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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMONONO
    • XIV
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XIV

 

Quando vedemmo il conte Alberico mescolato ai soci della Compagnia della Teppa sulla piazzetta di San Pietro e Lino, egli era nella massima esaltazione di un furore amoroso per madamigella Gentili; aveva già mandato persone a parlare ai parenti di lei, a far proposte di matrimonio. Aveva anche ricevuto due rifiuti, che sempre più gl'irritarono quel suo desiderio ardente; era inoltre tutto sossopra per le smanie gelose che alcuni suoi conoscenti gli avevano messo in cuore, col dirgli che la fanciulla era innamorata di un altro. Fu allora che avendo sentito a parlare di una serenata, aveva eccitato i compagni per scompaginarla a suon di bastone, nella speranza che si sarebbe potuto spezzar la testa anche al rivale, dal quale presuntivamente quella serenata doveva essere stata ordinata. Le cose camminarono come camminarono: avendo scorto tra i suonatori e i cantanti il conte Emilio Belgiojoso, a tutta prima s'era perduto di coraggio, vedendo in lui un rivale formidabile; ma poi, assicurato dal suonatore d'oboe, Yvon, il quale aveva una speciale predilezione per la cronaca urbana e s'interessava d'ogni fatterello privato, che il conte aveva tutt'altro per la testa, e che invece il presunto amante doveva essere quel Giunio Baroggi dilettante di viola, il conte Alberico a tale notizia si sentì riposto in sella, perchè comprese che coi milioni non era difficile a scavalcare un giovine non ricco. Tornò pertanto a tempestare il cugino marchese F..., tutore delle sue figlie, perchè s'interessasse a tal faccenda; il marchese aveva creduto bene, come sappiamo, di parlarne a monsignor Opizzoni, suo conoscente intimo, siccome all'unico personaggio adatto a compor simili negozj. Le cose erano a questo punto, quando avvenne la scena procellosa tra il giovine Suardi e il marchese F...

Questa scena, non tanto per sè stessa, ma per le sue conseguenze, venne a sconcertar le speranze e i disegni di Alberico. Ma prima di spiegarne il modo, dobbiamo intrattenere il lettore d'altri fatti.

Monsignore Opizzoni erasi assunto l'impegno di parlare coi conjugi Gentili, dimentico, nella sua qualità di santo, di ogni rancore avuto secoloro, e certo d'altra parte di fare un'opera meritoria, col salvare cioè un'anima già ipotecata al diavolo, e col togliere con un colpo maestro una fanciulla ancora innocente dagli orrendi pericoli che la carriera del teatro le veniva minacciando. Salvare un'anima perduta, e assicurare il paradiso a un'anima nata fatta per esso, furono le due idee che esaltarono la carità entusiasta di monsignore. A ciò s'aggiunga una specie di puntiglio, che, a sua insaputa, gli si era fitto nell'animo, e nol lasciava tranquillo da un pezzo, di riuscire ad avere il disopra su quel petulante di maestro Brambilla. Il conte Alberico, dal canto suo, avendo recitato maravigliosamente con lui la parte d'impostore, col protestare d'essere stanco e pentito della propria vita peccatrice, coll'assicurare di sentirsi purificato da quell'amore, e di non scorgere per sè altra via di salvamento che nel matrimonio con quella fanciulla santa, era pervenuto a far veder chiaro a monsignore che la Provvidenza in quella occasione avea voluto dar la più evidente prova della sua presenza, e che però bisognava assecondarla con tutta l'anima e con tutto lo zelo.

Quando monsignor Opizzoni riprese le sue visite ai conjugi Gentili per fare quella proposta che, secondo il suo concetto, doveva riuscir salutare come un miracolo di Gesù Cristo; madamigella Stefania stava per conchiudere una scrittura coll'impresario Barbaja. Quest'uomo, che avea cominciato la sua carriera col fare il guattero nei fondaci delle bottiglierie, poi, spinto dal suo genio, nell'anno medesimo che Volta inventò la pila, scoperse l'alto segreto di mescolare la panna col caffè e colla cioccolata onde nell'imperitura parola di barbajata si fece un monumento più saldo del granito; poi, diventato appaltatore dei giuochi d'azzardo nel ridotto della Scala, arricchì straordinariamente, di modo che presto assunse l'impresa del teatro stesso e quella del San Carlo di Napoli; quest'uomo dunque, meno le sue speciali cognizioni sul cacao e sul moka, era di una ignoranza mitica; ma aveva il genio del far danaro, senza guardare ai mezzi, senza idee di onestà, non fido che all'ultimo intento; come un condottiero il quale divorato dal furore delle conquiste, move innanzi senza badare al diritto, calpestando le popolazioni e moltiplicando le stragi. Nella sua condizione d'impresario era perciò uno strozzino inesorabile di maestri, di cantanti e di ballerini. Fiutava così in di grosso il vero merito, come una volpe che, così anche da lontano, alzando il muso nell'aria, sente odor di pollastro; e tosto gli era sopra per impadronirsene e divorarlo. Quando sentì l'entusiasmo che madamigella Gentili aveva destato al teatro Re, senza por tempo in mezzo, pensò ad ipotecarla a suo vantaggio. Si recò dalla fanciulla, la lodò, ma in modo da farle capire che valeva molto meno di quello che essa potesse credere; le fece capire così vagamente che, se possedeva una voce simpatica, essa era però debole, segnatamente nelle corde di mezzo, e per di più, aveva un certo tremulo che a lui, pratico del mestiere, accusava i sintomi di un facile e vicino scadimento. Dietro questo esordio le propose una scrittura per sei anni, nel primo dei quali le avrebbe corrisposto lire cinque mila, sei nei tre successivi, otto mila negli ultimi due.

I genitori rimasero sbalorditi di così misere proposte, e si guardarono in faccia quasi a dire: Il maestro Brambilla ci ha dunque ingannati. E madamigella Stefania rispose che non poteva accettare quei patti in nessun modo, e che piuttosto avrebbe rinunziato per sempre alla carriera teatrale: l'impresario replicò, ragionò e sragionò, e conchiuse che sarebbe tornato entro tre giorni a sentir la risposta definitiva. Ma nel secondo di questi giorni comparve invece monsignor Opizzoni, impresario d'anime, a fare la sua proposta inaspettata. I parenti della ragazza conoscevano il conte B...i appena di nome; tuttavia, per quanto vivessero fuori del mondo, era giunta fino a loro la notizia della torbida vita di colui, e ne fecero motto a monsignore; ma egli tosto lor contrappose. che se esso aveva avuto un cattivo passato, era da ascriversi al bollore della gioventù, all'inesperienza, all'essere stato disgraziato nella scelta delle mogli; che, di presente, quantunque fosse ancora in freschissima età, non era però più in quella procellosa stagione della vita, in cui tutti gli uomini, quelli eziandio destinati a diventare sapientissimi, non mancano di fare sovente i loro stramazzoni; che esso avea parlato in modo, aveva espressa una tale deferenza per la fanciulla, aveva così altamente protestato che soltanto per quel matrimonio avrebbe ottenuta quella tranquillità d'animo che non ebbe mai prima e per mancanza della quale potè far cose di cui tanto si vergognava e si pentiva; che meritava assolutamente di esser preso in considerazione; e per conseguenza, dal lato di loro e della ragazza, l'annuire a una tale proposta, non era soltanto un colpo di fortuna inaspettato, un beneficio della Provvidenza, la quale esibiva alla ragazza tutti gli agi della vita, mentre le faceva scansare tanti pericoli; ma era una buona azione, un'opera meritoria, un mettersi sicuramente sulla via del Signore. I genitori guardarono alla figlia, come a dire: Che te ne pare? Ma la figlia non rispose nulla: onde monsignore, conchiudendo che, in ogni modo, la questione di un matrimonio essendo sempre una cosa gravissima, meritava il più maturo consiglio, si licenziò dicendo ai genitori che sarebbe ritornato a sentire le loro deliberazioni, e che intanto egli avrebbe pregato il cielo perchè volesse inspirarli.

 




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