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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMONONO
    • I
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I

Di Mauro Bichinkommer giova delineare e colorire il ritratto più accuratamente che ci sarà possibile, tenendo conto di tutte le notizie che intorno a lui ci diede il vecchio Giocondo Bruni che fu suo amicissimo.

Il suo cognome strano, aspro e di germanica desinenza, potrebbe a tutta prima indisporre il lettore italiano contro di lui. L'Austria ci ha talmente guasto il sangue, che ogni qualvolta ci compare innanzi un galantuomo con cognome tedesco, il cuore, invece di espandersi, imita le corna delle lumache quando sentono il tatto di un corpo straniero. Ci ricorda che, viaggiando in Italia nel 1848 in compagnia d'un nostro caro amico italianissimo, ma che aveva la disgrazia di un cognome che finiva in er, ogni qualvolta ei presentava la carta di passo alla porta di qualche città, tosto era un aggrinzar di ciglia nell'impiegato che guardava la carta, un rientrare sollecito per darne avviso al capo d'ufficio, e quasi un batter a raccolta prima che l'amico indispettito e fuor de' gangheri non avesse dato conto dell'esser proprio, e mostrato di essere nientemeno che un incaricato del governo provvisorio di Venezia.

Non mettiamoci dunque in agitazione se il nuovo nostro personaggio si chiama Bichinkommer. Egli era di origine svizzero; il suo bisavo per commerci era venuto a Milano nella prima metà del secolo passato; qui si era fermato, qui aveva preso moglie, e come di cosa nasce cosa, così d'uno in altro parto venne la volta anche per il nostro eroe, che nacque a Milano in via de' Pennacchiari. Anche la via giova a provare ch'esso era milanese in tutta l'estensione onde si può esserlo. Messo a scuola, erasi distinto nella calligrafia e nell'imitare con straordinaria esattezza ogni sorta di caratteri sì stampati come manoscritti; era passato poi nelle scuole di Brera a studiare l'ornato sotto Giocondo Albertolli: in seguito sotto a Longhi a imparare l'incisione; ma nel 1808, colto dalla coscrizione, abbandonò l'arte grande ed entrato negli ufficj del genio militare, si applicò a disegnar mappe, piani, ad incidere carte geografiche e topografiche. Nel 1814, tornato a Milano da Laibach, dove erasi trovato collo stato maggiore di Beauharnais, si diede all'incisione di caratteri e d'ornamenti per indirizzi, per cifre, per oggetti d'oreficeria e d'argenteria. Lavorando per tutto e per tutti con inarrivabile prontezza e bravura, guadagnava spesso la sua mezza sovrana al giorno, impiegando tre o quattr'ore soltanto della mattina; a mezzodì, sgombro di cure e libero e colla borsa piena, trovavasi già nel cortile del Falcone a bere la sua mezzetta di vino bianco razzente. All'esercito aveva acquistato una certa celebrità per i suoi talenti come incisore topografico; poi perchè a Wagram nel 9, a Fortolivo nel 12, quando occorse anche a lui di spianare il fucile, erasi meritate le lodi speciali dei capi, ed era anche stato proposto per la Corona ferrea, se per una delle tante combinazioni che avvengon sempre in tali cose, il suo nome non fosse stato dimenticato sotto lo spolverino del quartiermastro. Ma la dote per cui era prediletto dai camerati e dai colleghi, e benvoluto e festeggiato perfino da' suoi superiori, era la perpetua sua piacevolezza, erano i suoi trovati strani messi innanzi ad ogni occasione per tenere allegri bivacchi e caserme. Sopratutto aveva un'attitudine specialissima ad imitare altrui; e copiava le scritture d'ogni genere da parer facsimili i più perfetti; così contraffaceva la voce, il gesto, l'incesso, lo stile, le frasi, le smorfie caratteristiche di chicchessia. Allorchè gli ufficiali superiori sedevano a qualche banchetto, nell'allegria dei bicchieri, non isdegnavano di mandare ad invitare il sergente Bichinkommer dell'ufficio topografico. Brilli e un po' fuori di bilico, applaudivano a furia quando ei metteva in caricatura qualche generale assente, il vicerè Beauharnais, Murat, qualche volta perfin l'imperatore.

Notissimo per tutte queste cose ai generali dell'esercito italiano, esso ebbe occasione di trovarsi frequentemente con loro, quando ripatriarono.

Nella congiura militare del 1815, essendo conosciuto come uomo di scaltrissimo ingegno e fermezza di carattere (chè questa rara qualità bene spesso si trova nelle nature apparentemente più bizzarre), venne adoperato dai generali Bellotti e Fontanella per missioni di grande delicatezza. Veramente ei non era stato messo a parte della congiura; ma aveva compreso tutto, e i suoi committenti sapevano che, avendo gli occhi di lince, avrebbe penetrato qualunque bujo; segnatamente poi lo avevano caro e prezioso perchè, mentre nelle loro mani era un congegno che lavorava mirabilmente, non correvano pericolo di compromettere e di compromettersi. Quando la congiura venne scoperta per opera di quel falso personaggio parente del Bellegarde, che costui con astuzia felina aveva fatto venire espressamente a Milano a rappresentare la parte di un messo del governo francese onde riscaldare ed incoraggiare i congiurati all'intento di scoprirli, il Bichinkommer, che era stato il primo a sussurrare all'orecchio del Fontanella come colui avesse faccia da traditore, fu anche il primo ad evadere da Milano, allorchè s'avvide che la polizia militare era stata informata di tutto. Da Milano passò a Torino, dove si fermò qualche tempo; poi tornò a Milano come negoziante di minuterie per vedere che aria tirasse, e per fiutare davvicino la polizia nel punto di lasciarsi fare un passaporto in regola pei suoi viaggi commerciali. Accortosi, con sua grande consolazione, di essere perfettamente ignoto all'autorità, ripartì, ma per ritornare e rifermare a Milano la sua dimora, ripigliando la vecchia professione.

Quest'uomo detestava la nazione tedesca quant'altri mai poteva detestarla. Aveva dapprincipio cominciato col disprezzarla considerandone gl'individui dall'unico lato di una caricatura goffa, dura, sciocca e ridicola. Quando egli imitava i modi, la lingua e l'accento di un ufficiale austriaco, se di ciò avesse dato accademia, avrebbe potuto mettere a un tallero il biglietto d'ingresso. Ma il suo disprezzo si convertì in un ben diverso sentimento dopo l'astuzia onde l'Austria aveva ripigliata la Lombardia dopo la sconfitta degl'Italiani di Murat, dopo le inqualificabili canzonature diplomatiche con cui si era promesso tanto per non mantener nulla; segnatamente, dopo la trappola tesa con sì pieno esito dal maresciallo Bellegarde. Non poteva capacitarsi che gl'Italiani avessero potuto acconciarsi a vivere tranquilli sotto il dominio di gente che aveva apparenza più di bestie che d'uomini. Si rodeva entro sè stesso pensando che alcuni uomini italiani, e specialmente alcuni Milanesi, avevano potuto pensare al modo di far risorgere il governo dei buoi della Carinzia, com'egli lo chiamava; e rodevasi tanto più quando vedeva che tutta quella immensa mandra di buoi ch'era venuta a provocare colle inerti e antiestetiche figure le più grasse risa dei Milanesi rifatti lor schiavi, era dominata da due o tre uomini che, senza meriti reali, senza nessun vero ingegno, nè virtù nessuna, nè diritto a stima di sorta; pure a forza di ostinazione, di dissimulazione, di taciturnità, colle doti del gatto, in una parola, erano riusciti a canzonare i più scaltri e ad averli sottomano. Queste idee ei le teneva per sè, e non si sprigionava con nessuno, perchè conosceva il mondo, e degli uomini, in generale, non aveva buona opinione, e non si fidava di chicchessia. Però, valendosi della sua giovialità sarcastica, alimentata dal suo cervello sano in perfetto accordo con un fegato di diamante, si vendicava di tutti, mettendo tutti in canzone.

 




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