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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOSETTIMO
    • IV
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IV

Appena l'aula senatoria fu smantellata, e le suppellettili, state gettate sulla via che rade i boschetti, furon raccolte da coloro che non mancano mai alle dimostrazioni tumultuose, come gli stelloni alle aste, la folla si diradò e si disperse affatto. Ma c'era quel drappello d'operai in giacchetta, che lasciando il palazzo del Senato e prendendo per la via di S. Andrea, camminava di mala voglia perchè non pativa che il tumulto dovesse finire così presto; e ciò che più loro cuoceva, che l'oggetto principale a cui volevano dar la caccia, miracolosamente non fosse comparso in iscena. Giunti nella via della Sala, trovarono altri sparsi drappelli che si fermavano di tant'intanto. Avevano anch'essi quell'aspetto, quell'andatura, quel piglio tra il tediato e l'iracondo che di solito assumono i bassi operaj quando hanno abbandonato il lavoro consueto e quotidiano, e aspettano impazienti di poter dar opera a qualche cosa di straordinario e di sedizioso. Il capo-mastro Granzini, che, in mezzo a dieci o dodici uomini suoi dipendenti, vide coloro da lunge, capì che eran pasta da usufruttare assai bene e da mescolare a quella ch'egli aveva già sotto mano: affrettò quindi il passo, e come fu loro presso:

E che si fa? gridò.

Quelli si volsero, e si fermarono, guardando biechi chi loro parlava a quel modo.

E che si ha da fare? Quel che fatto è fatto.

Il bello non è ancor venuto, galantuomini. Su, dunque, andiamo a fare una visita al ministro Prina; e se il ministro non c'è, andiamo a vedere il suo appartamento.

Allorchè quella squadra d'uomini fu allo sbocco della via della Sala, un'altra accozzaglia. procedente dalla corsia dei Servi, s'addensava nella via dell'Agnello. Quantunque fossero persone di apparenza civile e tenessero spiegati gli ombrelli, pur camminavano concitati coll'irruenza di un torrente in alluvione. Gridò allora il capo-mastro in mezzo a suoi: Alla casa del Prina! Al qual grido, come se fosse una parola d'ordine: Alla casa del Prina! fu risposto da una voce sonora, e che molti asseriscono essere la voce del conte Aquila. Questo grido ebbe l'effetto di un comando militare; tutti si mossero uniti come ad assalto determinato: Il ministro non è in Milano s'udì allora a gridare un'altra voce. Nessuno seppe da chi fossero pronunciate quelle parole, ma dev'essere stato un cocchiere dello stesso Prina, che, uscito un momento prima dalla casa in cui serviva, e sentendo quelle minaccie, ritornò a corsa indietro e giunse in tempo per avvisare il portinajo di sbarrar subito le imposte. Ecco perchè quando quella torma si presentò e si fermò innanzi alla casa del ministro, ognuno si meravigliava che fosse già chiusa a quel modo. Le persone dalle seriche ombrelle, stettero allora irresolute, quasi pensando che non c'era a far altro. Ma, con sorpresa generale, quei dieci o dodici uomini in giacchetta, a guisa di soldati che sfoderano le armi al comando del capo, prima agitarono in alto i martelli, che seco avevano portato con premeditato proposito; poi si scagliarono percuotendo di conserva sui battenti della porta e gridando: Aprite. E in quel punto per disgrazia venne loro un ajuto inaspettato. D'improvviso fu vista la figura di un vecchio alto, in maniche di camicia, col capo scoperto, canuto ed arruffato. Egli s'era fatto largo tra la folla con impeto giovanile. Volgeva intorno sguardi da ossesso, e colle due braccia alzate mostrava a tutti una spranga di ferro, di quelle che servono di leva; una tanaglia, dei chiodi, e una corda, e gridava a tutti con una concitazione furibonda, che faceva sgomento e ribrezzo a un tempo: Lo inchioderemo qui su questo battente, appena lo avremo ammazzato. Avanti or dunque e sfondiamo la porta.

Vorremmo sapere se Manzoni, quando con tanta efficacia di pennello descrisse quel vecchio vituperoso che aveva proposto di fare altrettanto collo sventurato vicario di provvisione, abbia disegnata l'orrida figura colla reminiscenza di questo modello tolto dal vero.

Ma che cosa avveniva nell'interno del palazzo? Una di quelle scene che rinnovano sempre i brividi nel ripensarle. I servi erano entrati nello studio del ministro, tremanti anche per sè stessi. Signor padrone, gli dicevano, si nasconda, si salvi scappi. Insieme col ministro era un suo cugino, che per la pietà del parente aveva assunto un aspetto minaccioso con tutti: minaccioso ed iracondo persino col ministro. Ecco il frutto della vostra ostinazione maledetta. Ecco a che ci troviamo per non aver voluto partire. Vi fu un momento di silenzio. Si sentiva dal basso la furia dei martelli percuotenti la porta. La figura alta e scarna del ministro era appoggiata allo scrittojo. L'atteggiamento rivelava uno sforzo di dignità superstite; ma tremava come una foglia dalla testa ai piedi. E in quel punto stesso, perchè un lampo fuggitivo di speranza venisse ad accrescere l'orrore di quella scena, cessò a un tratto nella via il rimbombo dei colpi di martello, tacque il mugghio della folla, e si sentì invece a qualche distanza lo scalpito prolungato della cavalleria. Erano infatti i dragoni della guardia reale che attraversavano la piazzetta della Scala. Come la folla erasi dileguata al sonito della cavalleria, e i manigoldi avevano per poco abbandonata l'infame impresa, così il ministro ebbe un tremito di reazione e si credette salvo. Ma i dragoni della guardia reale procedettero quieti per S. Margherita come se nulla fosse; laonde la folla tornò indietro, e i manigoldi con più furore di prima tornarono all'assalto. I colpi spesseggiarono con più orrendo frastuono. Il ministro uscì allora in uno di quei gridi soffocati che mandano gli epilettici quando vengono assaliti dal loro malore; piegò le ginocchia e sembrò svenire. Il cugino e i servi lo presero, lo trassero fuori dello studio, a braccia lo portarono all'ultimo piano. Incuorato dai servitori, il ministro si riebbe alquanto e tornò in sè. Ma in quel momento tutti si accorsero al rumore più intenso e vicino che il palazzo era invaso. I servi fuggirono. Il cugino disse al ministro: Nascondetevi là in quel camino, presto. Poi uscì anch'esso, calcandosi il cappello in testa, e, senza essere notato da nessuno, s'imbrancò poscia colla marmaglia che ululante saliva per le scale come fiamme di un incendio che già raggiunge e soverchia il tetto.

Quando il popolo invase la casa del Prina, si credeva generalmente che il ministro non fosse in Milano; tanto è vero che in sul primo, senza più darsi pensiero del ministro, tutti quelli che erano entrati si diedero tosto ad abbattere usci ed antiporti, a fracassar vetriere, a gettar nel cortile e nella via tutte quelle suppellettili che non eran portabili a mano, a depredare e ad appropriarsi le più preziose. Quei manuali poi, muratori o fabbri che fossero, capitanati dal Granzini e da quel vecchio vituperoso che si chiamava Fontana, e da un figlio di costui feroce come il padre e notissimo a Milano per la sua vita di prepotenze e di misfatti, salendo sul terrazzo della casa costrutto a giardino pensile e tutto all'intorno circondato da grandi vasi d'agrumi, si diedero tosto a lavorare per demolire, precisamente come se fosse loro stato ordinato da qualche autorità di atterrare quel palazzo per lasciar sgombra un'area. Cominciarono dal levare l'inferriata che circondava il fastigio, dallo smuoverne le pietre che servivano di tetto e di pavimento, dallo scoprirne e denudarne la travatura. Compiuta quest'opera con rapidità non credibile, discesero agli altri piani a levar tutte le inferriate delle scale, delle ringhiere, dei poggiuoli. In questo frattempo il general Pino, chiamato dalla gravità enorme del fatto, pedestre era accorso colà ed era entrato in palazzo. Egli sapeva che il Prina era a Milano, credeva inoltre che fosse in casa, onde s'affrettò per salvarlo; ma dopo aver sfidato tutto l'urto spaventoso della folla, dalla quale, per quanto ei fosse carissimo ai Milanesi, ebbe pure qualche insulto, partì per avere sentito che il Prina era altrove. Una orrenda fatalità avea davvero decretato l'eccidio dello sventurato ministro, perchè se il Pino si fosse indugiato appena alcuni minuti, forse colui sarebbesi potuto strappare al furore del popolo. Ma il Pino non poteva esser giunto in fine della via del Marino, che una voce gridò: Badate che il Prina è in casa nascosto.

Questa voce in un baleno passò di bocca in bocca. Il Granzini capo-mastro la sentì e gridò subito ai suoi: Se c'è, si ha a trovare. Cercate e frugate dappertutto. Il Fontana padre e figlio stavano in quel punto strappando l'inferriata della scaletta che metteva alla camera dove il Prina erasi rifugiato. Giunsero in capo alla scaletta, là v'era un uscio: l'uscio era chiuso, chiuso per di dentro; l'atterrarono di un colpo; pareva che quelle belve avessero sentito l'odore della preda. Pochi uomini erano là. Una persona civile, che i Fontana non conoscevano, entrò quasi nel medesimo tempo in quella camera con loro. Entrò nel punto che il ministro stramazzone stava per essere azzannato. Quell'uomo con voce soffocata: Centomila franchi, disse, duecentomila, un milione per voi, se tacete e lo salvate.

Il Fontana figlio mandò un grido feroce a quelle parole; lo sconosciuto atterrito fece in due salti la scaletta e fuggì. (I due Fontana narrarono quel fatto qualche tempo dopo, vantandosi d'aver rifiutato un milione. Chi fosse poi quello sconosciuto non si potè mai sapere; forse era lo stesso cugino del ministro.) Scoperto il Prina, afferrato da quei feroci, tutto fu finito per lui. Lo fecero discendere. Alle grida: È trovato, è trovato, si empì di gente il corridojo che metteva alla scala ed alla stanza fatale. Contemporaneamente il general Pino, sentito da altre voci che il Prina non era uscito, aveva tosto spedito il general Peyri, mantovano, per placar la folla e salvare il ministro. Ma lungo la via, il generale, raffigurato da taluni per lo stesso Prina a cui somigliava, non sarebbe riuscito a salvarsi, se non fosse accorso lo stesso Pino per toglierlo all'ira pubblica col testimoniare chi esso era veramente.

Nè più nessuno ormai avrebbe potuto stornare la catastrofe della tragedia orrenda. Nell'interno del palazzo aveva già cominciato a sfogarsi l'ira pubblica, diventata repentinamente una furiosa demenza. Cogli ombrelli, coi bastoni, coi pugni, coi piedi percuotono il ministro, lo strascinano nel cortile, lo denudano dai panni ond'è coperto, lo portano in una stalla, tutto sudicio e immelmato, lo mostrano per ischerno alla folla da una lurida finestra della stalla medesima. Un urlo spaventoso di gioja diabolica alza la turba a quella vista, mentre quelli che lo tenevano lo lascian cadere a capo in giù tra quella turba istessa.

Nell'atroce parapiglia, alcuni uomini forti e generosi, insieme con altri che forse avevano altro fine, lo strappano alle mani della folla e lo trasportano nel palazzo Blondel già Imbonati. Ma i due Fontana e gli assassini, vedendo quel fatto, furibondi discendono sulla via, spezzano la calca a minaccie di martelli, s'avventano alla porta di casa Blondel. La porta si riapre, succede una mischia; i più feroci vincono, e preso ancora il ministro, lo trascinano di nuovo tra la folla che mugghiante prende per piazza S. Fedele e S. Giovanni alle Case Rotte. Il Prina domandava il confessore. Lo si consegna per questo a un vinattiere, che aveva bottega sull'angolo delle Case Rotte. Succede un po' di tregua. Qualche pietà si fa strada negli animi della moltitudine. Il padrone della bottega nasconde il Prina sotto un tino, colla speranza di salvarlo. Ma il vecchio Fontana, che per poco s'era allontanato, ritornò tra la folla e sembra che della propria rabbia inesplicabile riaccenda tutti quanti. Si chiama a gran voce il Prina, si assalta l'uscio della bottega, si minaccia ferro e fuoco al proprietario la bottega è aperta entra il Fontana cogli altri, cercano dappertutto e trovano il Prina che loro si offre semivivo. Qui ebbe fracassata la testa, vuotata una occhiaja, sfiancate le reni e qui spirò.

Il cadavere fu preda della bordaglia inferocita per altre quattr'ore. Nelle vie per dove esso veniva trascinato, le donne che s'affacciavano esterrefatte cadevano svenute.

Battevano le ore nove all'orologio della piazza dei Mercanti, e il cadavere stava ancora nelle mani della folla. Allo sbocco della via dei Bossi... una squadra di guardie civiche sentì il lungo ululato, e vide le fiaccole che rischiaravano l'orribil scena. Deliberarono di farla finita; incrociarono le bajonette, respinsero la folla, s'impadronirono del cadavere.... lo trasportarono nel Broletto; di qui a notte alta fu trasferito e deposto nella chiesa del Carmine; verso l'alba nel Campo Santo detto La Mojascia.

E in quella sera stessa, e non molti se lo rammentarono, si videro già in volta per la città alquante assise bianche d'ufficiali austriaci. Il conte Aquila si rincasò in preda alla più cupa costernazione. Ma la Falchi, anche dopo aver veduto a passare più volte sotto le proprie finestre la folla assassina, potè tuttavia dormire indifferente la consueta sua notte.

Fidi al nostro intento di non rivelar che cose nuove o assai poco conosciute, avevamo divisato di omettere la relazione di questa famosa giornata; ma assai ragioni ci determinarono a scriverla. Di quella funesta sommossa uscì a Parigi, come i più devono sapere, una memoria storica con documenti fin dal novembre del 1814; nella stupenda lettera apologetica del Foscolo vi sono alquante pagine dedicate a quel fatto; esiste una relazione di esso stesa dallo stesso Carlo Verri, che fu presidente della Reggenza; sul fine dell'anno 1859, quando la verità della storia potè uscire all'aperto, venne pubblicato a Milano un breve racconto di quell'avvenimento, scritto da un cittadino bresciano, che ne fu testimonio oculare; a Novara, nel 1860, coi tipi di Agostino Pedroli, venne in luce un volume intitolato: Milano e il ministro Prina, narrazione storica tratta dai documenti editi ed inediti per M. Fabi. Libro commendevole come riassunto, nel quale senza rivelazioni nuove venne raccolto in fascio tutto quello che prima era stato scritto sparsamente. In tutti questi lavori è deposto, per così dire, il processo verbale di quanto succedette all'aperto e sotto i medesimi occhi del pubblico, ma non si penetra nella vita intima degli uomini e delle famiglie. Sono vedute prospettiche della parte ortografica dell'edificio: ma l'occhio non intravede spaccati; vi si narrano gli effetti e le conclusioni ultime, ma delle origini prime non si tocca, ma non si risale alle cause; o se qualche volta loro si accenna, sono esse volgarissime e già da molti anni di dominio pubblico, nel medesimo tempo che non bastano a sciogliere nessun nodo, nè a distruggere nessun dubbio; nè per loro, rimanendo pur sempre alla superfice delle cose, ci è dato di gettar mai uno scandaglio nel profondo del terreno, che non fu nemmeno smosso. Colla varia forma d'arte, noi dunque abbiam tentato di adempire a ciò che in quelle memorie indarno si cerca.

Ed ora dobbiamo aggiungere, che il sig. Giocondo Bruni seppe da quel Guerrini, domestico in casa Falchi, che all'alba di quel dì stette a lungo colla padrona un uomo mal vestito e di tristo aspetto; che alla sera di quel dì medesimo, allorchè l'orribile tragedia era finita e il cadavere del ministro Prina già stava nella sala anatomica della Mojascia, quell'uomo ritornò in casa Falchi; ch'egli ebbe un lungo alterco colla padrona; che per parte di lei e di quell'omaccio s'udirono frasi e parole che pareva di essere all'ergastolo; e che tutto finì in un lungo silenzio, non rotto che dal suono, per alcuni istanti continuato, come di monete che si contassero.

E qui, se si chiude il periodo storico che potrebbe intitolarsi dal ministro Prina, ci rimangono però a fare altre rivelazioni, per mettere a nudo alquanti misteri ond'è ancor buja la catastrofe di quella tragedia. Ma, come vedrà il lettore, la sede naturale di tali rivelazioni non può essere questa, ma la successiva, che potrà essere designata sotto il nome della COMPAGNIA DELLA TEPPA. In essa verrà in iscena l'uomo ignoto che all'alba ed alla sera del 20 aprile ebbe colla Falchi lunghi e torbidi colloqui; in essa farà una nuova comparsa il vetturale Giosuè Bernacchi, nell'occasione che dal manicomio della Senavra sarà licenziato come ristabilito in salute; in essa verranno ripigliate tutte le fila che in questa rimasero sospese.

Intanto, come conclusione al presente episodio, noi faremo al lettore le domande seguenti:

Il conte Aquila sarebbe diventato un così fiero nemico di Beauharnais, se questi non avesse baciato la moglie di lui alla festa di corte dell'anno 1810?

Senza di ciò, non pare al lettore che il conte sarebbe stato invece un gran sostenitore del vicerè?

Se colui, sempre per avversione al vicerè, che aveva il brutto vizio d'impacciarsi per simpatie ed antipatie degli interessi privati e influire arbitrariamente sul corso della giustizia, non avesse subornato un giudice assai autorevole allora a Milano, e ridottolo al punto di abusare della propria carica, avrebbe trovato in esso un complice tanto attivo da rivoltare contro al governo francese quasi tutta la massa dei pubblici funzionarj di secondo e terzo ordine?

Se il conte Aquila avesse adoperato per sostenere il vicerè tutta quell'energia di volontà che adoperò contro di lui, il principe Beauharnais sarebbe caduto? il regno d'Italia sarebbe andato a fascio? gli Austriaci sarebbero ritornati?

Se i due milioni e mezzo del ministro Prina non fossero stati affidati nelle mani dell'avvocato Falchi; oppure se questi avesse serbato il segreto colla moglie, il ministro avrebbe potuto scampare dall'ira pubblica?

Per quanto lo sdegno pubblico fosse generale e forte, esso avrebbe potuto scoppiare ed operare nel modo onde operò, senza i pochi che lo governarono a loro voglia e per i proprj interessi?

Se il vicerè, dai collegi elettorali e dal voto della popolazione, fosse stato proclamato re d'Italia, e le potenze europee, rispettando tal voto, lo avessero confermato, v'erano poi gli elementi duraturi di un governo forte e sapiente, di una nazione risorta e felice?

La teoria inflessibile della provvida sventura non verrebbe qui opportuna per giudicare quei tempi e quegli avvenimenti?

Noi poniamo tali quesiti al lettore, senza comunicargli le nostre soluzioni. Egli deve esser libero di valutare i fatti e di profferire la sua sentenza.

A noi bastò d'aver recato in mezzo nuovi dati, che chiameremo storici, quantunque non sieno desunti che dalla tradizione orale e dal vago mormorio del pubblico contemporaneo, e da relazioni private e da racconti di testimonj. Non sempre i documenti legali e deposti negli archivj svelano intera la verità. Talvolta la intorbidano, perchè la loro serie non è completa. L'induzione soltanto è un documento razionale e perpetuo, che, al pari di un grimaldello, può aprir tutte le porte.

 

 




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