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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMONONO
    • XXVI
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XXVI

Tutti questi fatti seguirono con tanta rapidità, che coloro i quali dovettero subirli per forza, non ebbero il tempo necessario nè di fermarli, nè di comprenderne lo scopo, nè di conoscerne gli autori. Tanto il Falchi quanto sua moglie rimasero così sbalorditi e confusi, che non raffigurarono il Bernacchi quando questi montò in sella, e non s'accorsero d'essere portati piuttosto fuori che dentro la città. E dopo il simulato alterco, a tacere dell'avvocato che, restato solo nella solitudine e nell'oscurità della Circonvallazione, non mise in iscritto per nostro uso le sue impressioni, la paura s'era per siffatta guisa impadronita dell'animo di madama Falchi, che la sua carrozza svoltò entro il portone di un palazzo, prima che si fosse riavuta; sebbene confidasse nelle parole del Bernacchi, da lei non ravvisato, il quale, lungo la precipitosa corsa, andò ammonendola e persuadendola ch'ei l'avrebbe tratta in salvo. Al rumore della carrozza accorsero i famigli del palazzo, che era quello della Simonetta appunto, situata tra porta Tenaglia e porta Comasina, e celeberrima per il suo eco. Parve che quella visita fosse aspettata. La Falchi fu fatta discendere. Giosuè Bernacchi allora le si presentò, e dandosi a conoscere: Ringraziatemi, le disse, se ho saputo trarvi di pericolo.

Di lì a poco giunsero gli altri due fiacres. Ne uscirono nove uomini, fra i quali il Bichinkommer. Tutti fecero cerchio intorno alla Falchi che, vedendo il capomastro Granzini, si smarrì, senza che però potesse comprender nulla.

A rendere più ampia la linea del semicerchio discese un uomo alto e di forme robuste, affatto calvo, quantunque ancor giovane, tinto fortemente di quel color di mattone, che di consueto è il deposito della triplice concorrenza della salute, del sole e del vino. Sebbene in abiti da caccia, aveva aspetto e modi signorili, indarno dissimulati da una, poteva dirsi, abitudine di prepotenza ostentata e da uno sguardo particolarissimo, nel quale un osservatore esperto poteva vedere a lampeggiare un duplice raggio di sinistra gravità e di vivezza comica. Pareva un miscuglio d'innominato e di don Giovanni, col naso pavonazzo di Falstaff e il ghigno provocatore di don Cesare di Bazan. Colui aveva due soprannomi; da' suoi pari e in città veniva chiamato il barone Bontempo; in villa e dai contadini era denominato El Mazzases, per aver ucciso sei aggressori, mentre viaggiava affatto solo in sediolo. Non era il padrone della Simonetta; ma la teneva soltanto a pigione e da poco tempo; e ciò sia detto a scanso d'equivoci.

Quantunque non abbia il bene di conoscervi, disse egli alla Falchi, nè voi sappiate ch'io mi sia, ho caro siate venuta a trovarmi. Qui avrete buonissima compagnia d'uomini e donne; donne degne di voi, uomini superiori ai vostri desiderj, sebbene forse contrarj ad ogni vostra aspettazione. Non parlo di quelli che vedete qui, noi siamo uomini volgari.

La Falchi, benchè fosse compresa di sgomento, fissò in volto l'interlocutore con una cert'aria di sussiego.

Voi dite di non conoscermi, disse poi, ed io pure non vi conosco. Abbiate dunque la bontà di dirmi per qual ragione adesso io mi trovo in questa casa, che, a quanto mi sembra, è casa vostra.

Parlate voi, signor Giosuè, disse il barone al Bernacchi.

Mi riconoscete voi? chiese allora il vetturale alla Falchi.

Sì, ella rispose.

Per colpa di chi un certo tale ha dovuto passare due anni nel manicomio della Senavra?

La colpa dovrebbe essere di quel tale, se i pazzi fossero colpevoli.

Se dunque i pazzi non sono colpevoli, la colpa sarà di chi con arti diaboliche incaricò un pazzo di ferire un uomo. Signori, ecco la strega infame che spinse un giovane onesto a vibrare il colpo dell'assassino. Il resto lo sapete.

Avete dunque capito, o signora, esclamò il barone; siete qui per essere giudicata e condannata.

Mi riconoscete voi, signora? le chiese allora ad alta voce il capo mastro Granzini.

Sì, vi riconosco.

Ebbene?

Non so che vi vogliate dire.

A poca distanza di qui c'è il cimitero della Mojascia. Fra i mille cadaveri che giaciono colà, non ve n'è uno che vi tolga il sonno la notte, e vi assedii con paure e con rimorsi?

Non vi comprendo, e non so nulla.

Si tratta dunque di far sapere a tutti quello che voi dite d'ignorare.

E noi la giudicheremo e la condanneremo, esclamò il barone con voce profonda e con gravità ostentata.

Conoscete voi, entrò allora a parlare il Bichinkommer, conoscete voi il notajo Agudio?

Non lo conosco.

Voi lo conoscete, e sapete anche in qual modo si comperarono da lui delle carte preziose, a danno di una povera famiglia, e a vantaggio di un ricco potente.

Io non so nulla.

Allora si troverà il modo di farvi confessare la verità, vostro malgrado.

E noi la giudicheremo e la condanneremo, concluse il barone, caricando la profondità della voce e mettendo fuori le parole come se fossero una formola tremenda della Santa-Vehme.

La notte era profonda; i fanali dei fiacres, portati a mano da quattro socj della Teppa, rischiaravano lugubremente quella scena. La Falchi pareva la Lucrezia Borgia nel famoso sestetto dell'opera di Donizetti.

Ma la varietà del finale del sestetto consistette in ciò, che la Falchi venne condotta in una gran sala terrena tutta illuminata, dove alcune belle donne, mostranti tutt'altro che allegria, sedevano in mezzo a dodici mostruosissimi nani. Ed ora narreremo la storia dei nani.

Una notte s'impegnò un vivissimo alterco tra alcuni soci della Teppa e un nano assai noto nella via dei Pennacchiari, soprannominato el nan Gasgiott, il quale lavorava a far fiori artificiali. Apparteneva esso alla specie superlativa di que' nani che, nel dialetto milanese, con vocabolo intraducibile, si chiamano besios: forti di salute, tarchiati di spalle, presuntuosi e maneschi, e che diventan feroci se alcuno ha l'audacia di arrischiar qualche critica sul sistema delle loro gambe. Questo nano era prepotente anco non provocato, e faceva professione di tentar tutte le donne del circondario con parole e con fatti, pe' quali avvennero innumerevoli risse, e si appoggiaron randellate famose, e corse anche qualche coltellata. Tra i socj della Teppa che s'incontrarono in costui quella tal notte, v'era l'atletico Milesi, il quale amoreggiando una servotta che stava ne' Pennacchiari, aveva sentito da lei che el nan Gasgiott le aveva dette parole non mica belle. Ognuno può immaginarsi che tempesta di cazzotti cadde sull'ampia schiena del nano, e come esso non riuscisse a svincolarsi dalle ferree mani del Milesi, che lo trasportò seco all'osteria del Falcone, e qui, incontratosi coi barone Bontempo, questi propose al Milesi di portare il famoso nano in campagna e colà sottoporlo ad un regime severo, che lo preparasse a diventar più calmo e trattabile per l'avvenire.

Siccome da pensiero nasce pensiero, così nelle teste di quei giovinotti buontemponi, che talvolta spingevan le pazzie fino all'ingiustizia ed alla crudeltà, nacque la idea di organizzare un rapimento di tutti i nani più vistosi della città. I Romani fecero il ratto delle Sabine; i pirati greci e turchi rapivano le beltà delle isole greche e dell'Eritreo o della Cascemira per provvedere odalische ai voluttuosi emiri. La Compagnia della Teppa tese invece i suoi agguati a quanti ebbero gambe tortuose e menti da gnomo. Se il fatto fosse continuato per molto tempo, i nani, diventati oggetti di lusso, sarebber saliti a prezzi d'affezione.

 




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