VI
IL TRECENTO
Quello che il secolo precedente
concepì e preparò, fu realizzato in questo secolo detto aureo. I posteri
compresero sotto questo nome tutto un periodo letterario, dove si trovano
mescolati dugentisti e quattrocentisti. E in verità le notizie cronologiche sono
sì scarse e incerte, che non è facile assegnare di ciascuno scrittore l'età,
seguire strettamente l'ordine del tempo. Al nostro scopo è più utile seguire il
cammino del pensiero e della forma nel suo sviluppo, senza violare le grandi
divisioni cronologiche, ma senza cercare una precisione di date, che ci farebbe
sciupare il tempo in conietture e supposizioni di poco interesse.
Questo
secolo s'apre con un grande atto, il Giubileo, pontefice Bonifazio ottavo.
Tutta la cristianità concorse a Roma, d'ogni età, d'ogni sesso, di ogni ordine
e condizione, per ottenere il perdono de' peccati e guadagnarsi la salute
eterna. Tutti animava lo stesso concetto espresso così variamente in tante
prose e poesie: la maledizione del mondo e della carne, la vanità de' beni e
delle cure terrestri e la vita cercata al di là della vita. Il nuovo secolo
cominciava, consacrando in modo tanto solenne il pensiero comune nella varietà
della cultura. I preti e i frati soprastavano nella riverenza pubblica, non
solo pel carattere religioso, ma per la dottrina, tenuta loro privilegio, tanto
che il Villani loda di scienza Dante, aggiungendo: “benchè laico”, e i dotti
uomini, benchè laici, erano detti chierici. Tutta la società italiana, raccolta
colà dallo stesso fine, rendeva una viva immagine di quel pensiero comune e di
quella varia cultura. Vedevi i contemplanti, i remiti, i solitari del deserto e
della cella col corpo macero da' digiuni, da' cilizii e dalle vigilie, ritratti
viventi de' misteri e delle leggende. C'erano gli umili di spirito, animati da
schietto sentimento religioso e che tenevano la scienza come cosa profana, e ci
erano i dotti, i predicatori e i confessori, il cui testo era la Bibbia e i
santi Padri. Vedevi gli scolastici e gli eruditi, teologi e filosofi, che univano
in una comune ammirazione i classici e i santi Padri, disputatori sottili di
tutte le cose e anche delle cose di fede, parlanti un latino d'uso e di scuola,
vibrato, rapido, vivace, dove sentivi il volgare destinato a succedergli, amici
della filosofia con quello stesso ardore di fede che gli altri si professavano
servi del Signore, ma di una filosofia non ripugnante alla fede, anzi sostegno,
illustrazione e ragione di quella, confortata da sillogismi e da sentenze e da
citazioni, dove trovi spesso Tullio accanto a san Paolo. Alteri della loro
scienza e del loro latino, spregiatori del volgare, da costoro uscivano que'
trattati, que' comenti, quelle “somme”, quelle storie, che empivano di
maraviglia il mondo. Accanto a questi veggenti della fede e della filosofia, a
questa vita dello spirito, trovi la vita attiva e temporale, affratellati dallo
stesso pensiero i signori e i tirannetti feudali e i priori e gli anziani delle
repubbliche, il cavaliere de' romanzi e il mercatante delle cronache. Là, appiè
del Coliseo, un ardito negoziante, Giovanni Villani, pensò che la sua Fiorenza,
figliuola di Roma, era non meno degna di avere una storia, e la scrisse. Fra
tanto splendore e potenza del chiericato, lo spregiato laico cominciava a
levare la testa e pensava all'antica Roma e a Firenze, figliuola di Roma. Là
molte amicizie si strinsero, molte paci si fecero, come avviene in certi grandi
momenti della storia umana; sparirono guelfi e ghibellini, ottimati e popolari,
baroni e vassalli, stretti tutti ad una sola bandiera: uno Dio, uno papa, uno
imperatore. Là il papato ebbe l'ultimo suo gran giorno, l'ultimo sogno di
monarchia universale, rotto per sempre dallo schiaffo di Anagni.
Il
giubileo ci dà una immagine di quello che dovea essere la letteratura nel
secolo decimoquarto. Ebbe dal secolo antecedente la sua materia, i suoi
istrumenti e il suo concetto, del quale il giubileo fu una così splendida
manifestazione. Ma quel concetto, rimaso nella sua astrazione intellettuale e
allegorica, con così scarsi inizi di rappresentazione ne' misteri e nelle
visioni, ancora senza nome altro che di Beatrice, breve apparizione, svaporata
subito nelle astrattezze della scienza, ebbe nel Trecento la sua vita, e venne
a perfetta individuazione e formazione: questo fu il carattere e la gloria di
quel secolo.
L'uomo,
che dovea dare il suo nome al secolo, avea già trentatrè anni, avea creato
Beatrice e volgea nella mente non so che più ardito, che dovesse abbracciare
tutta l'umanità. Tenzonava nel suo capo il filosofo e il poeta: ci era il Convito
e ci era la Commedia. Ma, per apprezzare più degnamente quella vasta
sintesi che ne uscì, è bene preceda l'analisi, studiando la fisonomia del
secolo negl'ingegni più modesti che non conobbero, di tutto quel mondo, se non
questa o quella parte.
E
c'incontriamo dapprima nella letteratura claustrale, ascetica, mistica,
religiosa, continuazione in prosa di fra Iacopone, ma in una prosa piena di
poesia. Domenico Cavalca, l'autore de' Fioretti, Guido da Pisa,
Bartolomeo da San Concordio, Iacopo Passavanti, Giovanni dalle Celle non sono
scrittori astratti e impersonali, come quelli del secolo innanzi, ma, anche
volgarizzando, senti che quegli uomini prendono viva partecipazione a quello
che scrivono, e vivono là dentro, e ci lasciano l'impronta del loro carattere e
della loro fisonomia intellettuale e morale. Usciamo dalle astrattezze de'
trattati e delle raccolte sotto nome di “fiori”, “giardini” e “tesori”, ed
entriamo nella realtà della vita, nel vero giardino dell'arte. Perchè questi
uomini non ragionano, non disputano, e di rado citano: la loro dottrina va poco
al di là della Bibbia e de' santi Padri: ma narrano quel medesimo che si
rappresentava ne' misteri, vite, leggende e visioni, e sono narrazioni più vive
e schiette, che non i misteri del Quattrocento, raffazzonamenti degli antichi,
con più liscio, ma dove desideri la purità e semplicità delle prime
ispirazioni.
Gli
scrittori son tutti frati, ed hanno le qualità degli uomini solitari, il
candore, l'evidenza, e l'affetto. Hanno l'ingenuità di un fanciullo che sta con
gli occhi aperti a sentire, e più i fatti sono straordinari e maravigliosi, più
tende l'orecchio e tutto si beve: qualità spiccatissima ne' Fioretti di san
Francesco, il più amabile e caro di questi libri fanciulleschi. L'immaginazione
concitata dalla solitudine presenta gli oggetti così vivi e propri, che vengon
fuori di un getto, non solo figurati, ma animati e coloriti caldi ancora
dell'impressione fatta sullo scrittore. Nel quale l'affetto è tanto più vivace
e impetuoso e lirico, quanto la sua vita è più astinente e compressa: quasi
vendetta della natura, che grida più alto, dove ha più contrasto. Non ci è in
queste prose alcuna intenzione artistica, nessun vestigio di studio, o di
sforzo, o di esitazione, o di scelta; manca soprattutto il nesso, la
distribuzione, la gradazione. Ma si conseguono tutti gli effetti dell'arte che
nascono da movimenti sinceri e gagliardi dell'immaginazione e dell'affetto, e
n'escon pagine animate, e potenti assai più sul tuo spirito che non tanti romanzi
moderni. Cito fra l'altro la storia di Abraam romito, che prende veste e
costume di cavaliere mondano, e mangia pane e beve vino ed usa nelle taverne
per convertire la sua nipote Maria. Il suo incontro con Maria nella taverna,
gli allettamenti lascivi di costei, la sua sorpresa e vergogna quando nel bel
cavaliere scopre il suo zio, e i rimproveri affettuosi di lui e le grida
strazianti e disperate della bella pentita sono una vera scena drammatica, alla
quale non trovi niente comparabile nel teatro italiano. In queste Vite
del Cavalca, che sono traduzioni, ma per la freschezza e spontaneità del
dettato e per la commossa partecipazione del frate sono cosa originale, il
concetto del secolo, uscito dalle astrattezze teologiche e scolastiche, prende
carne, acquista una esistenza morale e materiale. Il santo è esso medesimo il
concetto divenuto persona, e la sua rappresentazione ti offre il nuovo mondo
morale aperto al cristiano, fatto attivo e divenuto storia, la storia del
santo. Cardine di questo mondo morale è la realtà della vita nell'altro mondo e
la guerra a tutti gl'istinti e affetti terreni, l'astinenza e la pazienza, il “sustine
et abstine”; e però le sue virtù non esprimono altro che la vittoria
dell'uomo sopra se stesso, sulla sua natura: indi l'umiltà, il perdono delle
offese, la povertà, la castità, l'ubbidienza. Se la vittoria fosse preceduta
dalla lotta, lo spettacolo sarebbe sublime; ma il più sovente il santo entra in
iscena ch'è già santo e nell'esercizio quieto delle sue cristiane virtù, interrotto
a volte dalle tentazioni del demonio cacciato via da scongiuri e segni di
croce: ciò che è grottesco più che sublime. Il santo è troppo santo perchè la
sua vita possa offrirti una vera contraddizione e battaglia tra il cielo e la
natura, ciò che rende così drammatica la vita di Agostino e di Paolo. Qui hai
racconti uniformi, infinite ripetizioni, rarissimi contrasti, e spesso provi
noia e stanchezza. La musa di queste cristiane virtù non è la forza, e non è
l'azione, ma è un certo languir d'amore, una effusione di teneri e dolci
sentimenti, liriche aspirazioni ed estasi e orazioni, un impetuoso prorompere
degli affetti naturali tosto sedato e riconciliato, il sacrificio ignorato e
oscuro che ha la sua glorificazione anche terrena dopo la morte. Una delle vite
più interessanti e popolari è quella di santo Alessio, che abbandona la nobile
casa paterna e la sposa il dì delle nozze, e va peregrinando e limosinando, e
dopo molti anni tornato in patria, serve non conosciuto in casa del padre, e
non si scopre alla madre e alla sposa, e i servi gli danno le guanciate, e lui
umile e paziente. Questa vittoria sulla natura non fa effetto, perchè in
Alessio non ci è l'“homo sum”, non ci è lotta, non la coscienza del
sacrifizio, parendo a lui naturale e facile esercizio di virtù quello che a noi
uomini pare cosa maravigliosa e quasi incredibile. L'innaturale è in lui
natura: perfezione ascetica, ma non artistica. L'interesse comincia, quando la
natura fa sentire il suo grido, e col suo contrasto sublima il santo; quando,
saputo il fatto, il pontefice con infinita moltitudine traendo a venerare il
servo spregiato, si odono tra la folla queste grida: “Prestatemi la via, datemi
loco, fate che io vegga il figliuol mio, quello che ha succiato le mammelle mie”.
E ragionando col cuore di madre, la donna accusa il figlio e lo chiama “senza
cuore”, e poi nel suo dolore lo glorifica e ricorda che i servi gli davano le
guanciate. Scene simili non sono scarse in queste Vite: ricorderò la
madre di Eugenia e Maria Maddalena, eloquentissima nelle sue lacrime.
Una
vera intenzione artistica si scorge nello Specchio di penitenza di
Iacopo Passavanti, una raccolta di prediche ridotte in forma di trattati
morali, accompagnati con leggende e visioni dell'altro mondo. Il frate mira a
fare effetto, inducendo a penitenza i fedeli con la viva rappresentazione de'
vizi e delle pene. La musa del Cavalca è l'amore, e la sua materia è il
paradiso, che tu pregusti in quello spirito di carità e di mansuetudine, che
comunica alla prosa tanta soavità e morbidezza di colorito. La musa del
Passavanti è il terrore, e la sua materia è il vizio e l'inferno, rappresentato
meno nel suo grottesco e nella sua mitologia, che nel suo carattere umano, come
il rimorso è il grido della coscienza. Intralciato e monotono nel discorso, il
suo stile è rapido, liquido pittoresco nel racconto. Diresti che provi voluttà
a spaventare e tormentare l'anima: cerca immagini, accessorii, colori, come
istrumenti della tortura, e ti lascia sgomento e assediato da fantasmi. Il
periodo spesso ben congegnato, svelto e libero, la cura de' nessi e de'
passaggi, la distribuzione degli accessorii e de' colori, l'intelligenza delle
gradazioni, un sentimento di armonia cupo che accompagna lo spettacolo, fanno
del Passavanti l'artista di questo mondo ascetico.
Ma
ecco fra tante vite di santi il santo in persona, scrittore e pittore di sè
medesimo, Caterina da Siena. Abbandonata la madre e i fratelli, resasi monaca,
macerato il corpo co' cilizii e digiuni, vive una vita di estasi e di visioni,
e scrive in astrazione anzi dètta con una lucidità di spirito maravigliosa.
Scrive a papi a principi, a re e regine, come alla madre, a' fratelli, a frati
e suore, dall'altezza della sua santità, con lo stesso tono di amorevole
superiorità. Nelle più intricate faccende prende il suo partito risolutamente,
consigliando e quasi comandando quella condotta che le pare conforme alla
dottrina di Cristo. Ho detto “pare”, e dovrei dire “è”: perchè nessun dubbio o
esitazione è nel suo spirito, e le dottrine più astruse e mentali le sono così
chiare e sicure come le cose che vede e tocca. Ha la visione dell'astratto, e
lo rende come corpo, anzi fa del corpo la luce e la faccia di quello. Indi un
linguaggio figurato e metaforico, spesso sazievole, talora continuato sino
all'assurdo. È un po' il fare biblico; un po' vezzo de' tempi; ma è pure forma
naturale della sua mente. Vivendo in ispirito, le cose dello spirito le si
affacciano palpabili e visibili come materia, e così come vede Cristo e
angioli, vede le idee e i pensieri. È una regione spirituale, divenutale per
lungo uso così familiare, che ne ha fatto il suo mondo e il suo corpo. Questa
chiarezza d'intuizione, accompagnata con la squisita sensibilità e la perfetta
sincerità della fede le fanno trovare forme delicate e peregrine, degne di un
artista. Ma le spesse ripetizioni, l'esposizione didattica, quell'incalzare di
consigli, di esortazioni e di precetti senza tregua o riposo rendono il libro
sazievole e monotono.
In
queste lettere di Caterina quel mondo morale, rappresentato nelle vite, nelle
estasi, nelle visioni de' santi, è sviluppato come dottrina in tutta la sua
rigidità ascetica. È il codice d'amore della cristianità. La perfezione è
“morire a se stesso” secondo la sua frase energica, morire alla volontà, alle
inclinazioni, agli affetti umani, sino all'amore de' figli, e tutto riferire a
Dio, di tutto fare olocausto a Dio. Il suo amore verso Cristo ha tutte le
tenerezze di un amore di donna, che si sfoga a quel modo, lei inconscia. L'ultima
frase di ogni sua lettera è: “Annegatevi, bagnatevi nel sangue di Cristo”.
Ardente è la sua carità pel prossimo: “Amatevi, amatevi”, grida la santa, e
predica pace, concordia, umiltà, perdono, voce inascoltata. La regina Giovanna
rispondea alla santa con riverenza, e continuava la vita immonda. Lo scisma
giungeva al sangue nelle vie di Roma. Più alto e puro era l'ideale della santa,
meno era efficace sugli uomini. La sua vita si può compendiare in due parole:
amore e morte. Celebre è la sua lettera sul condannato a morte, da lei
assistito negli ultimi momenti: “Teneva il capo suo sul petto mio. Io allora
sentivo un giubilo e un odore del sangue suo; e non era senza l'odore del mio,
il quale io desidero di spandere per lo dolce sposo Gesù”. Il sangue di Cristo
la esalta, la inebbria di voluttà. Ad una serva di Dio scrive: “Inebriatevi del
sangue, saziatevi del sangue, vestitevi del sangue”. “Sudare sangue”,
“trasformarsi nel sangue”, “bere l'affetto e l'amore nel sangue”, sono immagini
di questo lirismo. Della cella “si fa un cielo”, e vi gusta “il bene
degl'immortali, obumbrandola Dio di un gran fuoco d'amore”. Nella estasi o
visione o esaltazione di mente, è gittata giù, e le pare come se l'anima sia
partita dal corpo. Il corpo pareva quasi venuto meno. Le membra del corpo, dice
Caterina, si sentivano dissolvere e disfare come la cera nel fuoco. E altrove:
“Nel corpo a me non pareva essere, ma vedevo il corpo mio come se fosse stato
un altro”. Questi ardori d'anima, queste illuminazioni di mente, questi martìri
d'amore sono espressi con una semplicità ed evidenza, che testimoniano la sua
sincerità. L'anima “innamorata e ansietata d'amore, affocata” dal desiderio
“crociato” o della croce, “annegata la propria volontà” nell'amore del “dolce e
innamorato Verbo”, vive nel corpo come fosse fuori di quello. Posto il suo
amore al di là della vita, vive morendo, dimorando con la mente al di là della
vita. Ma questa morte spirituale non l'appaga: “muoio e non posso morire”, dice
la santa. Gli ultimi giorni furono battaglie con le dimonia e colloquii con
Cristo, e a trentatrè anni finì la vita, consumata dal desiderio.
La
“Commedia dell'anima” è ora pienamente realizzata nel suo aspetto
religioso, come espressione letteraria. Quell'anima ora ha un nome, è una
persona, Alessio, Eugenia, Caterina. Il demonio e la carne sono un mondo pieno
di vita ne' racconti del Passavanti. Quelle virtù allegoriche che escono in
processione sulla scena sono le opere, le volontà, le passioni e i pensieri de'
santi. E la Divina Commedia, la trasfigurazione e la glorificazione
dell'anima, la Beatrice che torna bianca nuvoletta in cielo tra i canti degli
angioli, qui sono estasi, rapimenti dell'anima, colloquii con Dio, mistica
unione con Cristo, e dopo la morte la santificazione e la contemplazione
nell'eterna luce. Quel concetto è uscito dall'astrattezza della scienza e
dell'allegoria, dalla sua vuota generalità, e si è incarnato, è divenuto uomo.
La
prosa italiana in questa letteratura acquista evidenza, colorito, caldezza di
affetto, in un andar semplice e naturale, specialmente quando vi si esprimono
sentimenti dolci e ingenui. È perfetto esemplare di stile cristiano, guasto di
poi. Alla sua perfezione manca un più sicuro nesso logico, maggiore sobrietà e
scelta di accessorii, ed una formazione grammaticale e meccanica più corretta.
Con lievi correzioni molti brani possono paragonarsi a ciò che di più perfetto
è nella prosa moderna. L'Imitazione di Cristo è certo prosa superiore,
scritta in tempo di maggior coltura. Ci è una maggiore virilità intellettuale,
una logica più stretta, e pura di quella pedanteria scolastica che inseguiva i
frati fino nel convento. Ma non è superiore, quanto a quelle qualità organiche,
dove è il segreto della vita, la schiettezza dell'ispirazione e il calore dell'affetto;
e spesso in quella prosa, mirabile di precisione e di proprietà, desideri
l'energia e l'intuizione di Caterina.
Nè
questa prosa era già fattura di un solo, o di pochi, perchè la trovi anche ne'
minori che scrivevano delle cose dello spirito. Citerò una lettera di un
discepolo di Caterina, che annunzia la sua morte:
“Credo
che tu sappi come la nostra reverendissima e carissima mamma se ne andò in
paradiso domenica, addì 29 di aprile (1380); lodato ne sia il Salvatore nostro,
Gesù Cristo crocifisso benedetto. A me ne pare essere rimaso orfano, però che
di lei avevo ogni consolazione, e non mi posso tenere di piangere. E non piango
lei, piango me, che ho perduto tanto bene. Non potevo fare maggiore perdita, e
tu 'l sai... .Della mamma si vuol fare allegrezza e festa, quanto che è per
lei; ma di quelli suoi e di quelle che sono rimasi in questa misera vita, ène
da piangere e da avere compassione grandissima. Con veruna persona mi so dare
dolore, quanto che con teco, che mi fusti cagione di acquistare tanto bene.
Prendo alcuno conforto, perchè nel mio cuore ène rimasa e incarnata la mamma
nostra assai più che non era in prima; e ora me la pare bene conoscere. Chè noi
miseri ne avevamo tanta copia, che non la conoscevamo e non savamo degni della
sua presenzia... . Carissimo fratello, io sono fatto tanto smemoriato del bene
che ho perduto, ch'io ti scrivo anfanando. E però di ciò non ti scrivo più.”
Lo
stesso stile è in Giovanni dalle Celle, Stefano Maconi e altri frati. Ecco in
che modo commovente e semplice sono raccontati alcuni particolari della fine di
Caterina:
“Nella
domenica di sessaggesima svenne, e perdè il vigore di sanità, mantenutole dalla
forza dello spirito, e che non pareva scemarsi per inedia. Il dì poi, un altro
svenimento la lasciò lungamente come morta: se non che, risentitasi, stette in
piede come se nulla fosse. Cominciò la quaresima colle solite pratiche,
esercizio a lei di consolazioni angosciose. Ogni mattina, dopo la comunione le
è forza rimettersi, sfinita, a letto. Di lì a due ore usciva a San Pietro un
buon miglio di strada, e lì stava orando infino a vespro. Così fino alla terza
domenica di quaresima, quando il male la spossò. E per otto settimane giacque
senza potere alzare il capo, tutta dolori. A ogni nuovo spasimo alzando il
capo, ne ringraziava Iddio lieta. Alla domenica innanzi l'Ascensione, Il corpo
non era omai più che uno scheletro, nel mezzo in giù senza moto, ma nel volto
raggiante la vita. Debole; un alito di respiro; pareva in fine; e le fu data
l'estrema unzione.”
Questa
eccellenza di dettato trovi pure ne' volgarizzamenti de' classici o di romanzi
e storie allora in voga, come sono i volgarizzamenti di Livio e di Sallustio, i
Fatti di Enea, gli Ammaestramenti degli antichi, voltati da Bartolomeo
da San Concordio con un nerbo ed una vigoria degna del traduttore di Sallustio.
È una prosa adulta, spedita, calda, immaginosa, spesso colorita, con tutto
l'andare di lingua viva e parlata, già nel suo fiore.
I
romanzi operavano sul popolo non meno vivamente che la letteratura spirituale.
Nella sua immaginazione si confondea il cavaliere di Cristo e il cavaliere di
Carlomagno, e con la stessa avidità leggea la vita di Alessio e i fatti di
Enea, e gli amori di Lancillotto e Ginevra. Caterina trae dalla cavalleria
molte sue immagini. Chiama Cristo un “dolce cavaliere”, “cavaliere dolcemente
armato”; chiama la Redenzione un “torneo della morte colla vita”. Ma la
letteratura cavalleresca rimase stazionaria e non produsse alcun lavoro
originale. Le traduzioni sono fatte senza intenzione seria, in prosa scarna e
trascurata, posto il diletto nel maraviglioso de' fatti. Agli stessi traduttori
è materia frivola, buona per passare il tempo, e non vi partecipano, non
sentono colà dentro il loro mondo e la loro vita.
Accanto
a questo mondo dello spirito e dell'immaginazione c'era il mondo reale, il
mondo della carne o della vita terrena, come si dicea, che si potea maledire,
ma non uccidere. Era la cronaca, memoria dì per dì de' fatti che succedevano,
inanime come il dizionario, o come la lista delle spese. Quelli che ne
scrivevano con qualche intenzione artistica, la dettavano in latino e la
chiamavano storia. Latini erano anche i trattati scientifici e i lavori
propriamente d'arte. Quella letteratura spirituale e cavalleresca rimanea
circoscritta al popolo ed era tenuta in poco conto da' dotti. Costoro
spregiavano il volgare, come buono solo a dir d'amore e di cose frivole, e le
gravi faccende della vita le trattavano in latino. Di questi illustre per ingegno,
per coltura e per patriottismo fu Albertino Mussato, coronato poeta in Padova,
sua patria. Abbiamo di lui molte opere, alcune ancora inedite. Scrisse in
quattordici libri De gestis Henrici septimi Caesaris, e anche De
gestis italicorum post mortem Henrici septimi, in dodici libri, de' quali
alcuni sono in versi esametri. Fece epistole, egloghe, elegie e due tragedie,
l'Achilleis e l'Eccerinis. Quest'ultima rappresenta la tirannide
di Ezzelino, creduto per la sua ferocia figlio del demonio, e la vittoria de'
comuni collegati contro di lui. È narrazione più che azione, come ne' misteri,
un narrare serrato e nervoso, le cui impressioni patetiche e morali sono
espresse dal coro. Sotto a quel latino ossuto e asciutto palpita l'anima del
medio evo. Senti una società ancor rozza, selvaggia negli odii e nelle
vendette, senza misura nelle passioni, poco riflessiva, di proporzioni epiche
anche in forma drammatica. Il carattere di Ezzelino non è sviluppato in modo
che n'esca fuori un personaggio drammatico. Egli rimane ravvolto nel suo manto
epico, come Farinata. È figlio de demonio, e lo sa e se ne gloria, e opera come
genio del male, con piena coscienza: ciò che gli dà proporzioni colossali.
Invoca il padre e dice:
Nullis tremiscet sceleribus fidens manus;
annue, Satan, et filium talem proba.
E quest'uomo rimane così intero e
tutto di un pezzo: manca l'analisi, senza di cui non è dramma. Il concetto
della tragedia è più morale che politico, quantunque il fatto sia altamente
politico, rappresentando la lotta tra i comuni liberi e i tirannetti feudali.
Certo, in Mussato c'è il guelfo e ci è il padovano, che l'ispira e
l'appassiona. Ma il motivo tragico è affatto morale. Ezzelino è punito non
perchè offende la libertà, ma perchè opera scelleratamente, e “qui gladio
ferit, gladio perit”: ciò che è in bocca al coro la conclusione del fatto:
Consors operum
meritum sequitur quisque suorum.
È il concetto ascetico
dell'inferno applicato anche alla vita terrestre. Questa nella sua prima
apparizione letteraria è ancora nella sua generalità morale, non è sviluppata
nei suoi interessi, ne' suoi fini, nelle sue passioni e nelle sue idee
politiche: di che solo può nascere il dramma. Il senso del reale era ancora
troppo scarso, perchè il dramma fosse possibile. Non ci è il sentimento
collettivo non il partito e non la società: ci è l'individuo appena analizzato,
rappresentato buono o cattivo e retribuito secondo le opere, forma elementare
della vita reale. Il feroce e il grottesco delle pene infernali hanno qui un
riscontro nelle immani crudeltà di Ezzelino e nella immane punizione.
Questo
concetto morale, ancorchè non ancora penetrato e sviluppato in tutti gli
aspetti della vita, pure non è più un motto, un proverbio, un ammaestramento,
un “fabula docet”, una esposizione didattica in prosa o in verso, come
nel secolo scorso, ma la vita in atto, con tutt'i caratteri della personalità,
così nella vita contemplativa come nella vita attiva, così nel carbonaio del
Passavanti come nell'Ezzelino del Mussato.
Onori
straordinari furono conferiti al Mussato, tenuto pari a' classici, quando i
classici erano ancora così poco noti. Anche Venezia ebbe i suoi latinisti, che
scrissero la sua storia, Andrea Dandolo e Martin Sanuto. Nell'Italia
settentrionale abbondano le cronache latine. Il volgare vi si era poco
sviluppato. E dappertutto teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina era
insegnata e trattata in latino. Scrissero le loro opere in questa lingua
Marsilio da Padova, Cino da Pistoia, Bartolo e Baldo.
Ma
in Toscana il Malespini avea già dato l'esempio di scrivere la cronaca in
volgare. E Dino Compagni seguì l'esempio, scrivendo in volgare i fatti di
Firenze dal 1270 al 1312. Attore e spettatore, prende una viva partecipazione a
quello che narra, e schizza con mano sicura immortali ritratti. Non è questa
una cronaca, una semplice memoria di fatti: tutto si move, tutto è
rappresentato e disegnato, costumi, passioni, luoghi, caratteri, intenzioni, e
a tutto lo scrittore è presente, si mescola in tutto, esprime altamente le sue impressioni
e i suoi giudizi. Così è uscita di sotto alla sua penna una storia
indimenticabile.
Questa storia è una immane
catastrofe. Da lui preveduta e non potuta impedire. E non si accorge che di
quella catastrofe cagione non ultima fu lui. O piuttosto ne ha un'oscura
coscienza, quando con quel tale “senno di poi” dice: - Oh se avessi saputo! Ma
chi poteva pensare? - Ma Dino peccò per soverchia bontà d'animo; gli altri
peccarono per malizia, e Dino li flagella a sangue. Era Bianco; ma più che
Bianco, era onesto uomo e patriota. Gli pareva che que' Neri e que' Bianchi,
quei Donati e quei Cerchi, non fossero divisi da altro che da gara d'uffici, e
gli parea che, partendo ugualmente gli uffici, quelle discordie avessero a
cessare. Gli parea pure che tutti amassero la città, come facea lui, e fossero
pronti per la sua libertà e il suo decoro a fare il sacrificio de' loro odii e
delle loro cupidigie. E gli parea che uomo di sangue regio non potesse mentire
nè spergiurare, e che nessuno potesse mancare alle promesse, quando fossero
messe in carta. E anche questo gli parea, che gli amici stessero saldi intorno
a lui e che ad un suo cenno tutti gli avessero ad ubbidire. Che cosa non parea
al buon Dino? E con queste opinioni si mise al governo della repubblica. È la prima
volta che si trova in presenza la morale com'era in Albertano giudice e come fu
poi in Caterina, la morale de' libri e la morale del mondo. E la contraddizione
balza fuori con tutta l'energia di una prima impressione. Il brav'uomo al
contatto del mondo reale cade di disinganno in disinganno, e ciascuna volta
rivela la sua ingenuità con un accento di maraviglia e d'indignazione.
Immaginatevelo alle prese con Bonifazio ottavo, Carlo di Valois e Corso Donati,
ciò che di più astuto e violento era a quel tempo. L'energia del sentimento
morale offeso è il secreto della sua eloquenza. Qui non ci è nessuna intenzione
letteraria: la narrazione procede rapida, naturale, sino alla rozzezza. Vi è un
materiale crudo e accumulato e mescolato, senza ordine o scelta o
distribuzione; ignota è l'arte del subordinare e del graduare; mancano i
passaggi e le giunture; il fatto è spesso strozzato; spesso il colorito è un
po' risentito e teso difetti di composizione gravi. Pure le qualità essenziali
che rendono un libro immortale stanno qui dentro, la sincerità
dell'ispirazione, l'energia e la purità del sentimento morale, la compiuta
personalità dello scrittore e del tempo, la maraviglia, l'indignazione, il
dolore, la passione del cronista, che comunica a tutto moto e vita. In tempi
meno torbidi, Giovanni Villani scrisse la sua Cronaca di Firenze sino al
1348, continuata dal fratello Matteo e dal nipote Filippo. Mira a dar memoria
de' fatti, pigliandoli dove li trova, e spesso copiando o compendiando i
cronisti che lo precessero. Sono nudi fatti, raccolti con scrupolosa diligenza,
anche i più minuti e familiari, della vita fiorentina, come le derrate, i
drappi, le monete, i prestiti: materiale prezioso per la storia. Ma questa
cruda realtà, scompagnata dalla vita interiore che la produce, è priva di
colorito e di fisonomia e riesce monotona e sazievole.
La
Cronaca di Dino e le tre Cronache de' Villani comprendono il
secolo. La prima narra la caduta de' Bianchi, le altre raccontano il regno de'
Neri. Tra, vinti erano Dino e Dante. Tra, vincitori erano i Villani. Questi
raccontano con quieta indifferenza, come facessero un inventario. Quelli
scrivono la storia col pugnale. Chi si appaga della superficie, legga i
Villani. Ma chi vuol conoscere le passioni, i costumi, i caratteri, la vita
interiore da cui escono i fatti, legga Dino.
Finora
non abbiamo creduto necessario di entrare nel vivo della storia, perchè gli
scrittori, o ascetici o cavallereschi o didattici, scrivono come segregati dal
mondo. Ma Dino vive nel mondo e col mondo; i fatti che racconta sono i fatti
suoi, parte della sua vita, e la sua Cronaca è lo specchio del tempo,
non nelle regioni astratte della scienza o nel fantastico della cavalleria e
dell'ascetica, ma nella realtà della vita pubblica.
I
partiti che straziavano Firenze con nomi venuti da Pistoia erano detti i Neri e
i Bianchi, gli uni capitanati da' Donati e gli altri da' Cerchi, famiglie
potentissime di ricchezza e di aderenze. Dante sperò di poter pacificare la
città, mandando in esilio i due più potenti e irrequieti capi delle due
fazioni, Corso Donati e Guido Cavalcanti. Venuto malato, il Cavalcanti fu
richiamato, ma non Corso Donati: di che si menò molto scalpore, massime che
Dante era Bianco e amico del Cavalcanti.
I
Neri erano guelfi puri, e si appoggiavano sui popolani e sul papa, vicino,
influente, e centro di tutti gl'intrighi e le cospirazioni guelfe. Bonifazio
ottavo, venuto dopo il giubileo in maggior superbia, avea chiamato a sè con
molte promesse Carlo di Valois, detto per dispregio “senza terra”, e mandatolo
a Firenze sotto colore di pacificare la città, ma col proposito di ristorarvi
la parte nera. Qui comincia il dramma, esposto con sì vivi colori dal nostro
Dino nel libro secondo.
Dante
si lasciò persuadere di andare legato a Roma. Si dice abbia detto: - Se io
vado, chi resta? - Restò il povero Dino. Certo, l'opera di Dante sarebbe stata
più utile a Firenze, dove lasciò il campo libero agli avversari. A Roma fu
tenuto con belle parole da Bonifazio e non concluse nulla.
Dino
comincia il racconto con stile concitato. Sembra un profeta o un predicatore
che tuoni sopra Gomorra o Gerosolima:
“Levatevi,
o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il ferro e il fuoco con le
vostre mani e distendete le vostre malizie. Non penate più: andate e mettete in
ruina le bellezze della vostra città. Spandete il sangue de' vostri fratelli,
spogliatevi della fede e dell'amore; nieghi l'uno all'altro aiuto e servigio.
Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? Pur quella del mondo rende
una per una... Non v'indugiate, o miseri: chè più si consuma un dì nella
guerra, che molti anni non si guadagna in pace, e piccola è quella favilla che
a distruzione mena un gran regno.”
Qui
non ci è l'uomo politico. Ci è la realtà vista da un aspetto puramente morale e
religioso, come gli ascetici; il concetto è lo stesso; la materia è diversa.
Considerata così, la realtà riesce al buon Dino altra che non pensava, e in
luogo di riconoscere il suo errore, se la prende con la realtà e la maledice. I
suoi errori nascono dal concetto falso che avea degli uomini e delle cose, sì
che divenne il trastullo degli uni e degli altri, perdette lo stato e fu
calunniato, come avviene a' vinti. Allora prende la penna, e li maledice tutti,
Neri e Bianchi, raccontando i fatti con tale ingenuità che se le male passioni
degli altri son manifeste, non è men chiara la sua soverchia bontà.
Mentre
gli ambasciatori armeggiano con Bonifazio, largo promettitore purchè “sia ubbidita
la sua volontà”, furono in Firenze eletti i nuovi signori, e Dino fu di quelli.
Piacque la scelta, perchè “uomini non sospetti e buoni, e senza baldanza, e
avevano volontà d'accomunare gli uffici, dicendo: - Questo è l'ultimo rimedio”.
Questo è il giudizio che porta Dino di sè e de' suoi colleghi. Ma i loro
avversari “n'ebbono speranza”, perchè li conosceano “uomini deboli e pacifici,
i quali sotto spezie di pace credeano leggiermente di poterli ingannare”. Che
buon Dino! Egli stesso pronunzia la sua sentenza.
I
Neri “a quattro e a sei insieme, preso accordo fra loro”, li andavano a
visitare e diceano: “Voi siete buoni uomini e di tali avea bisogno la nostra
città. Voi vedete la discordia de' cittadini vostri: a voi la conviene
pacificare, o la città perirà. Voi siete quelli che avete la balìa, e noi a ciò
fare vi profferiamo l'avere e le persone di buono e leale animo”. E benchè “di
così false profferte dubitassero, credendo che la loro malizia
coprissero con falso parlare”, pure Dino per commessione de' suoi compagni
rispose: “Cari e fedeli cittadini, le vostre profferte noi riceviamo
volentieri, e cominciar vogliamo a usarle: e richieggiamvi che voi ci
consigliate, e pogniate l'animo a guisa che la nostra città debba posare”. Che
scellerati! E che buoni uomini! Non si può meglio rappresentare la malizia
degli uni e l'innocenza degli altri. Scrivendo dopo i fatti, Dino si picchia il
petto e dice il mea culpa: “E così perdemmo il primo tempo,
perchè non ardimmo a chiudere le porte, nè a cessare l'udienza ai cittadini.
Demmo loro intendimento di trattar pace, quando si convenia arrotare i ferri”.
Poichè
si trattava la pace, i Bianchi smessero dalle offese e i Neri presero baldanza.
E Dino confessa questo primo effetto della sua bontà: “La gente, che tenea co'
Cerchi, ne prese viltà, dicendo: - Non è da darsi fatica, chè pace sarà. - E i
loro avversari pensavano pur di compiere le loro malizie”.
La
voce che Bonifazio ottavo si fosse chiarito contrario a' Cerchi e che Carlo di
Valois veniva in Firenze, dovea aver tanto imbaldanzito i Neri, che a costoro
pareva un atto di debolezza e di paura quello che in Dino era ispirato da
sincero amore di concordia. E quelle pratiche di pace spacciavano covare sotto
un tradimento. La forza materiale era ancora in mano di Dino; ma la forza
morale passava agli avversari, più audaci, e confidenti in vicina vittoria. Già
ci era un'altra aria in città. Non pur gl'indifferenti, ma anche noti seguaci
de' Cerchi mutavano lingua. Sicchè l'oratore di Carlo riferì che “la parte de'
Donati era assai innalzata e la parte de' Cerchi era assai abbassata”, veggendo
come dopo le sue parole “molti dicitori si levarono in piè affocati per dire e
magnificare messer Carlo”.
Dino,
volendo negare l'ingresso a Carlo e non osando prendere su di sè la cosa,
“essendo la novità grande”, si rimise al suffragio de' suoi concittadini. Fu un
plebiscito fatto dal debole e che riuscì in favore de' forti: solito costume
de' popoli, e il buon Dino nol sapea. I soli fornai si mostrarono uomini, dicendo
che “nè ricevuto, nè onorato fusse, perchè venìa per distruggere la città”.
Dino
credette trovare il rimedio, chiedendo a Carlo “lettere bollate, che non
acquisterebbe ... niuna giurisdizione, nè occuperebbe niuno onore della città
nè per titolo d'imperio, nè per altra cagione, nè le leggi della città
muterebbe, nè l'uso”. Dino pensava che Carlo non farebbe la lettera, e provvide
che il passo gli fosse negato e “vietata la vivanda”. Ma la lettera venne, e
“io la vidi e fecila copiare, e quando fu venuto, io lo domandai se di sua
volontà era scritta. Rispose: - Sì, certamente -”. Ora che Dino ha la lettera
in tasca, può viver sicuro.
E
gli viene “un santo e onesto pensiero, immaginando: Questo signore verrà, e
tutt'i cittadini troverà divisi, di che grande scandalo ne seguirà”. Onde li
rauna nella chiesa di San Giovanni, e loro fa un fervorino, perchè “sopra quel
sacrato fonte onde trassero il santo battesimo”, giurino buona e
perfetta pace. Le parole di Dino sono di quella eloquenza semplice e commovente
che viene dal cuore. In quei tempi di lotte così accese il sentimento della
concordia era tanto più vivo negli animi buoni e onesti, da Albertano a
Caterina. E non so che in Caterina si trovino parole nella loro semplicità così
affettuose come queste di Dino: “Signori, perchè volete voi confondere e
disfare una così buona città? Contro a chi volete pugnare? Contro a' vostri
fratelli? Che vittoria avrete? Non altro che pianto”.
Tutti
giurarono; e Dino aggiunge con amarezza: “I malvagi cittadini, che di tenerezza
mostravano lacrime, e baciavano il libro, ... furono i principali alla
distruzione della città”. Povero Dino! E si affligge il brav'uomo e si pente, e
“di quel sacramento molte lacrime sparsi, pensando quante anime ne sono dannate
per la loro malizia”.
Carlo
quintoenne, e diètrogli, dicendo che venìano a onorare il signore, lucchesi,
perugini, e Cante d'Agobbio e molti altri, a sei e dieci per volta, tutti
avversari de' Cerchi: e “ciascuno si mostrava amico”. Dino fece il ponte d'oro
al nemico che entra, contro il proverbio. E Carlo ebbe in Firenze milledugento
cavalli.
Che
fa Dino? Sceglie quaranta cittadini di amendue le parti, perchè provveggano
alla salvezza della terra. Ciò che ci era negli animi è qui scolpito in pochi
tratti: “Quelli che avevano reo proponimento, non parlavano; gli altri aveano
perduto il vigore. Baldino Falconieri, uom vile, dicea: - Signori, io sto bene,
perchè io non dormia sicuro”. Lapo Saltarelli, per riamicarsi il papa, ingiuria
la Signoria, e tiene in casa nascosto un confinato. Albertano del Giudice monta
in ringhiera, e biasima i signori. Pare coraggio civile, ed è viltà e
diserzione. I nemici tacciono. Gli amici ingiuriano, per farsi grazia.
Cominciano i tradimenti. “I priori scrissero al papa segretamente; ma tutto
seppe la parte nera, perocchè quelli che giurarono credenza non la tennono”.
Alfine
Dino si risolve ad accomunare gli uffici, parlando “umilmente e con gran
tenerezza” dello scampo della città. Ma era troppo tardi. I Neri non volevano
parte, ma tutto.
“E
Noffo Guidi parlò e disse: - Io dirò cosa che tu mi terrai crudele cittadino. -
E io li dissi che tacesse: e pur parlò, e fu di tanta arroganza, che mi domandò
che mi piacesse far la loro parte nell'ufficio, maggiore che l'altra; che tanto
fu a dire, quanto: - Disfa' l'altra parte - e me porre nel luogo di Giuda. E io
li risposi che innanzi io facessi tanto tradimento, darei i miei figliuoli a
mangiare a' cani.”
Carlo
quintoolea in mano i Signori, e li facea spesso invitare a mangiare. E quelli
si ricusavano, adducendo che la legge li costringea che fare non lo potevano;
ma era “perchè stimavano che contro a loro volontà li avrebbe
ritenuti”. Un giorno disse che in Santa Maria Novella fuori della terra volea
parlamentare, e che piacesse alla Signoria esservi. Dino vi mandò tre soli de'
compagni: “a' quali niente disse, come colui che non volea parole, ma sì
uccidere”.
“Molti
cittadini si dolsono con noi di quella andata, parendo loro che andassono al
martirio. E quando furono tornati, lodavano Dio, che da morte gli avea
scampati.”
Volevano,
se la Signoria vi fosse ita tutta, “ucciderli fuori della porta e correre la
terra per loro”. E Dino che facea?
C'è
un brano stupendo, che è una pittura. Vedi come Dino passava i giorni; la sua
incapacità e i suoi affanni:
“I
Signori erano stimolati da ogni parte. I buoni diceano che guardassero ben
loro, e la loro città. I rei li contendeano con quistioni. E tra le domande e
le risposte il dì se ne andava. I baroni di messer Carlo gli occupavano con
lunghe parole. E così viveano con affanno.”
Un
rimedio gli è suggerito da frate Benedetto: - Fate fare processione, e del
pericolo cesserà gran parte -. E Dino fece la processione, e molti lo
schernirono, dicendo che “meglio era arrotare i ferri”. E Dino conchiude,
parlando di sè e de' colleghi: “Niente giovò, perchè usarono modi pacifici, e
voleano essere repenti e forti. Niente vale l'umiltà contro alla grande
malizia”.
Tutto
ti è messo sott'occhio, come in una rappresentazione drammatica. Vedi i Neri in
istrada, corrompere, far gente, mostrare la loro potenza. Diceano:
“-
Noi abbiamo un signore in casa; il papa è nostro protettore; gli avversari
nostri non sono guerniti nè da guerra, nè da pace; danari non hanno; i soldati
non sono pagati. -”
E
misero in ordine “tutto ciò che a guerra bisognava, ... invitati molti villani
d'attorno e tutti gli sbanditi”. I Neri si armavano; i Bianchi no, perchè era
contro la legge, e Dino minacciava di punirli. E ora che scrive, a scolparsi
nota che fu per avarizia, perchè fece dire a' Cerchi: “- Fornitevi, e ditelo
agli amici vostri -”.
I
Neri, “conoscendo i nemici loro vili e che aveano perduto il vigore”, vengono
a' ferri. I Medici lasciano per morto Orlandi, un valoroso popolano. Si grida
a' priori: - Voi siete traditi, armatevi -.
Ecco
finalmente sventolare sulle finestre il gonfalone di giustizia. Molti vanno
nascosamente ... dal lato di parte nera. Ma traggono alla Signoria i soldati
che non erano corrotti, e altre genti, e amici a piè e a cavallo. Era il
momento di operare con vigore. Ma “i Signori non usi a guerra erano occupati da
molti che voleano essere uditi; e in poco stante si fe' notte”. Il podestà non
si fe' vivo. Il capitano non si mosse, come “uomo più atto a riposo e a pace
che a guerra.” “La raunata gente non consigliò”. Il giorno finì: e non si
concluse nulla, e la gente stanca se ne andò, e ciascuno pensò a se stesso. E
Dino cosa facea? Dava udienza.
I
Neri lusingavano e indugiavano i Bianchi con buone parole.
Li Spini diceano alli Scali:
“-
Deh! Perchè facciamo noi così? Noi siamo pure amici e parenti e tutti guelfi;
noi non abbiamo altra intenzione che di levarci la catena di collo, che tiene
il popolo a voi e a noi. E saremo maggiori che noi non siamo. Mercè per Dio,
siamo una cosa, come noi dovemo essere. - ... Quelli che riceveano tali parole,
s'ammollavano nel cuore, e i loro seguaci invilirono”.
I ghibellini,
credendosi abbandonati, si smarrirono, e gli sbanditi si avvicinavano alla
città. Come farli entrare? Carlo primonstava presso la Signoria, perchè si
desse a lui la guardia della città e delle porte: che farebbe de' malfattori
aspra giustizia. E sotto questo nascondea la sua malizia, nota l'arguto Dino.
Ma l'arguto Dino gli dà la guardia delle porte d'Oltrarno! Bisogna proprio
sentir lui:
“Le chiavi gli
furono negate, e le porte di Oltrarno gli furono raccomandate, e levati ne
furono i fiorentini, e furonvi messi i franciosi. E il cancelliere e il
manescalco di messer Carlo giurarono nelle mani a me Dino ricevente per lo comune....
E mai credetti che un tanto signore e della casa reale di Francia rompesse la
sua fede: perchè passò piccola parte della seguente notte che per la porta che
noi gli demmo in guardia, die' l'entrata a ... molti ... sbanditi.”
Fatta
la breccia, entrano gli altri. E i signori, venuta meno tutta la loro speranza,
“deliberarono, quando i villani fossero venuti in loro soccorso, prendere la
difesa.” Che erà quel prender tempo e non risolversi degli animi deboli. Furono
vinti senza combattere. Tutti si gettarono là dov'era la forza:
“I
malvagi villani gli abbandonarono... e i ... famigli li tradirono.... Molti
soldati si volsono a servire i loro avversari. Il podestà ... andava procurando
in aiuto di messer Carlo.”
Carlo
manda i suoi a' priori, “per occupare il giorno e il loro proponimento con
lunghe parole”. Giuravano che il loro signore si tenea tradito”, e che farebbe
la vendetta grande. - Tenete per fermo che se il nostro signore non ha cuore di
vendicare il misfatto a vostro modo, fateci levare la testa. - E ora che
scrive, Dino aggiunge: “E non giurò messer Carlo primol vero, perchè [Corso
Donati] di sua saputa venne”.
Carlo
è pronto ad armare i suoi cavalieri e vendicare il comune, ma ad un patto, che
si dieno a lui in custodia i più potenti uomini delle due parti. E Dino
consente.
“I
Neri vi andarono con fidanza, i Bianchi con temenza. Messer Carlo li fece
guardare; i Neri lasciò partire, ma i Bianchi ritenne presi quella notte senza
paglia e senza materasse, come uomini micidiali.”
Qui Dino non ne può più e
prorompe:
“O
buono re Luigi, che tanto temesti Iddio, ov'è la fede della real casa di
Francia, caduta per mal consiglio, non temendo vergogna? O malvagi consiglieri,
che avete il sangue di così alta corona fatto non soldato, ma assassino,
imprigionando i cittadini a torto, e mancando della sua fede, e falsando il
nome della real casa di Francia!”
L'indignazione
è uguale alla maraviglia del buon uomo. Come pensare che il sangue di san
Luigi, un Reale di Francia, fosse spergiuro e assassino?
Quando
non ci era più il rimedio, si corse al rimedio. Dino fa sonare la campana
grossa, che era un chiamare alle armi. Ma nessuno uscì: “La gente sbigottita
non trasse di casa i Cerchi. Non uscì uomo a cavallo, nè a pie armato”.
Anche
il cielo vi si mescola. Apparisce una croce vermiglia sopra il palagio de'
priori:
“Onde
la gente che la vide, e io che chiaramente la vidi, potemmo comprendere che Dio
era fortemente contro alla nostra città crucciato.”
La
città per sei giorni fu messa a ruba. In pochi tocchi ti sta innanzi il quadro:
“Gli
uomini che temeano i loro avversari si nascondeano per le case de' loro amici.
L'uno nimico offendea l'altro; le case si cominciavano ad ardere; le ruberie si
faceano, e fuggivansi gli arnesi alle case degl'impotenti. I Neri potenti
domandavano danaro a' Bianchi; maritavansi le fanciulle a forza; uccideansi
uomini; e quando una casa ardea forte, messer Carlo domandava: - Che fuoco è
quello? - Eragli risposto che era una capanna, quando era un ricco palazzo.”
I
priori, multiplicando il mal fare, e non avendo rimedio, lasciarono il
priorato. E venne al governo la parte nera.
Dino
fu il Pier Soderini di quel tempo, e fu a se stesso il suo Machiavelli. Nessuno
può dipingerlo meglio che non fa egli medesimo.
In
questa maravigliosa cronaca non ci è una parola di più. Tutto è azione, che
corre senza posa sino allo scioglimento. Ma è azione, dove paion fuori
caratteri e passioni. Un motto, un tratto è un carattere. Carlo, dopo di aver
tratto da' fiorentini molti danari, va a Roma e chiede danari a Bonifazio. - Ma
io ti ho mandato alla fonte dell'oro, - risponde il papa. È una risposta, che è
un ritratto dell'uno e dell'altro. I discorsi sono sostanziosi, incisivi, non
meno pittoreschi: vedi personaggi vivi, con la loro natura e i loro
intendimenti, e fanno più effetto che non le studiate e classiche orazioni
venute poi. Uomo d'impressione più che di pensiero, Dino intuisce uomini e cose
a prima vista, e ne rende la fisonomia che non la puoi dimenticare. Di
Bonifazio ottavo dice:
“Fu
di grande ardire e alto ingegno, e guidava la Chiesa a suo modo, e abbassava
chi non li consentia.”
Di Corso Donati fa questo
magnifico ritratto:
“Un
cavaliere della somiglianza di Catilina romano, ma più crudele di lui, gentile
di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore; adorno di belli costumi,
sottile d'ingegno, coll'animo sempre intento a mal fare (col quale molti
masnadieri si raunavano, e gran sèguito avea) molte arsioni e molte ruberie
fece fare;... molto avere guadagnò e in grande altezza salì. Costui fu messer
Corso Donati che per sua superbia fu chiamato il barone, che, quando passava
per la terra, molti gridavano: - Viva il barone. - E parea la terra sua. La
vanagloria il guidava e molti servigi facea.”
La
stessa sicurezza è nella rappresentazione delle cose. Rapido, arido, tutto
fatti, che balzan fuori coloriti dalle sue vivaci impressioni, dalla sua
maraviglia, dalla sua indignazione. Una cosa soprattutto lo colpisce, che “molte
lingue si cambiarono in pochi giorni”. Non vi si sa rassegnare, e li chiama ad
uno ad uno, e ricorda loro quello che diceano e quello che erano. Il mutarsi
dell'animo secondo gli eventi non gli potea entrare:
“Donato
Alberti, ... dove sono le tue arroganze, che ti nascondesti in una vile cucina?
O messer Lapo Salterelli, minacciatore e battitore de' rettori che non ti
serviano nelle tue quistioni, ove t'armasti? In casa i Pulci, stando nascoso,
... O messer Manetto Scali, che volevi esser tenuto sì grande e temuto, ove
prendesti le armi? ... O voi popolani, che desideravate gli ufici e succiavate
gli onori, e occupavate i palagi de' rettori, ove fu la vostra difesa? Nelle
menzogne, simulando e dissimulando, biasimando gli amici e lodando i nemici, solamente
per campare. Adunque piangete sopra voi e la vostra città.”
I
soliti fenomeni delle rivoluzioni brutali e ingenerose sono da lui
rappresentati con lo stesso accento di maraviglia, come di cose non viste mai,
e svegliano nel suo animo onesto una indignazione eloquente. Ed è da quei
sentimenti che è uscito questo capolavoro di descrizione:
“Molti
nelle pie opere divennero grandi, i quali avanti nominati non erano, e nelle
crudeli opere regnando, cacciarono molti cittadini e feciongli rubelli, e sbandeggiarono
nell'avere e nella persona. Molte magioni guastarono, e molti ne puniano,
secondo che tra loro era ordinato e scritto. Niuno ne campò che non fosse
punito. Non valse parentado nè amistà; nè pena si potea minuire, nè cambiare a
coloro a cui determinate erano. Nuovi matrimoni niente valsero, ciascuno amico
divenne nimico; i fratelli abbandonavano l'un l'altro, il figliuolo il padre,
ogni amore, ogni umanità si spense. ... Patto, pietà nè mercè in niuno mai si
trovò. Chi più dicea: - Muoiano, muoiano i traditori -, colui era il maggiore.”
Tra'
proscritti fu Dante. Condannato in contumacia, non rivide più la sua patria.
Ira, vendetta, dolore, disdegno, ansietà pubbliche e private, tutte le passioni
che possono covare nel petto di un uomo, lo accompagnarono nell'esilio. Chi ha
visto l'indignazione di Dino, può misurare quella di Dante.
Il priorato fu il principio della
sua rovina, com'egli dice, ma fu anche il principio della sua gloria. Non era
uomo politico; mancavagli flessibilità e arte di vita; era tutto un pezzo, come
Dino. Priore, volle procurare una concordia impossibile, e non riuscì che a
farsi ingannare da' Neri in Firenze e da Bonifazio in Roma. Esule, non valse a
mantenere quella preminenza che era debita al suo ingegno e alla sua virtù, si
lasciò soverchiare da' più audaci e arrischiati, e non potendo impedire e non
volendo accettare molti disegni, si segregò e si fece parte per se stesso.
Toltosi alle faccende pubbliche, ripiegatosi in sè, sviluppò tutte le sue forze
intellettive e poetiche.
Dopo
la morte di Beatrice erasi dato con tale ardore allo studio che la vista ne fu
debilitata. Finisce la Vita Nuova con la speranza “di dire di lei quello
che non fu mai detto di alcuna”. E fece di questo suo primo e solo amore “la
bellissima e onestissima figlia dell'Imperatore dell'universo, alla quale
Pitagora pose nome Filosofia”. Frutto di questi nuovi studi furono le sue
canzoni allegoriche e scientifiche.
Tra
questi studi nacque la seconda Beatrice, luce spirituale, unità ideale, l'amore
che congiunge insieme intelletto e atto, scienza e vita. Intelletto, amore,
atto, era questa la trinità, che fu il suo secondo amore, la sua filosofia.
Beatrice divenne un simbolo, e la poesia vanì nella scienza.
Quel
mondo lirico, che a noi pare troppo astratto, parve poco spirituale ai
contemporanei, che chiamavano “sensuale” quel primo amore di Dante, e poco
intendevano questo suo secondo amore. E Dante, per cessare da sè l'infamia e
per mostrare la dottrina “nascosa sotto figura di allegoria”, volle illustrare
e comentare le sue canzoni egli medesimo.
Era
dottissimo. Teologia, filosofia, storia, mitologia, giurisprudenza, astronomia,
fisica, matematica, rettorica, poetica, di tutto lo scibile avea notizia e non
superficiale: perchè di tutto parlò con chiarezza e con padronanza della
materia. Il disegno gli si allargò: al poeta tenne dietro lo scienziato; e
pensò di chiudere in quattordici trattati, quante erano le canzoni, tutta la
scienza nella sua applicazione alla vita morale. Un lavoro simile, che Brunetto
chiamò Tesoro, e altri chiamavano Fiore o Giardino, egli
chiamò Convito, quasi mensa dov'è imbandito “il pane degli angeli”, il
cibo della sapienza. Brunetto avea scritto il Tesoro in francese, gli
altri trattavano la scienza in latino. La prosa volgare era tenuta poco
acconcia a questa materia, massime dopo l'infelice versione dell'Etica di
Aristotile, fatta da un tal Taddeo, celebre medico, nominato “l'ippocratista”.
Bisogna vedere quante sottili ragioni adduce Dante per scusarsi di scrivere in
volgare. Celebra il latino come “perpetuo e non corruttibile”, e perchè “molte
cose manifesta concepute nella mente, che il volgare non può”, e perchè “il ...
volgare seguita uso e il latino arte”; onde il latino è “più bello, più
virtuoso e più nobile”. Ma appunto per questo il comento latino non sarebbe
stato “suggetto alle canzoni” scritte in volgare, ma “sovrano”, e il comento
per sua natura è servo e non signore, e dee ubbidire e non comandare. Ora il
latino non può ubbidire, perchè “comandatore” e sovrano del volgare. Oltrechè,
come può il latino comentare il volgare, non conoscendo il volgare? E che il
latino non è conoscente del volgare, si vede: “chè uno abituato di latino non
distingue, s'egli è d'Italia, lo volgare provenzale dal tedesco nè il tedesco lo
volgare italico o provenzale ”. Ecco le opinioni, le forme e le sottigliezze
della scuola. Questa novità di scrivere di scienza in volgare, che è come dare
a' convitati “pane di biado e non di formento”, gli pare così grande che a
difendersene spende otto capitoli, modello di barbarie scolastica. Lasciando
stare le sottigliezze, la sostanza è questa, ch'egli usa “il volgare di sì”,
perchè loquela propria e “delli suoi generanti”, e suo “introducitore”
nello studio del latino, e perciò “nella via di scienza, ch'è ultima
perfezione”. Scrisse in volgare le rime, il volgare usò “deliberando,
interpretando e quistionando”; dal principio della vita ebbe con esso
“benivolenza e conversazione”; il volgare è l'amico suo, dal quale non si sa
dividere. Coloro “fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza”,
che per “iscusarsi del non dire o dire male accusano e incolpano la materia,
cioè lo volgare proprio”. La plebe, o come dice egli, le “popolari persone”
cadono “nella fossa” di questa falsa opinione per poca discrezione: “per che
incontra che molte volte gridano: - Viva la loro morte - e: - Muoia la loro
vita -, purchè alcuno cominci”, e sono da chiamare “pecore, e non uomini”. Gli
altri vi caggiono per vanità o per vanagloria, o per invidia o per pusillanimità.
Questo disamare lo volgare proprio e pregiare l'altrui, gli pare un adulterio,
conchiudendo con queste sdegnose parole: “E tutti questi cotali sono gli
abbominevoli cattivi d'Italia, che hanno a vile questo prezioso volgare, lo
quale, se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto egli suona nella bocca
meretrice di questi adulteri”. E però egli scrive questo comento in volgare,
per fargli avere “in atto e palese quella bontade che ha in potere e occulto”,
mostrando che la sua virtù si manifesta anche in prosa, senza le accidentali
adornezze della rima e del ritmo, come donna “bella per natural bellezza e non
per gli adornamenti dell'azzimare e delle vestimenta”, e che altissimi e
novissimi concetti convenientemente, sufficientemente e acconciamente, “quasi
come per esso latino”, vi si esprimono. E finisce con queste profetiche parole:
“Questo sarà luce nuova, sole nuovo, il quale surgerà, ove l'usato tramonterà”.
Tanta
veemenza nell'accusare, tanto ardore nel magnificare può fare intendere quanto
radicata e sparsa era l'opinione degl'infiniti “ciechi”, com'egli li chiama,
che tenevano il volgare inetto alla prosa. E non ottenne l'intento. Il latino
continuò a prevalere: egli medesimo, lasciato a mezza via il Convito,
trattò in latino la rettorica e la politica, che insieme con l'etica era la
materia ordinaria dei trattati scientifici.
Il
libro De vulgari eloquio non è un fior di rettorica, quale si costumava
allora, un accozzamento di regole astratte cavate dagli antichi, ma è vera
critica applicata ai tempi suoi, con giudizi nuovi e sensati. La base di tutto
l'edifizio è la lingua nobile, aulica, cortigiana, illustre, che è dappertutto
e non è in alcuna parte, di cui ha voluto dare esempio nel Convito.
Questo ideale parlare italico è illustre, in quanto si scosta dagli elementi
locali, ove prendono forma i dialetti e si accosta alla maestà e gravità del
latino, la lingua modello. Voleva egli far del volgare quello che era il
latino, non la lingua delle persone popolari, ma la lingua perpetua e
incorruttibile degli uomini colti. Sogno assai simile a quello di una lingua
universale, fondata con procedimenti artificiali della scienza. Scegliere il
meglio di qua e di là e far cosa una e perfetta, sembra cosa facile e assai
conforme alla logica, ma è contro natura. Le lingue, come le nazioni, vanno
all'unità per processi lenti e storici; e non per fusioni preconcette, ma per
graduale assorbimento e conquista degli elementi inferiori. Il ghibellino che
dispregiava i dialetti comunali e voleva un parlare comune italico, di cui
abbozzava l'immagine, ti rivelava già lo scrittore della Monarchia.
Il
trattato, De Monarchia, è diviso in tre libri. Nel primo dimostra la
perfetta forma di governo essere la monarchia; nel secondo prova questa
perfezione essere incarnata nell'impero romano, sospeso, non cessato, perchè
preordinato da Dio; nel terzo stabilisce le relazioni tra l'impero e il
sacerdozio, l'unico imperatore e l'unico papa.
L'eccellenza
della monarchia è fondata sull'unità di Dio. Uno Dio, uno imperatore. Le
oligarchie e le democrazie sono “polizie oblique”, governi “per accidente”,
reggimenti difettivi. Fin qui tutti erano d'accordo, guelfi e ghibellini. Non
ci erano due filosofie: le premesse erano comuni ai due partiti.
E
tutti e due ammettevano la distinzione tra lo spirito e il corpo, e la
preminenza di quello, base della filosofia cristiana. E ne inferivano che nella
società sono due poteri, lo spirituale e il temporale, il papa e l'imperatore.
Il contrasto era tutto nelle conseguenze.
Se
lo spirito è superiore al corpo, dunque, conchiudeva Bonifazio ottavo, il papa
è superiore all'imperatore. “Il potere spirituale - dic'egli - ha il diritto
d'instituire il potere temporale e di giudicarlo, se non è buono. E chi
resiste, resiste all'ordine stesso di Dio, a meno ch'egli non immagini, come i
manichei, due princìpi, Ciò che sentenziamo errore ed eresia. Adunque ogni uomo
dee essere sottoposto al pontefice romano, e noi dichiariamo che questa
sottomissione è necessaria per la salute dell'anima”.
Filosofia chiara, semplice,
popolare, irresistibile per il carattere indiscusso delle premesse consentite
da tutti e per l'evidenza delle conseguenze. Quando lo spirito era il sostanziale
e il corpo in se stesso era il peccato, e non valea se non come apparenza o
organo dello spirito, cos'altro potevano essere i re e gl'imperatori, che erano
il potere temporale, se non gl'investiti dal papa, gli esecutori della sua
volontà? I guelfi, che, salve le franchigie comunali, ammettevano premesse e
conseguenze, erano detti “la parte di santa Chiesa”.
Dante
ammetteva le premesse, e per fuggire alla conseguenza suppone che spirito e
materia fossero ciascuno con sua vita propria, senza ingerenza nell'altro, e da
questa ipotesi deduce l'indipendenza de' due poteri, amendue “organi di Dio”
sulla terra, di diritto divino, con gli stessi privilegi, “due soli”, che
indirizzano l'uomo, l'uno per la via di Dio, l'altro per la via del mondo,
l'uno per la celeste, l'altro per la terrena felicità. Perciò il papa non può
unire i due reggimenti in sè, congiungere il pastorale e la spada; anzi, come
vero servo di Dio e immagine di Cristo, dee dispregiare i beni e le cure di
questo mondo, e lasciare a Cesare ciò che è di Cesare. L'imperatore dal suo
canto dee usar riverenza al papa, appunto per la preminenza dello spirito sul
corpo; e poichè il popolo è corrotto e usurpatore, e la società è viziosa e
anarchica, il suo uffizio è di ridurre il mondo a giustizia e concordia,
ristaurando l'impero della legge. Nè è a temere che sia tiranno, perchè nella
stessa sua onnipotenza troverà il freno a se stesso: perciò rispetterà le
franchigie de' comuni e l'indipendenza delle nazioni. Questa era l'utopia
dantesca o piuttosto ghibellina. Dante ne ha fatto un sistema e ne è stato il
filosofo.
Scendendo
alle applicazioni, Dante mostra nel secondo libro che la monarchia romana fu di
tutte perfettissima. La sua storia risponde alle tre età dell'uomo.
Nell'infanzia ebbe i re: adulta, e rettasi a popolo, con geste maravigliose,
una serie di miracoli che attestano la sua missione provvidenziale, si
apparecchiò alla età virile, ordinandosi a monarchia sotto Augusto, che san
Tommaso chiama vicario di Cristo, e che Dante, seguendo la tradizione
virgiliana, dice discendente da Enea fondatore dell'impero, per disegno divino.
E fu a quel tempo che nacque Cristo, e “fu suddito dell'impero”, e compì
l'opera della redenzione delle anime, mentre Augusto componeva il mondo in
perfetta pace.
Da
queste premesse storiche Dante conchiude che Roma per dritto divino dee essere
la capitale del mondo, e che giustizia e pace non può venire in terra se non
con la ristaurazione dell'impero romano, “la monarchia predestinata” di cui la
più bella parte il giardino, era l'Italia.
In
apparenza, questo era un ritorno al passato, ma ci era in germe tutto
l'avvenire: ci era l'affrancamento del laicato e l'avviamento a più larghe
unità. I guelfi si tenevano chiusi nel loro comune; ma qui al di là del comune
vedi la nazione, e al di là della nazione l'umanità, la confederazione delle
nazioni. Era un'utopia che segnava la via della storia.
Guelfi
e ghibellini aveano comune la persuasione che la società era corrotta e
disordinata, e chiedevano il paciere. La selva, immagine della corruzione, è un
punto di partenza comune a Brunetto guelfo e a Dante ghibellino. I guelfi
chiamavano paciere nelle loro discordie un legato del papa, come Carlo di
Valois, “che giostrò con la lancia di Giuda”, come dice Dante. I ghibellini
invocavano l'imperatore. E credesi che Dante abbia scritto questo trattato per
agevolare la via all'imperatore Arrigo settimo di Lucemburgo, sceso a
pacificare l'Italia e morto al principio dell'impresa, glorificato da Dante,
celebrato da Mussato, lacrimato da Cino. Non avevano ancora imparato, e guelfi
e ghibellini, che chiamar pacieri è mettersi a discrezione altrui, e che metter
l'ordine e salvar la società dalle fazioni è antico pretesto di tutt'i
conquistatori.
Dante scrisse lettere anche in latino.
Una ne scrisse appunto ad Arrigo nella sua venuta. Raccogliendo insieme le sue
opere latine, di cui la più originale è quella De vulgari eloquio, e
unendovi il Convito, si può avere un giusto concetto del suo lavoro
intellettuale.
Era
uomo dottissimo, ma non era un filosofo. Nè la filosofia fu la sua vocazione,
lo scopo a cui volgesse tutte le forze dello spirito. Fu per lui un dato, un
punto di partenza. L'accettò come gli veniva dalla scuola, e ne acquistò una
piena notizia. Seppe tutto, ma in nessuna cosa lasciò un'orma del suo pensiero,
posto il suo studio meno in esaminare che in imparare. Accoglie qualsiasi
opinione anche più assurda, e gran parte degli errori e de' pregiudizi di quel
tempo. Cita con uguale riverenza Cicerone e Boezio, Livio e Paolo Orosio,
scrittori pagani e cristiani. La citazione è un argomento. Il suo filosofare ha
i difetti dell'età. Dimostra tutto, anche quello che non è controverso; dà pari
importanza a tutte le quistioni. Ammassa argomenti di ogni qualità, anche i più
puerili; spesso non vede la sostanza della quistione, e si perde in minuterie e
sottigliezze. Aggiungi il gergo scolastico e le infinite distinzioni. Pure, se
fra tanti viottoli ti regge ire sino alla fine, troverai nella sua Monarchia
un'ampiezza ed unità di disegno ed una concordanza di parti, che ti fa
indovinare il grande architetto dell'altro mondo.
I
difetti delle opere latine sono comuni al Convito, e gl'intralciano lo
stile, e gl'impediscono quell'andamento naturale e piano del discorso, che
potea renderlo accessibile agl'illetterati, a' quali era destinato. La sua
teoria della lingua illustre lo allontana da quell'andare soave e semplice
della prosa volgare, e quando gli altri volgarizzano il latino, egli latinizza
il volgare, cercando nobiltà e maestà nelle perifrasi, ne' contorcimenti e
nelle inversioni. Usa una lingua ibrida, non italiana e non latina, spogliata
di tutte le movenze e attitudini vivaci del dialetto, e lontana da quella
dignità e misura, che ammira nel latino e a cui tende con visibile e infelice
sforzo. Se la natura gli avesse concesso un più squisito senso artistico,
avrebbe forse potuto essere fondatore della prosa. Ma gli manca la grazia, e
senti la rozzezza nello sforzo della eleganza. Salvo qualche raro intervallo,
che la passione lo scalda e lo fa eloquente, la sua prosa, come la sua lirica,
fa desiderare l'artista.
Vocazione
di Dante non fu la filosofia e non fu la prosa. Quello ch'egli cercava, non
potè realizzarlo come scienza e come prosa.
- Che cerchi? - Gli domandò un frate. Rispose:
- Pace. - E questo cercavano tutt'i contemporanei. Pace era concordia del regno
terrestre col regno celeste, dell'anima con Dio, il regno di Dio sulla terra. “Adveniat
regnum tuum.” Pace vera quaggiù non può essere; vera pace è in Dio, nel
mondo celeste; Beatrice morendo parea che dicesse: “Io sono in pace”. La vita è
una prova, un tirocinio, per accostarsi quanto si può all'ideale celeste e
meritarsi l'eterna pace.
Lo
scopo della vita è la salvazione dell'anima, la pace dell'anima nel mondo
celeste. Vivere è morire alla terra per vivere in cielo. La vita è la storia
dell'anima, è un “mistero”. Uscita pura dalle mani di Dio “che la vagheggia”, è
sottoposta quaggiù al male e al dolore, e non può tornare nella patria che purificata
di ogni macula terrestre. Per giungere a pace bisogna passare per tre gradi,
personificati ne' tre esseri, Umano, Spoglia e Rinnova, e a' quali rispondono i
tre mondi, inferno, purgatorio e paradiso. Il “mistero” o la storia finisce al
primo grado, quando l'anima sopraffatta dall, Umano e vinta nella sua battaglia
col demonio viene in potere di questo: è la tragedia dell'anima, la tragedia di
Fausto, prima che Goethe, ispirato da Dante, lo avesse riscattato. Ma quando
l'anima vince le tentazioni del demonio, e si spoglia e si purga dell'Umano,
hai la sua glorificazione nell'eterna pace: hai la “commedia” dell'anima.
Questo è il mistero, ora tragedia, ora commedia, secondo che prevale l'umano o
il divino, il terrestre o il celeste, che giace in fondo a tutte le
rappresentazioni e a tutte le leggende di quell'età. Messo in iscena, era detto
“rappresentazione”: narrato. Era “leggenda” o “vita”, esposto in figura era
“allegoria”, rappresentato in modo diretto e immediato, era “visione”; anzi le
due forme si compenetravano, e spesso l'allegoria era una visione, e la visione
era allegorica. Allegorie, visioni, leggende, rappresentazioni erano diverse
forme di questo mistero dell'anima, del quale i teologi erano i filosofi, e i
predicatori erano gli oratori, che aggiungevano spesso alla dottrina l'esempio,
qualche leggenda o visione, com'è nello Specchio di vera penitenza. Il
mistero dell'anima era in fondo tutta una metafisica religiosa, che comprendeva
i più delicati e sostanziali problemi della vita, e produceva una civiltà a sè
conforme. Ci entrava l'individuo e la società, la filosofia e la letteratura.
La
letteratura volgare in senso prettamente religioso si stende per due secoli da
Francesco di Assisi e Iacopone sino a Caterina. L'Allegoria dell'anima,
la rappresentazione del Giovane monaco, l'Introduzione alle virtù,
la Commedia dell'anima sono in forma letteraria la teoria di questo
mistero, che nelle lettere di Caterina raggiunge la sua perfezione dottrinale,
ed acquista la sua individuazione o realtà storica ne' Fioretti, nelle
leggende e nelle visioni del Cavalca e del Passavanti.
Ma
questa letteratura era senza eco nella classe colta da cui esce l'impulso della
vita intellettuale. Dante spregiava il latino della Bibbia, come privo di
dolcezza e di armonia. Quello scrivere così alla buona e come si parla era
tenuto barbarie e rozzezza. Vagheggiavano una forma di dire illustre e nobile,
prossima alla maestà del latino, della quale Dante die' nel Convito un
saggio poco felice. Nè potea piacere quella semplicità di ragionamento con
tanta scarsezza di dottrina ad uomini che uscivano dalle scuole con tanta
filosofia in capo, con tanta erudizione sacra e profana. Ma se aveano in poco
conto quella letteratura, giudicata povera e rozza, non era diverso il concetto
che essi avevano della vita. I teologi filosofavano e i filosofi
teologizzavano. La rivelazione rimaneva integra nelle sue basi essenziali,
ammesse come assiomi indiscutibili. Tali erano l'unità e personalità di Dio,
l'immortalità dello spirito e lo scopo della vita oltre terreno.
Ma
se il concetto era lo stesso, la materia era più ampia, abbracciando la
coltura, oltre la Bibbia e i santi Padri, quanto del mondo antico era noto, e
la forma era più libera, paganizzando sotto lo scudo dell'allegoria e voltando
il linguaggio cristiano nelle formole di Aristotile e Platone.
Il
regno di Dio chiamavano regno della filosofia. E realizzare il regno di Dio era
conformare il mondo a' dettati della filosofia unificare intelletto e atto. Il
mediatore era l'Amore, principio delle cose divine e umane, e non l'amore
sensuale, ch'era peccato, ma un amore intellettuale, l'amore della filosofia.
Il frutto dell'amore è la sapienza, che non è puro intelletto, ma intelletto e
atto congiunti, la virtù. Il regno di Dio in terra era dunque il regno della
virtù, o come dicevano, della giustizia e della pace. A realizzare questo regno
erano istrumenti i due Soli, i due organi di Dio, il papa e l'imperatore. La
politica era l'arte di realizzare questo regno della giustizia e della pace,
rendendo gli uomini virtuosi e felici. Il criterio politico era puramente
etico, come s'è visto in Albertano giudice, in Egidio Colonna, in Mussato, in
Dino Compagni. All'effettuazione di questo regno etico concorreva la tradizione
virgiliana; perchè Virgilio era un testo non meno rispettabile che la Bibbia. E
si attendeva la monarchia predestinata da Dio, la ristorazione dell'impero
romano.
In
questi due secoli abbiamo due letterature quasi parallele, e persistenti l'una
accanto all'altra: una schiettamente religiosa, chiusa nella vita
contemplativa, circoscritta alla Bibbia e a' santi Padri, e che ha per
risultato inni e cantici e laude, rappresentazioni, leggende, visioni, e
l'altra che vi tira entro tutto lo scibile e lo riduce a sistema filosofico, e
abbraccia i vari aspetti della vita, e dà per risultato somme, enciclopedie,
trattati, cronache e storie, sonetti e canzoni. Tra queste due letterature erra
la novella e il romanzo, eco della cavalleria, rimasti senza seguito e senza
sviluppo, quasi cosa profana e frivola.
Gli
uomini istrutti si studiavano di render popolare la cultura, specialmente nella
sua parte più accessibile e pratica, l'etica e la morale. Indi le tante
versioni e raccolte di precetti etici sotto nome di Fiori, Giardini, Tesori,
Ammaestramenti. Un tentativo di questo genere fu il Tesoretto.
Nella
prima parte della lirica dantesca hai la storia ideale della santa, nella sua
purezza soppresso il demonio e le tentazioni della carne. È il mistero
dell'anima così come è rappresentato nella Commedia dell'anima. L'anima,
che uscita pura dalle mani di Dio, dopo breve pellegrinaggio ritorna in cielo
bellezza spirituale, o luce intellettuale, è Beatrice; e Beatrice è la santa
della gente colta, è la donna platonica e innominata de' poeti, battezzata e
santificata.
Nella
seconda parte Beatrice è la filosofia, che riceve la sua esplicazione
dottrinale nelle Canzoni e nel Convito. La poesia va a metter
capo nella pura scienza, nell'esposizione scolastica di un mondo morale,
dell'etica.
La
letteratura popolare va a finire nelle lettere dottrinali e monotone di
Caterina: il suo difetto ingenito è l'astrazione dell'ascetismo. La letteratura
dotta va a finire nelle sottigliezze scolastiche del Convito: il suo
difetto intrinseco è l'astrazione della scienza. Tutte e due hanno una malattia
comune, l'astrazione, e la sua conseguenza letteraria, l'allegoria.
Ma
il mondo di Dante non potea rimaner chiuso in questi limiti, o piuttosto non
era questo il suo mondo naturale e geniale, conforme alle qualità del suo
spirito e del suo genio, e ci sta a disagio. La sua forza non è l'ardore della
ricerca e della investigazione, che è il genio degli spiriti speculativi. La
scienza è per lui un dogma: il cervello rimane passivo in quelle scolastiche esposizioni.
Avea troppa immaginazione, perchè potesse rimaner nell'astratto, e studia più a
figurarlo e colorirlo che a discuterlo e interrogarlo. La fantasia creatrice,
il vivo sentimento della realtà, le passioni ardenti del patriota disingannato
e offeso, le ansietà della vita pubblica e privata, non poteano avere
appagamento in quella regione astratta della scienza, che pur gli era tanto
cara. Sentiva il bisogno meno di esporre che di realizzare. E volle realizzare
questo regno della scienza o regno di Dio che tutti cercavano, farne un mondo
vivente.
Il
mondo è una selva oscura, corrotto dal vizio e dall'ignoranza. Rimedio è la
scienza, secondo i cui princìpi dovrebb'esser conformato. La scienza è il mondo
ideale, non qual è, ma quale dee essere. Questo ideale si trova realizzato
nell'altra vita, nel regno di Dio, conforme alla verità e alla giustizia.
Perciò ad uscir dalla selva non ci è che una via, la contemplazione e la
visione dell'altra vita. Per questa via l'anima, superate le battaglie del
senso e purificatasi, ha la sua pace, la sua eterna commedia, la beatitudine.
Da
questo concetto semplice e popolare uscì la contemplazione o visione, detta la Commedia,
rappresentazione allegorica del regno di Dio, il “mistero dell'anima” o la “Commedia
dell'anima.”
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