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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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V Ad un savio, non ci rammenta più nè quando nè dove, fu domandato: quale può essere la cosa più fatta per addensare la tristezza nel cuore di un uomo sentimentalmente intellettuale? - Forse la vista di un campo santo, ha egli risposto, nelle ore notturne, con cielo profondo, e luna pallida e stelle tremule e fuochi lambenti e strigi volanti? No. - Forse la cima inaccessa delle Alpi, dove il cacciatore rimane percosso dal mortale solengo? O in una campagna abbandonata e brulla durante il bigio novembre, la vista di uno stagno, sull'opache acque del quale incumba immobile, da un ramo che vi peschi, un decrepito airone? O la solitudine infinita del mare ghiacciato, dove Alfieri, poeta e viaggiatore, potè scoprire com'è tremendo il silenzio quando sta nel suo regno desolato? No. - Forse una camera anatomica, dove il coltello dell'investigatore chirurgo sprigioni i gas più letali e più putridi da un cadavere umano? No. - Che luogo dunque? - Una festa da ballo. - Così rispose quel savio, con incredulo stupore di tutti; ma per quanto potesse essere uno strano pensatore, noi dividiamo perfettamente la sua opinione. Se fosse possibile scrivere un compendio della storia dei dolori, dei disastri, delle tragedie, degli odj, delle vendette, dei delitti di cui il primo filo, più o meno avvertitamente, fu gettato nel rigurgito abbagliante della luce notturna, nel vortice fracassoso delle danze, nella polvere sollevata, nella gioja, nell'orgia, negli scherzi vellicanti, nel motteggio malizioso, nell'epigramma ambidestro, nella schiuma dello sciampagna, nell'allegria saltante, nelle grida incondite, nell'ebbrezza, nella stanchezza, nella dormiveglia di una festa da ballo in maschera; quel compendio sarebbe più voluminoso delle più voluminose enciclopedie condensatrici dell'umana sapienza. - Chi non vuol credere, non s'incomodi; ma la nostra opinione è questa. Quante volte dalla bocca vermiglia di una faccia di cera uscì la folgore muta di una parola sola, ma che, sola, bastò a scomporre per sempre la felicità di due vite; che potè esaltare in un marito il cieco furore d'una gelosia omicida; e persuadere un troppo credulo fidanzato a respingere quella che indarno fu insidiata da qualche turpe amatore. Quante volte dell'effervescenza del senso, protetto dalla maschera e liberato per lei dal vigile pudore, Mefistofele approfittò per gettar la trama d'un futuro infanticidio! Quante volte una mendace accusa fu portata in alto dalla maschera, a cui nulla è inaccesso, per far percuotere un innocente odiato! e l'iniquità, resa inoffensiva dalla viltà nativa, diventò di colpo e audace e micidiale, celandosi dietro un volto di cera! Quante volte l'effimera virtù si disciolse tutta in sudore al contatto di quel volto stesso... e la ferma virtù vacillò... e cadde a un tratto chi avea potuto resistere a lungo. Per dio la maschera ci fa spavento! sicchè riputiamo che sarebbe un bel passo della civiltà se scomparisse per sempre dalla faccia degli uomini; e tanto più che è già una maschera la faccia naturale. - E dopo di ciò una festa da ballo è luogo di mestizia anche senza i volti finti! - Quante infelici passioni vi s'infiammano, quante felici illusioni scompajono; quanta gara funesta di perfide vanità; quanti gentili tessuti affranti dalla danza frenetica! Chi ha assistito coll'occhio investigatore e colla riflessione a quel punto in cui la prima luce del sole entra a mescolarsi in una gran sala colla fiamma decrepita dei doppieri consunti, e un raggio vivo di quella luce va a percuotere le faccie di un gruppo di giovinette che, vaghe, poche ore prima, delle più fresche rose della salute e della gioja, nell'abbattimento sorgiunto, nella stanchezza, nel repentino avvizzire, nella pupilla fuggita, nel livido pallore, lasciano già indovinare il processo con cui la dissoluzione s'impadronirà col tempo dei loro corpi, e dietro a quella che è quasi larva di gioventù e di bellezza, lasciano travedere con raccapriccio la futura vecchia e il cadavere futuro: ci saprà dire in confidenza, se si può raccogliere allegria da una festa da ballo! Ma abbandoniamo le inutili digressioni, e facciamoci con chi deve recarsi alla festa da ballo in maschera del sabbato grasso. Pochi minuti prima della mezzanotte di quel sabbato, ossia circa quarant'otto ore dopo che la dea Gaudenzi venne fischiata dal pubblico, lasciatosi trascinare da quella infesta precipitazione di giudizj che ha sul collo tante vittime; Lorenzo Bruni, un po' colle dolci parole, un po' colla finta collera, un po' colla vera, stava distogliendo da un ostinato proposito la Gaudenzi, che, abbigliata con tutto lo sfarzo di una regina, nel punto che stava per salire in carrozza alla festa del teatro Ducale, d'improvviso, come una puledra che adombri, erasi fermata, e, risalendo la scala, avea cercata la sua stanza, giurando che sarebbe morta, piuttosto che mostrar la propria faccia a coloro che aveano potuto insultarla senza ragione. Avvezza fin dalla prima infanzia alle carezze de' genitori, alle gentilezze di tutti; e, fatta adulta, alle lodi, all'ammirazione, agli applausi, alle adulazioni, ai trionfi; quel primo insulto la trapassò di una profonda ferita, e in modo che la vescichetta del veleno, ci si permetta questa espressione, del veleno onde la natura non manca mai di provvedere anche la più soave e mite creatura, s'era dischiusa con uno squarcio repentino, tanto che lo avea schizzato con veemenza d'intorno a sè, al punto da mettere nella più seria costernazione la vigile zia e Lorenzo. All'invito ch'egli le avea fatto il giorno prima di recarsi all'ultima festa da ballo in maschera, ella aveagli risposto con isdegnosa ironia; alle dolci persuasioni opponendo una fierezza fin quasi selvaggia, di cui ella sino a quel punto non avea sospettato neppure la possibilità, e che aveva dato da pensare all'esperimentato Bruni. Bene, a poco a poco, s'era venuta placando, e piangendo e chiedendo perdono con carezzevoli blandizie, avea promesso di far il suo desiderio e s'era lasciata ornare dalla sollecita zia di fiori, di perle, di brillanti; ma la vescica del veleno le si riaprì, come abbiam veduto, nel punto di salire in carrozza. - Senti, Margherita, hai tu fiducia in me? le diceva Lorenzo. - Non mi fido più di nessuno; gli uomini son come i gatti; oggi leccano, domani graffiano... - Ma puoi tu dire ch'io t'abbia mai fatto un torto... - Chi v'ha detto questo? rispose acremente la Gaudenzi. Voglio dire che... - ma qui diede in uno scoppio di pianto. Il pensiero dell'insulto ricevuto, riassalendola, non le concedeva pace. - Dammi retta, Margherita; se ciò che è avvenuto ti affanna tanto, e n'hai troppe ragioni, l'unico tuo desiderio deve esser quello di confonder tutti quanti, dando modo alla verità di mostrarsi intera; ed è ciò appunto a cui ho pensato.... Tu sai che non t'ho mai consigliato cosa che non dovesse portare il tuo bene... Potrei dunque eccitarti a venire stanotte in teatro, se non fossi certo che all'alba del domani, ne uscirai vendicata da quegli stessi che ti hanno offesa?... - Ma se è vero quel che mi dite... perchè dunque mi fate mistero del modo?... - Il perchè lo saprai... ed io pretendo d'aver diritto alla tua fiducia... Suvvia, alzati, e andiamo. - Suvvia, soggiungeva la zia, torna buona come prima, e obbedisci chi vuole il tuo bene... La Gaudenzi non rispose, si alzò, mosse lentamente verso l'uscio, e Lorenzo la seguì. - Andiamo, disse il Bruni, a pigliare il padre della prima donna, che s'è incaricato di farti il bracciere alla festa; - e partirono. Ma intanto che Lorenzo Bruni e la Gaudenzi salivano in carrozza, dopo un'ora di contrasto, in casa V..., quasi che da un medesimo filo dipendessero i successivi movimenti di due congegni, continuava ancora un contrasto incominciato dopo. - La contessa Clelia, la quale mille volte s'era pentita di non aver tosto messo in atto il consiglio di donna Paola Pietra, e alle fischiate onde si volle punire la Gaudenzi aveva provato un cruccio, un affanno, un'inquietudine particolare; e però non desiderava altro, fuorchè spuntasse la prima domenica di quaresima per recarsi in Pretorio, o per iscrivere al giudice, contenta di affrontare affanni peggiori ma di tagliare quel nodo una volta per sempre e finirla; sazia della festa del giovedì grasso e d'un pranzo incomodo di sessanta coperti e d'un'accademia del venerdì e del trovarsi sempre in mezzo a tanti uomini e donne, in ciascuno de' quali e delle quali ella vedeva i suoi denigratori spietati, quando la gran notizia fosse scoppiata in piazza; e affranta per di più da un tedio convulso che la faceva stare di malissima voglia, aveva risoluto di non intervenire altrimenti in quella notte alla festa da ballo in maschera del teatro Ducale. Ma non avesse mai fatto una simile proposta al conte marito! La contessa, nelle più comuni circostanze della vita, poteva in casa far tutto quello che voleva, lo abbiamo già detto; ma in certe occasioni speciali, guai ad omettere una pratica, una consuetudine, un cerimoniale. Allora il conte, rispettosamente ammiratore della contessa, diventava il suo despota e il suo tiranno; e per dare, a modo d'esempio, il permesso alla moglie di non intervenire all'ultima festa del carnevale, dove tra le dame più cospicue si compiva l'ultima e più fiera battaglia di eleganza e di ricchezza, bisognava che la moglie fosse stata assalita, per lo meno, da una encefalite fulminante. Il conte era della famiglia di quel tale che, piuttosto che infrangere un cerimoniale, volle morire asfissiato da un braciere. Fatto adunque il viso più severo che per lui fosse possibile alla moglie, e pronunciate quelle parole più irrevocabilmente di ferro che per lui si potevano, passò nella sala dov'era la madre della contessa, una sorella e un fratello; e tutto aspro: - Donna Gertrude (disse alla madre), la si compiaccia di recarsi un istante da sua figlia, la quale pare che abbia volontà d'inquietarmi. - Che cosa?... Che è avvenuto? rispose donna Gertrude, maravigliata di veder così a rovescio il conte, il quale per consueto, sebbene un po' duramente, le si era sempre dimostrato cortese; ma in quella entrava la contessa. - Preghi il conte, mamma, a permettermi di non uscire; perchè sto male, male assai. Il colonnello non seppe allora più contenersi, e strepitò, senza però mancare alla sua gravità. Ma in quel punto il fratello di donna Clelia si alzò, e di queto le disse non so che parole all'orecchio. A quelle parole piegaronsi i ginocchi alla contessa, e si gettò a sedere. La madre e la sorella si guardavano... Il conte passeggiava... Il fratello taceva. Trascorsi alcuni momenti, la contessa Clelia si levò e: - Andiamo, disse, non voglio che per sì poco il conte si affanni. Una mezz'ora dopo, preceduta dal conte marito e dalla sorella, la contessa discendeva lo scalone, rallentando il passo per essere raggiunta dal fratello. Quando questi le fu vicino: - Chi ti ha detto...? gli disse la contessa. - È un bisbiglio che corre per la città... La tua assenza avrebbe potuto accrescere i sospetti.... Or pensa a te... A piedi dello scalone, tra le torcie di due lacchè, la contessa, attonita, salì in carrozza; il conte lieto e sorridente sedette vicino a lei; la portiera si chiuse, e via di trotto. Il conte fratello e la contessina tennero lor dietro in altra carrozza.
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