opinione, s'era staccato da esso e dai colleghi, per unirsi al consigliere di Stato Marchese F... suo cliente, ed al conte di Domodossola. Nella casa di costui iva e rediva, colla alterna prestezza di un postiglione, quel marchese o conte Ghislieri di Bologna, il quale metteva in comunicazione la tenda campale di Bellegarde, col quartier generale del partito austriaco residente in Milano, e capitanato appunto da due patrizj, per stortura d'intelletto funestissimi rinculatori del secolo e ristauratori inclementi di ogni ordine antico che la libertà redentrice del pensiero aveva respinto.

Nè questo partito era destinato a prevalere per le sole ragioni suaccennate; ma più ancora perchè l'azione impaziente e furibonda dei capi del secondo partito doveva cadere a suo totale beneficio.

Ognuno sa come il duca Melzi, nella notte del 16, mandasse invito ai senatori perchè si radunassero il dì dopo, affine di deliberare intorno ad un suo progetto di decreto, e spedire una deputazione alle alte potenze per chiedere la cessazione delle ostilità, l'indipendenza del regno, ed un re nella persona di Beauharnais. Ognuno sa che Prina e Paradisi, nel desiderio del Melzi e di tutti i fautori del principe, dovevano essere i deputati. Ognuno sa che il conte Guicciardi fu il più fiero impugnatore del progetto del duca Melzi; e che il conte Carlo Verri esplicitamente dichiarò in Senato, che il principe non avrebbe mai avuto il suffragio della nazione, chè troppi e da troppo lungo tempo erano i dolori e i lamenti e gli odj che aveva provocati in paese. Ognuno sa inoltre che, sebbene il presidente del Senato Veneri avesse raccomandato che ogni discussione e deliberazione rimanesse nell'alto segreto dell'aula senatoria, pure il pubblico venne invece a sapere tutto quello ch'era avvenuto là dentro, al punto che alla sera, nel ridotto, nella platea, nei palchetti del teatro della Scala, nei caffè, nelle osterie, nelle bettole, la condotta del Senato, il carattere, i diportamenti, le parole di ciascun senatore furono i temi generali di tutte le discussioni e di tutti gli alterchi.

Dai diffusi rumori di questa gran voce del pubblico si potè allora comprendere che il senatore Carlo Verri aveva avuto ragione; si potè comprendere che la maggioranza assoluta dei Milanesi era così avversa al nome di Beauharnais, che i suoi nemici dovevano avere facilissimo il giuoco nell'abbatterlo; e che i due partiti, quello dell'indipendenza e l'austriaco, così contrarj negli intenti, s'eran trovati, senza saperlo, confederati ed uniti nel tentar l'ultima prova sul campo di battaglia. I villici e i barcajuoli del Ticino assoldati dal conte avvocato Gambarana furono per tal modo sostenuti dai contrabbandieri del conte Aquila, e da un capomastro guidatore di una coorte di muratori pagati dalla Falchi.

Sorse così il giorno 20 aprile. Era un giorno cupo e piovigginoso. Si sapeva che il Senato doveva adunarsi, secondo il consueto, verso un'ora dopo mezzodì. Lungo i boschetti vicino al palazzo del Senato da qualche tempo prima di quell'ora passeggiavano sparsi drappelli di persone. Quegli sparsi drappelli rappresentavano tutte le gradazioni della società, tutti i toni dello spirito pubblico; dall'apprensione calma e ragionevole di chi pensa e pondera il male ed il bene senza passione e senza ira, fino all'impazienza e alla concitazione fremebonda di chi vuol tagliare ogni nodo senza indugio e senza ponderare nè il meglio nè il peggio. Si vedevano uomini ben vestiti, giovinotti eleganti, parecchi ufficiali della guardia civica in uniforme; si vedevano gironzare lungo la roggia che lambe il giardino della Villa Reale alquante giacchette di velluto e di fustagno, che di tant'in tanto si fermavano ad adocchiare d'intorno, con guardature sinistre e provocanti.

Alcune persone d'aspetto tranquillo e signorilmente vestite, tenendosi discoste dagli altri crocchj, discorrevano fra di loro.

La giornata vuol essere torbida.

Oggi i senatori pagheranno anche la sopratassa del loro stipendio.

Pare anche a me. Più d'un'uniforme deve andare all'aria.

Ma quel che più mi fa senso è che, mentre da noi tutti si sente il temporale nelle ossa, l'autorità non se ne dia punto per intesa.

E a me par tutto il contrario.

Come?

Può darsi che io mi pigli un abbaglio; ma l'autorità... voglio dire la polizia e il comando militare... par che desiderino dar mano a quelle berrette e cappello che vedete laggiù. Stamattina dunque tutta la gendarmeria è uscita da porta Orientale; perchè? in Milano non vi è un mezzo battaglione di coscritti; perchè? mentre a Cremona ci son due reggimenti di granatieri e due squadroni di cavalleria, non si potevano far venire a Milano, dopo tutto quello che, in seguito all'ultima seduta del Senato, ad alta voce si disse in pubblico?

Il general Pino è venuto jeri.

Questo lo so; ma a far che?

Che sia stato lui a fare uscire la gendarmeria di città?

Potrebbe darsi, ma a qual fine?

Gli avranno scritto che tutta la popolazione di Milano è avversa alla nomina di Beauharnais e vuol fare una tumultuosa dimostrazione al Senato; ed egli avrà pensato di lasciarla in piena libertà di tentar tutto quello che vuole.

Chi sa che cosa rumina nella sua testa il general Pino?

Che abbia preso sul serio il progetto di alcuni matti?...

Non sarei lontano dal crederlo, quantunque ei sia buono, semplice e liberale; ma egli ha tanto il vicerè sulle corna, che per potergli dire: Io, che tu volevi umiliare, sono diventato il re d'Italia, e tu sei una livrea in fuga, potrebbe perdere la tramontana e mettersi a discrezione dei matti.

Frattanto, in tutto ciò che si sta preparando, io vedo una rovina irreparabile.

Prima di far cattivi pronostici, stiamo a vedere il risultato della deputazione.

Che risultati vuoi tu attendere? se oggi il Senato va all'aria, domani i Tedeschi son qui. Quel capitano dalmato, col quale fummo jeri sera al caffè dei Servi (mi pare che si chiamasse Radonich) e mi ha tutta l'aria d'essere un emissario e un emissario astuto ed esperto, ha detto che vi è un patto segreto d'alleanza tra l'Austria e le alte potenze, pel quale, quando la pace fosse fermata, essa può conservare dell'Italia soltanto la parte che avrebbe conquistata durante il tempo della guerra.

Ma questo mi parrebbe un vantaggio per noi.

Se si stesse queti, sì... e se il Senato avesse ottenuto di proclamare Beauharnais a re d'Italia. Quel Dalmato rivelò il passo del trattato segreto, per stornare ogni sospetto d'ingerenza austriaca. Ma quando parla un agente prezzolato, un emissario, una spia, si coglie la verità a interpretare tutto al rovescio. Bellegarde ha dunque bisogno di trovarsi a Milano prima che la pace sia conchiusa. Vi pare che ciò sia chiaro?

Fino a un certo punto sì. Ma se Beauharnais si è reso odioso e insopportabile a tutti; che pro se ne avrebbe ad assumerlo per re?

Allora non si parli d'indipendenza; giacchè per scartare Beauharnais, bisognerebbe che noi avessimo in guardaroba una scorta di re italiani belli e fatti, perchè le alte potenze potessero scegliere. Mi fanno ridere quelli che propongono il general Pino; ma ci vogliono dei precedenti, i miei cari, e il solo Beauharnais sarebbe possibile, e perchè ha ancora un esercito, e perchè è parente di re, e perchè si sa che è carissimo all'imperatore di Russia. Molti dicono: Murat era un postiglione, Bernadotte era un avvocato, ed hanno potuto diventar teste coronate; e il general Pino, se si guarda alla schiatta, è in miglior condizione di loro. Ma fu una mano onnipotente che coronò quei primi, non un popolo in ribellione, che non sa nemmeno quel che si vuole.

Intanto che questi tre galantuomini parlavano tra loro con tutte le doti che dovrebbe avere lo storico di Quintiliano, ossia con tanta tranquillità e freddezza che, se tutti gli abitanti di Milano fossero stati della loro tempra non sarebbe mai avvenuto nulla di sinistro; gli altri sparsi drappelli avean lasciati i boschetti solitari. E a un tratto s'udirono alquanti fischi acutissimi che venivano dalla parte del naviglio, interrotti da alcuni fuggitivi battimani. Quelle persone accorsero allora per vedere di che si trattava. Dinanzi alla porta del Senato era addensata una mediocre folla di popolo. Coloro si avvicinarono, e per quanto fossero amici del quieto vivere, attratti dalla curiosità, s'internarono fra quella al punto da mettersi in prima fila. Da varie parti venivano i carrozzoni dei senatori. La folla faceva ala alla lor venuta. Un uomo che alcuni affermarono essere un cameriere del conte Aquila, altri un servitore del conte Castiglioni, teneva tra mano uno scaleo da sagrestia, e ad ogni carrozzone che si fermava, vi saliva, guardava dentro lo sportello, e diceva ad alta voce i nomi dei senatori che ad uno, a due, perfino a tre vi eran seduti. Presidente Veneri gridava quello con voce stentorea. Un lungo fremito, con fischi lacerati e tali da passar le orecchie, fu l'ora pro eo di quella nuova litania. Conte Armaroli, Condulmer, Bruti altri fischi come sopra. Conte Cavriani nuovi fischi con esacerbazione. L'astronomo Oriani battimani d'entusiasmo. La gloria della scienza non aveva lasciato tempo di pensare al colore politico. Conte Carlo Verri qui la folla non solo battè palma a palma, ma quando il Verri discese, molti gli furono intorno a complimentarlo in cento maniere e a raccomandargli la salute del paese, e che continuasse a tener le redini a tutta quella canaglia di senatori.

Di tal modo e con tal processo e successo sfilarono quasi tutti i carrozzoni senatorj. A questo punto la folla era cresciuta. A questo punto quel capo-mastro, di cui un nostro amico ci diede il nome e cognome, ed era un Antonio Granzini, staccatosi di mezzo a' suoi compagnoni, andò chiedendo a tutti se non era ancor venuta la carrozza del ministro Prina. A questa domanda, chi si alzava nelle spalle come a dire: ne so molto io? Chi rispondeva: sarà entrato cogli altri senatori. Ma dalla maggior parte de' discorsi e delle risposte colui potè arguire che il ministro Prina non era venuto altrimenti, come non era venuto nemmeno il conte Paradisi, forse perchè, essendo stati esclusi dall'incarico della deputazione, alla quale avevali proposti il duca di Lodi, e avendo trovato una concorde opposizione in tutti i colleghi, avevano creduto bene di non presentarsi in Senato. Quel capomastro rimase assai sconcertato a tale notizia, e ritornò accigliato in mezzo al drappello dei suoi. Questo gruppo d'uomini, che per la qualità speciale del vestito furono dagli astanti giudicati muratori e facchini, finchè non avvenne nulla di nuovo in quella folla ognora crescente, eran l'oggetto degli sguardi e delle congetture universali. Ma a un tratto ogni attenzione si distolse da loro, perchè da Sant'Andrea sboccò sulla piazzetta una compagnia di guardia civica a farsi strada fra la turba, a collocarsi davanti al portone, a dire al capitano di piazza Marini, che volevano essi far la guardia al palazzo, e che però venissero rimandati i soldati di linea, per la maggior parte coscritti, a cui erasi dato quell'incarico.

Il capitano di piazza salì allora nell'aula senatoria a presentare quella domanda al presidente Veneri, il quale subito accordò che il palazzo venisse custodito dalla guardia civica piuttosto che dalla truppa di linea. In questo frattempo il conte Durini, podestà di Milano, aveva spedito al presidente del Senato quella famosa dichiarazione, che venne firmata da più che 140 persone, nella quale si rappresentava al Senato stesso che "nelle straordinarie vicende in cui versava il paese, era necessario invocare straordinarj provvedimenti, e che però i sottoscritti credevano necessario, in coerenza dei principj della costituzione, che fossero convocati i collegi elettorali, nei quali solamente risiedeva la legittima rappresentanza della nazione." La notizia di questo messaggio del podestà corse tosto tra la folla. Si dicevano i nomi dei primi che comparivano in quella lista, e fece senso che il general Pino fosse in testa a tutti.

A questo punto, disceso il capitano Marini col permesso del presidente, la guardia civica scacciò bruscamente dai loro posti i soldati di linea, e strappò i fucili a quelli ch'erano alla porta immediata della sala della seduta. Avvenuto questo, come quando il temporale s'addensa ed è prossimo lo scroscio della gragnuola, corse un orribile fermento nella folla, che s'addensava sempre più e si stringeva presso alla porta del palazzo. Al di sopra del vasto mormorio della moltitudine si faceva sentire la voce tuonante del conte Aquila: "Noi vogliamo la convocazione dei collegi elettorali; noi vogliamo che si richiami tosto la deputazione del Senato." E qui tra il capitano Marini e lui avvenne un fiero alterco. Diceva il capitano al conte, che il Senato era già entrato in seduta, e che invece d'innalzare delle grida plebee, manifestasse i suoi voti ai senatori stessi. Rispose il conte che ciò non potea fare, per non avere nessuna veste di rappresentanza; e senza dar più retta al capitano Marini, continuò per un pezzo a parlar alto al popolo, il quale, eccitato dalle sue parole, irruppe a furia nel palazzo, per impedire che il Senato continuasse nelle sue deliberazioni.

Al rumore che si udiva nell'aula senatoriale, agli urli di minaccia, il conte Verri, come quello ch'erasi accorto d'essere in molta grazia del popolo, si offrì di uscire a parlargli e acquietarlo. Prima comparve accompagnato dai senatori Massari e Felici. Alla vista di lui scoppiò un applauso generale; egli tentò parlare, ma il rumore vasto copriva la sua voce. Rientrò allora nell'aula; e crescendo gli urli e le minaccie, tornò ad uscir solo. Ma parlò ancora inutilmente, perchè non era possibile intendersi tra chi aveva bisogno di calma e una turba d'uomini che schiamazzava per tirar tutto al peggio. Questa intanto, che per un pezzo si era trattenuta nel gran cortile, animata dalla stessa guardia civica, ma più che mai dal conte Aquila, che pallido e tremendo come Catilina, la eccitava "a salvare il paese dall'assassinio dei ladri togati che tentavano di scavare l'ultimo abisso alla patria col volerla prostituita al più scellerato di tutti", ascese irruente le scale, invase i corridoj, si addensò nell'anticamera dell'aula. I senatori tremavano; le parole di minaccia erano esplicite. Allora col conte Verri entrarono nella sala della seduta il capo-battaglione Ballabio, l'amico del conte Aquila, e il quale, come uomo di mite animo, tremava di dover essere complice di una strage; ed entrò con lui il capitano Bossi. Gridavano molti senatori: Che cosa infine si vuole da noi? Rispose il Bossi: Richiamate la deputazione. Convocate i collegi.

Il conte presidente Veneri non era della tempra del senatore Romano che percosse quel Gallo il quale aveva osato toccargli la barba; ned era disposto a morire con arte come un gladiatore. Tremava come una foglia, e si voleva salvare senz'arte e a qualunque costo. Alle parole del capitano scrisse dunque tosto, e senza nemmeno interpellare i colleghi: "Il Senato richiama la deputazione e riunisce i collegi" e consegnò il foglio al Bossi; e allorchè questi rientrò, dichiarando al presidente che il popolo voleva sciolta la seduta, il presidente, a cui tardava di respirare un po' d'aria aperta e sana, incontanente tornò a scrivere con una rapidità desiderabile in uno stenografo: "Il Senato richiama la deputazione, riunisce i collegi elettorali e scioglie la seduta." Di questo decreto trenta copie furono fatte in sull'istante dai segretarj e distribuite al popolo.

I senatori allora usciron tutti queti queti per una porta segreta. Il Verri prese con sè tre o quattro dei più odiati, e per conseguenza dei più tremanti; li raccolse nel proprio carrozzone, e come il Ferrer di Manzoni aveva fatto col povero vicario di provvisione, raccomandò loro di rannicchiarvisi in fondo in fondo, mentre egli, affacciandosi alternativamente ai due sportelli, avrebbe tentato di stornare la vista del pubblico.

Nè alcun senatore ebbe a patir violenze nè offese, se non ai timpani delle orecchie, orribilmente percosse dai fischi estremi.

Tutto adunque pareva che dovesse esser finito; ma il popolo, quando si è acceso, è come un ebbro: più si tenta di placarlo e più gli si dà ragione, e più s'infuria, peggio poi se c'è qualcuno che ad arte lo riaccenda.

Il conte Aquila, appena irruppe nell'aula senatoria, in capo alla folla ululante, si avventò percuotendo col pomo di uno scudiscio la testa del busto in gesso di Beauharnais, che rotolò giù per i gradini dell'impalcamento dov'era il tavolone presidenziale; e mentre altri, salendo sul tavolone stesso, strappò dalla parete da cui pendeva e trapassò con un colpo d'ombrello il ritratto ad olio di Napoleone dipinto dall'Appiani, egli stette a contemplare quella testa divelta dal busto, la fracassò d'un colpo di piede, e disse: Or regna e bacia le donne altrui. Il Bruni eragli al fianco e udì quelle parole, e supplicandolo di rimettersi in calma, quegli invece, più esasperato che mai, afferrò alcune suppellettili dorate e le scagliò fuori delle finestre. Il popolo lo imitò. Sedie, tavole, specchi, stufe, orologi, perfin le vetriere, perfin le porte, tutto fu manomesso, fracassato, gettato nella strada sottoposta.

Nè bastò ancora; il furore aveva messo la benda a tutti; i più scellerati approfittarono di quella cecità ubbriaca. Gli emissarj austriaci, che non pochi erano già in Milano, ghignavano che gli uomini dell'indipendenza lavorassero così efficacemente a pro dell'Austria.

 




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