III
LA LIRICA DI
DANTE
Fin qui giunge la coscienza di
Dante. Se gli domandi più in là, ti risponde come Raffaello: “Noto, quando Amor
mi spira”, ubbidisco all'ispirazione. E appunto, se vogliamo trovar Dante,
dobbiamo cercarlo qui, fuori della sua coscienza, nella spontaneità della sua
ispirazione. Innanzi tutto, Dante ha la serietà e la sincerità
dell'ispirazione. Chi legge la Vita nuova, non può mettere in dubbio la
sua sincerità. Ci si vede lo studente di Bologna, pieno il capo di astronomia e
di cabala, di filosofia e di rettorica, di Ovidio e di Virgilio, di poeti e di
rimatori; ma tutto questo non è la sostanza del libro, ci entra come colorito e
ne forma il lato grottesco. Sotto l'abito dello studente ci è un cuore puro e
nuovo, tutto aperto alle impressioni, facile alle adorazioni e alle
disperazioni, ed una fervida immaginazione che lo tiene alto da terra e
vagabondo nel regno de' fantasmi. L'amore per la bella fanciulla involta di
drappo sanguigno, ch'egli chiama Beatrice, ha tutt'i caratteri di un primo
amore giovanile, nella sua purezza e verginità, più nell'immaginazione che nel
cuore. Beatrice è più simile a sogno, a fantasma, a ideale celeste, che a
realtà distinta e che produca effetti propri. Uno sguardo, un saluto è tutta la
storia di questo amore. Beatrice morì angiolo, prima che fosse donna, e l'amore
non ebbe tempo di divenire una passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno
ed un sospiro. Appunto perchè Beatrice ha così poca realtà e personalità,
esiste più nella mente di Dante che fuori di quella, ed ivi coesiste e si
confonde con l'ideale del trovatore, l'ideale del filosofo e del cristiano:
mescolanza fatta con perfetta buona fede, e perciò grottesca certo, ma non
falsa e non convenzionale. Queste che presso gli altri sono astrattezze
scolastiche e rettoriche, qui sono cacciate nel fondo del quadro, sono non il
quadro, ma contorni e accessorii. Il quadro è Beatrice, non così reale che tiri
e chiuda in sè l'amante, ma reale tanto che opera con efficacia sul suo cuore e
sulla sua immaginazione. Non ci è proprio l'amante, ma ci è il poeta, che per
questo o quello incidente anche minimo del suo amore si sente mosso a scrivere
se stesso in un sonetto o in una canzone. Quando il suo animo è tranquillo, fa
capolino il dottore, il retore e il rimatore; ma quando il suo animo è
veracemente commosso, Dante gitta via il suo berretto di dottore e le sue
regole rettoriche e le sue reminiscenze poetiche, e ubbidisce a l'ispirazione.
Allora è Beatrice, solo Beatrice, che occupa la sua mente, e le sue
impressioni, appunto perchè immediate e sincere, sono quasi pure di ogni
mescolanza. Il suo amore si rivela schietto come lo sente, più adorazione e
ammirazione che appassionato amore di donna. Tale è il sonetto
Tanto
gentile e tanto onesta pare.
E tale è la ballata, ove con la
grazia e l'ingenuità di una fanciulla scesa pur ora di cielo così parla
Beatrice:
Io
mi son pergoletta bella e nova,
e
son venuta per mostrarmi a vui
dalle
bellezze e loco, dond'io fui.
Io
fui del cielo e tornerovvi ancora,
per
dar della mia luce altrui diletto;
e
chi mi vede e non se ne innamora,
d'amor
non averà mai intelletto...
Ciascuna
stella negli occhi mi piove
della
sua luce e della sua virtute:
le
mie bellezze sono al mondo nuove,
perocchè
di lassù mi son venute.
Questo non è allegoria, e non è
concetto scientifico; o per dir meglio, ci è l'allegoria e ci è il concetto
scientifico, ma profondato ed obbliato in questa creatura, perfettamente realizzato,
conforme a quel primo ideale della donna che apparisce all'immaginazione
giovanile.
Se
nell'espressione di questa ingenua ammirazione trovi qualche reminiscenza di
repertorio e qualche preoccupazione scientifica, senti un accento di verità
puro ed autonomo nell'espressione del dolore, la vera musa di questa lirica.
Perchè infine questa breve storia d'amore ha rari intervalli di gioia serena e
contemplativa; la morte del padre di Beatrice, il suo dolore, il presentimento
della sua morte e la sua morte sono la sostanza del quadro, il motivo tragico
della poesia. Finchè Beatrice vive, è un secreto del cuore che il poeta
s'industria con ogni più sottile arte di custodire; la storia è poco
interessante, intessuta di artificiose e fredde dissimulazioni: ma quando
quell'ideale della giovanezza minaccia di scomparire, quando scompare, al poeta
manca con quello il fondamento della sua vita, e si sente solo e si sente
morire insieme con quello. Ne nasce una situazione nuova nella storia della
nostra poesia: l'amore appena nato, simile ancora a' primi fuggevoli sogni
della giovanezza, che acquista la sua realtà presso alla tomba ed oltre la
tomba. L'amore si rivela nella morte. Là perde quell'aria fattizia e
convenzionale, che gli veniva da' trovatori e dalla scienza. Là non è più
concetto, nè allegoria, ma è sentimento e fantasia. Quell'amore che in vita
della donna non si è potuto ancora realizzare, eccolo qui nella sua schietta e
pura espressione, ora che Beatrice muore. A questa situazione si rannoda la parte
più eletta e poetica di questa lirica. Poi vengono sentimenti più temperati: il
poeta si consola cantando la loda della morta; Beatrice, ita nel cielo, diviene
la Verità, la cara immagine sotto la quale il poeta inviluppa le sue
speculazioni, la bella faccia della Sapienza. Non hai più la Vita nuova,
hai il Convito. L'amore non è più un sentimento individuale, ma è il
principio della vita divina e umana. Beatrice nella sua gloriosa
trasfigurazione diviene un simbolo, il dolce nome che il poeta dà al suo nuovo
amore, alla Filosofia.
Ma la filosofia non è in Dante
astratta scienza: è Sapienza, cioè a dire pratica della vita. Con che orgoglio
si professa amico della filosofia! e vuol dire amico di virtù, che ti fa
spregiare ricchezze e onori e gentilezza di sangue, e ti dà la vera nobiltà,
che ti viene da te e non dagli altri. Intendere è per lui il principio del
fare; e la forza che dà attività all'intelletto ed efficacia alla volontà è
l'amore. In questa triade è l'unità della vita: l'uno non può star senza
l'altro. Or tutto questo in Dante non è mera speculazione, nè vanità
scientifica; ma è vero amore, ma è un sentimento morale così profondo ed
efficace, come è la fede ne' credenti. La filosofia investe tutto l'uomo, e si
addentra in tutti gli aspetti della vita. Questa serietà e sincerità di
sentimento fa penetrare fra tante sottili e scolastiche speculazioni una
elevatezza morale, tanto più poetica, quanto meno espressa, ma che si sente nel
tono, nel colorito, nello stile. Tale è la sublime risposta di Amore alle
sorelle esuli, e quel subito ritorno del poeta in sè medesimo:
L'esilio
che m'è dato onor mi tegno;
e questo sentimento rende
tollerabile tanta pedanteria, quanta è nella canzone sulla vera gentilezza. La
quale elevatezza morale non è disgiunta in lui da un certo orgoglio direi
aristocratico del sentirsi solo con pochi privilegiato da Dio alla sapienza:
così alto ha collocato l'ideale della scienza e della virtù:
...
elli son quasi dèi
que'
ch'han tal grazia fuor di tutt'i rei;
chè
solo Iddio all'anima la dona.
Sentimento di soddisfazione che
si volge in tristezza e talora in fieri accenti di sdegno contro la moltitudine
degli uomini, “bestie che somigliano uomo. E dove non è virtù, non è amore, e
non dovrebbe esser bellezza: onde esorta le donne a partirla da loro:
Chè
la beltà ch'Amore in voi consente
a
virtù solamente
formata
fu dal suo decreto antico
contra
lo qual fallate.
Io
dico a voi che siete innamorate,
che
se beltate a voi
fu
data e virtù a noi,
ed
a costui di due potere un fare,
voi
non dovreste amare,
ma
coprir quanto di beltà v'è dato
poichè
non è virtù, ch'era suo segno.
Lasso!
A che dicer vegno?
Dico
che bel disdegno
sarebbe
in donna di ragion lodato
partir
da sè beltà per suo comiato.
Qui sviluppato in forma
scolastica è il solito concetto dell'amore, che fa uno di due, unisce bellezza
e virtù. Ma questo concetto è per Dante cosa vivente, è l'anima del mondo,
l'unità della vita. E poichè vede bellezza, e non trova virtù, sente nella vita
una scissura, una discordia, che lo move a sdegno. Indi quel movimento
d'immaginazione così nuovo e originale, quel desiderare nella donna e sperar
poco un atto di “bel disdegno”, per il quale dica: - Poichè nell'uomo non è
virtù, cesso di esser bella, cesso di amare. - Dante si crede obbligato ad
argomentare, ad esporre il suo concetto in forma dottrinale, e qui è il suo
torto, qui è la forma che lo certifica di quel tempo; ma qui il concetto
scientifico e la sua esposizione scolastica è un accessorio; la sostanza è il
sentimento che sveglia nel poeta la contraddizione tra quel concetto e la
realtà: “Lasso! a che dicer vegno?”. Il poeta sente la vanità de' suoi desidèri
e che il mondo andrà sempre a quel modo.
Come
l'amore si afferma nella morte, così la filosofia si afferma nella sua morte,
cioè nella sua contraddizione con la vita. Qui trovi un sentimento chiaro e
vivo dell'unità della vita, fondata nella concordia dell'intendere e dell'atto
o, come si direbbe oggi, dell'ideale e del reale, e insieme il dolore della
scissura, che mette il poeta in uno stato di ribellione contro l'uomo “caduto
in servo di signore”, già signore di sè, ora servo delle sue inclinazioni
animali. Ma il sentimento di questa contraddizione non uccide l'entusiasmo e la
fede, come ne' poeti moderni: l'anima del poeta è ancora giovane, piena di una
fede robusta, che il disinganno nobilita e fortifica; e però il dolore del
disaccordo non lo conduce alla negazione della filosofia, anzi alla sua
glorificazione, ad un più ardente amore della derelitta, fiero di possederla e
amarla egli solo con pochi, e di sentirsi perciò quasi Dio tra la gregge degli
uomini.
Adunque,
il primo carattere di questo mondo lirico è la sua verità psicologica. Se c'è
negli accessorii alcunche di fattizio e di convenzionale, il fondo è vero, è la
sincera espressione di quello che si passa nell'animo del poeta. Ti senti
innanzi ad un uomo che considera la vita seriamente. La vita è la filosofia, la
verità realizzata; e la poesia è la voce e la faccia della verità. Amico della
filosofia, con orgoglio non minore si chiama poeta, il banditore del vero.
Filosofo e poeta, si sente come investito di una missione, di una specie di
apostolato laicale, e parla dal tripode alla moltitudine, con l'autorità e la
sicurezza di chi possiede la verità.
Ma
il sentimento che move questo mondo lirico così serio e sincero non rimane
puramente individuale o subiettivo; anzi la parte personale e contingente
appena si mostra: esso è l'accento lirico dell'umanità a quel tempo, la sua
forma di essere, di credere, di sentire e di esprimersi. Quell'angeletta scesa
dal cielo, che non giunge ad esser donna, breve apparizione, che ritorna al
cielo in bianca nuvoletta, seguita dagli angioli che le cantano “Osanna”,
ma rimasa in terra, come luce della verità, della quale l'amante si fa
apostolo, è tutto il romanzo religioso e filosofico di quell'età: è la vita che
ha la sua verità nell'altro mondo e che qui non è che Beatrice, fenomeno,
apparenza, velo della eterna verità. Se la terra è un luogo di passaggio e di
prova, la poesia è al di là della terra, nel regno della verità. Beatrice
comincia a vivere quando muore.
Un
mondo così mistico e spiritualista nel concetto, così dottrinale nella forma,
se può essere allegoricamente rappresentato dalla scultura, se trova nella
pittura e nella musica le sue movenze, le sue sfumature, il suo indefinito, è
difficilissimo a rappresentare con la parola. Perchè la parola è analisi,
distinzione, precisione, e non può rappresentare che un contenuto ben determinato,
e ne' suoi momenti successivi, più che nella sua unità. Analizzate questo
mondo, e vi svanisce dinanzi, come realtà o vita: l'analisi vi porta
irresistibilmente al discorso, al ragionamento, alla forma dottrinale, che è la
negazione dell'arte. Non bisogna dimenticare che la vita interna di questo
mondo è la scienza, come concetto e come forma, la pura scienza, non penetrata
ancora nella vita e divenuta fatto. È vero che per Dante la scienza dee essere
non astratto pensiero, ma realtà. Se non che il male è appunto in questo “dee
essere”. Perchè, prendendo a fondamento non quello che è, ma quello che dee
essere, la sua poesia è ragionamento, esortazione, non rappresentazione, se non
in forma allegorica, che aggiunge una nuova difficoltà ad un contenuto così in
se stesso astruso e scientifico.
I
contemporanei sentirono la difficoltà e credettero vincerla con la rettorica,
ornando quei concetti di vaghi fiori. Anche Dante credeva rendere poetica la
filosofia, dandole una bella faccia. Certo, questo era un progresso; ma siamo
ancora al limitare dell'arte, nel regno dell'immaginazione. Guinicelli, Cino,
Cavalcanti non possono attirare la nostra attenzione, e neppur Dante, ancorchè
dotato di una immaginazione così potente. Anzi egli riesce meno di questi suoi
predecessori nell'arte dell'ornare e del colorire, perchè quelli vi pongono il
massimo studio, non essendo il mondo da essi rappresentato che un gioco
d'immaginazione, dove a Dante quel mondo è lui stesso, parte del suo essere, e
che ha la sua importanza in se stesso: ond'egli è sobrio, severo, schivo del
“gradire”, e spesso nudo sino alla rozzezza. E non corre agli ornamenti, come
mezzo rettorico e a fine di ornare e di lisciare, ma per rendere palpabile ed
evidente il suo concetto.
Ma
Dante vince in gran parte la difficoltà appunto per questo, che quel mondo è
vita della sua vita e anima della sua anima. Esso opera non pure sulla sua
mente, ma su tutto il suo essere. Questa sua fede assoluta in quel mondo non è
però sufficiente a farne un poeta. La fede è la base, il sottinteso, la
condizione preliminare e necessaria della poesia, ma non è la poesia. Il poeta
dee essere un credente, ma non ogni credente è poeta; può essere un santo, un
apostolo, un filosofo. Dante non fu il santo, nè il filosofo del suo mondo: fu
il poeta. La fede svegliò le mirabili facoltà poetiche che avea sortito da
natura.
Dante
ha in supremo grado la principale facoltà di un poeta, la fantasia, che non si
vuol confondere con l'immaginazione, facoltà molto inferiore. L'immaginazione
ti dà l'ornato e il colore, liscia la superficie: il suo maggiore sforzo è di
offrirti un simulacro di vita nell'allegoria e nella personificazione. La
fantasia è facoltà creatrice, intuitiva e spontanea, è la vera musa, il “deus
in nobis”, che possiede il secreto della vita, e te la coglie a volo anche
nelle sue più fuggevoli apparizioni, e te ne dà l'impressione e il sentimento.
L'immaginazione è plastica; ti dà il disegno, ti dà la faccia: “pulcra
species, sed cerebrum non habet”: l'immagine è il fine ultimo in cui si
adagia. La fantasia lavora al di dentro, e non ti coglie il di fuori, se non
come espressione e parola della vita interiore. L'immaginazione è analisi, e
più si sforza di ornare, di disegnare, di colorire, più le fugge il
sostanziale, quel tutto insieme, in cui è la vita. La fantasia è sintesi: mira
all'essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni e i sentimenti di
persona viva e te ne porge l'immagine. La creatura dell'immaginazione è
l'immagine finita in se stessa e opaca; la creatura della fantasia è il
“fantasma”, figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo spirito.
L'immaginazione ha molto del meccanico, è comune alla poesia e alla prosa, a'
sommi e a' mediocri; la fantasia è essenzialmente organica, ed è privilegio di
pochissimi che son detti Poeti.
Il
mondo lirico di Dante, o piuttosto del suo secolo, così mistico e spirituale,
resiste a tutti gli sforzi dell'immaginazione. In balìa di questa esso non è
che un mondo rettorico e artificiale, di bella apparenza, ma freddo e astratto
nel fondo. Tale è il mondo di Guinicelli, di Cavalcanti e di Cino. L'organo
naturale di questo mondo è la fantasia, e la sua forma è il fantasma. Il suo
primo e solo poeta è Dante, perchè Dante ha l'istrumento atto a generarlo, è la
prima fantasia del mondo moderno.
Dante
non accarezza l'immagine, non vi s'indugia sopra, se non quando essa è lume che
come paragone dia una faccia al suo concetto. Sia d'esempio la sua canzone
all'Amore:
Amor
che movi tua virtù dal cielo
come
'l sol lo splendore,
chè
là s'apprende più lo suo valore,
dove
più nobiltà suo raggio trova...
Ed
hammi in foco acceso,
come
acqua per chiarezza foco accende...
È
sua beltà del tuo valor conforto,
in
quanto giudicar si puote effetto
sopra
degno suggetto,
in
guisa che al sol raggio di foco;
lo
qual non dà a lui, nè to' virtute;
ma
fallo in alto loco
nell'effetto
parer di più salute.
Queste
immagini non sono il concetto esso medesimo, ma paragoni atti a lumeggiarlo. È la
maniera del Guinicelli. Costui se ne pavoneggia, e vi spiega un lusso e una
pompa che passa il segno e affoga il concetto nell'immagine. Dante è più
severo, perchè il concetto non gli è indifferente e non te ne distrae, anzi per
troppo amore a quello spesso te lo porge nodo e irsuto com'è da natura. Ma egli
penetra in questo mondo di concetti e ne fa il suo romanzo, la sua storia
intima. Il concetto allora, non che abbia bisogno di essere illuminato da una
immagine tolta dal di fuori, è trasformato, è esso medesimo l'immagine. In
quest'opera di trasformazione si rivela la fantasia. Pigmalione non è più una
statua di marmo; ma riscaldato dall'amorosa fantasia diviene persona. La donna
astratta e anonima del trovatore, divenuta innanzi alla filosofia un'idea
platonica, l'esemplare di ogni bellezza e di ogni virtù, eccola qui persona
viva: è Beatrice, quell'angeletta scesa dal cielo, che annunzia alle genti il
suo arrivo e racconta la sua bellezza:
Ciascuna
stella negli occhi mi piove
della
sua luce e della sua virtute.
Ma questo lavoro di
trasformazione non va così innanzi che il concetto sia come seppellito e
dimenticato nell'immagine (miracolo dell'arte greca), nè questo avviene per
manco di calore e di fantasia. Dante è così immedesimato con quel suo mondo
intellettuale e mistico, che la sua fantasia non può oltrepassarlo, non può
materializzarlo. In questa dissonanza può capitare l'artista a cui il contenuto
sia indifferente e che intenda alla perfezione del modello, non il poeta che ha
un culto per il suo mondo, e vi si chiude, e ne fa la sua regola e il suo
limite. Dante non può paganizzare quel mondo dello spirito, appunto perchè esso
è il suo spirito, il suo mondo, il suo modo di sentire e di concepire. La sua
immagine è ricordevole e trascendente, e appena abbozzata è già scorporata,
fatta impressione e sentimento. Non descrive: non può fissare e determinare
l'immagine, come quella a cui l'intelletto non giunge. Gli sta innanzi un non
so che, luce intellettuale, superiore all'espressione, visibile non in se
stessa ma nelle sue impressioni. Perciò esprime non quello che ella è, ma
quello che pare. Ciò che è più chiaro innanzi alla sua immaginazione, non è il
corpo, ma lo spirito, non è l'immagine, ma il suo “parere”, l'impressione:
Quel
ch'ella par, quando un poco sorride,
non
si può dicer, nè tenere a mente:
sì
è novo miracolo e gentile.
...
.....
Ed
avea seco umiltà sì verace,
che
parea che dicesse: - Io sono in pace. -
E
par che dalla sua labbia si mova
...
.....
uno
spirto soave e pien d'amore,
che
va dicendo all'anima: - Sospira. -
Questi ultimi tre versi sono la
chiusa mirabile di un sonetto molto lodato, dove il poeta vuol descrivere
Beatrice, e non fa che esprimere impressioni. Beatrice non la vedi mai. Ella è
come Dio, nel santuario. Non la vedi, ma senti la sua presenza in quel mondo
tutto pieno di lei. Ella piange la morte del padre. Lo sguardo del poeta non è
là. Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta e nel pianto delle donne che
gli sono intorno, che la udirono, e non osarono di guardarla:
che
qual l'avesse voluta mirare,
saria
dinanzi a lei caduta morta.
Beatrice saluta, e
...
. ogni lingua divien tremando muta
e gli occhi non
l'ardiscon di guardare.
Di questa giovinetta, inaccessibile
allo sguardo, non descritta, non rappresentata, di cui non hai nessuna parola e
nessun atto, non restano che due immagini: del nascere e del morire,
l'angeletta scesa di cielo, che torna al cielo bianca nuvoletta. Dante non vede
lei morire. La vede in sogno, e già morta, e quando le donne la coprian di un
velo. Ma se della morte non ci è l'immagine, ce n'è il vivo sentimento:
...
Morte, assai dolce ti tegno:
tu
dèi omai esser cosa gentile,
poi
che tu se' nella mia donna stata,
e
dèi aver pietate e non disdegno.
Vedi,
ch' è sì desideroso vegno
d'esser
de' tuoi ch'io ti somiglio in fede.
Vieni,
chè 'l cor ti chiede.
L'universo muore con Beatrice:
Ed
esser mi parea non so in qual loco,
e
veder donne andar per via disciolte,
qual
lagrimando, e qual traendo guai,
che
di tristizia saettavan foco.
Poi
mi parve vedere appoco appoco
turbar
lo sole ed apparir la stella,
e
pianger egli ed ella;
cader
gli augelli volando per l'äre,
e
la terra tremare:
e
uom m'apparve scolorito e fioco,
dicendomi:
- Che fai? non sai novella?
Morta
è la donna tua ch'era sì bella.
“Sì bella!” Questa è l'immagine.
Gli basta chiamarla bella, chiamarla Beatrice. Incontra per via peregrini, essi
soli indifferenti in tanto dolore:
Chè
non piangete, quando voi passate
per
lo suo mezzo la città dolente?
Se
voi restate per volere udire,
certo
lo core de' sospir mi dice
che
lagrimando ne uscirete pui.
Ella
ha perduta la sua Beatrice;
e
le parole ch'uom di lei può dire,
hanno
virtù di far piangere altrui.
La vita e la morte di Beatrice
non è in lei, ma negli altri, in quello che fa sentire. L'immagine è
immediatamente trasformata in sentimento. E questa immagine spiritualizzata è
quella mezza realtà che si chiama il fantasma, esistente più nella
immaginazione del lettore che nella espressione del poeta. Ciascuno si fa una
Beatrice a sua maniera e secondo le forze del suo spirito. Siamo nel regno
musicale dell'indefinito. Beatrice è un rêve, un sogno, una visione. La
stessa sua morte è un sogno, o, come dice Dante, una fantasia, accompagnata di
particolari patetici e drammatici, perchè il poeta è vittima de' suoi fantasmi,
e vive entro a quel mondo e ne sente e riflette tutte le impressioni. Beatrice
muore, perchè “esta vita noiosa”
non
era degna di sì gentil cosa;
e tornata gloriosa nel cielo,
diviene “spiritual bellezza grande” che spande per lo cielo luce d'amore e fa
la maraviglia degli angioli. Questa bellezza spirituale, o, come dice Dante
altrove, “luce intellettual, piena d'amore”, è il mondo lirico realizzato
nell'altra vita, dove il fantasma sparisce e la verità ti si porge nel suo
splendore intellettuale, pura intelligenza, bellezza spirituale, scorporata. Il
fantasma, quella mezza realtà a contorni vaghi e indecisi, più visibile nelle
impressioni e ne' sentimenti che nelle immagini, non era che il presentimento,
il velo, la forma preparatoria di questo regno del puro spirito; era l'ombra
dello spirito. Ora la luce intellettuale dissipa ogni ombra: non hai niente più
d'indeciso, niente più di corporeo: sei nel regno della filosofia, dove tutto è
precisione e dogmatismo, tutto è posto con chiarezza, e discorso a modo degli
scolastici. E poichè la filosofia non è potuta divenire virtù, poichè in terra
essa è proscritta, rimane una realtà puramente scientifica e dottrinale.
L'impressione ultima è che la terra è il regno delle ombre e de' fantasmi, la
selva dell'ignoranza e del vizio, la tragedia che ha per sua inevitabile fine
la morte e il dolore, e che la realtà, l'eterna e Divina Commedia, è
nell'altro mondo.
Nè
prima, nè poi fu immaginato un mondo lirico così vasto nel suo ordito, così
profondo nella sua concezione, così coerente nelle sue parti, così armonico
nelle sue forme, così personale e a un tempo così umano. Esso è l'accento
lirico del medio evo colto nelle sue astrazioni e nelle sue visioni, la voce
dell'umanità a quel tempo. Il mistero di questo mondo religioso-filosofico è la
Morte “gentile”, come passaggio dall'ombra alla luce, dal fantasma alla realtà,
dalla tragedia alla commedia, o, come dice Dante, alla pace. La morte è il
principio della vita, è la trasfigurazione. Perciò il vero centro di questa
lirica, la sua vera voce poetica è il sogno della morte di Beatrice, là dove
sono in presenza questa vita e l'altra, e mentre il sole piange e la terra
trema, gli angioli cantano “Osanna”, e Beatrice par che dica: - Io sono
in pace -. Ci è la terra co' suoi dolori e il cielo con le sue estasi, il mondo
lirico nel momento misterioso della sua unità. Non credo che la lirica del
medio evo abbia prodotto niente di simile a questo sogno di Dante, di una rara
perfezione per chiarezza d'intuizione, per fusione di tinte, per profondità di
sentimento, per correzione di condotta e di disegno, per semplicità e verità di
espressione.
Ma
se questo mondo logicamente è uno e concorde, esteticamente è scisso, perchè
non è insieme terra e cielo, ma è ora l'uno, ora l'altro, imperfetti ambidue.
Il fantasma è spesso simile più ad un'allegoria che ad una realtà, ed è
stazionario, senza successione e senza sviluppo, senza storia. La realtà è pura
scienza, in forma scolastica. Si può dire che quando in questo mondo comincia
la realtà, allora appunto muore la poesia, s'inaridisce la fantasia e il
sentimento. È un difetto organico di questo mondo, che resiste a tutti gli
sforzi dell'arte, resiste a Dante.
D'altra
parte, Dante vi si mostra più poeta che artista. Quel mondo è per lui cosa
troppo seria, perchè possa contemplarlo col sereno istinto dell'arte. Poco a
lui importa che la superficie sia scabra, purchè ci sia sotto qualche cosa che
si mova. Perciò è sempre evidente, spesso arido e rozzo. L'Italia ha già il suo
poeta; non ha ancora il suo artista.
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