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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO VENTESIMO
    • III
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III

Era la mezzanotte del 10 agosto 1829; una folla immensa erasi raccolta sul boulevard des Variétés, innanzi alla casa di Rossini, essendo corsa la voce che gli artisti dell'Opéra volevano offrire una serenata al re della musica contemporanea, all'autore del Guglielmo Tell. A mezzanotte infatti cantanti e suonatori occupavano una delle terrazze dell'elegante abitazione di Rossini, e allora al tumulto popolare della folla impaziente successe il più profondo silenzio. L'orchestra incominciò coll'eseguire la stretta della sinfonia del Guglielmo Tell, che, ridomandata a forti grida, venne di nuovo eseguita e di nuovo ricoperta d'applausi. Dopo questo pezzo fu cantata la tirolese Un oiseau ne suivrait pas, che rapì di piacere la platea a cielo aperto, e i cantanti dovettero ripetere questa musica, tanto avea infuriato la tempesta del bis. In seguito fu cantato il coro dei balestrieri, e quello, senza accompagnamento, del Conte Ory: Noble Châtelaine, che le voci sonore di Nourit, della Debadie e di Levasseur fecero giungere fino all'orecchio dei più lontani spettatori.

La notte molle, il cielo stellato, la musica incantevole eseguita con amore speciale, l'attenzione religiosa di un intero popolo di dilettanti entusiasti, tutto concorse a rendere straordinaria e solenne quella festa del genio, la quale era nel tempo stesso la festa dell'addio; chè Rossini doveva fra poco lasciar la Francia.

Giunio Baroggi, che dimorava a Parigi da qualche tempo, trovavasi compreso tra quella folla, insieme co' suoi amici di Parigi e d'Italia. Vi era Nodier, Ingres, Halévy, Marliani, Suardi. Dopo la serenata si recarono tutti al caffè Tortoni. Com'è naturale, il discorso cadde sull'arte e su Rossini e sull'Italia. Halévy sosteneva che il Guglielmo Tell era il capolavoro di Rossini, e che se questi non avesse dimorato a lungo in Francia, il suo genio sarebbe rimasto incompleto.

Baroggi, esaltato dalla serenata, versava in uno stato eccezionale di vivacità, d'estro e di vena. Si mise a parlare per rispondere ad Halévy ed agli altri:

Non è possibile, ei disse, non dividere in gran parte la vostra opinione il Guglielmo Tell è un serbatoio d'inesauribile arte e di scienza musicale, dove un'intera generazione di maestri potranno attingere la loro parte di melodia e d'armonia per acquistar fama e denaro; dove anche un maestro di scarsa levatura, in un momento di peritanza e di dubbio, potrà pigliarsi quello che farà pel caso suo, senza nemmeno parere un copista. Sì, io sono felice che codesta specie di Bibbia dell'arte musicale sia uscita dalla testa prodigiosa di Rossini; ma non sarò mai per sacrificarle il Mosè, dove il genio lampeggia di una luce ancora più abbagliante, abbagliante sì che par quasi eccedere la natura umana. Ma tra il Guglielmo Tell e le altre opere della scuola germanico-francese e i capolavori della scuola italiana corre quella differenza che intercede fra il dramma diffuso, fatto per la lettura, e il dramma concentrato, fatto per la rappresentazione. Ma io non posso ammettere che sì debbano far drammi per la sola lettura, perchè allora vien più opportuna un'altra forma dell'arte; e per la stessa ragione non posso ammettere che ci debbano essere opere in musica che condannino il pubblico a star confitto sulle panche cinque o sei ore; perchè la lunghezza non è una condizione dell'arte, perchè nemmeno il genio sa scongiurare la noja, e la stessa bellezza genera sazietà quando non sappia scomparire a tempo.

Voi altri Italiani, disse allora Halévy col modo il più educato, ma con tale accento che rivelava qualche dispetto; voi altri Italiani avete ragione di aggrapparvi unicamente e sempre al gigante Rossini, come alla nave ammiraglia, perchè egli è il solo che anche oggidì rappresenti l'Italia con antica grandezza.

No, rispose il Baroggi, colla prontezza e l'impeto onde Massimo soleva rimettere un pallone traditore. Non posso ammettere che l'Italia non abbia nelle altre arti un genio che faccia degno corteggio a Rossini. Intanto, tra le spire della colonna Vendôme, il bassorilievo della battaglia d'Austerlitz, scolpito da Bartolini, è il vanto di quella colonna, e la più gran cosa che in scoltura siasi fatto in Europa dopo la morte di Canova, anche a fronte della grandezza di Thorwaldsen. Ma nella poesia e nella letteratura v'è un uomo in Italia che può benissimo far degno riscontro a Rossini; ed è Manzoni; e se la fama di quest'ultimo non risuonò così rapidamente e vastamente come quella del primo, bisogna trovarne la ragione nell'indole e nella diversa fortuna delle due arti. Il primo fatto intanto per cui Rossini e Manzoni si fanno riscontro l'un l'altro è il primato che ciascuno occupa in Italia e fuori per consenso universale e concorde. Ma lasciando da parte la fama e la gloria, che sono le conseguenze e i compensi del merito, anzichè il merito stesso; è nella sostanza, è nell'originalità, è nella grandezza che Rossini e Manzoni sono veramente i re di due diversi regni. Un'altra virtù caratteristica poi che hanno in pari grado (ed è il distintivo dei veri genj nell'arte, perchè li fa esser varj e vasti come il pensiero e la vita), è la potenza di esercitare il riso ed il pianto, come se in ciascuno fosse unita la natura di due uomini diversi. Gl'ingegni i quali non sanno fare altro che ridere o piangere, non sono completi, sono uomini a mezzo, perchè della vita non riflettono che un lato solo Dante piange e ride, alla sua foggia, s'intende; è sublime ed è grottesco; accanto alle creazioni più pure e celestiali pone le più strane figure; Michelangelo nel suo Giudizio sotto al Cristo ha messo in caricatura il diavolo; Ofelia e Falstaff uscirono dall'unica mente di Shakespeare. Il largo al factotum e il pianto di Desdemona da quella di Rossini. Così è il Manzoni; l'elemento comico corre e serpeggia per tutto il suo romanzo, sbizzarrisce persino tra le lugubri scene del Lazzaretto. È alle spalle di don Abbondio che un'intera generazione ha riso e rideranno i futuri. Ma se questa figura ci allarga i precordi di giovialità, Cristoforo e Federico ci appianano il volto di una severità compunta; e nell'Adelchi il dolore raggiunge una grandezza tragica, che non si trova nemmanco in Alfieri, ma è quella medesima altezza tragica che, allorchè vien raggiunta dal gioviale Rossini, lo fa superiore allo stesso Gluck appassionato.

"Un'altra qualità caratteristica per cui Rossini e Manzoni non possono confondersi cogli altri ingegni che fioriscono in questo tempo, sta in quell'originalità indipendente, per la quale diedero un movimento affatto nuovo all'arte loro; sta in quella pienezza di facoltà per la quale, anche allorquando non riformarono del tutto un ramo dell'arte, lo completarono almeno. Monti riprodusse, non completò, non riformò.

"In esso vedonsi distinti tutti gli elementi coi quali eran nati molti poeti, prima di lui; ma non ebbe mai la virtù di assimilare tanta varietà di caratteri in una pasta unica, da cui potesse uscire, se non la novità assoluta, almeno l'apparenza della novità. Non così fu di Manzoni; egli fece in letteratura precisamente quello che fece Rossini in musica. Mise a contribuzione tutti quanti, ma lo fece in modo che non apparisse più traccia d'essi nel nuovo edificio letterario ch'egli costrusse sulle loro fondamenta e coi loro materiali; egli non invase alla spicciolata i dominj altrui per trasportare in casa propria un'ibrida varietà di maniere e una veste screziata di più colori, ma trasse gli altri nel proprio dominio e li sottomise alle proprie leggi, unificandoli. È precisamente la stessa grande elaborazione che operò Rossini in musica. Ecco perchè questi uomini nella storia del pensiero vanno collocati a paro. La musica fu condotta all'ultima maturanza da Rossini, come da Manzoni fu condotta all'ultima maturanza la letteratura."

Gli astanti applaudirono vivamente alle parole del Baroggi. L'Italia in quel punto veniva glorificata in Francia.

 




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