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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO VENTESIMO
    • II
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II

Parigi è la capitale del mondo; anche senza essere francesi bisogna confessarlo. Essa, in questo primato, è succeduta alla vetusta Roma. Nè vale che Londra abbia un milione d'abitanti più di lei; se il numero degli abitanti fosse il sintomo della superiorità d'una capitale, i Chinesi, già orgogliosi d'aver avuto un Adamo di dieci millenarj più vecchio del nostro, potrebbero contendere questo vanto così a Londra come a Parigi. Ma questa è la capitale del mondo per il fatto della lingua; della sua lingua, che successe alla latina. Quand'essa diventò l'indispensabile interprete nei bisogni della diplomazia, nella necessità delle comunicazioni del sapere universale, allora Parigi fu dichiarata erede della fortuna di Roma. Un dotto, un letterato, anche senza l'obbligo di rinnovare il miracolo di Mezzofanti, può conversare con tutti i tesmofori dei due mondi, i quali in quella perpetua fornace del pensiero, spogliati della vesta nativa, lasciano vedere trasparente la sostanza dell'idea, che talvolta si migliora colà, rendendosi meno scabra e più accessibile. Il longanime alemanno che, nelle ricerche ostinate della scienza e dell'arte, e più dell'erudizione, mostra tutti i caratteri d'una affannata monotonia, non varcherebbe i patrj confini, se l'agile francese, liberandolo delle scorie importune, non ne presentasse al mondo il carbonchio lucente.

L'altra ragione del suo primato sta nel sapersi espandere compenetrando.

Parigi, nella schiera delle città illustri, assomiglia a quegli ingegni fortunati che sanno approfittare delle fatiche altrui, e riproducono assimilando e completando. Se la si considera come un individuo, non ha il genio della invenzione, ma della perfezione. Non è il Boiardo che inutilmente per sè crea e trova i personaggi dell'Orlando, ma è l'Ariosto che, adottandoli e trattandoli come figli proprj, li rende immortali, e appena permette che il suo antecessore abbia un posto fra i poeti di terz'ordine.

Parigi non è l'ignoto autore della prima leggenda del Faust, ma è Goethe, che trovando un edificio compiuto, ma chiuso da tutte le parti, lo apre, lo adorna, lo illumina e lo rende accessibile a tutt'Europa leggente. Non è Galvani, ma è Volta. Nell'89 essa non ha fatto che dar consistenza e attitudini pratiche al pensiero rivoluzionario, annunciato già tre secoli prima da altre nazioni che maltrattarono i loro veggenti, e dai veggenti che pagarono le divinazioni colla testa. Rousseau e Voltaire, preparatori dell'89, non dissero nulla di nuovo; ma il loro eco poderoso perfezionò i rauchi suoni dei loro predecessori e li converse in una vasta e tremenda armonia che, come la Marsigliese, conflagrò tutte le menti, le quali, trovandosi confederate, diventarono invincibili.

Parigi è la capitale del mondo, perchè in ogni tempo e per qualunque circostanza, si fece il suo interprete perfino del male, e s'affrettò a mettere in esecuzione gli sparsi e mal repressi desiderj della società. È la capitale del mondo, perchè il suo genio è tale da spingerla a maltrattare anche sè stessa, per l'ambizione d'essere la prima a convertire in fulmine l'elettricità che ognora serpeggia nel serbatojo terrestre. Nel 1815 essa, al pari di Saturno, divorò il proprio figlio onde placare tutta Europa allora fremente. La borghesia mercante di Parigi comprese la classe usuraja di tutto il mondo, e sacrificò la gloria all'interesse e alla certezza di un tanto per cento.

Oltre a ciò, è la capitale del mondo, perchè seppe costituirsi in patria universale di tutti i grandi ingegni.

Parigi venera l'intelligenza da qualunque parte venga, comunque si presenti; già s'intende, quando esca dalle mediocri proporzioni, e quando la sua virtù non stia soltanto nella forma, ma nella sostanza.

Heine, scacciato da Berlino, povero ed ammalato ricovera a Parigi; e qui è provveduto di quattro mila lire all'anno, malgrado che nella Lutezia egli sfoghi la sua gratitudine dicendo tutto il male possibile de' parigini. Un'altra nazione non l'avrebbe tollerato.

Mentre un critico in Sicilia ostentava, or non son molti anni, di appena conoscere Manzoni; mentre il napoletano Emiliani-Giudici lo insultava obbliquamente in un libro che ebbe spaccio in Italia; e il toscano Ranalli lo copriva d'ingiurie; a Parigi Artaud l'aveva già chiamato il primo de' poeti viventi; Chateaubriand l'aveva dichiarato più grande di Scott; Dumas diceva che da Davide a lui non aveva mai trovato inspirazione lirica più potente della sua. "Apprendete, o Italiani, a rispettare gl'ingegni", tuonava Foscolo mezzo secolo fa, e mezzo secolo dopo si è ancora condannati a dire che a Parigi trova ricovero e giustizia chi è svillaneggiato o maltrattato in casa propria. Nè giova che altri c'interrompa mettendo innanzi il pretesto delle credenze, delle scuole, delle fazioni. Questo pretesto sarebbe una colpa di più; e quando pure non fosse, il vero merito copre e scuole e sêtte, ed una nazione deve rispettare sempre il merito dell'ingegno e della virtù, in qualunque fede ei versi. Nelle tre giornate di luglio gli studenti della Politecnica portarono sulle braccia in trionfo Chateaubriand, che pure aveva parlato contro di loro. È a questi patti che una nazione è una Nazione. O Italiani, rispettate gli ingegni! ripetiamo le parole di Foscolo, senza delle quali le nostre andrebbero disperse o fraintese.

Rossini in dodici anni scrive quaranta spartiti che fanno di lui il più rivoluzionario, il più immaginoso, il più versatile, il più grande dei maestri melodrammatici d'Italia e d'Europa; ma presto la sua patria, volubile come l'antica Grecia, annojata di lui e de' suoi trionfi, lo coglie al varco in un momento di stanchezza e d'indolenza, e lo umilia con quel trasporto onde in addietro lo aveva esaltato; poscia ostenta di non comprenderlo nel punto massimo della sua sterminata abbondanza, allorchè nella Semiramide aveva gettate a profusione le ricchezze della sua fantasia, come i principi del medio evo in un giorno di corte bandita; e lo lascia deluso, iracondo e ancora povero.

Gli Italiani trattano gl'ingegni come gli agricoltori i filugelli: arricchiscono della loro seta e li gettano poi, conversi in bruchi, nel letamajo. Ma Parigi accoglie Rossini, il quale in quella Babilonia era andato a cercar nuovi amori per divagare gl'importuni pensieri, al pari di un amante che ha trovato la sua donna infedele; e la capitale del mondo lo vendica, lo esalta, lo tratta come un trionfatore coronato, erigendo simulacri marmorei a lui vivo, e intitolando le pubbliche vie del nome suo.

Parigi è la capitale del mondo, perchè nelle cose della scienza e dell'arte l'entusiasmo sempre sveglio non permette mai di sconfessare la verità che sfolgora. A Vienna, in tanto oceano di note rossiniane, appena si trovò grande la prima metà della sinfonia del Guglielmo Tell: a Berlino, un'accademia di maestri algebristi quasi fu per negargli l'onor del ritratto nella serie dei grandi compositori, e stette in procinto di punirlo come Marin Faliero.

Ma vediamo Parigi nel momento appunto che a Rossini si tributano onori più che a un mortale, e l'Italia, per consenso, viene esaltata nel trionfo di lui.

 




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