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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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XVIII
Ma di questo Giunio, che è destinato ad essere una specie di Childe Harold, ed avrà poi l'incarico di congedare i cari lettori del nostro libro, ne pare, che prima di continuare ad accompagnarlo ad ogni passo, sia necessario sapere minutamente com'egli era fatto di fuori e di dentro. Già ne uscì dalla penna la notizia ch'egli era un bel giovane; bello al punto che l'Accademia di belle arti e l'Ateneo delle donne e delle fanciulle milanesi avrebbero dovuto disputare assai, prima di conchiudere se il primo premio in beltà doveva concedersi a lui o al conte Emilio Belgiojoso o al Marliani. Coloro che propendevano per le proporzioni atletiche, avrebbero scelto il conte Emilio; quelli per cui non v'è bellezza se non è garantita dai capelli neri e dagli occhi neri stavano pel Marliani; ma quanti propendevano per quella beltà che riceve tutta la sua espressione dal sentimento e dallo spirito, non avrebber tardato un minuto a dar la palma al nostro Giunio. Concepito nel 1798, quando la giovinetta sua madre era tenuta in continuo sussulto da cento ansie e paure, erasi insinuato nel suo organismo una tale eccentricità che, sebbene ei fosse sanissimo e perfettamente costituito, pur gli dava talvolta l'apparenza di un giovane travagliato da qualche malore. Ma, per sua fortuna, col tramontare del classicismo carnale, allora era già incominciata la moda delle faccie languenti; la sua poi era di quelle che non son sempre eguali; la mobilità dello spirito e le varie impressioni l'alteravano in un momento. I pensieri si vedevano a passare tutti su di essa, come le nubi sul cielo. Codeste alterazioni erano tali e sì forti, che in certi istanti il suo volto, tanto era lo spostamento e la battaglia dei muscoli, poteva persino parer brutto, per lo meno disgustoso. Se però una subita gioja lo esaltava, s'egli animavasi in qualche disputa gentile, se trovavasi al contatto di una persona cara, se una musica agitante gli metteva il tumulto nel sangue, tosto pareva che gli si togliesse dinanzi come un velo cupo; tutta la sua fisonomia si esilarava, le linee quasi sgominate ripigliavan di tratto il loro posto regolare; gli occhi mandavano lampi ed esercitavano un tal fascino, che quanti lo vedevano e lo ascoltavano, si animavan seco. Codesta eccitabilità, che alterava sì facilmente il suo aspetto, alterava e modificava, com'è naturale, anche le manifestazioni della sua mente e dell'animo suo. Talvolta era chiuso, taciturno, triste, timido, circospetto; talvolta ilare, espansivo, loquace, epigrammatico, imperterrito. Talora il suo ingegno era riflessivo, preciso, misurato come la geometria: più spesso traboccante, disordinato, concitato, pieno di voli audaci come la poesia lirica. Impressionabile qual era al pari di un barometro, riceveva e riteneva tenacemente in sè le impronte di tutte le parvenze anche fuggevolissime del mondo oggettivo. Dotato di uno spirito d'osservazione acuto e penetrante, un'occhiata dal capo al piè bastava sovente a rilevargli un uomo; da ciò una straordinaria facilità, che potea parer precipitazione, a portar giudizio degli altri; da ciò altrettanta facilità a sentire propensione o avversione per quelli che avvicinava; propensione che si cangiava tosto nella più calda amicizia; avversione che lo portava spesso a non dissimulare le più violenti antipatie. Nei lunghi e frequenti viaggi in compagnia del padre e della madre, aveva acquistata esperienza di mondo oltre il diritto dell'età sua. Datosi agli studj con intensità quasi febbrile, ne' due anni che dimorò a Parigi (chè era nell'indole sua il portar tutto all'eccesso nel tempo che applicava la mente e il cuore a qualche cosa), s'era così arricchito di cognizioni, che in una compagnia di letterati e di dotti potea giocar buonamente la sua partita con chicchessia. La tempra però del suo ingegno e del suo sentimento lo inclinava più al culto dell'arte che a quello della scienza. La sua era anima di poeta, e idolatrava il grato della beltà spettacolo, e credeva che i prodotti dell'arte consolassero l'umanità più direttamente e più istantaneamente che quelli della scienza. Nella sua mente aveva spinto fino alle più esagerate conseguenze quel detto di Foscolo "che le discipline più utili ai mortali son quelle che diradano gli affanni e le noje della vita." La sua eccitabilità stessa, che lo rendeva sensibilissimo ai patimenti altrui, e per conseguenza manteneva lui medesimo quasi sempre in uno stato di dolore morale, lo aveva confermato sempre più in quell'opinione. "Val più, egli solea dire, la corrente elettrica messa in movimento in tutti i teatri dei due mondi dalla musica poderosa di Rossini, che quella eccitata dalla pila di Volta. "Colla scienza arida e sola, l'umanità rimane sempre infelice; soltanto per mezzo dell'arte può avere dei quarti d'ora passabili." Riferendo questi suoi detti, non crediamo di metterci la nostra firma; intendiamo soltanto a mostrare che strana tempra di giovane era il nostro Giunio. Essendosi trovato più volte in compagnia di Ugo Foscolo, quando questi, al pari di tanti altri, sebbene indarno, aveva fatto la corte a donna Paolina, la sua fantasia adolescente era stata scossa e penetrata dalla fiera e generosa misantropia di colui. Però, fosse che l'indole sua lo avesse portato spontaneamente a pensare come Foscolo, o un po' di vanità giovanile lo avesse spinto ad ostentar d'imitarlo, abborriva romanamente ogni sorta di tirannide; sentiva un'avversione invincibile per l'invadente autorità, fosse pur quella che deriva dalla superiorità dell'ingegno. Degli uomini, in generale, avea disistima e sgomento, salvo i pochissimi che gli paressero egregi; questi poi amava con entusiasmo e con efficacia operosa, e credeva con ciò di confortarli ed ajutarli, e di stringersi ad essi quasi in lega di mutua difesa contro all'attentato dell'universalità. Allorchè gli pareva che uno fosse buonissimo, lo frequentava con intimità, fosse il falegname, fosse il calzolajo, segnatamente se mostrava d'avere abbondanza d'ingegno naturale: chè l'ingegno spontaneo e il vergine buon senso anteponeva a qualunque dottrina. Portato a studiare gli uomini, come un medico che si affanna nello studio di una malattia creduta incurabile, li andava a cercare in tutte le classi della società. Oggi passeggiava sotto al braccio del duca Litta, del conte Belgiojoso, dell'Archinto; domani sedeva nel cortile del Falcone a bere il vin bianco magro col Bichinkommer, che prediligeva in modo particolarissimo. Dopo aver passata qualche ora in discussioni letterarie al caffè della Palla, dove convenivano parecchi professori del ginnasio e del liceo di Sant'Alessandro, lo si vedeva al caffè della Cecchina a intrattenersi a lungo con cantanti e ballerini. Rimaneva spesso delle intere giornate nella Biblioteca Ambrosiana a leggere, a studiare, a consultare gli Oblati che ne erano i dottori. Un altro giorno, ammesso a suonare il quartetto in casa Castelbarco, si, deliziava colle composizioni di Beethoven, di Kromer, di Haendel, di Boccherini, ecc. Sosteneva lunghe discussioni estetico-musicali col maestro Soliva, con Minoia, con Federici, con Alessandro Rolla, con Lichtenthal, coll'energumeno Prividali, agente, giornalista-librettista, che dalla cronica bolletta e dal fegato guasto era mantenuto in continua esacerbazione, e nella disputa schizzava veleno e acido solforico. Un altro dì, assistendo alle prove del circo equestre ai Giardini pubblici, perchè era grande conoscente di Alessandro Guerra, allora primo cavallerizzo della compagnia di Bach di Vienna, vi si tratteneva a lungo, suggerendo pose eleganti alle belle amazzoni cavalcanti, e incoraggiando il Guerra al non ancora tentato Non plus ultra. Codesta varietà di studj vivi e di divagazioni gli era imposta non tanto dalla mobilità dell'indole che non gli permetteva di fissarsi troppo a lungo in una occupazione esclusiva, ma dal proposito che vagamente gli era sorto in mente, dopo aver letta la traduzione squisita del Viaggio sentimentale di Sterne fatta dal Foscolo, di portare cioè alle più ampie proporzioni possibili quel modo di componimento, e di fare un lavoro letterario che riflettesse gli infiniti colori dell'umanità. A Venezia, dove noi conoscemmo il Baroggi del 1849, abbiam potuto vedere l'abbozzo ed alcune parti compiute di quell'opera vasta. E, secondo il parer nostro, quel lavoro condotto a compimento, avrebbe fatto un gran rumore nel mondo letterario; l'Italia avrebbe certissimamente avuto un uomo illustre di più, se eccezionali sventure e dolori fierissimi non avessero affranto quel generoso ed originalissimo ingegno. Intanto che il Baroggi stava, come fu detto, guardando ora una parte, or l'altra, or l'altra del fracassoso spettacolo del Monte Tabor, sentì battersi una spalla, e contemporaneamente udì la voce di Andrea Suardi. Con questi trovavasi un giovane di aspetto e di modi assai distinti. Eccovi il vostro amico, gli disse questi. Stando laggiù, vi abbiam conosciuto. Si veniva in cerca di voi appunto... Siamo già stati alla vostra casa, e non avendovi trovato, abbiam detto che, siccome tutto il mondo corre qui, così vi sareste venuto anche voi. Non è un'ora del resto che il vostro amico ha potuto lasciare, e speriamo che sarà per sempre, la sua cella di Santa Margherita. Io mi lodo di aver potuto giovare tanto a voi che a lui, e mi lodo tanto più che avendovi promessa la mia assistenza, questa ha portato il miglior frutto possibile. Ed ecco un altro personaggio, dirà il lettore. Sì, un personaggio, e di che importanza e di che natura fatta apposta per esercitare lo spirito d'indagine di chi studia gli uomini nella vita viva!
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