IX
Quando si pensa che Carlo VI, subentrato ai Re spagnuoli nel
dominio di Lombardia, era innamorato della Spagna e del suo sistema, è facile a
comprendere come doveva camminare la cosa pubblica in Lombardia, durante il regno
di lui, sebbene ei fosse d'indole mitissimo. L'arbitrio dell'autorità
costituita tenne allora le veci della giustizia; il diritto storico fu così
onnipotente, che il diritto razionale e naturale parve davvero un'utopia di
filosofi sentimentali e innamorati, per adoperar la frase di un moderno
statista dalla pelle di cuojo; come pare anche oggidì a qualche sincretico
legista, che dalla memoria sterminata e prevalente su tutte le altre facoltà
dello spirito, ebbe guasto l'intelletto e contaminato il cuore. Quel periodo
adunque di Carlo VI contrassegnò la massima prevalenza del ceto patrizio. Chi
non era nobile era una bestia, non tollerabile se non in quanto serviva come un
cavallo o come un bue; e se appena appena si rivoltava per l'istinto inalienabile
della difesa, o sbizzarriva per insipiente indocilità, tosto veniva tolto dal
corpo sociale come pericoloso e infesto. Il Senato poi che, sotto il dominio
spagnuolo (non sono parole nostre), corredato nella sua istituzione di somma
autorità, si reputava maggiore del Governo stesso; per cui la vita, la libertà,
la fortuna d'ogni cittadino, erano abbandonate al potere illimitato di lui, che
si credeva sciolto dai rigidi principj di ragione, e solea dire che giudicava
tamquam Deus; sotto Carlo VI vide più ancora accresciuta l'autorità propria, e
perchè le istituzioni mantenute in vigore da chi è innamorato di esse, non
ponno a meno d'invadere un campo maggiore di quello che primamente era loro
stato conferito; e perchè inoltre, negli anni di Carlo VI, non si presentarono
governatori così prepotenti come quei di Spagna, a respingere l'arbitrio
coll'arbitrio, ed a farsi beffe del tamquam Deus.
Quando un popolo è condannato a portare simultaneamente il
peso di due poteri arbitrarj e iniqui, ma che pure si faccian mutua
controlleria, può avere intervalli di sollievo e può accidentalmente trovar
anche la giustizia; mentre invece, se di que' poteri uno solo rimane sul campo,
allora ai soggetti non resta a far altro che mordersi le mani, perchè loro è
impedito anche di esprimere i gemiti del dolore. Ad onta di ciò, qualche uomo
di Stato e qualche istoriografo potè lodarsi di quel periodo transitorio; ma la
logica rivede i conti alla cronaca, le cui cifre, se non rispondono alla
riprova della prima, è indizio che sono fallaci. Però il fatto che siamo per
raccontare viene a smentire l'asserzione: che sotto il governo di Carlo VI
siasi respirato quanto lo comportava la condizione dei tempi. - Degli arbitrj
inumani del Senato, rimasto solo sul campo, fu dunque conseguenza un funesto
avvenimento che non si è potuto scancellare dalla tradizione inorridita,
sebbene siasi fatto scomparire dagli archivj il relativo processo criminale.
Però, furono uomini devoti alla giustizia ed alla santa ragione quelli che
pensarono di conservare il dettato della tradizione da essi raccolta dalla
stessa bocca di chi era stato testimonio di quel fatto, che ben potè chiamarsi
la strage degli innocenti; e la conservarono, perchè lo spettacolo dei
traviamenti a cui può andar soggetta un'autorità costituita in arbitrio
illimitato, rimanesse ad ammonizione ed a sgomento delle future generazioni.
Chi quindici o vent'anni fa era studente al ginnasio, al
liceo, all'università, avrà sentito parlare di un tempo non molto lontano, in
cui i giovinetti battaglieri e maneschi solevano ordinarsi in truppa, e
assumevano tra loro un'ostilità di convenzione per aver un pretesto di menar le
mani. - Gli scolari del ginnasio e del liceo di Sant'Alessandro eran nemici
giurati di quelli, per esempio, del ginnasio
di Santa Marta, o di quelli di Brera; e questi, non volendo patire insulti,
respingevano i nemici armata mano, vale a dire colle munizioni scolastiche,
quali i pennajuoli, le righe, le cinghie di pelle, i temperini che convertivano
l'ostilità di convenzione in ostilità vera, e le antipatie in furore, e le
ragazzate in fatti gravi e in occasioni di affanni alle famiglie. Spesso gli
assaliti diventavano assalitori, e l'esercito del ginnasio di Brera, che aveva
la riserva formidabilissima degli studenti di disegno, armati di squadra e
compasso, trasportavan la guerra fuori del proprio nido, e inseguivano i nemici
fin nelle loro sedi come gli antichi Romani. La contrada del Fieno e la piazza
dell'Albergo Imperiale parlano ancora di queste guerre, a chi sa interrogarle, come
i campi di Zama e di Cartagine. Noi stessi poi ci ricordiamo come alcuni
scolari di retorica, che avevano appartenuto a quei tempi gloriosi, guardassero
a noi, scolari novizj di prima classe, con quell'aria di pietà e di dileggio
con cui un veterano di Waterloo guardava ai molli giovani cresciuti dopo la
restaurazione.
Codesta pericolosa consuetudine, di che a' nostri tempi
fanciulleschi non era rimasto che la ricordanza, ricordanza che qualche rara
volta provocava lo spirito d'imitazione, ora, per fortuna, è scomparsa affatto;
ma invece trovavasi nel suo massimo vigore nel secolo passato. Quanto più era
rigoroso e quasi tirannico il regime casalingo de' nostri padri, tanto più i
giovanetti reagivano a quel rigore, allorchè eran fuori della vista paterna e
materna. Non potendo respirare in casa ragionevolmente, perchè il terribile
papà, colla parrucca di Filicaja o col topè di Scannabue, li fulminava con lo
sguardo, si sfogavano irragionevolmente fuori di casa, e con tanto più intensa,
quasi diremmo, rabbia fanciullesca, quanto minore era il tempo di libertà a
loro concesso. - Cattivo il sistema d'educazione, pessime le conseguenze. -
Però avveniva talvolta che le nature giovanili più vivaci e generose
prorompessero peggio delle altre in atti d'insubordinazione e di disordine. Nè
limitavansi a quelle battaglie tra loro; ma talvolta quando durava la tregua,
siccome avevano degli spiriti esuberanti da versar fuori, tanto più esuberanti
quanto più, siccome dicemmo, venivan compressi in casa dal folto sopracciglio
paterno e in iscuola dall'arcigna canizie del frate professore gesuita o
barnabita, così si sfogavano sui passeggieri, su qualche figura barbogia e
ridicola, su qualche vecchia che vendesse i libretti della cabala e avesse
odore di sortilega, press'a poco, come non è gran tempo, potemmo vedere qualche
sucida vecchiarda inseguita a dileggi e a fischiate dall'irrompente folla della
fanciullesca marmaglia.
Qualche volta però, uniti in formidabile truppa,
segnatamente gli scolari già adulti della rettorica, si dilettavano anche a far
qualche atto di giustizia sommaria, a fare scherzi e dileggi a coloro che per
verità li avevano provocati, scherzi e dileggi che non mancavano di spirito, e
mettevano di buon umore tutta la città. Ora avvenne il seguente fatto. Alcuni
allievi del ginnasio di Brera, delle classi superiori, giovinetti dai quindici
ai sedici anni, finite le scuole, uscirono un dì in truppa dalla porta maggiore
del palazzo, e di là traendo per le contrade, si dilettarono a metterle a
rumore, trattenendosi di tanto in tanto a far celie e dispetti ai passanti, ai
bottegaj, alle vecchie portinaje, alle livree passamantate di qualche casa, ai
cocchieri, ai lacchè, ecc., ecc.; quando, un di loro, proponendosi qualche
soperchieria più saporita, rivolto ai colleghi di scuola, così disse: - Andiamo
a vedere il nuovo guardaportone del senator Goldoni. Invece di quel bell'uomo
che aveva prima, il Marchese ha voluto seguir la moda, e s'è provveduto di un
nano, ma il più brutto e laido nano che m'abbia mai visto; non patisce che
nessuno si fermi a guardarlo, e sfido a vincere la tentazione. A chi gli ride
in faccia, ringhia come un cane, e scaglia invettive a tutti, e qualche volta
mena anche a tondo la lunga canna d'India, che a chi gli tocca il pomo nelle
gambe non è un servizio. Il senator Goldoni sa tutte queste cose, e va superbo
di questo bel mobile; e quando sa che il suo nano ha fatto cadere il pomo del
bastone su qualche testa o qualche schiena, gli dà doppia giornata e doppio
pranzo. - Ora, fatto tesoro di queste parole, i compagni mossero tutti e di
gran lena, senza nemmeno far precedere una consulta, alla volta del palazzo
Goldoni. Giunti di faccia al quale, e visto che il nano guardaportone era là
tronfio e pettoruto, e con un faccione protervo e provocatore e ghignoso, tosto
si schierarono in semicerchio innanzi a lui, e
si misero a cantare in coro una villotta allora in voga, dove c'erano delle
celie che parevan pensate e messe in musica apposta per esso. Non è a dire la
furia a cui montò il nano, e come tosto facesse succeder le brutte parole e le
minaccie e i fatti; e come, all'ultimo, secondo il suo costume, si desse a far
girare su quella schiera il suo lungo e pesante bastone senza modo nè misura.
Ma il nano era solo, e la schiera era giovane e fitta e forte e baldanzosa,
onde fattiglisi intorno, lo disarmarono, lo avvoltolarono come un palèo, e così
raggirandolo a spintoni, a calci, a schiaffi, gli fecero fare il giro di tutta
la città, fra le risate universali, ottenendo, quel che oggi si direbbe, un
vero successo d'entusiasmo.
Il tumulto crebbe al punto, e i guaiti del nano, infuriato e
percosso da tanti pugni, furono tali, che, come avviene di consueto in queste
faccende, accorse la sbirraglia. Allora gli studenti abbandonarono il nano e
tentarono la fuga; ma la folla stipatissima essendo stata d'inciampo ai loro
passi, gli sbirri s'impadronirono de' più adulti, lasciando andare la
ragazzaglia minuta, mentre il nano mezzo pesto fu ricondotto al suo portone. I
quattro giovinetti, che tale riuscì il numero dei disgraziati, vennero tratti
al capitano di giustizia ammanettati come ladri. - Se quel nano fosse stato un
povero del volgo, esercitante qualche professione, forse gli sbirri avrebber
dato una mano agli scolari di Brera; ma avendolo conosciuto pel nano del
senator Goldoni, si fecero un paléo, di difenderlo con devozione di vassalli, e
di accompagnarlo a casa con tutti i riguardi dovuti a un alto personaggio. E se
gli sbirri si comportarono di questa maniera, non stettero indietro i giudici,
gli auditori, i notaj, gli scrivani del Capitano di Giustizia, allorchè,
maravigliando e quasi inorridendo del gravissimo insulto, guardarono a quei
quattro giovinetti scellerati, che ebbero tanta audacia di percuotere il
Guardaportone del senator Goldoni. Ma la cosa non doveva fermarsi qui.
All'annuncio di quanto era avvenuto, quel senatore, pallido d'ira e giurando di
trarre una terribile vendetta, la quale fosse a lezione ed a sgomento della
plebe, si recò, abbandonando il pranzo e lasciando i convitati in gran
trambusto e cordoglio, al palazzo dell'eccellentissimo presidente del Senato,
il quale non meno stupito e convulso d'ira del marchese Goldoni, quasi che si
trattasse della patria in pericolo, convocò extraordinariamente il Senato,
ingiungendo che facesse parte dell'adunanza il Capitano di Giustizia e il suo
Vicario, come praticavasi nelle bisogne d'urgenza. A chi considera oggi tali
fatti, la storia pare bugiarda, chè la ragione si rifiuta ad ammettere tanta
demenza, più quasi che ferocia, in uomini gravi, costituiti in autorità. Ora il
Capitano, avendo già esaminati i giovinetti, lesse in Senato il costituto,
esponendo il fatto come un atto manifesto di pubblica sedizione, ed anche,
subordinatamente, pronunciando il voto per la massima pena da infliggersi ad
essi. Sebbene la maggior parte de' senatori, per la vertigine provocata
dall'orgoglio di corporazione, giudicassero quella colpa gravissima, e,
smarrito ogni lume di ragione, non sapessero tener conto menomamente
dell'inesperienza inconscia e non responsabile di quegli adolescenti, e però
non credessero di derogare alla proposta del Capitano di Giustizia, pure non
mancò in quel consesso di giudici iracondi qualche voce pietosa; e forse quella
voce avrebbe potuto stornare la carneficina; poichè, essendosi letti a quel
consesso i nomi de' giovinetti, fece senso a tutti quello di don Giovanni
Pietra, figlio del conte Francesco Brunon-Pietra, e fece senso non per altro
che perchè era il nome di un nobile. Questo incidente bastò a fare aggiornar la
sentenza; ma tutto, purtroppo, fu inutile. Una soperchieria infantile doveva
esser causa di un'ingiustizia, e questa doveva provocar poi un atto inumano e
veramente inaudito, atto inumano che, a primo aspetto, avrebbe potuto aver sembianze
di una virtù somigliante all'inesorabile giustizia della patria potestà di Roma
antica; chè il dì dopo, il segretario del Senato, lesse in pieno consesso uno
scritto sottosegnato dal conte Francesco Brunon-Pietra, col quale ei supplicava
che non si avesse riguardo nessuno alla nobiltà del suo casato, quando fosse
stato d'impaccio al corso della giustizia; perchè, riferiamo le sue stesse
parole, "l'obbedienza alle leggi e il rispetto all'autorità e segnatamente
il culto dell'alta maestà del Senato doveva andar innanzi a tutto." Le voci
pietose che s'eran fatte sentire il giorno prima, si fecero riudire ancora, ma
in segno di dolorosa meraviglia, inculcando che si dovesse considerare come non
ricevuto uno scritto in cui la devozione all'autorità faceva tacere l'umanità,
e offendeva le leggi più antiche e più irrepugnabili di natura, ma tutto fu
indarno. - I giovinetti vennero condannati a morte.
Or che indole d'uomo era quel conte Francesco Brunon-Pietra,
e come e perchè aveva potuto inviare al Senato quel terribile scritto? Noi
abbiamo fatte molte e lunghe e non facili ricerche per scoprirne le cagioni, e
alla fine, tenuto scrupolosamente conto di tutto, ci riuscì di cavarne quanto
segue.
Quel conte Brunon-Pietra era stato assai famigerato in
Milano per le sue galanterie donnesche, per la sua vita disordinata e
facinorosa; e soprattutto per aver consumato nella prima gioventù l'intero
patrimonio, che era di qualche milione di lire milanesi, e ingoiate poi, l'una
dopo l'altra, quattro eredità laterali. Fu allora che, ridotto quasi al verde,
seppe così ben fare e comportarsi nella casa dei marchesi Incisa, che una
graziosa e virtuosissima giovinetta di quel casato, ricchissima di un'eredità
legatale da un suo padrino, tirata ad arte nelle insidie, finì ad invaghirsi
perdutamente di lui, ed a concedergli la mano di sposa. - Da questo matrimonio
nacquero, ne' primi due anni, un figlio maschio e una fanciulla che non
conobbero la madre, perchè, vittima delle furibonde ingiurie maritali, morì tre
mesi dopo il secondo parto. Pare che le cagioni di quelle ingiurie e di quella
morte immatura sieno state delle tresche scandalosissime con una contessa
Ferri, nata Alfieri; poichè, non ancora compiuto il lutto vedovile, il conte
Brunon, senza riguardo alcuno, la sposò, e n'ebbe poscia un figliuolo. - Intanto
che il primogenito e la fanciulla del primo letto, eredi della ricchezza
materna, erano tuttora in cura delle nutrici, il figliuolo del secondo letto
cresceva in casa, e la nuova moglie del conte, che aveva preso sul marito
quell'impero ch'egli in addietro aveva sempre
esercitato sulle donne, gli comunicò un tale amore per quel fanciullo, ch'esso,
al pari della matrigna, sentì avversione pei primi due, e tutto l'incomodo e il
peso della loro esistenza. - Questo non apparì manifestamente in principio, ma
quando i fanciulli avanzarono in età, trapelarono al di fuori le intenzioni del
conte, tanto che i parenti della defunta marchesa Incisa, fecero reclami per
avocarne a sè la tutela; ma invano, perchè il conte, astutissimo e versipelle,
seppe condursi così bene, che furono respinti i reclami e a lui data piena
soddisfazione. - Se non che d'allora in poi il conte, affinchè i figliuoli non
si lamentassero, finse di trattarli bene. La fanciulla, che era donna Paola, fu
messa educanda, com'era di consuetudine, in un monastero che fu quello di Santa
Radegonda, il fanciullo fu tenuto in casa; e siccome egli era naturalmente
acuto e vivacissimo, e si sentiva come il padrone in casa, e non poteva soffrir
la matrigna, nè vedea molto di buon occhio il fratellastro, il conte Brunon,
per non averlo contrario, e perchè non gli uscisse di mano l'amministrazione
delle sue sostanze, si diede ad accarezzarlo, ad assecondare ogni suo
capriccio. - Quali disegni poi si volgesse in testa non si sa..., ma forse,
senza che lo sapesse spiegare a sè medesimo, meditava di addensar pericoli al
giovinetto, perchè avesse o tosto o tardi a rimanerne travolto. Ed or la mente
vorrebbe respingere l'idea di un tanto accordo tra il destino e i desiderj di
quel padre scellerato.
Prima che si eseguisse la pena capitale contro que'
sventurati giovani, si commosse tutta la città, impietosita e di loro e dei
parenti desolati; e nei giorni d'intervallo molte pratiche si tentarono per
smuovere l'autorità del Senato da tanta efferatezza. - Or non è a dire la
dolorosa meraviglia di tutti, nel sentire quel che era stato scritto al Senato
dal conte Francesco, il quale solo, per la sua nobiltà e per quella del
figliuolo, avrebbe potuto, se avesse voluto fermamente, impedire quella
carneficina e salvare col proprio figliuolo altri giovinetti complici.
Ma la costernazione generale, se fu sincera e profonda, non
fu coraggiosa, perchè non par vero che lo spettacolo di così scellerata,
ripetiamo demenza, non abbia fatto insorgere tutta la città, per strappare quelle
giovani vite dalla mano del carnefice, con tali dimostrazioni solenni dell'ira
pubblica, che valessero ad inspirare al Senato stesso quello sgomento che
insegna la pietà.
Il conte Francesco potè dunque veder lieta l'infernal moglie
per quel primogenito spento, e spento, gli parea quasi - tanto sono assurdi i
sofismi dell'iniquità - per un ordine provvidenziale; ma restava la fanciulla,
educanda in Santa Radegonda, la giovinetta donna Paola Teresa, che già toccava
i sedici anni, e doveva fra poco tempo uscire di là per accasarsi
convenevolmente, essendo ricca di buona parte della ricchezza materna. Ora
quella figliuola, superstite al fratello, turbò la gioia del connubio
infernale. Il conte Francesco ereditava dal figlio i due terzi della sostanza
che aveagli lasciata la marchesa Incisa; - ma questo non bastava alla sua
seconda moglie, la quale, eccitata da un affetto smodato pel proprio figlio, le
parea che fosse rubato a lui quello che potea pure diventar suo, se donna Paola
Teresa, o scomparisse come il fratello infelice, o giacchè era in convento, vi
rimanesse professa per sempre. - Ma la
fanciulla non avea mai dato segno di vocazione alla vita claustrale. Ricca e
bella e, per soprappiù, avendo sortito dalla natura una grande virtù per la
musica e pel canto - virtù fatta poi mirabile dagli insegnamenti della celebre
suor professa Rosalba Guenzani, cantatrice e suonatrice d'organo nel monastero
appunto di Santa Radegonda - aveva già potuto presentire le attrattive del
mondo; chè ogni qualvolta usciva di convento, a stare un giorno col padre,
nella qual occasione recavasi anche a far visita a' parenti, veniva accolta da
tutti come in trionfo; e già le era stato toccato di qualche cospicuo
matrimonio; di modo che, per modesta e virtuosa che fosse - ed era
virtuosissima, tanto da esser l'idolo, non solo della sua maestra suor Rosalba
Guenzani, ma delle altre suore e delle amiche colleghe - ogni qualvolta
ritornava in convento, sebbene le fossero care e la maestra e le amiche, pure
non desiderava altro che di lasciare quelle meste mura del chiostro e di uscire
all'aperto. Or venne il tempo in cui, finita la sua educazione, doveva infatti
uscire. - Ma fu allora che il conte Francesco, messo innanzi il pretesto d'un
viaggio, cominciò ad insinuare alla fanciulla di rimanervi fino al suo ritorno;
ed ella vi rimase. - Di poi, quando non valse più quel pretesto, ne cavò fuori
altri molti per poterla dimenticare colà; ed ella pazientò senza lamentarsi, ma
con grande suo affanno. Infine il padre un dì le fece motto della convenienza
ch'ell'avrebbe avuto di abbracciar la vita monastica. La fanciulla stupì a
quella proposta, e rispose con sdegno, e risolutissimamente negò. Allora il
padre finse di non adirarsi e di trovar giusta quella fermezza di risoluzione;
onde levatala dal convento, la condusse in casa. Se non che, dopo alcuni
giorni, il portone del palazzo Pietra stette chiuso, perchè tutta la famiglia
erasi recata in campagna in un luogo tra i monti valtellinesi. Passarono così
due mesi, finchè corse la voce che tutta la famiglia era tornata, ed anche la
fanciulla donna Paola. - Ma con grande meraviglia di tutti, essa venne
ricondotta dal padre nel convento di santa Radegonda, dove la madre abbadessa
sentì dalla bocca stessa di lei che voleva farsi monaca. La poveretta in que'
due mesi erasi per tal modo disfigurata, che pareva una larva di fanciulla
strappata per miracolo alla morte dall'arte medica. Che cosa del resto sia
avvenuto in quel luogo del valtellinese, con che atti di crudeltà siasi
trattata la giovinetta in quel tempo, non si sa; onde è libero il campo alle
congetture. Quello che pur troppo avvenne si fu, che, dopo un anno, donna Paola
Pietra si professò monaca in Santa Radegonda. - Ma, dice il frate di S.
Ambrogio ad Nemus, in quella sua succinta relazione:
"In quello stesso momento in cui la fanciulla non da un
solo timore riverenziale, ma da una manifesta violenza, fu costretta fare nel
suddetto monastero la solenne professione de' voti, protestò nell'interno del
suo animo a Dio di non concorrere colla volontà ad un atto, a cui era
trascinata dall'altrui volere." Paga d'aver di ciò chiamato Dio stesso in
testimonio, si persuase di poter conservare intera quella libertà che Dio
stesso le avea data. Tuttavia, fosse prudenza o un resto del timore onde ella erasi
lasciata obbligare all'atto solenne, non confidò che assai tempo dopo, a fide e
virtuose persone, gl'interni suoi sentimenti; e come se fosse presaga di quanto
doveva poi veramente succedere, nella dolorosa solitudine del chiostro si
consolava colla speranza di dover un giorno romper quei lacci che la violenza
degli uomini le avevan posto. A tale effetto conservò per molti anni un suo
abito secolare, di cui credea fermamente di doversi servire. - Pure in qual
modo ella avesse ad uscirne non poteva nemmeno immaginarselo, ben conoscendo
che era impresa impossibile il tentarlo per le solite vie giuridiche. Ma la
straordinaria virtù del suo canto, come l'aveva già esposta, quand'era ancora
educanda, all'ammirazione generale, doveva additarla, monaca, all'altrui pietà.
- Già abbiam detto che tutta la città di Milano accorreva nella chiesa di santa
Radegonda a sentirvi le migliori produzioni della musica per canto
ecclesiastico. - Il maestro Prediani, bolognese, che allora era in Milano,
soleva, per così dire, stare in giornata su tutto quello che producevasi in
Italia in questo genere, e appena venisse in luce qualche composizione
squisita, era sollecito di mandarla alla celebre suor Rosalba, affinchè ella la
facesse conoscere ed apprezzare con quel magistero ch'ella aveva nel toccar
l'organo e nel cantare, e perchè specialmente, se trattavasi di pezzi a due
voci, veniva squisitamente assecondata da suor Teresa Paola Pietra. - L'Ave
maris stella di Leo era uscito di fresco in que' giorni.
Il ceto distinto della città, che allora tenea dietro a
tutte le novità musicali, e s'interessava anche della musica di chiesa, veniva
informato dal maestro Prediani, che dava lezioni nelle principali case, del
quando si doveva eseguire qualche gran pezzo istrumentale in Duomo, o qualche
canto in Santa Radegonda, onde accorse per sentire quella nuova composizione.
La folla, come suol dirsi, si portava a que' trattenimenti, tanto che l'arte
faceva dimenticare la devozione; e però, in proposito, erano uscite alquante
pastorali contro l'uso e l'abuso della musica sacra. - Ora, tra quella folla
stipatissima, si trovò un Inglese, che si chiamava lord Crall, uomo
straordinario e cavalleresco, e portato naturalmente all'entusiasmo. Egli sentì
quella musica e sentì la voce commossa della monaca giovinetta, la quale,
ripetendo quel canto divino, vi trasfondeva tutta l'intensità dei proprj
affanni, e con tal fascino, che tutti, mentre atteggiavano il volto al sorriso
per la soavità della melodia, pur si sentivano irresistibilmente inondati di
lagrime.
Quel gentiluomo dunque, più commosso ed esaltato di tutti,
chiese di quella monaca, e udita la storia del fratello di lei e del tristo
padre, e com'ella fosse venuta renitente ai voti; tanto si interessò di essa
che, d'una in altra ricerca, venne a conoscere i segreti suoi pensieri, ed
eccitato dalla pietà e dall'entusiasmo per tanta virtù e sventura, si offrì di
liberarla e di farla sua sposa. La forza di codesta tentazione fu sì gagliarda
sulla monaca giovinetta, che il pericolo della fuga, i disastri d'un lungo
viaggio, l'abbandono della patria, la diversa religione del gentiluomo, e i
mille sentimenti di pietà e d'onore che doveano sostener la sua ragione, se la
tennero per qualche tempo in grande sospensione d'animo, pur non valsero a soggiogarla;
poichè, all'ultimo, ella si faceva imperterrita nell'idea d'esser libera
innanzi a Dio, e di potere col matrimonio serbare inviolato il proprio onore. -
Rispetto ora al gentiluomo che aveva promesso di liberarla, giova sapere
com'egli nascesse da una famiglia illustre inglese passata in Francia, e come
il padre suo, pel celebre editto fulminato da Luigi XIV contro gli Ugonotti,
nel 1685, siasi trovato costretto a tornare in Inghilterra; dove morì lasciando
due figlie ed un maschio, che fu poi questo lord Crall.
Custodivansi le chiavi del monastero nella stanza
dell'archivio, a cui si entrava per una bussola chiusa da una piccola
serratura; fatta per ciò la prova di diverse chiavi, ne fu trovata una che
l'apriva. Dopo di che, fissato il giorno e l'ora per l'uscita, licenziatosi
pubblicamente il cavaliere dagli amici, partì da Milano; ma trattenutosi
segretamente in un casino poco distante dalla città, vi fe' ritorno pochi
giorni appresso, nella stessa notte stabilita per la fuga. - Giunta l'ora in cui
la si dovea eseguire, accaddero nel monastero alcuni piccoli e curiosi
accidenti che non mette conto di riferire, i quali parea avessero ad impedirla,
ma invece l'agevolarono.
Il cavaliere si trovò, con altri, ben armato alla porta del
monastero, ed una carrozza stava preparata in vicinanza alla chiesa di S.
Paolo; prima d'uscire depose la fanciulla la veste religiosa, e comparve in
sott'abito da uomo. - Alla presenza di testimonj si rinnovarono allora ambidue
la fede ed il giuramento di sposi, di cui il cavaliere avea prima fatto
dichiarazione in iscritto; e, senz'altro contrattempo, lasciarono la città.
La notizia di codesta fuga fece un tal rumore e provocò
tanti parlari, che per molto tempo circolarono scritture in proposito e poesie
di vario tenore; nelle quali, o lo sdegno dell'ascetismo esaltato condannava
altamente quella risoluzione della giovane monaca, o la pietà spontanea di una
ragione più libera protestava in sua difesa; ma più di tutti levò grido e si
diffuse rapidamente ed ebbe migliaja di copie manoscritte un sonetto ch'ella
medesima scrisse in propria difesa: ed è questo, che, sebbene scorretto e
tutt'altro che prezioso in faccia all'arte, è preziosissimo in faccia a più
gravi ragioni:
Donde n'entrai, m'involo alla ventura,
Porto meco l'onor, la fè nel core.
Benchè questo rassembri un
grande errore,
Pianger dovrà chi lo mio mal procura.
So che al mondo non v'è legge sì dura,
Ch'obblighi un cuore ad un sforzato amore.
Amo il decoro e son dama d'onore,
Onde vincer saprò la mia sventura.
Qual combattuta nave in mezzo all'onde,
Oggi imploro dal ciel soccorso, aìta
Per arrivar le sospirate sponde.
Se fortuna o periglio a me s'impetra,
Sia noto al mondo come fui tradita,
Se ben ebbi nel seno un cor di Pietra.
Ma da Milano i due fuggiaschi viaggiarono sollecitamente a
Venezia, dove si trattennero parecchi giorni in una casa vicina a quella
d'altri Inglesi, nonostante lo strepito che presso la Repubblica faceano il
ministro cesareo e il nunzio del papa. Se non che, essendo stati avvisati che
non avrebbero potuto fermarsì colà più lungamente senza pericolo, la donna,
vestita, come sempre era stata, da uomo, fu
condotta di notte sopra un vascello inglese che stava alla rada; mentre il
cavaliere, dopo averla consegnata al capitano, per una maggior cautela, passò
in altro bastimento olandese. E bene erano stati avvisati in tempo, perchè il
giorno dopo, per ordine del Magistrato, si fece la ricerca della fuggitiva in
quella medesima casa donde poche ore prima era uscita. Dalla rada di Venezia
passato il vascello inglese a Zante per farvi provvigione di vino per
l'equipaggio, non potè fermarsi colà quanto bisognava, perchè recatosi di notte
al suo bordo il nipote del Console inglese in quell'isola, avvisò il capitano
che suo zio aveva accordata al governatore la permissione di far la visita al
vascello, per toglierne una religiosa trafugata. Il capitano, levate allora le
ancore, si allontanò dall'isola, apprestandosi alla difesa, nel caso che lo si
fosse attaccato. La mattina seguente si mostrò infatti una marciliana con altra
nave. Ma quella, avendo scorto che l'equipaggio era sotto l'armi, ed essendo il
vento poco favorevole per tentare l'abbordaggio del vascello, dopo averlo per
qualche tempo inseguito, dovette abbandonarlo. Donna Paola intanto era stata,
per maggior sicurezza, nascosta dal capitano nel fondo del vascello, dove ebbe
a trattenersi parecchie ore. Cessato il pericolo, all'uscire di quella
sepoltura, fu salutata con grandi evviva da tutto l'equipaggio, già informato
delle avventure della medesima. Il vino che dovea provvedersi a Zante, fu
provveduto in altro porto; e dopo un viaggio non molto lungo, il vascello
approdò felicemente a Londra. Qui donna Paola venne accolta dalle due sorelle
del cavaliere e ritrovò preparata l'abitazione. Il cavaliere intanto, che per
maggior cautela s'era trattenuto alle spiaggie di Venezia, venne poi con abito
mentito ad Ancona, donde, attraversata per terra l'Italia, giunse a Livorno,
dal cui porto con altro vascello passò in Inghilterra, dove sbarcò poco dopo
l'arrivo di donna Paola.
Sparsasi per tutta Londra la novella di codesto fatto
straordinario, tosto l'arcivescovo di Canterbury, con proposte onorevoli, tentò
l'animo della donna ad abbracciare la religione anglicana; ma la donzella
fermissimamente dichiarò che, non essendo passata in Inghilterra per motivo di
religione, ella non era in istato nè in volontà di cangiarla; dichiarazione che
ripetè poscia alla regina medesima, quando, con maggiore grandezza di offerte,
essa le mandò lo stesso invito dell'arcivescovo. La sola cosa che bramava donna
Paola era di convalidare il suo matrimonio colla presenza d'alcuni parroci
cattolici di Londra; ma questi avendo ricusato di assisterla finchè Roma non
avesse decretata invalida la sua professione religiosa, ella inviò una supplica
al pontefice allora regnante. Ma o non fosse stata la supplica debitamente
concepita, o fosse stata mal diretta, non ne ottenne risposta veruna; per cui
deliberò di condursi in Francia insieme col cavaliere, e di là, bisognando,
anche a Roma, per implorare personalmente ciò che non s'era potuto ottenere per
lettere.
Giunti in una città di quel regno, il vescovo, a cui era
noto il fatto già pubblico in tutta Europa, penetrando il loro arrivo, fece
qualche passo per assicurarsi della religiosa. Ma essi, avutone sentore,
sollecitamente si ritiraron in Ginevra, dove dall'istesso magistrato furono,
poco tempo dopo, segretamente avvisati perchè si guardassero dall'uscirne,
essendo attesi ai confini; e qui uno stratagemma servì loro di scorta, e preso
altro cammino, dubitando di nuovi incontri, se ne tornarono in Inghilterra.
Colà, senza nessun avvenimento notevole, visse donna Paola fino all'anno 1732,
con quella tranquillità che le potea permettere la sua specialissima
condizione, e il rimordimento che di tanto in tanto la infestava d'essersi
fatta giustizia da sè stessa, quantunque pur sempre
si confortasse della protesta fatta in suo segreto a Dio, e della insistenza e
diligenza assidua ond'ella erasi adoperata e s'adoperava per riconciliarsi
colla Chiesa. Quando finalmente la sua fortuna volle che ritrovasse un mercante
cattolico di Londra, il quale prese l'impegno di scrivere ad un suo
corrispondente in Roma, uomo che si assunse l'incarico con religioso calore; e
a servir meglio e l'amico e la coppia virtuosa, recossi a ragguagliarne il
cardinal di Sant'Agnese, di cui aveva la protezione, il qual cardinale era un
Giorgio Spinola di Genova. Questi, riflettendo alla gravezza dell'affare, ne
parlò tosto al Santo Padre, ed al cardinale Vincenzo Petra penitenziere, dal
quale, coll'assenso pontificio, fu per mezzo dello stesso mercante spedito
sollecitamente a Londra il solito breve assolutorio col salvacondotto, affinchè
la donna nel termine di sei mesi si portasse a Roma. A tale uopo furon dati gli
ordini a banchieri di varie città pel somministramento del denaro e di tutto
quello che nel viaggio potea bisognare alla medesima.
All'arrivo di questi ricapiti, benchè fosse il cuor
dell'inverno, partì donna Paola da Londra con un cameriere cattolico; ed
attraversata la Francia sotto altro nome, giunse a Marsiglia, non senza gravi
patimenti cagionati dalla stagione, e il giorno 8 febbraio 1733 entrò in Roma.
Il cardinal di Sant'Agnese, avvisato preventivamente dell'arrivo, fe' che le
movesse incontro una matrona di esemplare
saviezza, in casa della quale donna Paola si trattenne segretamente alquanti
dì, trascorsi i quali, per ordine del pontefice, passò al convento del Bambino
Gesù, sotto apparenza di dama fiamminga, per ivi addurre le sue ragioni contro
la profession de' voti.
La prima determinazione del papa fu di deputare un congresso
di cardinali, dal quale si esaminasse se una tal causa dovea agitarsi nella
Congregazione del concilio o nel tribunale della sacra Penitenzieria. Le gravi
e particolari circostanze che, a primo aspetto, si videro in quest'affare,
fecero abbracciare il secondo partito. Per operar tuttavia con più cautela, a'
giudici della Penitenzieria furono aggiunti cinque cardinali, fra' quali lo
stesso prefetto della Congregazione del concilio.
Da lungo tempo non eravi stata in Roma una causa più
intralciata di simil materia. Tre volte, in tempi diversi, radunossi la
Congregazione, e si tennero altresì molti Congressi. Non potè sapersi quel che
in essi s'andasse di volta in volta determinando: ma quello che si può dire è,
che le prove delle violenze da principio accennate, furono, dopo quasi tre
anni, poste in sì chiaro lume che, non potendosene dubitare neppur da' giudici
più austeri, finalmente, nel mese di settembre dell'anno 1735, a pieni voti
venne fatto dalla Congregazione il decreto: Constare de nullitate professionis.
Il papa confermò il decreto, e, dopo risolute altre dipendenze, fu data a donna
Paola la libertà d'uscire dal chiostro, in cui aveva dimorato per tutto quel
tempo con universale edificazione.
Donna Paola Pietra, toccato così il supremo suo intento, a
cui incessantemente era stata fida, più, quasi diremmo, per un'ostinazione
della mente che si esaltava nell'idea di aver per sè il diritto e la giustizia,
che per la probabilità della riuscita, lasciò Roma, sicurissima di sè medesima,
poichè s'era come veduta espressamente protetta dalla provvidenza; e ritornò in
Inghilterra a ricongiungersi con colui che l'aveva tratta in salvo, e che sempre
le si era mantenuto religiosamente fedele. Abbandonata poi l'Inghilterra, venne
con esso a Roma dove solennemente ei la sposò. Ma la fortuna non volle
permettere che tanta felicità fosse duratura, e, dopo tre anni di convivenza
maritale, il virtuosissimo gentiluomo venne a morte, lasciandola madre di due
figli. Donna Paola per qualche tempo se ne stette nelle vicinanze di Roma, poi,
nel 1743, dopo tredici anni di assenza, ritornò a Milano a fermarvi stabile
dimora. Un tale ritorno gettò lo sgomento in coloro che l'avevan voluta
sagrificare, sapendola così efficacemente protetta dal santo padre; ma provocò
un tripudio universale, tanto che le diverse maestranze della città la vollero
festeggiare con notturna luminaria. Ed ella, se magnanima disprezzò tutte le vili
paure di chi l'aveva voluta opprimere, non mostrando nemmeno di ricordarsi di
loro; volle corrispondere efficacemente a quella pubblica estimazione con atti
di carità viva, col farsi consolatrice degli altrui dolori, col metter pace
nelle trambasciate famiglie; più spesso, col difendere contro l'attentato de'
tristi l'innocenza che non si guarda; tra i molti suoi atti meritorj aveva
destato gran rumore un viaggio che fece appositamente per ottenere da Maria
Teresa la grazia della vita per un giovane, colpevole d'aver ucciso un
cavaliere che avea fatto contumelia alla sua fidanzata. Naturalmente dotata di
acuto intelletto, fortificata dall'esperienza, virtuosa senza rigidezza,
benefica senza ostentazione, era essa richiesta di consiglio anche da persone di
gran riguardo.
Quand'ella recavasi a passeggiare lungo le pubbliche vie,
era segno agli sguardi di tutti quel suo grave aspetto, in cui serbavansi
tuttavia i resti di una maestosa bellezza; aspetto grave di quella placida
mestizia che viene dalle angoscie passate, dalla memoria di una perdita
irreparabile, dalla severa considerazione della vita; ed ella, che nell'animo
avea tanta pietà per altrui, ne destava poi altrettanta in tutti coloro che la
guardavano, conoscendo il suo passato; poichè facea senso quel perpetuo suo
lutto vedovile, il quale attestava un dolore che non poteva aver riposo nella
vita; e faceva senso quel suo comparire in pubblico assiduamente accompagnata
dai due suoi figliuoli già quasi adulti, e come lei vestiti a lutto, e severi e
mesti al par di lei. - E davvero che il gruppo di quelle tre figure, che si
staccava come un simbolo di dolore sul fondo vivace e variopinto e
giocondissimo di quel tempo, giungeva a compungere di gravi pensieri quella
società così spensierata e vana, la quale, ignara delle fiere lotte che
l'aspettavano, non attendeva che a darsi buon tempo, come chi spende e getta e
scialacqua le ultime ricchezze, e tuffa nell'ebrietà il pensiero del domani.
Era dunque stato un felice pensiero della contessa Clelia,
quello di voler recarsi da questa donna Paola Pietra, e per richiederla di
consiglio in un affare dilicatissimo e serio, e che poteva aver conseguenze
luttuose, quantunque vestisse le apparenze di un amore galante; e per versare
nel cuore di colei le ambascie, che ormai non potevano più esser contenute nel
suo.