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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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IV Monsignor Opizzoni aveva l'abitudine di visitare una volta o due alla settimana quelli tra i suoi devoti che più aveva in petto. I conjugi Gentili erano tra gli eletti, e come esso prediligeva i genitori, così per qualche tempo prodigò le sue gentilezze sante anche alla bambina, regalandole Agnus Dei, immagini di santi, libretti da messa, ecc. ecc.; ma, di tratto, e quasi senza accorgersene, egli provò una certa avversione per lei, quando appunto si vennero in essa sviluppando tutte quelle qualità per cui era diventata tanto cara agli altri. Quell'uomo aveva sortito dalla natura, e aveva avvalorate colla più rigida costanza nelle abitudini della vita, tutte le qualità che costituiscono i santi; ma i santi senza talento. Il sentimento, il cuore, le intenzioni erano mirabili; ma la mente non era di quelle che Romagnosi, a scrupolo di scienza, chiamò sane. Egli aveva preso con soverchio rigore matematico il detto e il fatto, che il mondo non è che un luogo di passaggio. Per questa ragione, riputando che l'uomo non deve mai nè pensare nè operare se non nell'intento supremo di meritarsi un posto nel regno de' cieli, aveva sgomento e avversione di tutto ciò che può rendere più cara e più attraente ai mortali la vita mondana; in certi momenti in cui lo invadeva più del consueto il sacro furore dell'ascetismo, avrebbe voluto che la luce del firmamento fosse lugubre e uggiosa, che le stelle inviassero sulla terra un raggio sinistro, che i fiori non avessero fragranze, che le donne non avessero avvenenza. A forza d'adorare Iddio, di non pensare che a lui, di credere che ogni cosa si dovesse fare quaggiù onde glorificarlo, per uno strano pervertimento del suo giudizio, di cui non aveva la consapevolezza, veniva di tal modo ad offendere Dio stesso, rifiutando e biasimando gran parte delle opere sue mirabili. Non arrivò mai a sospettare che il fattore del mondo, se ha dato alla più squisita delle sue creature tanti doni seducenti, non lo deve aver fatto a caso; che il rifiutare quei doni stessi era un cessare dalla sua adorazione. Ma sopratutto egli aveva un'istintiva ripugnanza per le donne, sempre inteso, quand'erano giovani e belle; aveva paura di loro, come di un serpente insidioso; paura non egoistica ma tutta oggettiva, convinto come era che la maggior parte dei peccati ricevevano da esse il più succoso loro alimento, che esse erano le confederate più attive e più fedeli del diavolo; che, pur senza volerlo ed anche colle più virtuose attitudini del mondo, ma soltanto collo spettacolo inevitabile delle loro grazie e delle loro attrattive, riuscivano funeste agli altri e, per consenso, anche a se stesse. Dopo la bellezza egli temeva l'ingegno, sempre inteso quando usciva dalla misura vulgare. Ei soleva dire che per amar Dio non occorreva tanta sublimità di mente nè tanto slancio di fantasia; senza aver lette le opere del Cardano, e con tanta discrepanza di intelletto e d'intendimenti, egli concordava con lui in quella balzana e audace opinione, che le condizioni della società furono sempre peggiorate dalla comparsa degli uomini di gran talento. Con tutto ciò egli era un lettore indefesso di quanto si veniva pubblicando per le stampe; non v'era opera o brochure francese, per quanto eterodossa, e rivoluzionaria, e diabolica ch'egli non raccogliesse nel proprio studio. Chi, senza conoscerlo, avesse dato un'occhiata alla sua libreria segreta avrebbe detto ch'essa apparteneva a qualche volterriano libertino. Nè in ciò v'era contraddizione. Per far la caccia al demonio, ei lo inseguiva dappertutto, onde non perderlo di vista, e attraversarsi in un bisogno alle sue insidie perverse; e come un processante attivo e inesorabile, teneva sempre i corpi del delitto sul suo tavolino. Paventava dunque l'ingegno e non amava la bellezza. Delle arti poi, fra tutte, detestava la musica, quella che usciva dalla sfera del canto fermo e del Pange lingua. E, più della musica da camera, abborriva la teatrale, tanto che, per questo lato, aveva fieramente in sulle corna l'Italia stata inventrice di quel mostro infame del melodramma. Con questi precedenti il lettore può immaginarsi con che cipiglio monsignore si trattenne stupefatto sulla soglia della casa dei conjugi Gentili, quando sentì la loro figliuola cantare quell'aria fatta celebre dalla Gafforini Chi vuol la bella Rosa L'ortolanella è qua. Aria che più volte la fanciulletta aveva sentito a cantare da un mezzo-soprano in casa Corali, e che, inconscia e innocentissima, ma solo eccitata dall'istinto prepotente per l'arte, ripeteva a perfezione con un certo garbo pieno di smanceria onde risultava lo stile di quell'aria proterva. Cogli occhi aperti, come chi è colpito da una scena d'orrore, esso lasciò che la tenera cantatrice terminasse l'aria fino all'ultima sua cadenza per vedere fino a che punto il diavolo l'aveva assassinata; poi irruppe nella casa, con voce asprissima intimò alla fanciulla di tacere e di non cantare mai più quell'aria; il suo rabbuffo fu così violento, che la ragazza si mise a piangere, e tanto più ch'ella aveva una terribile soggezione di monsignore, il quale da qualche tempo non aveva più avuto nè un sorriso nè una parola dolce per lei, per la ragione che non gli piaceva niente affatto quel suo modo di volgere gli occhi pieno di grazia e di mollezza affettuosa. Nè l'Opizzoni si fermò qui, ma diede una tremenda lavata di capo ai genitori, e tenne loro sospesa l'assoluzione quando gli si presentarono al confessionale. Ebbe anche il coraggio (il vero zelo è imperterrito) di entrare dalla signora Corali a intimarle che proibisse ai suoi alloggianti di scandolezzare il vicinato con quelle invereconde canzoni. La signora Corali, com'è naturale, gli rispose che aveva buon tempo; da quel giorno monsignore circuì la casa Gentili e la piccola Stefania di mille precauzioni vessatorie.
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