V
I MISTERI E LE
VISIONI
Al punto a cui siamo giunti, ci si
porge chiara l'immagine delsecolo decimoterzo. Due sono le fonti di quella
letteratura primitiva: la cavalleria e le sacre scritture. L'eroe della
cavalleria, il cavaliere, è l'uomo che si sforza di realizzare in terra la
verità e la giustizia, di cui è immagine la donna, suo culto e amore. La sua
vita è attiva, piena di avventure e di fatti maravigliosi. Senti la sua
presenza nella più antica lirica, nelle novelle, ne' romanzi e nelle cronache.
Ma la cavalleria, venutaci di fuori, con gli stranieri che occupavano il nostro
suolo, non prese radice, non si sviluppò, non produsse alcuna opera originale,
rimase stazionaria. Perdette il suo carattere serio e quasi religioso e restò
un puro gioco d'immaginazione, che si mescola come colorito e accessorio in tutte
le storie, sacre e profane. Di ben altra efficacia era l'idea religiosa,
penetrata ne' sentimenti e ne' costumi e nelle istituzioni, compagna dell'uomo
in tutti gli stati della vita. L'eroe cristiano è chiamato pure “cavaliere”, il
“cavaliere di Cristo”; ma è un eroe contemplativo, il cui tipo è il frate, il
romito, il santo. Come il cavaliere errante, anche lui rinunzia ed ha a vile i
beni terrestri, ma la vita dell'uno è militante, quella dell'altro è
contemplante: ci è in fondo la stessa idea, di cui l'uno è il soldato, l'altro
è il sacerdote. Certo, questi due tipi entrano spesso l'uno nell'altro, e il
frate diviene il templario o il cavaliere di Malta, soldato della fede, e il
cavaliere errante finisce romito e penitente. Ma il cavaliere, gittandosi nelle
più strane avventure, dimentica e fa dimenticare il cielo, attirata
l'attenzione dal maraviglioso delle opere, sì che destano uguale curiosità e
interesse le geste de' cristiani e de' saracini, e la rappresentazione rimane
terrena. L'altro al contrario passando la vita ne' digiuni, nella povertà,
nella castità e nell'orazione, ci tien sempre viva innanzi l'immagine
dell'altro mondo; e perciò questa vita contemplativa è schiettamente religiosa;
anzi è ivi la perfezione, ivi il più alto ideale. La passione dell'anima è
l'esser legata al corpo, alla carne, e la sua beatitudine o santificazione è
sciogliersi da quella e star con Cristo: al che è via la contemplazione e la
preghiera. Nelle tre allegorie sull'anima pubblicate dal Palermo è detto: “Ogni
bene e virtù, qualunque vogli, e buono in sè medesimo, ma la preghiera
solamente trae a sè tutte le altre virtù”. In queste allegorie compariscono tre
esseri, che sono i tre gradi della santificazione: “Umano”, “Spoglia” e
“Rinnova”. Dapprima l'anima, impacciata dal terrestre, dall'“Umano”, non può
scorgere il vero che sotto figura, nel sensibile. Il secondo essere, “Spoglia”,
è la virtù che monda e purga l'anima dagli affetti terrestri, insino a che
viene “Rinnova”, luce mentale, che “rinnova l'anima in tutto e mostra la verità
senz'ombra e senza figura”. Questi tre gradi di santificazione comprendono
tutta la vita del cavaliere cristiano. Inviluppato nel senso e nella carne, non
vede che un barlume del vero, e non giunge all'ultima luce mentale, all'ultimo
grado, se non purificandosi e mondandosi della parte terrestre. Anch'egli ha le
sue battaglie, ma col demonio e con la carne, ch'egli macera e mortifica d'ogni
maniera, e le sue armi sono la contemplazione e la preghiera. Il maraviglioso
di questa vita non è solo ne' miracoli, ma in quella forza di volontà che trae
l'uomo a vincere tutti gli affetti e le inclinazioni naturali, com'è in santo
Alessio, il tipo più commovente di questi cavalieri di Cristo. La creazione del
mondo, il peccato originale, le profezie, la venuta di Cristo, la sua passione,
morte e trasfigurazione, l'anticristo e il giudizio universale sono l'epopea,
il fondo storico a cui si annodano tante vite di santi. E questa storia
dell'umanità era tutt'i giorni innanzi al popolo, nella predica, nella
confessione, nella messa, nelle feste. La messa non è altro che una
rappresentazione simbolica di questa storia, un vero dramma senza che ce ne sia
l'intenzione, rappresentato dal prete e da' fedeli. Ogni atto che fa il prete,
è pieno di significato, è rappresentazione mimica. La prima parte della messa è
epica o narrativa; è il Verbum Dei, l'esposizione che comprende le
profezie e il Vangelo, e finisce con la predica. La seconda parte è drammatica,
è l'azione, il Sacrificium, l'adempimento delle profezie. La terza parte
è lirica, come nelle risposte de' fedeli (il coro) al prete, o quando due cori
si alternano nel canto, e negl'inni e nelle preghiere: ciò che ha luogo
principalmente nella messa cantata. Aggiungi le immagini de' santi e i fatti
dell'antico e del nuovo Testamento in quelle cappelle, in quelle finestre
variopinte, in quelle cupole, e quelle grandi ombre, e quelle moli
restringentisi sempre più e terminate da croci slanciate verso il cielo, ed
avrai l'immagine e l'effetto musicale di questo stacco dalla terra, di questo
volo dell'anima a Dio. Dopo l'evangelo, il predicatore talora, per fare più
effetto sull'immaginazione, esponeva la sua storia sotto forma di
rappresentazione, come si fa in parte anche oggi ne' quaresimali. I monaci e i
preti rappresentavano il fatto, e il predicatore aggiungeva le sue spiegazioni
e considerazioni. Era una rappresentazione liturgica, cioè legata al culto,
parte del culto, detta “divozione” o “mistero”. Di tal natura sono due
divozioni, che si rappresentavano il giovedì e il venerdì santo, e sono
piuttosto due atti di una sola rappresentazione che due rappresentazioni
distinte. La prima comincia col banchetto che Cristo ebbe in casa di Lazzaro
sei giorni avanti Pasqua, e che qui è il giovedì santo. Cristo viene da Gerusalemme,
Maria con Maddalena e Marta gli va incontro. Maria prega il figlio di non
tornare a Gerusalemme, perchè vogliono la sua morte. Cristo risponde
dover ubbidire al Padre: pur si conforti, che niente farà che non lo dica a
lei. Alla fine del banchetto Cristo scopre a Maddalena che dee ire a Gerusalemme,
dove patirà il supplizio della croce, e le raccomanda la madre. Cristo esce.
Sopraggiunge Maria, che ha visto il figlio turbato, e la prega a svelarle
quello che il figlio le ha detto. Maddalena tace. E la madre va a Cristo tutta
in lacrime, e dice:
Dimilo,
figlio, dimilo a mi,
perchè
stai tanto afannato?
Amara
mi, piena de suspiri,
perchè
a mi lo hai celato?
De
gran dolore se spezzano le vene,
e
de doglia, figlio, me esse il fiato,
chè
t'amo, o figlio, con perfecto core,
dimilo
a mi, o dolce Segnore.
Cristo dice che pel riscatto del
mondo dee ire a morte, e Maria sviene. Tornata in sè e lamentandosi, raccomanda
il figlio a Giuda, che risponde in modo equivoco: - So quello che ho a fare. -
Poi si volge a Pietro, che promette difendere il figlio contro tutto il mondo.
Giunti a una porta della città, Maria non vuol separarsi dal figlio; ma quando
non lo vede più e sa che per un'altra porta è entrato in Gerusalemme, fa
pietosi lamenti innanzi al popolo:
O
figlio mio, tanto amoroso,
o
figlio mio, due se' tu andato?
O
figlio mio, tuto gracioso,
per
quale porta se' tu entrato?
O
figlio mio, assai deletoso,
tu
sei partito tanto sconsolato!
Ditime,
donne, per amor de Dio,
dov'è
andato lo figlio mio?
Segue il racconto secondo la
Bibbia. Le parole di Cristo, tolte al Vangelo, sono dette in latino. E la
“divozione” finisce con la prigionia di Cristo.
La
“divozione” del venerdì santo racconta la passione e la morte di Cristo. Il
predicatore interrompe la rappresentazione con le sue spiegazioni, e fa cenno
quando si ha a continuare. Maria vi rappresenta una gran parte. Mentre Cristo
prega pe' suoi nemici, ella dice alla croce:
Inclina
li toi rami, o croce alta,
dona
riposo a lo tuo Creatore;
lo
corpo precioso ià se spianta;
lasa
la tua forza e lo tuo vigore.
Cristo la raccomanda a Giovanni,
che inginocchiandosi e baciandole i piedi cerca racconsolarla. Ma essa
abbraccia la croce e si lamenta:
O
figlio mio, figlio amoroso,
come
mi lasi sconsolata!
O
figlio mio tanto precioso,
come
rimango trista, adolorata!
Lo
tuo capo è tutto spinoso,
e
la tua faza di sangue bagnata!
altri
che ti non voglio per figlio,
o
dolce fiato e amoroso giglio.
Quando Cristo muore, Maddalena
gli sta a' piedi, al capo Giovanni, Maria nel mezzo. E bacia il corpo di
Cristo, gli occhi, le guance, la bocca, i fianchi, le mani “con le quali
benediva il mondo”, i piedi su' quali “Maddalena sparse tante lacrime”.
Queste
rappresentazioni erano antichissime, e si scrivevano in latino, come il Ludus
paschalis, rappresentazione di Pasqua, dove è messo in azione l'anticristo.
Le due “divozioni” avanti discorse non sono probabilmente che versioni o
imitazioni di opere più antiche, rimase nella tradizione. Tale era pure la
rappresentazione del Nostro Signore Gesù Cristo, che ebbe luogo a Padova
nel 1243, e il Ludus Christi, una trilogia rappresentata dal clero in
Cividale negli ultimi due giorni di maggio il 1298. Nella Pentecoste e ne' tre
seguenti giorni il capitolo di questa città, in presenza del vescovo e del
patriarca di Aquileia, diede questa serie di rappresentazioni: la creazione di
Adamo ed Eva, la profezia o l'annunzio, la nascita, morte e risurrezione di
Cristo, la discesa dello Spirito santo, l'Anticristo, e la venuta di Cristo nel
giudizio universale. Era tutta l'epopea biblica, fatta evidente e sensibile
dalla musica, dal canto, dalle scene, dalla mimica e dalla parola. Tale era
pure la Passione, rappresentata a Roma nel Coliseo il venerdì santo,
dalla Compagnia del gonfalone nel 1264.
Queste
rappresentazioni, di cui i preti erano attori e attrici, aveano tutto il
carattere di solennità o feste o cerimonie religiose. Il diavolo vi ha pure la
sua parte di tentatore, ma parla in modo serio e semplice, secondo la sua
natura, e non ha niente di grottesco e di ridicolo. Chiuse nel recinto delle
chiese, de' conventi e delle curie vescovili, rimangono tradizionali e
immobili, senza sviluppo artistico, come anche oggi si vedon in parte nelle
feste del contado.
La
moralità di queste rappresentazioni era che il fine dell'uomo è nell'altra
vita, o come si diceva, è la salvazione dell'anima; che per conseguire questo
fine si ha a imitare Cristo, soffrire in questo mondo per godere nell'altro.
Perciò l'ideale, l'eroico o, come si diceva, la “perfezione della vita” era il
dispregio de' beni di questo mondo, la resistenza a tutte le inclinazioni
naturali e il vivere in ispirito nell'altro mondo con la contemplazione e la
preghiera. Questa è la vita de' santi, della quale si dava anche
rappresentazione a' fedeli. E tra le più antiche è una ancora inedita, che ha
per titolo: D'uno monaco che andò a servizio di Dio, probabilmente
recitata a monaci da monaci in un convento. L'eroe è questo monaco, un
giovinetto che resiste alle lacrime della madre, alle querele del padre, alle
tentazioni del compare, e si rende frate nel deserto, dove è accolto come
figlio da un romito. Ma ivi prove più dure l'attendono. Mentre egli va a
raccogliere per il pasto radici, frutta, castagne e noci, il romito prega, e
mosso da curiosità chiede a Dio qual luogo spetti al suo novizio in paradiso, e
un angelo risponde che sarà dannato. Non perciò della notizia si turba il
giovinetto, anzi risponde tranquillo che continuerà ad amare e servire Dio.
Invano il demonio lo tenta, dicendogli che “ha guastato l'amor
naturale”, e che il meglio sarà tornare in casa del padre, chè forse Dio gli
avrà misericordia. Il giovinetto con gli scongiuri fuga il demonio, e rimane
fermo nella sua risoluzione. Allora l'angiolo annunzia al romito ch'egli è
salvo. E il monaco e il romito intuonano il Te Deum o una lauda.
Nell'epilogo o commiato sono esortati gli spettatori a castigare la carne e a
pensare alla vita eterna. Anima della rappresentazione è l' invitta fede del
giovane monaco, che la preghiera e la contemplazione è la più sicura guardia
contro il peccato e la tentazione della carne, e che si giunge alla
santificazione con rinunziare al mondo e vivere con lo spirito in Dio. Questo
concetto è espresso in una forma scolastica nel canto del monaco, di cui ecco
alcuni brani:
L'anima
sensitiva che s'inchina
nel
mondo a tutto quel che la diletta,
apprezza
poco la legge divina...
L'alma
piena di fede e semplicetta
spesso
si leva pura a contemplare
quel
ben che veramente la diletta.
e
quando a quel più intenta esser le pare,
allor
dal grave corpo è sì constretta,
che
giuso afflitta le convien tornare,
e
umile e isdegnosa piange e dice:
- Deh! Chi mi sturba il mio esser felice? -
Quell'anima
gentile è sempre viva,
e
vive Iddio in lei per unione... ,
e
tutta sta nella contemplativa,
e
gode tutta; e s'ella ha passione,
è
per esser legata al corpo tristo,
dal
qual desia disciòrsi e star con Cristo.
Ci è una rappresentazione,
intitolata Commedia dell'anima, che è una storia ideale della vita de'
santi, una specie di logica, dove sono le idee fondamentali della
santificazione, l'ossatura e lo scheletro di tutte le vite de' santi. L'anima
esce pura dalle mani di Dio e a sua immagine. Dio la contempla con amore,
dicendo:
Quando
io risguardo quella creatura,
che
all'immagine mia io ho formata,
e
ch'io la veggo immaculata e pura
starmi
dinanzi, la m'è accetta e grata:
ma
l'ha bisogno d'una buona cura,
la
quale a custodirla sia parata;
e
perchè ha in sè l'immagine d'Iddio,
vo'
che la guardi un angel santo e pio.
Ma il demonio, invidioso che “sì
vil cosa abbia a fruire quel regno, del qual esso è privato”, si apparecchia a
darle battaglia. L'angelo custode conforta l'anima, e le presenta la Memoria,
l'Intelletto e la Volontà: le sue “potenzie”. L'Intelletto parla dopo la
Memoria e dice:
Io
son di te la seconda potenzia
e
il nome mio è detto Intelligenzia.
La
mia quiete si sta nel Verbo eterno,
e
quivi sempre debb'esser saziato:
però
che in questo esilio io non discerno
com'io
sarò in quel regno beato.
Allora
io sarò sazio in sempiterno,
e
quivi il mio obbietto arò trovato,
fermandomi
in quel razzo rilucente,
che
senza quello inquieta è la mia mente.
Lièvati
sopra te tutta in fervore,
e
guarda un po' del ciel quell'ornamento:
vedra'lo
circondato di splendore;
poi
pensa, anima mia, quel che v'è drento.
Lascia
un po' star le cose esteriore,
se
vuoi aver di quell'intendimento:
per
questo i santi tutti innamorati
il
mondo disprezzorno, pompe e stati.
E la Volontà dice:
Io
son la Volontà che ho a fruire
quel
ben c'ha dichiarato l'Intelletto,
e
in quel fermando tutto il mio desire,
perchè
creata sono a quest'effetto... ,
e
perchè l'occhio corporal non vede,
credendo
ho da seguir con pura fede.
L'Intelletto dice alla Volontà:
A
te s'appartien sol deliberare
di
far quel che ti è mostro fedelmente;
l'ufizio
tuo è sempremai d'amare
ed
unirti con Dio perfettamente.
E la Volontà risponde:
Nella
tua spera i' m'ho sempre a guardare,
benchè
la mostri un po' con pura mente;
quand'io
sarò nella gloria beata,
ciascuna
cosa mi fie dichiarata.
L'anima confortata alza la
preghiera a Dio, e l'angelo custode aggiunge:
Dàgli,
Signore, un'ardente fiammella,
che
la difenda da drago feroce:
tu
sai che l'è nel corpo incarcerata,
e
non può a te senza te esser grata.
Cioè a dire, non bastano le tre
potenzie naturali, Memoria, Intelligenzia, Volontà, perchè l'anima piaccia al
Signore; ci vuole anche la sua grazia, l'ardente fiammella che dee cacciare il
drago, il demonio. E Dio manda ad assisterla le virtù teologiche, Fede vestita
di colore celeste, con una croce nella mano destra e nella sinistra un calice e
suvvi la patena; Speranza vestita di verde, con gli occhi fissi al cielo e le
mani giunte, Carità vestita di rosso, con un parvolino per mano. Intanto il demonio
chiama l'Eresia, la Disperazione, la Sensualità e tutte le sue forze capitanate
dall'Odio. Le tre virtù intorniano l'anima. La Fede dice dell'esser suo, e san
Giovanni Crisostomo celebra la sua potenza. Ma l'Infedeltà con acri parole la
rampogna:
È
vien da levità chi crede presto.
Tu
ne sei ita quasi che per terra,
e
puossi dir che la fede è mancata;
uomini
grandi e dotti ti fan guerra,
chi
t'esaltò, or t'ha perseguitata...
Va'
nel Levante e in tutto l'Occidente,
e
guarda di noi dua chi ha più gente.
Allora la Speranza viene in
soccorso:
Leva
su gli occhi alla città superna,
ch'è
fabbricata senz'ingegno umano.
Ma l'anima teme, pensando la sua
debolezza:
Come
io digiuno un dì, i' son sì bianca
che
par che un curandaio m'abbi imbiancato
io
mi stare' a dormir sur una panca
e
il corpo vuole un letto sprimacciato.
La Speranza le pone avanti
l'esempio de' santi, e soprattutto di santo Agostino:
Quando
diceva orando: - Signor mio,
questo
mio cor non si può consolare:
tu
solo se' quel che lo puoi quietare.
Allora l'assale la Disperazione e
dice:
Pensa
che la giustizia arà il suo loco
e
tu hai fatt'assai ben di peccati:
- O tu dirai: - io non vo' disperarmi
perchè
Dio è parato a perdonarmi? -
Ma l'anima risponde allo scherno,
cacciandola da sè:
E
tu va via, bestiaccia maledetta.
Segue un'altra disputa tra la
Carità, della quale san Paolo celebra le lodi, e l'Odio, in cui spunta l'ombra di
un carattere, qualche cosa di simile a un capitano millantatore:
Vòltati
in qua, porgimi un po' l'orecchio
e
non guardar ch'io sie canuto e vecchio.
Guardami
un po' s'i' sono un bel vecchiardo,
e
per antichità tutto canuto,
nell'operar
son giovane e gagliardo,
a
ricordar l'ingiuria molto astuto,
nel
mio discorrer non son pigro o tardo,
conosco
tutte le persone al fiuto:
subito
che tu pigli qualche sdegno,
in
un momento io vi fo su disegno.
La
Carità t'exorta a perdonare,
ed
io ti dico: - Non lo voler fare. -
Il
perdonar vien da poltroneria
e
d'animo ch' è pien di debolezza;
e
chi t'ingiuria o dice villania,
quando
che tu sopporti, e' vi s'avvezza:
rendigli
il cambio a ognun, sia chi si sia,
mettigli
al collo una grossa cavezza,
non
lasciar mai la vendetta a chi resta,
e
a chi fosse, dàgli in su la testa.
Io
venni qui con una spada in mano
per
istar teco e messimi l'elmetto,
io
son del Satanasso capitano,
attengo
volentier quel ch'io prometto:
quand'io
veggo per terra il sangue umano,
mi
genera a vederlo un gran diletto,
e
tengo sempre 'l mio caval sellato
per
esser presto presto in ogni lato.
Oh
quante brighe, oh quante occisioni
son
per me fatte in città e in castella:
ho
buon affar nelle religioni,
Vommene
pe' conventi in ogni cella,
metto
l'un l'altro in gran divisioni
i'
facendo mormorar di chi favella,
poi
mi metto in cammino e in poch'ore
mi
trovo in corte di qualche signore.
L'ultima battaglia è tra il Senso
o la Sensualità e la Ragione. L'anima pregando si sente sopraffatta dal corpo:
Io
ti vorrei, Signor, sempre servire,
ma
questo corpo m' è molto molesto;
che
s'io voglio vegliar, e' vòl dormire,
ogni
po' di disagio lo fa mesto,
e
comincia di fatto a impallidire.
la
Sensualità che vede questo mi dice:
- Tu vorrai volar senz'ale,
e
dare un buon guadagno allo spedale. -
E la Sensualità, così invocata,
le dice beffando:
Tu
vorresti ir al ciel così vestita:
io
ti vo' dire il ver senza rispetto:
a
me pare che tu ti sie smarrita,
faresti
meglio a picchiarti un po' il petto:
non
vorresti patir caldo, nè gielo,
e
calzata e vestita andare in cielo.
Ma ecco la Ragione dire
all'anima:
Deh
dimmi, anima mia, ch'hai tu avuto,
io
m'era appunto appunto addormentata.
E saputo il fatto, dice della sua
nemica:
Ella
è una bestiaccia sì insolente,
bisogna
non lasciar punto la briglia:
battila
spesso senza discrezione,
e
non gli mostrar mai compassione.
- Ma che dovevo fare? - dice l'anima:
Dovevi
tutta aprirti nelle braccia,
a
pigliare una mazza tanto grossa,
che
rompessi la carne e tutte l'ossa.
La Sensualità non se ne spaventa,
e dopo uno scambio di villanie aggiunge:
Questa
Ragione è sol ipocrisia,
e
non sa appena dir l'ave Maria.
E
m'incresce di te c'hai questo sprone,
bisognerà
che tu te lo cavassi.
Deh!
fa a mio modo, piglia un buon mattone,
dàgli
nel capo che tu lo fracassi.
La
sta 'l dì e la notte inginocchione
col
collo torto e dice pissi passi... :
- Piglia qualche piacer, deh fa' a mio modo,
che
a dargli un po' di spasso gli è dovuto.
La Ragione è vinta e l'anima
cede. Ella desidera una ghirlanda con un nodo,
come
di quelle ch'io ho già veduto.
E il demonio aggiunge:
Fàtt'un
bel tocco di velluto rosso
e
una zimarra per tenere in dosso.
Così la Ragione è impotente senza
la Grazia. Comparisce Dio stesso:
Vòltati
a me, non mi far resistenza,
ch'io
t'ho aspettato e aspetto a penitenza.
L'anima pentita del mal pensiero
risponde:
Non
merito da te essere udita
pe'
miei gravi pensieri, iniqui e stolti.
Io
ho la tua bontà tanto schernita,
ch'io
non son degna che tu mi ti volti,
e
senza te io son come smarrita,
nessun
non trovo che il mio cor conforti.
Se
tu, Signor, che hai per me il sangue sparso,
non
mi soccorri, ogni rimedio è scarso.
Allora Dio le manda in soccorso
le virtù cardinali, Prudenza, Temperanza, Fortezza, Giustizia, Misericordia,
Povertà, Pazienza, Umiltà. Ciascuna parla di sè, citando talora questo o quel
passo della Bibbia. Ecco alcuni brani:
PRUDENZA - Io ti conforto che tu
sia prudente
in
tutte l'opre tue come il serpente.
TEMPERANZA - Terrai la via del
mezzo in ogni cosa,
e
sarà la tua mente graziosa.
FORTEZZA - Tullio dice di me
questa parola:
che
ognun venga a imparare alla mia scuola.
Che
la Fortezza ancor rapisce il cielo,
lo
dice san Matteo nell'Evangelo.
GIUSTIZIA - Dice David con la sua
voce amena:
“Di
Giustizia è la destra d'Iddio piena.”
MISERICORDIA - Mercè, mercè, o
Giustizia divina,
abbi
pietà dell'alma pellegrina... ;
perdona
volentieri a chiunche erra,
chè
son rinchiusi in un vaso di terra.
E
questo vaso è sì pericoloso,
nel
quale sta rinchiusa questa gioia.
Mentre
che l'alma resta in questa vita,
di
lacci trova presi tutt'i passi:
però
bisogna a lei il divin aiuto,
chè
senza quello ogni cosa è perduto.
POVERTÀ - Io son la Povertà, o
città mia,
che
non so chi mi voglia in compagnia.
E
son quella virtù che da' potenti
son
rifiutata e mandata al profondo:
non
è nessun che di me si contenti,
eziandio
que' ch'han lasciato il mondo.
Ognun
va dreto a' ricchi e bei presenti,
ma
io di mendicar non mi vergogno,
perchè
gli è di me scritto nel Vangelo:
“Quel
che mi segue arà il regno del cielo.”
PAZIENZA - O popul mio, io son la
Pazienzia;
che
più non ho chi mi dia audienzia.
O
degna Povertà, virtù perfetta,
che
tanto fust'accetta al Verbo eterno... ,
felice
è quella che ti sta suggetta,
nel
ciel sarà felice in sempiterno;
che
non si può godere in questa vita,
e
il paradiso avere alla partita.
POVERTÀ -... M'affliggo e doglio
che
la perfezione quasi è mancata,
non
è più il tempo de' padri passati,
ch'erano
pover, vili e disprezzati.
PAZIENZA - Chi pensa andare al
ciel per altra via,
che
per patir, si troverà ingannato.
Giesù
diletto figliuol di Maria
n'ha
dato esempio e a tutti ha insegnato...
Per
dimostrarci che s'avea a patire,
elesse
su la croce di morire.
UMILTÀ - L'Umiltade son io,
fratei diletti,
oggi
non c'è nessun che mi raccetti...
Vestitevi
di Cristo, o genti stolte,
non
vi avvedete voi che il tempo vola?
Non
entra in paradiso alcun difetto,
non
v'entra quel ch'a Dio non è suggetto.
Andiam
cercando, care mie sorelle,
per
tutto il mondo un po' nostra ventura:
se
nel gregge di Cristo una di quelle
ci
ricevessi con la mente pura,
perchè
noi siam vestite poverelle,
non
vorrei gli facessimo paura;
ch'oggidì
le virtù non son richieste,
ma
fassi onore a chi ha le belle veste.
L'anima
contrita e fortificata alza un canto a Dio:
A
te mi do, Signor clemente e pio,
e
voglio a te servir tutt'i miei anni,
altro
che te non bramo e non desio.
Io
ho fuggito il mondo pien d'affanni,
dove
si trova sol doglia o mestizia,
ben
è infelice chi veste suo' panni.
Ei
mostra nel principio la letizia,
e
di dover donar pace e riposo:
di
poi non dà se non pianto e tristizia.
O
mondo cieco, falso e tenebroso,
che
hai tant'amator in questa vita,
e
non mostri il velen che hai drento ascoso,
per
dolenti poi farli alla partita.
Colpita da grave infermità, dice:
O
m'è venuto tanto male addosso,
che
più star ritta niente non posso.
Che
vuol dir questo? È mi manca la vita.
Giesù
Giesù, dolce Signore, aita.
Intorno alla morente fanno
l'ultima battaglia l'angiolo e il demonio. Gli argomenti dell'angiolo si
possono ridurre in questi tre versi:
Umana
cosa è cascare in errore,
e
angelica cosa è il rilevarsi... ,
sol
diabolica cosa è star nel vizio.
Dio accoglie l'anima e pronunzia
il suo giudizio:
E
questa è la mia ultima sentenzia,
che
la venghi a fruir la mia presenzia.
E l'angiolo dice
Partite
tutti: la sentenza è data:
sonate
per dolcezza una calata.
E il coro accompagna l'anima al
cielo con questo canto:
O
felice alma, che dal corpo sciolta
e
per amor congiunta col tuo Dio,
la
vita t'è donata e non t' è tolta... ,
sei
fatta ricca di un prezzo sì pio,
e
con veste sì bella e nupziale
al
convito starai celestiale.
Così finisce questa
rappresentazione, detta “commedia” perchè si conchiude con la salvazione e non
con la perdizione dell'anima. È detta anche “misterio”, per la sua natura
allegorica. È uno degli antichissimi misteri liturgici, ritoccato, ripulito,
rammodernato e fatto laico a' tempi di Lorenzo de' Medici e forse più in là, a
giudicare dalla forma franca e spigliata, da certi tentativi di formazione
artistica, come nelle figure del demonio, dell'Odio, della Sensualità, della
Povertà, e da un certo non so che beffardo e grottesco, che svela poca serietà
e unzione nello scrittore e negli spettatori. Ma se la trama è moderna, la
stoffa è antica, e ricorda il duello del Senso e della Ragione, così comune
negli scritti volgari che apparvero prima, e la battaglia de' vizi e delle
virtù del Giamboni, e le tre allegorie cristiane. Anzi questa Commedia
dell'anima non è se non le tre allegorie messe in rappresentazione. Là
trovi tre gradi di santificazione, Umano, Spoglia e Rinnova. E anche qui
l'anima è prima combattuta dal senso e cade ne' suoi lacci, perchè “umana cosa
è cascare in errore”, poi fa la sua penitenza, si spoglia e si monda della
scoria del peccato, e così a Dio si rimarita, come dice Dante, o, come dice il
nostro autore, sta “al convito celestiale con veste bella e nuziale”. Questi
tre gradi aveano la loro formazione liturgica nell'inferno, purgatorio e
paradiso, che erano appunto il senso, l'Umano puro, abbandonato a se stesso, lo
Spoglia o la penitenza, che purga o monda l'anima, e il Rinnovamento o la luce
mentale, la beatitudine. Questo era il concetto delle rappresentazioni che
aveano a materia l'altro mondo, come quella di cui fa menzione Giovanni
Villani, che ebbe luogo a Firenze. L'altro mondo era la storia, o come si diceva
la “Commedia dell'anima”, la quale non potea giungere a redimersi
dall'umanità, dal corpo, dalla carne, dall'inferno, se non con la penitenza,
purificandosi e purgandosi, e così contrita e confessa diveniva leggiera,
saliva al cielo. Questa Commedia spirituale dell'anima, di cui ho voluto
dare un sunto possibilmente esatto, è il codice di quel secolo, il contenuto
astratto e generale, particolarizzato nelle vite, nelle leggende, ne' trattati
e nella lirica Spiritus intus alit. Lo spirito che alita per entro a
quelle prose e a quelle poesie è la “Commedia dell'anima”.
Ma
in tante prose e in tante poesie non ci è ancora un vero lavoro
d'individuazione e di formazione. Il contenuto rimane nella sua astratta
semplicità, innominato e impersonale, l'anima. Essendo il suo fondamento la
contemplazione e non l'azione, o un'azione negativa, la resistenza agl'istinti
e agli affetti naturali, non penetra nella vita, non ne assume tutte le forme,
non diventa la società. Certo, quell'azione negativa è molto poetica, è il
sublime religioso, e tocca il cuore, quando è rappresentata con semplicità e
unzione. Ma in questo contrasto tra il sentimento religioso e la natura, ciò
che move più è il grido della natura, come ne' lamenti della madre di santo
Alessio o di santa Eugenia, o nel dolore d'Isacco nel Sacrifizio di Abraam,
che all'annunzio della sua morte chiama la madre:
O
santa Sara, madre di pietade,
se
fussi in questo loco, io non morrei...
Tutta
è l'anima mia trista e dolente
per
tal precetto, e sono in agonia.
Tu
mi dicesti già che tanta gente
nascer
doveva della carne mia.
Il
gaudio volge in dolor sì cocente,
che
di star ritto non ho più balìa.
S'egli
è possibil far contento Dio
fa
ch'io non mora, o dolce padre mio.
Quantunque questo non sia che uno
de' lati più angusti e solitari della vita umana, così ricca e varia ne' suoi
aspetti, pure offre contrasti e gradazioni, che lo rendono capacissimo di un
grande sviluppo artistico. Ma in quel suo albore la letteratura ha lo stesso
carattere che mostra nella decadenza, la naturalità o materialità del
contenuto. Tante vite e storie e leggende e visioni stuzzicavano la curiosità
con la varietà e novità degli accidenti, e si attendeva più allo spettacoloso,
a colpire l'immaginazione con apparizioni nuove e maravigliose, che a lavorarle
e svilupparle. Mancava la virtù di mettersi gli oggetti a distanza e
trasformarli: la realtà anche nuda era per se stessa maravigliosa e bastava ad
ottenere l'effetto, operando in modo semplice e immediato sullo scrittore e su'
lettori.
Oltrechè,
siccome il contenuto riposava su di una dottrina liturgica, stabilita e
inalterabile, poco era accomodato ad una rappresentazione libera e artistica,
anche quando usciva dalla chiesa e dal convento ed era maneggiato da' laici,
come fu anche de' misteri. Impadronirsi di quel contenuto, cacciarlo dalla sua
generalità, dargli corpo e persona, sarebbe sembrata una profanazione. Lo
spirito mirava a rendere accessibile quella dottrina per via di esempli, di sentenze
e di allegorie, come si vedea nella Bibbia. Il reale, il concreto non avea
valore se non come figura della dottrina. Ecco ad esempio in che modo è nella Commedia
dell'anima figurato il paradiso:
In
su quel monte dove sta il Signore,
v'è
una fontana traboccante e bella,
che
sempre getta un mirabil liquore.
D'oro
e d'argento n'è la sua cannella,
le
sponde di smeraldi e d 'oro fine,
e
tutta la città circonda quella.
Salite
al monte, o alme peregrine,
salite
al monte, e lassù troverete
soprabbondanti
le grazie divine.
Le ultime parole spiegano la
figura. Quella è la fontana della divina Grazia. Con questa tendenza lo
scrittore sta contento alla semplice personificazione e gli pare di aver fatto
assai a dare una immagine che renda chiaro e sensibile il suo concetto. Oltre a
ciò, l'uomo colto, schivo delle forme semplici e volgari dell'umile credente,
mira a trasformare quella dottrina in un contenuto scientifico, e la traduce
nelle forme scolastiche, e di questa fede ragionata e sillogizzata fa la
filosofia, figliuola di Dio. Lo studio del secolo è di allegorizzare e
dimostrare, anzichè di rappresentare; è di chiarire quel contenuto,
lumeggiarlo, volgarizzarlo, ragionarlo, anzichè coglierlo in azione e nell'atto
della vita. Perciò l'opera letteraria tiene dell'allegoria e del trattato, e
ciò che è mera rappresentazione rimane nell'infanzia. Mai non ti senti ben
fermo in terra, in mezzo a uomini vivi, con tali caratteri, passioni e costumi,
anzi lo scrittore ti par quasi estraneo alla società e alle sue lotte, e dimora
nell'astratta e monotona generalità della sua contemplazione. E quando pur
scende a rappresentare la vita, ti senti d'un tratto balzato nel regno de'
misteri, delle leggende e delle visioni, nell'altro mondo.
La
visione è in effetti la forma naturale di questo contenuto, quando si vuol
rappresentarlo. La vita e la realtà è il senso, la carne, il peccato, e lo
scrittore o guarda e passa, o se pur vi si trattiene, è per maledirla,
rappresentandola non quale appare in terra, ma quale è nell'altro mondo. La
rappresentazione è dunque la visione della realtà, come sarà dopo la morte, e
là si spazia e si diletta l'immaginazione. E se il mistero è commedia, ed ha
per conclusione la santificazione e la beatitudine, la visione è spesso pittura
delle pene infernali, lasciate alla libera immaginazione de' predicatori, de'
vescovi, de' frati, de' santi Padri, che col terrore operavano sulle rozze
immaginazioni. Laghi di zolfo, valli di fuoco o di ghiaccio, botti d'acqua
bollente, rettili, vermi, dragoni da' denti di fuoco, demòni armati di lance,
di fruste, di martelli infocati, cadaveri putridi e inverminiti, scheletri
tremanti sotto una pioggia di ghiaccio, dannati inchiodati al suolo con tanti
chiodi che “non pare la carne”, o sospesi per le unghie in mezzo al zolfo, o
menati e rapiti da velocissime ruote di fuoco simili a “cerchi rosseggianti”, o
infissi a spiedi giganteschi che i demòni irrugiadano di metalli fusi: ecco la
realtà delle visioni, rappresentata co' più vivi colori. I tre monaci che si
mettono in viaggio per iscoprire il paradiso terrestre, dopo quaranta giorni di
cammino attraversano l'inferno:
“E
veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti pareano che gittassero
fuoco, e odono voci uscire di quel lago e stridere, come di mirabili popoli che
piagnessero e urlassero. E pervenuti che sono fra due monti altissimi, appare
loro un uomo di statura in lunghezza bene di cento cubiti incatenato con
quattro catene, e due delle quali eran confitte nell'un monte e l'altre due
nell'altro; e tutto intorno a lui era fuoco, e gridava sì fortemente che si
udiva bene quaranta miglia da lungi. E vengono in un luogo molto profondo e
orribile e scoglioso e aspro, nel quale vedono una femmina nuda, laidissima e
scapigliata in volto e compresa tutta da un dragone grandissimo, e quando ella
volea aprire la bocca per parlare o per gridare, quel dragone le mettea il capo
in bocca, e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano
grandi infino a terra.”
Nella Vita di Santa Margherita si
trova questa pittura del dragone:
“Vide
uscire un dragone crudelissimo e orribile con isvariati colori, e la barba e i
capelli pareano d'oro, e ' denti suoi parevano di ferro, e gli occhi acuti e
lucenti come fuoco acceso, e colla bocca aperta menava la lingua, e parea che
per le nari e per la bocca gittasse fuoco, e puzzo gittava di zolfo.”
Tra
le visioni è celebre il Purgatorio di San Patrizio di frate Alberico, e quella
d'Ildebrando, poi Gregorio settimo, che predicando innanzi a papa Niccolò
secondo, narra di un conte ricco, e insieme onesto, “ciò che è proprio un
miracolo in questa gente”, egli dice. Questo conte, morto dieci anni innanzi,
fu visto, da un santo uomo ratto in ispirito, starsi al sommo d'una scala
lunghissima, che ergevasi illesa tra le fiamme e si perdeva giù nell'inferno.
Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del conte, con quest'ordine, che
quando alcuno moriva di quella famiglia, doveva occupare il primo gradino, e
colui che vi giaceva e tutti gli altri scendevano di un grado verso l'abisso,
dove tutti l'uno appresso l'altro si sarebbero riuniti. E chiedendo il santo
uomo come fosse dannato il conte, che avea lasciata in terra buona fama di sè,
si udì una voce rispondere: - Uno degli antenati, di cui il conte è l'erede in
decimo grado, tolse al beato Stefano un territorio nella chiesa di Metz; e per
questo delitto tutti costoro sono involti nella stessa dannazione. - Questa
pena, che colpisce un'intera generazione, è molto poetica, mostrando l'inferno
nel sublime d'un lontano indeterminato, messo costantemente innanzi
all'immaginazione de' condannati, che a grado a grado vi si avvicinano insino a
che non vi caggiano entro: come quel tiranno che voleva che le sue vittime
sentissero di morire, il terribile prete vuole che ei sentano l'inferno.
Da
queste visioni e misteri e prose e poesie si sviluppa questo concetto: che
attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, è il peccato; che la virtù è
negazione della vita terrena, e contemplazione dell'altra; che la vita non è la
realtà, ma ombra e apparenza di quella; che la vera realtà non è quello che è,
ma quello che dee essere, ed è perciò la scienza, o la verità, come concetto, e
come contenuto, è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio e il paradiso, il
mondo conforme alla verità e alla giustizia.
Appunto
perchè l'individuo è pulvis et umbra, e la realtà è pura scienza ed un
di là della vita, questo mondo resiste ad ogni sforzo d'individuazione e di
formazione. Lo stesso amore, così possente, non ci può gittare un po' di calore
e non ci vive se non come figura e immagine dell'amore divino. La donna, come
donna, è peccato; essa diviene una specie di medium che lega l'uomo a
Dio.
Il
maggior grado di realtà, a cui questo mondo sia pervenuto, è nella lirica di
Dante. La donna di quel secolo acquista il suo nome e la sua forma, è Beatrice,
la fanciulla uscita pura dalle mani di Dio, come l'anima nella commedia
spirituale, breve apparizione, tornata così presto in cielo tra' canti degli
angioli. La sua vita terrena è quasi non altro che nascere e morire. La sua
vera vita comincia dopo la morte, nell'altro mondo. Ivi è luce mentale o
intellettuale, verità e scienza, filosofia. Ma non è filosofia incarnata, mondo
vivente, dove l'idea di Dio o del vero sia perfettamente realizzata; è pura
scienza, incapace di rappresentazione nella sua forma scolastica di trattato e
di esposizione. È scienza non ancora realizzata, non ancora corpo; è idea, non
è visione; è didattica, non è commedia o rappresentazione. Hai “misteri” e
visioni; manca il Mistero e la Visione, cioè un mondo vivente nel suo insieme e
ne' suoi aspetti, dove sia realizzato quel concetto teologico e filosofico
dell'umanità, comune al secolo e rimasto ancora nella sua astrazione
dottrinale.
Il
secolo decimoterzo si chiudeva, lasciando una lingua già formata, molta varietà
di forme metriche, una poetica, una rettorica, una filosofia, ed un concetto
della vita ancora didattico e allegorico, con rozzi tentativi di formazione e
individuazione. Il suo primo individuo poetico è Beatrice, il presentimento e
l'accento lirico di un mondo ancora involto nel grembo della scienza, ancora
fuori della vita.
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