VII
LA COMMEDIA
Chi mi ha seguito vede che la “Divina
Commedia” non è un concetto nuovo, nè originale, nè straordinario, sorto
nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo maravigliato. Anzi il suo
pregio è di essere il concetto di tutti, il pensiero che giaceva in fondo a
tutte le forme letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, trattati,
tesori, giardini, sonetti e canzoni. L'Allegoria dell'anima e la Commedia
dell'anima sono gli schemi, le categorie, i lineamenti generali di questo
concetto.
Nel
Convito la sostanza è l'etica, che Dante cerca di rendere accessibile
agl'illetterati, esponendola in prosa volgare. Qui il problema è rovesciato. La
sostanza sono le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno al mistero
dell'anima, il concetto di tutt'i misteri e di tutte le leggende, ed è in
questo quadro che Dante gitta tutta la coltura di quel tempo. Con questa felice
ispirazione, pigliando a base della coltura le tradizioni e le forme popolari,
riunisce le due letterature, che si contendevano il campo, intorno al comune
concetto che le ispirava, il mistero dell'anima. La rappresentazione e la
leggenda esce dalla sua rozza volgarità e si alza a' più alti concepimenti
della scienza; la scienza esce dal santuario e si fa popolo, si fa mistero e
leggenda. Indi l'immensa popolarità di questo libro, che gl'illetterati
accettavano nel senso letterale e i dotti comentavano come un libro di scienza,
come la Somma di san Tommaso. Il popolo vedeva in quei versi quel
medesimo che sentiva nelle prediche, nelle divozioni e rappresentazioni, nè è
maraviglia che qualcuno guardando Dante con quella faccia pensosa e come
alienata, dicesse: - Costui par veramente uscito ora dall'inferno. - Gli
eruditi si affannavano a cercare il senso de' versi strani, e il Boccaccio
iniziava quella serie di comenti che spesso in luogo di squarciare il velo lo
fanno più denso.
In
effetti la Divina Commedia è una visione dell'altro mondo allegorica.
Cristianamente, la visione e la contemplazione dell'altra vita è il dovere del
credente, la perfezione. Il santo vive in ispirito nell'altro mondo; le sue
estasi, le sue visioni si riferiscono alla seconda vita, a cui sospira. Dante
accetta questa base ascetica, popolarissima: contemplare e vedere l'altro mondo
è la via della salvazione. Per campare dalla selva del vizio e dell'ignoranza,
egli si getta alla vita contemplativa, vede in ispirito l'altro mondo e narra
quello che vede. Questo è il motivo ordinario di tutte le visioni, è la storia
di tutt'i santi, è il tema di tutt'i predicatori, è la lettera della Commedia,
visione dell'altro mondo, come via a salute. Ma la visione è allegoria. L'altro
mondo è allegoria e immagine di questo mondo, è in fondo la storia o il mistero
dell'anima ne' suoi tre stati, detti nell'Allegoria dell'anima Umano,
Spoglia, Rinnova, che rispondono a' tre mondi, Inferno, Purgatorio e Paradiso.
È l'anima intenebrata dal senso, nello stato puramente umano, che spogliandosi
e mondandosi della carne si rinnova, ritorna pura e divina. Questa allegoria
era popolare e comune non meno che la lettera. Ciascuno vedeva un po' l'altro
mondo con l'occhio di questo mondo, con le sue passioni e interessi. I
predicatori, soprattutto nella descrizione delle pene infernali, cercavano
immagini delle passioni terrene. Il mistero dell'anima era la base di tutte le
invenzioni, la leggenda delle leggende. L'uomo, caduto nell'errore e nella
miseria, che finisce o vendendo l'anima al demonio o purgandosi e salvandosi,
era il fondamento di tutte le storie popolari, come s'è visto nell'Introduzione
alle virtù e nella Commedia dell'anima.
La Commedia dell'anima è
l'anima uscita dalle mani di Dio pura, che in terra combatte le sue battaglie
con la carne e col demonio, e vince assistita dalla grazia di Dio. Vizi e virtù
combattono, come gli dei di Omero, intorno all'anima; le virtù vincono e
l'anima è salva. Nell'Introduzione alle virtù è un giovane caduto in
miseria, a cui apparisce confortatrice la Filosofia, sua maestra e signora, e
gli mostra la battaglia de' Vizi e delle Virtù; e il giovane, spregiando i beni
terrestri, si leva al cielo. La filosofia è anche la divina consolatrice di
Boezio, così popolare, e di Dante, a cui dopo la morte di Beatrice apparve
questa “nobilissima figlia dell'Imperatore dell'universo”, facendolo suo amico
e servo. Il vizio e l'ignoranza, la conversione per opera di Dio o della
filosofia, la redenzione e beatificazione, visione di Dio e della scienza, era
il luogo comune delle due letterature, de' semplici e degli uomini colti. E
Dante fonde insieme le due forme, e tira nella sua allegoria filosofia e
teologia, ragione e grazia, Dio e scienza, e fa un mondo armonico, assegnando a
ciascuno il suo luogo. L'anima nell'inferno e nel purgatorio, non essendo
uscita ancora dal terreno ha a guida il lume naturale, la ragione o la
filosofia; ma la ragione è insufficiente senza la grazia di Dio: fatta libera e
monda e leggiera, ha nel paradiso maestra la grazia o la teologia, luce
intellettuale, che le mostra la scienza senza velo, o Dio nella sua essenza.
Perchè
l'altro mondo è allegorico, figura dell'anima nella sua storia, il poeta è
sciolto da' vincoli liturgici e religiosi e spazia nel mondo libero
dell'immaginazione. Prendendo a base le tradizioni e le forme cristiane,
adopera alla sua costruzione tutt'i materiali della scienza, sacra e profana, e
le tradizioni e favole del mondo pagano, mescolando insieme Enea e san Paolo,
Caronte e Lucifero, figure classiche e cristiane. Così ha realizzato quel mondo
universale della coltura, tanto desiderato dalle classi colte e fino allora
tentato invano, cristiano nel suo spirito e nella sua lettera, ma dove già
penetra da tutte le parti il mondo antico. Mescolanza che in molti
contemporanei pare strana e grottesca, legittimata qui dall'allegoria, che
concede al poeta libertà di forme ch'egli creda più acconce a significare i
suoi concetti. Il mondo pagano e la scienza profana sono qui materiali di
costruzione, usati a edificare un tempio cristiano, a quel modo che colonne
egizie e greche si veggono talora nelle costruzioni moderne divenire simbolo e
figure de' nuovi tempi e delle nuove idee. Così a questa costruzione gigantesca
prendon parte tutte le età e tutte le forme, fuse insieme e battezzate,
penetrate da un solo concetto, il concetto cristiano.
L'ordito
è semplicissimo: è la storia o mistero dell'anima nella sua espressione
elementare, come si trova nella rappresentazione della Commedia dell'anima;
e l'hai già tutta e chiara innanzi, fin dal primo canto. Dante nel giorno del
Giubileo, quando Bonifazio facea mostra di tutta la sua possanza e il mondo
cristiano si raccoglieva intorno a lui, si trova smarrito in una selva oscura,
e sta per soggiacere all'assalto delle passioni, figurate nella lonza, il leone
e la lupa, quando a camparlo dal luogo selvaggio esce Virgilio, e lo mena seco
a contemplare l'inferno e il purgatorio, ove, confessati i suoi falli, guidato
da Beatrice, sale in paradiso e di luce in luce giunge alla faccia di Dio.
Allegoricamente, Dante è l'anima, Virgilio è la ragione, Beatrice è la grazia,
e l'altro mondo è questo mondo stesso nel suo aspetto etico e morale, è l'etica
realizzata, questo mondo quale dee essere secondo i dettati della filosofia e
della morale, il mondo della giustizia e della pace, il regno di Dio.
Dante
è l'anima non solo come individuo, ma come essere collettivo, come società
umana, o umanità. Come l'individuo, così la società è corrotta e discorde, e
non può aver pace se non instaurando il regno della giustizia o della legge,
riducendosi dall'arbitrio de' molti sotto unico moderatore. E qui entra la
tradizione virgiliana: la monarchia prestabilita da Dio, fondata da Augusto,
discendente di Enea, e Roma per diritto divino capo del mondo. Questo concetto
politico non è intruso e soprapposto, ma è, come si vede, lo stesso concetto
etico, applicato all'individuo e alla società. È tale la medesimezza, che la
stessa allegoria si può interpretare in un senso puramente etico, per rispetto
all'individuo, e in un senso politico, per rispetto alla società. E non è
perciò maraviglia che la stessa materia si presti con tanta docilità alle più
diverse interpretazioni.
Se
l'allegoria ha reso possibile a Dante una illimitata libertà di forme, gli
rende d'altra parte impossibile la loro formazione artistica. Dovendo la figura
rappresentare il figurato, non può essere persona libera e indipendente, come
richiede l'arte, ma semplice personificazione o segno d'idea, sicchè non
contenga se non i tratti soli che hanno relazione all'idea, a quel modo che il
vero paragone non esprime di se stesso se non quello solo che sia immagine
della cosa paragonata. L'allegoria dunque allarga il mondo dantesco, e insieme
lo uccide, gli toglie la vita propria e personale, ne fa il segno o la cifra di
un concetto a sè estrinseco. Hai due realtà distinte, l'una fuori dell'altra,
l'una figura e adombramento dell'altra, perciò amendue incompiute e astratte.
La figura, dovendo significare non se stessa, ma un altro, non ha niente
d'organico e diviene un accozzamento meccanico mostruoso, il cui significato è
fuori di sè, com'è il grifone del Purgatorio, l'aquila del Paradiso,
e il Lucifero, e Dante con le sette “P” incise sulla fronte.
La poesia non
s'era ancora potuta sciogliere dall'allegoria. Il cristianesimo in nome del Dio
spirituale facea guerra non solo agl'idoli, ma anche alla poesia, tenuta
lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità. E verità era filosofia o storia:
la verità poetica non era compresa. La poesia era stimata un tessuto di
menzogne, e “poeta” e “mentitore”, come dice il Boccaccio, era la stessa cosa;
i versi erano chiamati, come dice san Girolamo, “cibo del diavolo”. La poesia
perciò non fu accettata se non come simbolo e veste del vero: l'allegoria fu
una specie di salvacondotto, pel quale potè riapparire fra gli uomini. Erano
detti “poeti solenni”, a distinzione de' “popolari”, i dotti che esprimevano in
poesia la dottrina sotto figura, o in forma diretta. Dante definisce la poesia
“banditrice del vero”, sotto “il velame della favola ascoso”, di modo che il lettore
“sotto alla dura corteccia, sotto favoloso e ornato parlare, trovi salutari e
dolcissimi ammaestramenti”. La poesia è in sè una “bella menzogna”, che non ha
alcun valore, se non come figura del vero.
Con
questa falsa poetica, di cui abbiamo visto l'influenza ne' nostri lirici, Dante
lavora sopra idee astratte: trova una serie di concetti, e poi ti forma una
serie corrispondente di oggetti. Le menti erano assuefatte a questo processo, a
correre al generale. Il campo ordinario della filosofia scolastica era l'Ente
con tutte le altre generalità, e la pratica del sillogismo avea avvezzi tutti,
anche i poeti, a cercare in ogni cosa la maggiore, la proposizione generale.
Ora quel mondo di concetti è la maggiore dell'altro mondo.
Quali
sieno questi concetti, io dirò quasi con le stesse parole di Dante.
La
patria dell'anima è il cielo, e come dice Dante, discende in noi da altissimo
abitacolo. Essa partecipa della natura divina.
L'anima,
uscendo dalle mani di Dio, è “semplicetta”, “sa nulla”; ma ha due facoltà
innate, la ragione e l'appetito, “la virtù che consiglia”, e l'esser “mobile ad
ogni cosa che piace”, l'esser “presta ad amare”.
L'appetito
(affetto, amore) la tira verso il bene. Ma nella sua ignoranza non sa
discernere il bene, segue la sua falsa immagine e s'inganna. L'ignoranza genera
l'errore, e l'errore genera il male.
Il male o il
peccato è posto nella materia, nel piacere sensuale.
Il bene è
posto nello spirito: il sommo Bene è Dio, puro spirito. L'uomo dunque, per
esser felice, dee contrastare alla carne e accostarsi al sommo Bene, a Dio. A
questo fine gli è stata data la ragione come consigliera: indi nasce il suo
libero arbitrio e la moralità delle sue azioni.
La
ragione per mezzo della filosofia ci dà la conoscenza del bene e del male. Lo
studio della filosofia è perciò un dovere, è via al bene, alla moralità. La
moralità è la “bellezza della filosofia”: è l'etica, “regina delle scienze”,
“il primo cielo cristallino”.
A
filosofare è necessario amore. L'Amore (appetito) può esser sementa di bene e
di male, secondo l'oggetto a cui si volge. Il falso amore è “appetito non
cavalcato dalla ragione”. Il vero amore è studio della filosofia, “unimento
spirituale dell'anima con la cosa amata”.
Filosofia
è “amistanza a sapienza”, amicizia dell'anima con la sapienza. Nelle nature
inferiori l'amore è “sensibile dilettazione”. Solo l'uomo, come “natura
razionale, ha amore alla verità e alla virtù” (alla filosofia). Ciò è vera
felicità, che per contemplazione della verità si acquista.
In
questi concetti si trova il succo della morale antica. Già i filosofi pagani
aveano mostrato la filosofia come unico porto fra le tempeste della vita: esser
filosofo significava e significa anche oggi resistere alle passioni ed a'
piaceri, vincer se stesso, serbare l'eguaglianza dell'animo nelle umane
vicissitudini.
Ma ecco ora
sopraggiungere il cristianesimo.
L'umanità
per il peccato d'origine cadde in servitù dei sensi (del male o del peccato), e
la ragione e l'amore non furono più sufficienti a salvarla. La ragione andava a
tentoni e menava all'errore; “i filosofi andavan e non sapevan dove”; l'amore
rimaso senza “rettore” divenne appetito sensuale. Era necessaria una redenzione
soprannaturale. Dio si fece uomo e redense l'umanità, offrendosi vittima espiatoria
per lei.
Mediante
questo sacrificio, la ragione è stata avvalorata dalla fede, l'amore avvalorato
dalla grazia, la filosofia è stata compiuta dalla teologia, la rivelazione.
Redenta
l'umanità, ciascun uomo ha acquistato la virtù di salvarsi con l'aiuto di Dio.
Guidato dalla ragione e dalla fede, fortificato dall'amore e dalla grazia, può
affrancarsi da' sensi e levarsi di mano in mano sino a Dio, al sommo Bene.
Questo
cammino dalla materia o dal peccato sino allo spirito o al bene comprende tutto
il circolo della morale o etica. La conoscenza della morale (naturale e
rivelata, filosofia e teologia) è perciò necessaria a salute.
La
morale è il “Nosce te ipsum”, la conoscenza di se stesso. L'uomo si
trova in questa vita in uno de' tre stati di cui tratta la morale, stato di
peccato, stato di pentimento, stato di grazia.
L'altro
mondo è figura della morale. L'inferno è figura del male o del vizio; il
paradiso è figura del bene o della virtù; il purgatorio è il passaggio dall'uno
all'altro stato mediante il pentimento e la penitenza. L'altro mondo è perciò
figura de' diversi stati ne' quali l'uomo si trova in questa vita.
La
rappresentazione dell'altro mondo è dunque un'etica applicata, una storia
morale dell'uomo, com'egli la trova nella sua coscienza. Ciascuno ha dentro di
sè il suo inferno e il suo paradiso.
Il
viaggio nell'altro mondo è figura dell'anima nel suo cammino a redenzione. Ed è
Dante stesso che fa questo viaggio.
Si
trova in una selva oscura (stato d'ignoranza e di errore, la selva erronea del Convito),
vede il dilettoso colle, principio e cagione di tutta gioia (la beatitudine),
illuminato dal sole che mena dritto altrui per ogni calle (la scienza), ma tre
fiere (la carne, gli appetiti sensuali) gli tengono il passo. L'uomo da sè non
può salire il calle, non può giungere a salute: viene dunque il deus ex
machina, l'aiuto soprannaturale. Si richiede non solo ragione, ma fede, non
solo amore, ma grazia. Virgilio (ragione e amore) lo guida, insino a che,
confesso e pentito e purgato d'ogni macula terrena, succede Beatrice (ragione
sublimata a fede, amore sublimato a grazia). Con questo aiuto esce dallo stato
d'ignoranza e di errore (la selva), e prende il cammino della scienza (l'altro
mondo, il mondo etico e morale). Gli si affaccia prima l'inferno (l'anima nello
stato del male) e conosce il male nella sua natura, nelle sue specie, ne' suoi
effetti (vedi canto XI). Entra allora in purgatorio (pentimento ed espiazione),
dove ancor vive la memoria e l'istinto del male, e conosciuto il suo stato,
pentito e mondo, diventa libero (dalla carne o dal peccato). Si trova allora
ricondotto allo stato d'innocenza, nel quale era l'uomo avanti il peccato
d'origine, e vede il paradiso terrestre e vede Beatrice (fede e grazia) Con la
sua guida sale in paradiso (l'anima nello stato di beatitudine), di grado in
grado si leva sino alla conoscenza e amore (contemplazione beatifica) di Dio,
del sommo Bene, e in questa mistica congiunzione dell'umano e del divino si
riposa (è beato).
La
redenzione della società ha luogo nello stesso modo che degl'individui. La
società serva della materia è anarchia, discordia sviata dall'ignoranza e
dall'errore. E come l'uomo non può ire a pace, se non vinca la carne ed
ubbidisca alla ragione, così la società non può ridursi a concordia, se non
presti ubbidienza ad un supremo moderatore (l'imperatore) che faccia regnare la
legge (la ragione), guida e freno dell'appetito.
Con
questo fondo generale si lega tutto lo scibile di quel tempo, metafisica,
morale, politica, storia, fisica, astronomia, ecc
Il
centro intorno a cui gira questa vasta enciclopedia è il problema dell'umana
destinazione che si trova in fondo a tutte le religioni e a tutte le filosofie,
il mistero dell'anima, pensiero della letteratura volgare sotto tutte le sue
forme. Il problema è posto ed è sciolto cristianamente. L'umanità ha perduto ed
ha racquistato il paradiso; questa storia epica di Milton è l'antecedente del
problema. L'umanità ha racquistato il paradiso, cioè ciascun uomo ha acquistato
la forza di salvarsi. Ma in che modo? Qual è la via di salvazione? La Commedia
è la risposta a questa domanda, la soluzione del problema.
Il
cristianesimo ne' primi tempi di fervore rispondea: - L'uomo si salva, imitando
Cristo che ha salvato l'umanità, si salva con l'amore. Bisogna volger le spalle
alla vita terrena e seguire Dio, lui amare, lui contemplare. - Di qui la
preminenza della vita contemplativa, che Dante chiama eccellentissima e simile alla
vita divina. Il che dovea menar dritto alla visione estatica, alla comunione
tra l'anima e Dio, al misticismo, tanta parte della letteratura volgare. Gli
uomini stanchi del mondo cercavano pace e obblio nei monasteri, e nutrivano
l'anima del pensiero della morte, della meditazione dell'altra vita; i santi
Padri esortano spesso i fedeli a volger la mente all'altro mondo; anche oggi le
prediche, i libri ascetici, i libri di preghiera non sono che un continuo “Memento
mori”; è famoso il “Pensa, anima mia”, frase formidabile, a cui il lettore
vede già in aria venir dietro il giudizio universale e le fiamme dell'inferno.
Se le cose di quaggiù sono caduche e “nulla promission rendono intera”, se il
significato serio della vita è nell'altro mondo, se là è il vero, è la realtà:
l'Iliade, il poema della vita è la Commedia, la storia dell'altro
mondo.
In
quei primi tempi la scienza non è necessaria a salute, anzi i cristiani
menavano vanto della loro ignoranza: “Beati pauperes spiritu”. Avendo
per avversari gli uomini più dotti del paganesimo, rispondevano ex
abundantia cordis, con la sicurezza e l'eloquenza della fede, la loro
lingua di fuoco. Ma questo amore di cuori semplici, che spesso umiliava
l'orgoglio di una scienza vòta e arida, non bastò più appresso. Aristotele
dominava nelle scuole; la scienza si era introdotta nella teologia e ne avea
fatto un cumulo di sottigliezze: lo stesso misticismo avea preso forme
scientifiche, divenuto ascetismo, scienza della santificazione, in Agostino,
Bernardo e Bonaventura. L'Amore dunque prende un contenuto, diviene scienza, e
la loro unità è la filosofia, uso amoroso di sapienza.
La
scienza però non contraddice, non annulla, anzi fortifica e dimostra lo stesso
concetto della vita. Anche per Dante la santificazione è posta nella
contemplazione; l'oggetto della contemplazione è Dio; la beatitudine è la
visione di Dio; al sommo della scala de' beati mette i contemplanti, non gli
operanti; ma per giungere all'unione con Dio non basta volere, bisogna sapere,
ci vuole la sapienza che è amore e scienza, unità del pensiero e della vita.
Perciò Virgilio non può esser ragione, che non sia anche amore, e Beatrice non
può esser fede, che non sia anche grazia; Dante stesso conosce e vuole a un
tempo; ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del volere. L'intelletto
è in cima della scala: l'amore dee essere inteso, se ne dee avere intelletto.
Tale
è la soluzione dantesca. A quattro secoli di distanza il problema si
ripresenta, ma i termini sono mutati. Il punto di partenza non è più
l'ignoranza, la selva oscura, ma la sazietà e vacuità della scienza,
l'insufficienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva. La sapiente
Beatrice si trasforma nell'ignorante e ingenua Margherita; e Fausto non
contempla ma opera; anzi il suo male è stato appunto la contemplazione, lo
studio della scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle fresche onde
della vita. Ma al tempo di san Tommaso la ragione entrava appena nella sua
giovinezza; sorgea da lungo ozio, curiosa, credula, acuta, tanto più
confidente, quanto meno esperta della misura di sè e delle cose; le si
domandava tutto e prometteva tutto. Dovea ella darci la pietra filosofale del
mondo morale, la felicità. Lo scopo della scienza non era speculativo
solamente, ma pratico. Nell'ordine speculativo era già conseguito il suo scopo,
divenuta per Dante un libro chiuso, di cui tutte le pagine sono scritte. Ma la
scienza dee operare anche sulla volontà, menare a virtù e felicità. E se questo
miracolo non era ancora avvenuto, se la realtà era tanto disforme alla scienza,
doveasene recare la cagione, secondo Dante e i contemporanei, all'ignoranza.
Bisognava dunque volgarizzare la scienza, darle uno scopo morale, drizzarla
all'opera. Indi l'importanza che ebbe l'etica e la rettorica, la scienza de'
costumi e l'arte della persuasione.
I
tentativi fatti, compreso il Convito, furono infelici. Trattandosi di
verità da esporre e non da cercare, manca lo spirito e l'ardore scientifico,
manca in tutti, anche in Dante. La stessa esposizione non è libera,
predeterminata da forme scolastiche. Da queste condizioni non potea uscire una
letteratura filosofica, quella forma, propria degli uomini meditativi, che ti
rivela non solo l'idea, ma come in te nasce, come la si presenta, con esso i
sentimenti che l'accompagnano, pregna di altre idee, le quali per la potenza
comprensiva della parola intravvedi, ancora senza contorni, mobili, nasciture.
Qui sta la vita superiore della forma filosofica, generata immediatamente dal
travaglio del pensiero, che mette in moto tutte le altre facoltà, compresa
l'immaginazione. In quei tentativi il contenuto scientifico ci sta, non nel
punto che tu lo trovi e vi metti sopra la mano, ma già trovato, divenuto nello
spirito un antecedente non esaminato, tolto pesolo e grezzo dalla scuola. La
terra si manifesta meglio al coltivatore che al proprietario. Dante sa di avere
i tali fondi, ma non ci va, non entra in comunione con quelli, non vive della
vita de' campi, non li lavora, li conosce sulla carta. Rimane una proprietà astratta,
senza effettiva possessione, senza assimilazione, un mio che non è me, non è
fatto parte dell'anima mia. Non ci è investigazione e non ci è passione, dico
la passione che è generata da un amoroso lavoro intellettuale. Il filosofo fora
la superficie e si seppellisce nel mondo sotterraneo, dove, come dice
Mefistofele, stanno le profonde radici della scienza. Ma qui la scienza è
salita sulla superficie, e se ne coglie i frutti senza fatica. Tutto è dato, la
scienza con esso le sue prove e il suo linguaggio; sì che, ferme e intangibili
le parti superiori della scienza, non riman libera che l'ultima e più bassa
operazione dell'intelletto, distinguere e sottilizzare.
Essendo
la scienza base di tutto l'edificio, ne seguitò quella falsa poetica di cui è
detto. La letteratura solenne e dotta divenne un istrumento della scienza, un
modo di volgarizzarla. E tenne due vie, l'esposizione diretta o l'allegorica.
Nè altro fu l'intendimento di Dante nella rappresentazione dell'altro mondo.
Come que' filosofi che sotto nome di utopia costruiscono un mondo dove sia
realizzato il loro sistema, Dante costruisce il mondo allegorico della scienza,
dove pur trova modo di esporla in forma diretta nelle sue parti sostanziali.
Egli
ha aria di dire: - Volete salvarvi l'anima? Venite appresso a me nell'altro
mondo; ivi impareremo dalla bocca de' morti la filosofia morale, la scienza
della salvazione. - E i morti parlano ed espongono la scienza, soprattutto in
paradiso, i cui stalli sembrano convertiti in vere cattedre o pulpiti. Nè la
scienza è solo nelle parole de' morti, ma anche nella costruzione e
rappresentazione dell'altro mondo, dove essa è sposta sotto figura, in forma
allegorica. Il sistema insegue il poeta in mezzo a' suoi fantasmi, e dice: -
Bada che tu non passeggi per curiosità, per osservare e dipingere: il tuo scopo
è l'insegnamento della scienza per la salute dell'anima; non ti dimenticare
della scienza. - E la poetica gli soggiunge: - Pensa che tutte le tue
invenzioni, belle che sieno e maravigliose, sono nè più nè meno che sciocche
bugie, quando non rendano odore di scienza: la poesia è un velo sotto il quale
si dee nascondere la dottrina. - Ond'è che il poeta costringe la stessa realtà
a produrre un contenuto scientifico: dietro la realtà ci è la scienza, come dietro
l'ombra ci è il corpo; qui la scienza è il corpo, e la realtà è l'ombra,
“ombrifero prefazio del vero”, anzi è meno che ombra, perchè nell'ombra ci è
pure l'immagine del corpo. È l'alfabeto della scienza, come la parola è del
pensiero, un alfabeto composto non di lettere, ma di oggetti, ciascuno segno
della tale e tale idea.
Questi
erano i concetti, e queste le forme, a cui lo spirito era giunto. Perciò quel
concetto fondamentale dell'età, il mistero dell'anima o dell'umana
destinazione, non era ancora realizzato come arte; perchè l'arte è realtà
vivente, che abbia il suo valore e il suo senso in se stessa, e qui la scienza,
in luogo di calare nel reale ed obbliarvisi, lo tira e lo scioglie in sè.
Il
mistero dell'anima era dunque o rozza e greggia realtà nella letteratura
popolare, o trattato e allegoria nella letteratura dotta e solenne.
Dante
s'impadronì di questo concetto e tentò realizzarlo come arte. Ma ci si mise con
le stesse intenzioni e con le stesse forme. Prese quella rozza realtà degli
ascetici, e volle farne l'ombrifero prefazio del vero, l'allegoria della
scienza. Da questa intenzione non potea uscir l'arte.
Neppure
l'esposizione della scienza in forma diretta è arte. Il poeta che vuole esporre
la scienza, e vuol pur fare una poesia, si propone un problema assurdo, voler
dare corpo a ciò che per sua natura è fuori del corpo. La poesia si riduce
dunque a un puro abbigliamento esteriore, non penetra l'idea, non se
l'incorpora; l'idea rimane invitta nella sua astrazione. Dante spiega in questo
assunto tutte le forze della sua immaginazione; nessuno più di lui ha saputo
con tanta potenza assalire la scienza nel proprio campo e farle forza; ma
questo connubio della poesia e della scienza, ch'egli chiama nel Convito
un “eterno matrimonio”, non è uno di due, è un eterno due. La poesia può farle
preziosi doni, può vestirla sontuosamente, ingemmarla, girarle attorno
carezzevole, può abbigliarla, non possederla. E la possiede allora solamente,
quando non la vede più fuori di sè, perchè è divenuta la sua vita e anima, la
realtà.
L'allegoria
è una prima forma provvisoria dell'arte. È già la realtà, che però non ha
valore in se stessa, ma come figura, il cui senso e il cui interesse è fuori di
sè, nel figurato, oggetto o concetto che sia. E poichè nel figurato ci è
qualche cosa che non è nella figura, e nella figura ci è qualche cosa che non è
nel figurato, la realtà divenuta allegorica vi è necessariamente guasta e
mutilata. O il poeta le attribuisce qualità non sue, ma del figurato come il
veltro che si ciba di sapienza e di virtude, o esprime di lei solo alcune
parti, e non perchè sue, ma perchè si riferiscono al figurato, come il grifone
del Purgatorio. In tutti e due i casi la realtà non ha vita propria, o
per dir meglio non ha vita alcuna: l'interesse è tutto nel figurato, nel
pensiero. Ora, o il pensiero è oscuro, e cessa ogni interesse; o è dubbio, di
maniera che ti si affaccino più sensi, e tu rimani sospeso e raffreddato; o è
chiaro, e lo hai innanzi nella sua generalità, senza carattere poetico. La
selva è figura della vita terrena. E la vita terrena, appunto perchè figurato,
ti si porge spoglia di ogni particolare, per cui e in cui è vita, generale e
immobile come un concetto. Questo povero figurato è condannato, come Pier delle
Vigne, a guardarsi il suo corpo penzolare innanzi senza che mai sen rivesta; e
non propriamente suo, perchè quel corpo singolare, che chiamasi figura, serve a
due padroni, è sè ed un altro, è insieme lettera e figura, un corpo a due
anime, rappresentato in guisa, che prima paia se stesso, la selva, e
considerato attentamente mostri in sè le orme di un altro. Talora la figura fa
dimenticare il figurato; talora il figurato strozza la figura. Per lo più nel
senso letterale penetrano particolari estranei che lo turbano e lo guastano, e
per volerci procurare un doppio cibo ci si fa stare digiuni.
Adunque
in queste forme non ci è ancora arte. La realtà ci sta o come immagine del
pensiero astratto ed estrinseco, o come figura di un figurato parimente
astratto ed estrinseco. Non ci è compenetrazione dei due termini. Il pensiero
non è calato nell'immagine; il figurato non è calato nella figura. Hai forme
iniziali dell'arte non hai ancora l'arte.
Dante
si è messo all'opera con queste forme e con queste intenzioni. Se l'allegoria
gli ha dato abilità a ingrandire il suo quadro e a fondere nel mondo cristiano
tutta la coltura antica, mitologia, scienza e storia, ha d'altra parte viziato
nell'origine questo vasto mondo, togliendogli la libertà e spontaneità della
vita, divenuto un pensiero e una figura, una costruzione a priori,
intellettuale nella sostanza, allegorica nella forma.
E
se la Commedia fosse assolutamente in questi termini, sarebbe quello che
fu il Tesoretto prima e il Quadriregio poi, grottesca figura
d'idee astratte.
Ma
dirimpetto a quel mondo della ragione astratta viveva un mondo concreto e
reale, la cui base era la storia del vecchio e nuovo Testamento nella sua
esposizione letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri, nei
cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea avuta già tutta una
letteratura. Era la letteratura degli uomini semplici, poveri di spirito. A
costoro la via a salute era la contemplazione non di esseri allegorici,
figurativi della scienza ma reali; Dio, la Vergine, Cristo, gli angioli, i
santi, l'inferno, il purgatorio, il paradiso; ciò che essi chiamavano l'altra
vita, non figura di questa, anzi la sola che essi chiamavano realtà e verità.
Il contemplante o il veggente era il santo, il profeta, l'apostolo, banditore
della parola di Dio; Dante, l'amico della filosofia, contemplando il regno
divino, se ne fa non solo il filosofo, ma il profeta e l'apostolo, rivelandolo
e predicandolo agli uomini; diviene il missionario dell'altro mondo, ed è san
Pietro che gli apre la bocca e lo investe della sacra missione:
Apri
la bocca,
e non asconder quel ch'io non
ascondo.
Ora questo mondo cristiano, di
cui si faceva il profeta, era per lui una cosa così seria, come per tutt'i credenti,
seria nel suo spirito e nella sua lettera. Ne parla col linguaggio della
scienza, lo intravvede attraverso la scienza, ma la scienza non lo dissolveva,
anzi lo illustrava e lo confermava. Supporre che esso fosse una figura, una
forma trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici, è un anacronismo, è
un correre sino a Goethe. La scienza penetra in questo mondo come ragionamento
o come allegoria, e spiega la sua costruzione e il suo pensiero, a quel modo
che il filosofo spiega la natura. E come la natura, così l'altro mondo è per
Dante più che figura, è vivace e seria realtà, che ha in se stessa il suo
valore e il suo significato.
Nè
quel mondo cristiano rimane nella sua generalità religiosa, com'è nei cantici,
nelle prediche e ne' misteri e leggende. Dalla vita contemplativa cala nella
vita attiva e si concreta nella vita reale. Essendo la perfezione religiosa nel
dispregio de' beni terreni, i credenti, da Francesco d'Assisi a Caterina, non
poteano vedere con animo quieto i costumi licenziosi de' chierici e de' frati,
la corruzione della città santa, dove Cristo si mercava ogni giorno, il papa
divenuto sovrano temporale e dominato da fini e interessi terreni, in tresca
adultera co' re. Su questo punto i santi sono così severi, come Dante; più avean
fede, e maggiore era l'indignazione. Venendo più al particolare, abbiam visto
Bonifazio legarsi con Filippo il Bello contro l'imperatore, ciò che Dante
chiama un adulterio, inviare Carlo di Valois a Firenze, cacciarne i Bianchi,
instaurarvi i guelfi. Il guelfismo era allora la Chiesa, fatta meretrice del re
di Francia, che la trasse poco poi in Avignone, divenuta pietra di scandalo e
aizzatrice di tutte le discordie civili. Come potere e interesse temporale, era
essa non solo radice e causa della corruzione del secolo, ma impedimento alla
costituzione stabile delle nazioni, e massime d'Italia, in quella unità civile
o imperiale, che rendea immagine dell'unità del regno di Dio. A questo mondo
guasto contrapponevano la purezza de' tempi evangelici e primitivi e il vivere
riposato e modesto delle città, prima che vi entrasse la corruzione e la
licenza de' costumi, di cui la Chiesa dava il mal esempio.
Come
si vede, il mondo politico entrava per questa via nel mondo cristiano, e ne
facea parte sostanziale. La politica non era ancora una scienza con fini e
mezzi suoi: era un'appendice dell'etica e della rettorica. E come vita reale il
suo modello era il mondo cristiano, di cui si ricordava un'immagine pura in
tempi più antichi, una specie di età dell, oro della vita cristiana.
Questo
mondo cristiano-politico non era già per Dante una contemplazione astratta e
filosofica. Mescolato nella vita attiva, egli era giudice e parte. Offeso da
Bonifazio, sbandito da Firenze, errante per il mondo tra speranze e timori, fra
gli affetti più contrari, odio e amore, vendetta e tenerezza, indignazione e
ammirazione, con l'occhio sempre volto alla patria che non dovea più vedere, in
quella catastrofe italiana c'era la sua catastrofe, le sue opinioni
contraddette, la sua vita infranta nel fiore dell'età e offesi i suoi
sentimenti di uomo e di cittadino. Le sue meditazioni, le sue fantasie mandano
sangue. Non è Omero, contemplante sereno e impersonale; è lui in tutta la sua
personalità, vero microcosmo, centro vivente di tutto quel mondo, di cui era
insieme l'apostolo e la vittima.
Se
dunque, come filosofo e letterato, involto nelle forme e ne' concetti dell'età,
volea costruire un mondo etico o scientifico in forma allegorica, come entra in
quel mondo, non vi trova più la figura. Simile a quel pittore che s'inginocchia
innanzi al suo san Girolamo, trasformatasi nell'immaginazione la figura
nella persona del santo, egli cerca la figura e trova una realtà piena di vita,
trova se stesso.
Oltre
a ciò, Dante era poeta. Invano afferma che “poeta” vuol dire “profeta”,
banditore del vero. Sublime ignorante, non sapea dov'era la sua grandezza. Era
poeta e si ribella all'allegoria. La favola, ciò ch'egli chiama “bella
menzogna”, lo scalda, lo soverchia, e vi si lascia ir dietro come innamorato,
nè sa creare a metà, arrestarsi a mezza via. Nel caldo dell'ispirazione non gli
è possibile starsi col secondo senso innanzi e formar figure mozze, che vi
rispondano appuntino, particolare con particolare, accessorio con accessorio,
come riesce a' mediocri. La realtà straripa, oltrepassa l'allegoria, diviene se
stessa; il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari.
Indi la disperazione de' comentatori: egli fece il suo mondo, e lo abbandonò
alle dispute degli uomini.
Per
metter d'accordo la sua poetica con la sua poesia, Dante sostiene nel Convito
che il senso letterale dee essere indipendente dall'allegorico, di modo che sia
intelligibile per se stesso. Con questa scappatoia si è salvato dalle strette
dell'allegoria, ed ha conquistato la sua libertà d'ispirazione, la libertà e
indipendenza delle sue creature. Sia pure l'altro mondo figura della scienza;
ma è prima e innanzi tutto l'altro mondo, e Virgilio è Virgilio, e Beatrice è
Beatrice, e Dante è Dante, e se di alcuna cosa ci dogliamo, è quando il secondo
senso vi si ficca dentro e sconcia l'immagine e guasta l'illusione.
Sicchè
nella Commedia, come in tutt'i lavori d'arte, si ha a distinguere il
mondo intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta ha voluto e ciò che
ha fatto. L'uomo non fa quello che vuole, ma quello che può. Il poeta si mette
all'opera con la poetica, le forme, le idee e le preoccupazioni del tempo; e
meno è artista, più il suo mondo intenzionale è reso con esattezza. Vedete
Brunetto e Frezzi. Ivi tutto è chiaro, logico e concorde: la realtà è una mera
figura. Ma se il poeta è artista, scoppia la contraddizione vien fuori non il
mondo della sua intenzione, ma il mondo dell'arte.
Come
l'argomento siasi affacciato a Dante non è chiaro. Le memorie secrete del genio
non sono scritte ancora e mal si può indovinare da quello che è espresso quello
che è preceduto nello spirito d'un autore. È difficile far la geologia di un
lavoro d'arte, trovare nel definitivo le tracce del provvisorio. È probabile che
la Commedia sia stata vagamente concepita fin dalla giovinezza, ad
imitazione di quelle “commedie dell'anima”, di quelle visioni dell'altra vita,
così in voga; e che dapprima il poeta pensasse solo alla glorificazione di
Beatrice e alla rappresentazione pura e semplice dell'altro mondo; e forse de'
frammenti e anche de' canti furono scritti prima che un disegno ben chiaro e
concorde gli entrasse in mente. Questo è il tempo oscuro alla critica e
altamente drammatico, il tempo de' tentennamenti, del silenzioso contendere con
se stesso, degli abbozzi, del va e vieni, storia intima del poeta. Il quale,
quando gli si mostra l'argomento, vede per prima cosa dissolversi quella parte
di realtà che vi risponde, fluttuante come in una massa di vapori guardata da alto,
dove gli alberi, i campanili, i palazzi, tutte le figure si decompongono e si
offrono a frammenti. Chi non ha la forza di uccidere la realtà, non ha la forza
di crearla. Ma sono frammenti già penetrati di virtù attrattiva, amorosi, che
si cercano, si congregano, con desiderio, con oscuro presentimento della nuova
vita a cui sono destinati. La creazione comincia veramente, quando quel mondo
tumultuario e frammentario trovi un centro intorno a cui stringersi. Allora
esce dall'illimitato che lo rende fluttuante, e prende una forma stabile;
allora nasce e vive, cioè si sviluppa gradatamente secondo la sua essenza. Ora
il mondo dantesco trovò la sua base nella idea morale.
La
idea morale non è concetto arbitrario ed estrinseco all'argomento, è insito
nell'altro mondo, è il suo concetto; perchè senza di quella l'altro mondo non
ha ragion d'essere. La base dunque è vera, è nell'argomento; e se difetto c'è,
il difetto è nella natura dell'argomento. Ma Dante meditandovi sopra, e non
come poeta ma come filosofo, valicò l'argomento. Non è contento che la ci sia,
ma la mostra e la spiega. E non si contenta neppure di questo. Quella idea
diviene la filosofia, tutto un sistema di concetti ben coordinato, e non è più
la base, il senso interiore dell'altro mondo a quel modo che lo spirito è nella
natura, ma è essa il contenuto, essa l'argomento, essa lo scopo. Così quella
vivace realtà si va ad evaporare in una generalità filosofica, e il lavoro
diviene un insegnamento morale-politico sotto il velo dell'altro mondo. Il poeta
spontaneo e popolare si volta nel poeta dotto e solenne. Descrivere l'altro
mondo così alla semplice e nel suo senso immediato gli pare un frivolo
passatempo, la maniera de' narratori volgari. La lettera ci è, ma è per i
profani, per gli uomini semplici, che non vedono di là dell'apparenza. Ma egli
scrive per gl'iniziati, per gl'intelletti sani, e loro raccomanda di non
fermarsi alla corteccia, di guardare di là! E tutti si son messi a guardare di
là.
Così
sono nati due mondi danteschi, uno letterale e apparente, l'altro occulto, la
figura e il figurato. E poichè l'interesse è in questo senso occulto, in questo
di là, i dotti si son messi a cercarlo. L'hanno cercato, e non l'hanno trovato,
e dopo tante dispute e vane congetture, esce infine il buon senso, esce
Voltaire e dice: “Gl'italiani lo chiamano divino ma è una divinità
occulta; pochi intendono i suoi oracoli; la sua fama si manterrà sempre, perchè
nessuno lo legge”. E Voltaire vuol dire: - Abbiamo sudato parecchi secoli per
capirti; e poichè non ti vuoi far capire, statti con Dio -. E vuol dire ancora:
- Ne val poi la pena? È una falsa divinità quella che rimane nascosta -. Pure
nè il veto del Voltaire valse ad arrestare le ricerche, nè il suo
disprezzo ad intiepidire l'ammirazione. Con nuovo ardore italiani e stranieri
si misero a interpretare questo Giano a due facce o piuttosto a due mondi,
l'uno visibile e l'altro invisibile; ciascuno si provò ad alzare un lembo del
velo di cui si è ravvolto il dio. Ma nè acutezza d'ingegno, nè copia di dottrina,
nè profonda conoscenza di quei tempi, nè studio paziente delle altre sue opere
hanno potuto trarci fuori delle ipotesi e delle congetture. Gli antichi
interpreti dissentivano ne' particolari; il dissenso de' moderni è più
profondo: hai interi sistemi che si confutano a vicenda. Oggi ancora non si
pubblica un Dante in Germania, che non ci si appicchino nuove spiegazioni; non
puoi leggere una critica della Commedia, che non ti trovi ingolfato in
un pelago di quistioni. Dante è divenuto un nome che spaventa, irto di
sillogismi e soprasensi, e spesso sei ridotto a domandarti: - Qual è il vero
Dante? - Poichè ciascun comentatore ha il suo, ciascuno gli appicca le opinioni
e passioni sue, e lo fa cantare a suo modo, e chi ne fa un apostolo di libertà,
di umanità, di nazionalità, chi un precursore di Lutero, chi un santo Padre.
Cercano Dante dove non è, cercano i suoi pregi dove sono i suoi difetti, e qual
maraviglia che il Lamartine alla sua volta cercandolo colà e non vel trovando,
si sia affrettato a conchiudere: “Dunque Dante non esiste”? Io ne conchiudo: -
Poichè non è là, cerchiamolo altrove. - La grandezza del dio non è nel
santuario, ma là dove si mostra con tanta pompa al di fuori. A forza di cercar
maraviglie in un mondo ipotetico, non vediamo quelle che ci si affacciano
innanzi. Parlando a coro della dignità della Commedia e de' veri e del
senso arcano, si è data una importanza fattizia a questo mondo
intellettuale-allegorico, se non fosse per altro, per la fatica che ci si è
spesa. Se Dante tornasse in vita, sentendo a dire che Beatrice è l'eresia o la
sua anima, che le arpie sono i monaci domenicani, che Lucifero è il papa, che
il suo vocabolario è un gergo settario, e vedendo quanti sensi occulti gli sono
affibbiati, potrebbe a più d'uno tirargli le orecchie e dire: - Cotesto “arri”
non ci misi io -. Ma gli si potrebbe rispondere: - Vostra colpa: perchè non
siete stato più chiaro? Ci avete promessa un'allegoria: perchè non ci avete
data un'allegoria? La vostra figura non risponde appuntino al figurato: perchè
l'avete fatta sì bella? Perchè le avete data tanta realtà? In tanta ricchezza
di particolari dove o come trovare l'allegoria? E qual maraviglia che la stessa
figura significhi una per me e una per voi? Qual maraviglia che nella stessa
figura si trovi di che provare la verità di tre o quattro interpretazioni? E ci
fosse solo un senso! Ma ci fate sapere che, oltre all'allegorico, ci è il senso
morale e l'anagogico: dove trovare il bandolo? I vostri ascetici gridano che il
corpo è un velo dello spirito: ma il peccatore fa di cappello allo spirito e
adora la carne. E anche voi gridate che i versi sono un velo della dottrina; e,
come il peccatore, piantate lì il figurato, e correte appresso alla figura, e
la fate così impolpata, così corpulenta, che è un velo denso e fitto, di là dal
quale non si vede nulla, e perciò si vede tutto, quello che intendete voi e
quello che intendiamo noi. Se dunque la vostra allegoria è come l'ombra di
Banco, messa tra voi e noi, che ci toglie la vostra vista, se il vostro poema è
divenuto un immenso geroglifico, un mondo ignoto, alla cui scoperta si son
messi infruttuosamente molti Colombi; di chi è la colpa? Non è forse della
vostra poca logica, che altro intendete e altro fate? - Rimproveri che sono un
elogio.
Così
è. Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva. Ciascuno è
quello che è, anche a suo dispetto, anche volendo essere un altro. Dante è
poeta, e avviluppato in combinazioni astratte, trova mille aperture per farvi
penetrare l'aria e la luce. Tratto ad una falsa concezione dal vezzo de' tempi,
valica l'argomento e si trova in un mondo di puri concetti, e fa di questi la
sua intenzione e si tira appresso tutta la realtà e ne vuol fare la figura de'
suoi concetti. Ma, come attinge il reale, ivi sente se stesso, ivi genera, ivi
l'ingegno trova la sua materia; quelle figure prendono corpo, acquistano una
vita propria; e le diresti creature libere e indipendenti, se quella benedetta
intenzione non vi fosse rimasa attaccata come una palla di piombo, impacciando
a volta a volta i loro movimenti. Così quel mondo intenzionale, tanto caro al
poeta, si è ito come nebbia dissipando innanzi alla luce del mondo reale, solo
rimasto vivo. Tutto l'altro è l'astratto di quel mondo, è il lavoro
oltrepassato: non è la Commedia, è il suo di là, la sua nebbia, che pur
penetra qua e là e lascia delle grandi ombre, che gl'interpreti dilatano
e trasformano in una sola e vasta ombra. A quel modo che i geologi scoprono i
vestigi di forme imperfette, che attestano la lenta e progressiva formazione
della materia, qui si discernono i frammenti di un mondo prosaico,
intellettuale, allegorico, scissi, isolati, sterili, più o meno tollerabili,
secondo la maggiore o minore abilità dell'esposizione, inviluppati in una forma
più alta, alla quale il genio sospinge il poeta attraverso gli errori della sua
poetica. I quali frammenti sono i fossili della Commedia, morti già da
gran tempo, vivi solo agli eruditi, i geologi della letteratura; e se la loro
morte non ha potuto seco involgere il rimanente, gli è che il vero lavoro è in
questo rimanente, dotato di una vita così fresca e tenace, che distende un po'
di sua luce anche sulle parti morte. Quel contenuto astratto vive in grazia del
mondo in cui si trova entrato: spiccatenelo, isolatelo, e non se ne parlerebbe
più.
Che
cosa è dunque la Commedia? È il medio evo realizzato come arte, malgrado
l'autore e malgrado i contemporanei. E guardate che gran cosa è questa! Il
medio evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario dell'arte. La religione
era misticismo la filosofia scolasticismo. L'una scomunicava l'arte, abbruciava
le immagini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale. L'altra viveva di
astrazioni e di formole e di citazioni, drizzando l'intelletto a sottilizzare
intorno a' nomi e alle vacue generalità che si chiamavano “essenze”. Gli
spiriti erano tirati verso il generale, più disposti a idealizzare che a
realizzare: ciò che è proprio il contrario dell'arte. Ne' poeti semplici trovi
il reale rozzo, senza formazione, come ne' misteri, nelle visioni, nelle
leggende. Ne' poeti solenni trovi una forma o crudamente didascalica, o
figurativa e allegorica. L'arte non era nata ancora. C'era la figura; non c'era
la realtà nella sua libertà e personalità.
Dante
raccoglie da' misteri la Commedia dell'anima, e fa di questa storia il
centro di una sua visione dell'altro mondo. Tutta questa rappresentazione non è
che senso letterale; la visione è allegorica, i personaggi sono figure e non
persone; ma ciò che è attivo nel suo spirito, lo porta verso la figura e non
verso il figurato. La sua natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze
teologiche e scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi e lo
costringe a concretare, a materializzare, a formare anche ciò che è più spirituale
e impalpabile, anche Dio. Quel mondo letterale lo ammalia, lo perseguita, lo
assedia e non posa che non abbia ricevuta la sua forma definitiva; e non è più
lettera, ma è spirito, non è più figura, ma è realtà, è un mondo in sè compiuto
e intelligibile, perfettamente realizzato. Visione e allegoria, trattato e
leggenda, cronache, storie, laude, inni, misticismo e scolasticismo, tutte le
forme, in questo gran mistero dell'anima o dell'umanità, poema universale, dove
si riflettono tutt'i popoli e tutti i secoli che si chiamano il “medio evo”.
Ma
questo mondo artistico, uscito da una contraddizione tra l'intenzione del poeta
e la sua opera, non è compiutamente armonico, non è schietta poesia. La falsa
coscienza poetica disturba l'opera di quella geniale spontaneità, e vi gitta
dentro un tentennare, un non so che di mal sicuro e di non compiuto, una
mescolanza e crudezza di colori. Il pensiero, ora nella sua crudità scolastica,
ora abbellito d'immagini che pur non bastano a vincere la sua astrattezza, vi ha
troppo gran parte. Le sue figure allegoriche ricordano talora più i mostri
orientali che la schietta bellezza greca, personificazioni astratte, anzi che
persone conscie e libere. Preoccupato del secondo senso che ha in mente, spesso
gli escono particolari estranei alla figura, che turbano e distraggono il
lettore e gli rompono l'illusione. La presenza perenne di un altro senso, che
aleggia al di sopra della rappresentazione ed introducevisi a quando a quando,
ne turba la chiarezza e l'armonia. Anche lo stile, inviluppato alcuna volta in
rapporti lontani e sottili, perde la sua lucidità e riesce intralciato e
torbido. Non è un tempio greco: è un tempio gotico, pieno di grandi ombre, dove
contrari elementi pugnano, non bene armonizzati. Or rozzo, or delicato. Ora
poeta solenne, or popolare. Ora perde di vista il vero e si abbandona a
sottigliezze, ora lo intuisce rapidamente e lo esprime con semplicità. Ora
rozzo cronista, ora pittore finito. Ora si perde nelle astrattezze, ora di
mezzo a quelle fa germogliare la vita. Qui cade in puerilità, là spicca il volo
a sopraumane altezze. Mentre tien dietro a un sillogismo, brilla la luce
dell'immagine. E mentre teologizza, scoppia la fiamma del sentimento. Talora ti
trovi innanzi ad una fredda allegoria, quando tutto ad un tratto vi senti
dentro tremare la carne. Talora la sua credulità ti fa sorridere, talora la sua
audacia ti fa stupire. Fu un piccolo mondo, dove si rifletteva tutta
l'esistenza, com'era allora. I contrari elementi, che fermentavano in una
società ancora nello stato di formazione, contendevano in lui. E senza che ne
avesse coscienza. Se guardi alle sue aspirazioni, tutto è armonia. Filosofo,
pensa il regno della scienza e della virtù. Cristiano, contempla il regno di
Dio. Patriota, sospira al regno della giustizia e della pace. Poeta, vagheggia
una forma tutta luce e proporzione e armonia, lo bello stile: il suo autore è
Virgilio. Maggiore era la barbarie e la rozzezza, e più si vagheggiava un mondo
armonico e concorde. Ma il poeta è inviluppato egli medesimo in quella rozza
realtà e in quelle forme discordi; e ne sente la puntura, e gli manca la
serenità dell'artista. E gli esce dalla fantasia un mondo dell'arte in gran
parte realizzato, ma dove pur trovi gli angoli e le scabrosità di una materia
non perfettamente doma.
Entriamo
in questo mondo, e guardiamolo in se stesso e interroghiamolo. Perchè un
argomento non è tabula rasa, dove si può scrivere a genio, ma è marmo
già incavato e lineato, che ha in sè il suo concetto e le leggi del suo
sviluppo. La più grande qualità del genio è d'intendere il suo argomento, e
diventare esso, risecando da sè tutto ciò che non è quello. Bisogna
innamorarsene, vivere ivi dentro, essere la sua anima o la sua coscienza E
parimente il critico, in luogo di porsi innanzi regole astratte; e giudicare
con lo stesso criterio la Commedia e l'Iliade e la Gerusalemme
e il Furioso, dee studiare il mondo formato dal poeta, interrogarlo,
indagare la sua natura che contiene in sè virtualmente la sua poetica, cioè le
leggi organiche della sua formazione, il suo concetto, la sua forma, la sua
genesi, il suo stile. Che cosa è l'altro mondo?
È
il problema dell'umana destinazione sciolto, è il mistero dell'anima spiegato,
è la fine della storia umana, il mondo perfetto l'eterno presente, l'immutabile
necessità. Nella natura non ci è più accidente, nell'uomo non ci è più libertà.
La natura è predeterminata e fissata secondo una logica preconcetta, secondo
l'idea morale. Reale e ideale diventano identici, apparenza e sostanza è
tutt'uno. L'uomo non ha più libero arbitrio: è lì, fissato e immobilizzato,
come natura. Ogni azione è cessata; ogni vincolo che lega gli uomini in terra,
è sciolto: patria, famiglia, ricchezze, dignità, costumi. Non c'è più
successione, nè sviluppo, non principio e non fine: manca il racconto e manca
il dramma. L'individuo scompare nel genere. Il carattere, la personalità, non
ha modo di manifestarsi. Eterno dolore, eterna gioia, senza eco, senza varietà,
senza contrasto nè gradazione. Non ci è epopea, perchè manca l'azione; non ci è
dramma, perchè manca la libertà; la lirica è l'immutabile e monotona
espressione di una sola aria; rimane l'esistenza nella sua immobile
estrinsechezza, descrizione della natura e dell'uomo.
Che
cosa è dunque l'altro mondo per rispetto all'arte? È visione, contemplazione,
descrizione, una storia naturale.
Ma
in questa visione penetra la leggenda o il mistero, perchè ivi dentro è
rappresentata la commedia o redenzione dell'anima nel suo pellegrinaggio
dall'umano al divino, “di Fiorenza in popol giusto e sano”. Ci hai dunque
l'apparenza di un dramma, che si svolge nell'altro mondo, i cui attori sono
Dante, Virgilio, Catone, Stazio, il demonio, Matilde, Beatrice, san Pietro, san
Bernardo, la Vergine, Dio, dramma allegorico, come allegorica è la Commedia
dell'anima. Dico apparenza di un dramma, perchè la santificazione nasce non
dall'operare, ma dal contemplare, e Dante contempla, non opera, e gli altri
mostrano, insegnano. Il dramma dunque svanisce nella contemplazione.
Questo
mondo così concepito era il mondo de' misteri e delle leggende, divenuto mondo
teologico-scolastico in mano a' dotti. Dante lo ha realizzato, gli ha dato
l'esistenza dell'arte, ha creato quella natura e quell'uomo. E se il suo mondo
non è perfettamente artistico, il difetto non è in lui, ma in quel mondo, dove
l'uomo è natura e la natura è scienza, e da cui è sbandito l'accidente e la
libertà, i due grandi fattori della vita reale e dell'arte.
Se
Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla vita reale, vi si sarebbe chiuso
entro e non sarebbe uscito da quelle forme e da quell'allegoria. Ma Dante,
entrando nel regno de' morti, vi porta seco tutte le passioni de' vivi, si trae
appresso tutta la terra. Dimentica di essere un simbolo o una figura
allegorica, ed è Dante, la più potente individualità di quel tempo, nella quale
è compendiata tutta l'esistenza, com'era allora, con le sue astrattezze, con le
sue estasi, con le sue passioni impetuose, con la sua civiltà e la sua
barbarie. Alla vista e alle parole di un uomo vivo, le anime rinascono per un
istante, risentono l'antica vita, ritornano uomini; nell'eterno ricomparisce il
tempo; in seno dell'avvenire vive e si muove l'Italia, anzi l'Europa di quel
secolo. Così la poesia abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo ed
eternità, umano e divino; ed il poema soprannaturale diviene umano e terreno,
con la propria impronta dell'uomo e del tempo. Riapparisce la natura terrestre,
come opposizione, o paragone, o rimembranza. Riapparisce l'accidente e il
tempo, la storia e la società nella sua vita esterna ed interiore; spunta la
tradizione virgiliana, con Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita,
ed entro a questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo,
Bonifazio ottavo, Roberto, Filippo il Bello, Carlo di Valois, i Cerchi e i
Donati, la nuova e l'antica Firenze, la storia d'Italia e la sua storia, le sue
ire, i suoi odii, le sue vendette, i suoi amori, le sue predilezioni.
Così
la vita s'integra, l'altro mondo esce dalla sua astrazione dottrinale e mistica,
cielo e terra si mescolano, sintesi vivente di questa immensa comprensione
Dante, spettatore, attore e giudice. La vita guardata dall'altro mondo acquista
nuove attitudini, sensazioni e impressioni. L'altro mondo guardato dalla terra
veste le sue passioni e i suoi interessi. E n'è uscita una concezione
originalissima, una natura nuova e un uomo nuovo. Sono due mondi onnipresenti,
in reciprocanza d'azione, che si succedono, si avvicendano, s'incrociano, si
compenetrano, si spiegano e s'illuminano a vicenda, in perpetuo ritorno l'uno
nell'altro. La loro unità non è in un protagonista, nè in un'azione, nè in un
fine astratto ed estraneo alla materia, ma è nella stessa materia; unità
interiore e impersonale, vivente indivisibile unità organica, i cui momenti si
succedono nello spirito del poeta, non come meccanico aggregato di parti
separabili, ma penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi, com'è la vita.
Questa energica e armoniosa unità è nella natura stessa de' due mondi,
materialmente distinti ma una cosa nell'unità della coscienza. Cielo e terra
sono termini correlativi, l'uno non è senza l'altro; il puro reale ed il puro
ideale sono due astrazioni; ogni reale porta seco il suo ideale; ogni uomo
porta seco il suo inferno e il suo paradiso; ogni uomo chiude nel suo petto
tutti gli dei d'Olimpo: lo scettico può abolire l'inferno, non può abolir la
coscienza. Appunto perchè i due mondi sono la vita stessa nelle sue due facce,
in seno a questa unità si sviluppa il più vivace dualismo, anzi antagonismo:
l'altro mondo rende i corpi ombre, ombre gli affetti e le grandezze e le pompe,
ma in quelle ombre freme ancora la carne, trema il desiderio, suonano
d'imprecazioni terrene fino le tranquille vòlte del cielo. Gli uomini, con esso
le loro passioni e vizi e virtù rimangono eterni, come statue, in
quell'attitudine, in quella espressione di odio, di sdegno, di amore, che sono
stati colti dall'artista; ma mentre l'altro mondo eterna la terra,
trasportandola nel suo seno e ponendole dirimpetto l'immagine dell'infinito, ne
scopre il vano e il nulla: gli uomini sono gli stessi in un diverso teatro, che
è la loro ironia. Questa unità e dualità uscente dall'imo stesso della
situazione balena al di fuori nelle più varie forme, ora in un'apostrofe, ora
in un discorso, ora in un gesto, ora in un'azione, ora nella natura, ora
nell'uomo. In questa unità penetra la più grande varietà, nè è facile trovare
un lavoro artistico, in cui il limite sia così preciso e così largo. Niente è
nell'argomento che costringa il poeta a preferire il tal personaggio, il tal
tempo, la tale azione: tutta la storia, tutti gli aspetti sotto a' quali si è
mostrata l'umanità, sono a sua scelta; e può abbandonarsi a suo talento alle
sue ire e alle sue opinioni, e può intramettere nello scopo generale fini
particolari, senza che ne scapiti l'unità. Il che dà al suo universo compiuta
realità poetica, veggendosi nella permanente unità tutto ciò che sorge e dalla
libertà dell'umana persona e dall'accidente, e moversi con vario gioco tutt'i
contrasti, e il necessario congiunto col libero arbitrio, e il fato col caso.
Adunque,
che poesia è codesta? Ci è materia epica, e non è epopea; ci è una situazione
lirica, e non è lirica; ci è un ordito drammatico, e non è dramma. È una di
quelle costruzioni gigantesche e primitive, vere enciclopedie, bibbie
nazionali, non questo o quel genere, ma il tutto, che contiene nel suo grembo
ancora involute tutta la materia e tutte le forme poetiche, il germe di ogni
sviluppo ulteriore. Perciò nessun genere di poesia vi è distinto ed esplicato:
l'uno entra nell'altro, l'uno si compie nell'altro. Come i due mondi sono in
modo immedesimati, che non puoi dire: - Qui è l'uno, e qui è l'altro -; così i
diversi generi sono fusi di maniera, che nessuno può segnare i confini che li
dividono, nè dire: - Questo è assolutamente epico, e questo è drammatico. -
È
il contenuto universale, di cui tutte le poesie non sono che frammenti, il
“poema sacro”, l'eterna geometria e l'eterna logica della creazione incarnata
ne' tre mondi cristiani: la città di Dio, dove si riflette la città dell'uomo
in tutta la sua realtà del tal luogo e del tal tempo; la sfera immobile del
mondo teologico, entro di cui si movono tempestosamente tutte le passioni
umane.
L'idea
che anima la vasta mole e genera la sua vita e il suo sviluppo, è il concetto
di salvazione, la via che conduce l'anima dal male al bene, dall'errore al
vero, dall'anarchia alla legge, dal molteplice all'uno. È il concetto cristiano
e moderno dell'unità di Dio sostituita alla pluralità pagana. Questo concetto,
se fosse solo un di fuori, spiegato nella sua astrattezza dottrinale come
pensiero, o rappresentato in forma allegorica come figurato, non basterebbe a
generare un'opera d'arte. Ma qui è non solo il di fuori, ma il di dentro, non
solo il significato e la scienza di quel mondo opera di filosofo e di critico,
ma principio attivo, com'è nell'uomo e nella natura, che costruisce e forma
quel mondo, e gli dà una storia e uno sviluppo. Questo principio attivo, se
nella sua astrattezza si può chiamare il vero o il bene, o la virtù o la legge,
come realtà viva e operosa è lo spirito, che ha per suo contrario la materia o
la carne, dove sta come in una prigione o in un “vasello”, da cui si sforza di
uscire. La vita è perciò un antagonismo, una battaglia tra lo spirito e la
carne, tra Dio e il demonio. E la sua storia è la progressiva vittoria dello
spirito, la costui consapevolezza e libertà sotto le forme in cui vive, il suo
successivo assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi sino a Dio, assoluto
spirito, la Verità, la Bontà, l'Unità, l'ultimo Ideale. Il concetto dantesco,
lo spirito che alita per entro al suo mondo, è dunque la progressiva
dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito, l'emancipazione
della materia e del senso mediante l'espiazione e il dolore, la collisione tra
il satanico e il divino, l'inferno e il paradiso, posta e sciolta. Omero
trasporta gli dèi in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini
nell'altro mondo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo spirito solo
è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi
alla memoria; la terra stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una
visione; il reale, il presente è l'infinito spirito; tutto l'altro è “vanità
che par persona”. Questo assottigliamento è progressivo: il velo si fa sempre
più trasparente. L'Inferno è la sede della materia, il dominio della
carne e del peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza;
la pena non modifica i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si
continua nell'altro mondo e s'immobilizza in quelle anime incapaci di
pentimento: peccato eterno, pena eterna. Nel Purgatorio cessano le
tenebre e ricomparisce il sole, la luce dell'intelletto, lo spirito; il terreno
è rimembranza penosa che il penitente si studia di cacciar via, e lo spirito
sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto possesso di sè, alla
salvazione. Nel Paradiso l'umana persona scomparisce, e tutte le forme
si sciolgono ed alzano nella luce; più si va su, e più questa gloriosa
trasfigurazione s'idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell'assoluto
spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento:
...
... tutta cessa
mia
visione e ancor mi distilla
nel
cor lo dolce che nacque da essa.
Così
la neve al sol si disigilla;
così
al vento nelle foglie lievi
si
perdea la sentenzia di Sibilla.
Questo concetto comprende tutto
lo scibile e tutta la storia; non solo costruisce e sviluppa il mondo dantesco,
ma lo incontrate sempre vivo nel cammino intellettuale e storico della vita,
sotto tutte le forme, in tutte le quistioni che si affacciano al poeta, in
religione, in filosofia, in politica, in morale, e così si concreta e compie in
tutti gl'indirizzi della vita. In religione è il cammino dalla lettera allo
spirito, dal simbolo all'idea, dal vecchio al nuovo Testamento; nella scienza
dall'ignoranza e dall'errore alla ragione e dalla ragione alla rivelazione; in
morale dal male al bene, dall'odio all'amore, mediante l'espiazione; in
politica dall'anarchia all'unità. Sottoposto alle condizioni di spazio e di
tempo, diventa storia: il tale uomo, il tale popolo, il tale secolo. In
religione vi sta innanzi la Chiesa romana, il papato, che il poeta vuole
emancipare dalle cure e passioni terrene e ricondurre al suo fine spirituale;
in filosofia avete la scienza volgare e la scienza della verità in paradiso; in
morale vi stanno innanzi le passioni, le discordie, le colpe e i vizi della
barbara età, dalle quali vi sentite a poco a poco allontanare nel vostro
cammino verso il sommo bene; in politica è l'Italia anarchica e sanguinosa che
il poeta aspira a comporre a pace e concordia nell'unità dell'impero. Così un
solo concetto penetra il tutto, come forma, come pensiero e come storia. Mai
più vasta e concorde comprensione non era uscita da mente di uomo. Alcuni ci
vedono dentro l'altro mondo, e il resto è una intrusione e quasi una
profanazione; Edgardo Quinet rimane choqué veggendo come le passioni del
poeta lo inseguono fino in paradiso; altri ci veggono un mondo politico, di cui
quello sia la rappresentazione sotto figura. Chiamano questo poema o
“religioso”, o “politico”, o “didascalico”, o “morale”, lo riducono a querele
di cattolici e protestanti, a dispute di guelfi e ghibellini. Guardano non
dall'alto del monte, dalla pianura, e prendono per il tutto quello che
incontrano nella diritta linea del loro cammino. Ciascuno si fabbrica un
piccolo mondo e dice: - Questo è il mondo di Dante. - E il mondo di Dante
contiene tutti quei mondi in sè. È il mondo universale del medio evo realizzato
dall'arte.
Questa
immensa materia si forma e si sviluppa secondo il concetto in tre mondi, de'
quali l'inferno e il paradiso sono le due forze in antagonismo, carne e spirito,
odio e amore, e il purgatorio è il termine medio o di passaggio: tre mondi, de'
quali la letteratura non offriva che povere e rozze indicazioni, e che escono
dalla fantasia dantesca vivi e compiuti.
L'inferno
è il regno del male, la morte dell'anima e il dominio della carne, il caos:
esteticamente è il brutto.
Dicesi
che il brutto non sia materia d'arte, e che l'arte sia rappresentazione del
bello. Ma è arte tutto ciò che vive, e niente è nella natura che non possa
esser nell'arte. Non è arte quello solo che ha forma difettiva o in sè
contraddittoria, cioè l'informe o il deforme o il difforme: e perciò non è arte
il confuso, l'incoerente, il dissonante, il manierato, il concettoso,
l'allegorico, l'astratto, il generale, il particolare: tutto questo non è vivo,
è abbozzo o aborto di artisti impotenti. L'altro, bello o brutto che si chiami
in natura, esteticamente è sempre bello.
In
natura il brutto è la materia abbandonata a' suoi istinti, senza freno di
ragione: e ne nasce una vita che ripugna alla coscienza morale e al senso
estetico. Alla sua vista il poeta vede negata la sua coscienza, negato se
stesso, e perciò lo concepisce come brutto e gli dice: - Tu sei brutto. - Più
il suo senso morale ed estetico è sviluppato, e più la sua impressione è gagliarda,
più lo vede vivo e vero innanzi alla immaginazione. Perciò non pensa a
palliarlo, e tanto meno ad abbellirlo, anzi lo pone in evidenza e lo ritrae co'
suoi propri colori.
Il
brutto è elemento necessario così nella natura, come nell'arte; perchè la vita
è generata appunto da questa contraddizione tra il vero e il falso, il bene e
il male, il bello e il brutto. Togliete la contraddizione, e la vita si
cristallizza. Verità così palpabile che le immaginazioni primitive posero della
vita due princìpi attivi, il bene e il male, l'amore e l'odio, Dio e il
demonio; antagonismo che si sente in tutte le grandi concezioni poetiche.
Perciò il brutto, così nella natura, come nell'arte, ci sta con lo stesso
dritto che il bello, e spesso con maggiori effetti, per la contraddizione che
scoppia nell'anima del poeta. Il bello non è che se stesso; il brutto è se
stesso e il suo contrario, ha nel suo grembo la contraddizione, perciò ha vita
più ricca, più feconda di situazioni drammatiche. Non è dunque maraviglia che il
brutto riesca spesso nell'arte più interessante e più poetico. Mefistofele è
più interessante di Fausto, e l'inferno è più poetico del paradiso.
Dante
concepisce l'inferno come la depravazione dell'anima, abbandonata alle sue
forze naturali, passioni, voglie, istinti, desidèri, non governati dalla
ragione o dall'intelletto; contraddizione ch'egli esprime con l'energia di uomo
offeso nel suo senso morale:
...
... le genti dolorose,
che
hanno perduto il ben dell'intelletto...
Che
libito fe' licito in sua legge...
Che
la ragion sommettono al talento...
L'anima è dannata in eterno per
la sua eterna impenitenza; peccatrice in vita, peccatrice ancor nell'inferno,
salvo che qui il peccato è non in fatto, ma in desiderio. Onde nell'inferno la
vita terrena è riprodotta tal quale, essendo il peccato ancor vivo e la terra
ancora presente al dannato. Il che dà all'inferno una vita piena e corpulenta,
la quale spiritualizzandosi negli altri due mondi diviene povera e monotona.
Gli è come un andare dall'individuo alla specie e dalla specie al genere. Più
ci avanziamo, e più l'individuo si scarna e si generalizza. Questa è certo
perfezione cristiana e morale, ma non è perfezione artistica. L'arte come la
natura è generatrice, e le sue creature sono individui, non specie o generi,
non tipi o esemplari; sono res, non species rerum, Perciò
l'inferno ha una vita più ricca e piena, ed è de' tre mondi il più popolare.
Aggiungi che la vita terrena o infernale è colta dal poeta nel vivo stesso
della realtà in mezzo a cui si trova, essendo essa la rappresentazione epica
della barbarie, nella quale il rigoglio della passione e la sovrabbondanza
della vita trabocca al di fuori. Dante stesso è un barbaro, un eroico barbaro,
sdegnoso, vendicativo, appassionatissimo, libera ed energica natura. Al
contrario la vita negli altri due mondi non ha riscontro nella realtà, ed è di
pura fantasia, cavata dall'astratto del dovere e del concetto, e ispirata dagli
ardori estatici della vita ascetica e contemplativa.
Essendo
l'inferno il regno del male o della materia in se stessa e ribelle allo
spirito, la legge che regola la sua storia o il suo sviluppo è un successivo
oscurarsi dello spirito, insino alla sua estinzione, alla materia assoluta.
Il
suo punto di partenza è l'indifferente, l'anima priva di personalità e di
volontà, il negligente. Il carattere qui è il non averne alcuno. In questo
ventre del genere umano non è peccato, nè virtù, perchè non è forza operante:
qui non è ancora inferno, ma il preinferno, il preludio di esso. Ma se,
moralmente considerati, i negligenti tengono il più basso grado nella scala de'
dannati e paiono a Dante “sciaurati” più che peccatori, il concetto morale
rimane estrinseco alla poesia e non serve che a classificare i dannati. Altri
sono i criteri del poeta. La morale pone i negligenti sul limitare
dell'inferno, la poesia li pone più giù dell'ultimo scellerato, che Dante stima
più di questi mezzi uomini. E la poesia è d'accordo con la tempra energica del
gran poeta e de' suoi contemporanei. A quegli uomini vestiti di ferro anima e
corpo questi esseri passivi e insignificanti doveano ispirare il più alto
dispregio. E il dispregio fa trovare a Dante frasi roventi. Sono uomini che
vissero senza infamia e senza lode”, anzi “non fur mai vivi”. La loro pena è di
essere stimolati continuamente, essi che non sentirono stimolo alcuno nel
mondo. La pena è minima, eppure tale è la loro fiacchezza morale, sono così
vinti nel “duolo”, che lacrimano e gettano le alte strida, che fanno tumultuare
l'aria
come
la rena quando il turbo spira.
A' loro piedi
è la loro immagine, il verme. Turba infinita, senza nome: appena accenna ad un
solo, e senza nominarlo,
colui
che fece per viltate il gran rifiuto
Il loro supplizio
è la coscienza della loro viltà, il sentirsi dispregiati, cacciati dal cielo e
dall'inferno. Ritratto immortale e popolarissimo, di cui alcuni tratti sono
rimasti proverbiali. Esseri poetici, appunto perchè assolutamente prosaici, la
negazione della poesia e della vita: onde nasce il sublime negativo degli
ultimi tre versi:
Fama
di loro il mondo esser non lassa:
Misericordia
e Giustizia gli sdegna.
Non
ragioniam di lor; ma guarda e passa.
Se i negligenti non sono
nell'inferno, perchè mancò loro la forza del bene e del male, gl'innocenti e i
virtuosi non battezzati non sono in paradiso, perchè mancò loro la fede, sono
nel Limbo. E anche qui il concetto teologico ci sta per memoria, per semplice
classificazione. La poesia nasce da altre impressioni e da altri criteri. Il
valore poetico dell'uomo non è nella sua moralità e nella sua fede, ma nella
sua energia vitale; non è una idea, ma una forza, il personaggio poetico.
Perciò il negligente, considerato esteticamente, è un sublime negativo, la
negazione della forza, il non esser vivo. E perciò qui nel Limbo la mancanza di
fede è un semplice accessorio, e l'interesse è tutto nel valore intrinseco
dell'uomo, come essere vivo, come forza. Dio ha lo stesso criterio poetico e dà
ad alcuni un luogo distinto non per la loro maggiore bontà, ma per la fama che
loro acquistò in terra la grandezza dell'ingegno e delle opere:
...
... L'onrata nominanza
che
di lor suona su nel vostro mondo,
grazia
acquista nel ciel che sì gli avanza.
Concetto poco ascetico e poco
ortodosso; ma Dio si fa poeta con Dante e gli fabbrica un Eliso pagano, un
pantheon di uomini illustri. E chi vuol trovare le impressioni di Dante, quando
alzava questo magnifico tempio della storia e della coltura antica, e le
impressioni che ne dovettero ricevere i contemporanei, ricordi le sue
impressioni quando giovinetto su' banchi della scuola gli si affacciavano le
maraviglie di questo mondo greco-latino. Aristotile, Omero, Virgilio, Cesare,
Bruto, ciascuno di questi nomi, quante memorie, quante fantasie suscitava! Nudo
è qui un elenco di nomi tra alcuni tratti caratteristici che segnano i
protagonisti, il “signore dell'altissimo canto” e il “maestro di color che
sanno”. E colui, che a quella vista si sente “esaltare” in se stesso e s'incorona
poeta con le sue mani e si proclama il primo poeta de' tempi nuovi, “sesto tra
cotanto senno”, è non il Dante dell'altro mondo, ma Dante Alighieri. Ecco ciò
che rende il Limbo così interessante, come il mondo de' negligenti, due
concezioni originalissime, uscite da un profondo sentimento della vita reale e
rimaste freschissime ne' secoli. Molti tratti sono ancora oggi in bocca del
popolo.
Come
l'inferno è concepito e ordinato, lo spiega nel canto undecimo il poeta stesso,
architetto e filosofo delle sue costruzioni. Quel regno del male è partito in
tre mondi, rispondenti alle tre grandi categorie del delitto: la incontinenza e
violenza, la malizia, e la fredda premeditazione. Ciascuna di queste categorie
si divide in generi e specie, in cerchi e gironi. Il concetto etico di questa
scala de' delitti è che dove è più ingiuria è più colpa, e l'ingiuria non è
tanto nel fatto, quanto nell'intenzione. Perciò la malizia e la frode è più
colpevole della incontinenza e violenza, e la fredda premeditazione de'
traditori è più colpevole della malizia. Indi la storica evoluzione
dell'inferno, dove da' meno colpevoli, gl'incontinenti, si passa alla città di
Dite, sede de' violenti, e poi si scende in Malebolge, e di là nel pozzo de'
traditori. Questo è l'inferno scientifico o etico. Ma non è ancora l'inferno
poetico.
La
poesia dee voltare questo mondo intellettuale in natura vivente. L'ordine
scientifico presenta una serie di concetti astratti, il poetico una serie di
figure, di fatti e d'individui: il primo una serie di delitti, il secondo una
serie non solo d'individui colpevoli, ma di tali e tali individui. Dividere in
categorie significa considerare in un gruppo d'individui non quello che
ciascuno ha di proprio, ma quello che ha di comune col gruppo a cui appartiene.
Così una classificazione è possibile, una esatta riduzione a generi e specie.
Ma la poesia ritorna l'individuo nella sua libera personalità, e lo considera
non come essere morale, ma come forza viva e operante. E più in lui è vita, più
è poesia. Perciò, se l'inferno, come mondo etico, è il successivo incattivirsi
dello spirito, sì che alla violenza, comune all'uomo e all'animale, succede la
malizia, “male proprio dell'uomo”, e alla malizia la fredda premeditazione,
questo concetto poeticamente rimane ozioso e non serve che alla sola
classificazione. Come natura vivente o come forma, l'inferno è la morte
progressiva della natura, la vita e il moto che manca a poco a poco sino alla
compiuta immobilità, alla materia come materia, dove insieme con la vita muore
la poesia. Indi la storia dell'inferno.
Dapprima
la situazione è tragica: il motivo è la passione, dove la vita si manifesta in
tutta la sua violenza; perchè la passione raccoglie tutte le forze interiori,
distratte e sparpagliate nell'uso quotidiano della vita, intorno a un punto
solo, di modo che lo spirito acquista la coscienza della sua libertà infinita.
Preso per se stesso lo spirito ed isolato dal fatto, la sua forza è infinita e
non può esser vinta neppure da Dio, non potendo Dio fare ch'esso non creda, non
senta e non voglia quello che crede, sente e vuole. Non vi è donnicciuola, così
vile, che non si senta forza infinita, quando è stretta dalla passione. - Io ti
amo e ti amerò sempre, e se dopo morte si ama, ed io ti amerò, e piuttosto con
te in inferno che senza te in paradiso. - Queste sono le eloquenti bestemmie
che traboccano da un cuore appassionato, e che rendono eroiche la timida
Giulietta e la gentile Francesca.
Ma
quando la passione vuole realizzarsi, s'intoppa in un altro infinito,
nell'ordine generale delle cose, di cui si sente parte e innanzi a cui è un
fragile individuo. E n'esce la tragica collisione tra la passione e il fato,
l'uomo e Dio, il peccato. Nella vita nè la passione, nè il fato sono nella loro
purezza: la passione ha le sue fiacchezze e oscillazioni; il fato talora è il
caso, o l'espressione collettiva di tutti gli ostacoli naturali e umani in cui
intoppa il protagonista. Ma nell'inferno l'anima è isolata dal fatto ed è pura
passione e puro carattere, perciò inviolabile e onnipotente, e il fato è Dio,
come eterna giustizia e legge morale: onde la prima parte dell'inferno, ove
incontinenti e violenti, esseri tragici e appassionati, mantengono la loro
passione di rincontro a Dio, è la tragedia delle tragedie, l'eterna collisione
nelle sue epiche proporzioni.
Tutto
questo mondo tragico è penetrato dello stesso concetto. La natura infernale non
è ancora laida e brutta; anzi balzan fuori tutt'i caratteri che la rendono un
sublime negativo, l'eternità, la disperazione, le tenebre. L'eterno è sublime,
perchè ti mostra un di là sempre allo stesso punto, per quanto tu ti ci
avvicini; la disperazione è sublime, perchè ti mostra un fine non possibile a
raggiungere, per quanto tu operi; la tenebra è sublime, come annullamento della
forma e morte della fantasia, per quella stessa ragione che è sublime la morte,
il male, il nulla. Leggete la scritta sulla porta dell'inferno. Ne' primi tre
versi è l'eterno immobile che ripete se stesso, dolore, dolore e dolore, quel
luogo, quel luogo e quel luogo, per me, per me e per me, insino a che in ultimo
l'eterno risuona nella coscienza del colpevole come disperazione:
Lasciate
ogni speranza voi che entrate.
La luce, il “dolce lome”, rende
sublimi le tenebre, morte del sole e delle stelle e dell'occhio, come è “l'aer
senza stelle”, e il “loco d'ogni luce muto”, e quel “ficcar lo viso al fondo” e
“non discernere alcuna cosa”. Certo, l'eternità, le tenebre e la disperazione
sono caratteri comuni a tutto l'inferno; ma solo qui sono poesia, quando
l'inferno si affaccia per la prima volta alla immaginazione nella gagliardia e
freschezza delle prime impressioni. Appresso, diventano spettacolo ordinario,
come è il sole, visto ogni giorno.
E
Dante, che parte da princìpi preconcetti nelle sue costruzioni scientifiche,
quando è tutto nel realizzare e formare i suoi mondi, opera con piena
spontaneità, abbandonato alle sue impressioni. Il canto terzo è il primo
apparire dell'inferno, e come ci si sente la prima impressione, come si vede il
poeta esaltato, turbato dalla sua visione, assediato di forme, di fantasmi,
impazienti di venire alla luce! In quel “diverse voci, orribili favelle” ecc.,
non ci è solo il grido de' negligenti: ci è lì tutto l'inferno, che manda il
suo primo grido. Quel canto del sublime è una sola nota musicale variamente
graduata, è l'eterno, il tenebroso, il terribile, l'infinito dell'inferno, che
invade e ispira il poeta e vien fuori co' vivi colori della prima impressione, è
il vero canto del regno de' morti, della “morta gente”, è l'albero della vita,
che il poeta sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che fa, e ne toglie la
speranza:
Lasciate
ogni speranza voi che entrate.
E ne toglie le stelle:
risonavan
per l'aer senza stelle.
E ne toglie il tempo:
facevano
un tumulto il qual s'aggira
sempre
in quell'aria senza tempo tinta.
E ne toglie il cielo:
non
isperate mai veder lo cielo.
E ne toglie Dio:
ch'hanno
perduto il ben dello intelletto.
Questa natura sublime dapprima è
indeterminata, senza contorni, cerchio, loco, null'altro: la diresti natura
vuota, se non la riempissero l'eternità e le tenebre e la morte e la
disperazione. Nel regno de' violenti prende una forma. Si esce dal sublime: si
entra nel bello negativo. Incontri tutto ciò che è figura, ordine, regolarità,
proporzione in terra; anzi con vocabolo umano è chiamata città, la città di
Dite. Vedi selve, laghi, sepolcri; e l'effetto poetico nasce dal trovare la
stessa figura, ma spogliata di tutti gli accessorii che la rendono bella in
terra.
Non
frondi verdi, ma di color fosco:
non
rami schietti, ma nodosi e involti
non
pomi v'eran, ma stecchi con tosco.
La natura spogliata della sua
vita, del suo cielo, della sua luce, delle sue speranze, è un sublime che ti
gitta nell'animo il terrore; la natura spogliata della sua bellezza è un bello
negativo pieno di strazio e di malinconia. È la natura snaturata, depravata, a
immagine del peccato: con la virtù se n'è ita la bellezza, sua faccia.
Questa
natura snaturata vien fuori con maggior vita nelle pene. Perchè il concetto
nella natura sta immobile come nell'architettura e nella scultura; dove nelle
pene acquista ogni varietà di attitudini e di movenze. Le pene sono la
coscienza fatta materia, e qui esprimono la violenza della passione. In quella
natura eterna e tenebrosa odi un mugghio, “come fa mar per tempesta”, e il
rovescio della grandine, e il cozzo delle moltitudini: moti disordinati,
violenti, come i moti dell'animo. Vedi tombe ardenti, laghi di sangue, alberi
che piangono e parlano, la natura sforzata e snaturata dal peccatore. Gli
strani accozzamenti producono l'effetto del maraviglioso e del fantastico, ma
il fantastico è presto vinto e ti piglia il raccapriccio e l'orrore. Il poeta prende
in troppa serietà il suo mondo per darsi uno spasso di artista e sorprenderti
con colpi di scena: tocca e passa; e non vuol fare effetto sulla tua
immaginazione, vuol colpire la tua coscienza. Dove il fantastico è più
sviluppato, è nella selva de' suicidi; ma anche lì vien subito la spiegazione,
e la maraviglia dà luogo a una profonda tristezza.
Ma
il concetto non ha ancora la sua subiettività, non è ancora anima. Un primo
grado di questa forma è nel demonio. Cielo e inferno sono stati sempre popolati
di legioni angeliche e sataniche, che riempiono l'intervallo tra l'uomo e Dio,
tra l'uomo e Satana. È la storia del bene e del male che si sviluppa nella
nostra anima, un progressivo indiarsi o indemoniarsi. Diversi di nomi e di
forme secondo le religioni e le civiltà, i demòni hanno per base i diversi
gradi del male, e per forma il gigantesco e il mostruoso, il puro terrestre, il
bestiale giunto all'umano, e spesso preponderante, come nella sfinge, nella
chimera, in Cerbero. Il demonio di Dante non ha più la sua storia, come in
terra, spirito tentatore accanto all'uomo e ribelle e rivale di Dio. Qui è
immobilizzato come l'uomo; la sua storia è finita; cosa gli resta? Soffrire e
far soffrire, vittima e carnefice a un tempo, simbolo esso stesso e immagine del
peccato che flagella nell'uomo. Il Satana di Milton e Mefistofele, che
combattono contro Dio e contro l'uomo, erano compiute persone poetiche. Altra è
qui la situazione, e altro è il demonio. Esso è il vinto di Dio, e meno che
uomo, perchè non è dell'uomo che una sua parte sola, il peccato. È piuttosto
tipo, specie, simbolo, che persona. È il più basso gradino nella scala degli
esseri spirituali, lo spirito tra l'umano e il bestiale, in cui l'intelletto è
ancora istinto e la volontà è ancora appetito. Figure vive e mobili della
colpa, ma figure, semplice esteriorità: non carattere, non passione, non
intelligenza, non volontà. Fra gl'incontinenti e i violenti il demonio è
tragico e serio: è azione mimica e tutta esterna, passione tradotta in moti e
gesti, senza la parola, salvo brevi imprecazioni. La natura ti dà figura e
colore: qui la figura si muove e il colore si anima, è la figura in azione. Il
poeta ha scossa la polvere dalle antiche forme pagane, e le ha rifatte e
rinnovate. Come a costruire il suo inferno toglie alla terra le sue forme, e
strappandole dal circolo loro assegnato, le compone diversamente e ti crea una
nuova natura; così ad esprimere lo spirito toglie dalla mitologia tutte le
forme demoniache, Minos Caronte, Cerbero, Pluto, Gerione, le arpie, le furie, e
le trasporta nel suo inferno: le trova vuote e libere, spogliate di concetto,
di vita e di religione, e le ricrea, le battezza, impressovi sopra il suo
pensiero e la sua religione. Il demonio meno lontano dall'uomo è Caronte, in
cui vien fuori l'apparenza di un carattere: impaziente rissoso, manesco, che
grida e batte. Il poeta si è ben guardato di sviluppare il comico che è in
questo carattere: la figura di Caronte rimane severa e grave, e non fa
dissonanza con la solennità della natura infernale, dove si trova collocata.
Minos è il giudizio rappresentato in modo affatto esteriore e plastico, e
rapido come saetta:
dicono
e odono e poi son giù vòlte.
Le altre figure sono schizzi,
appena disegnati; ingegnoso è il ritratto di Gerione, che ha ispirato una delle
più belle ottave dell'Ariosto.
Noi
concepiamo oramai la costruzione de' singoli canti. Il poeta comincia col porci
innanzi la natura del luogo e la qualità della pena; il demonio ora precede,
ora vien subito dopo; poi vedi peccatori presi insieme e misti, non ancora
l'individuo, ma l'uomo collettivo, gruppi di mezzo a' quali spesso si stacca
l'individuo e tira la tua attenzione.
I
gruppi sono l'espressione generale del sentimento che riempie i peccatori nella
società infernale; sono la parentela del delitto, dove trovi nello stesso lago
di sangue i tiranni Ezzelino e Attila e gli assassini di strada Rinier da
Corneto e Rinier Pazzo.
Come
nella natura e nel demonio, così ne' gruppi l'aspetto è dapprima severo e
tragico. Essi esprimono il sublime dello spirito la disperazione. L'uomo ha
bisogno di avere innanzi a sè qualche cosa a cui tenda; al pensiero succede
pensiero; il cuore vive quando da sentimento germoglia sentimento; l'uomo vive
quando è in un'onda assidua di pensieri e di sentimenti; la disperazione è
l'annullamento della vita morale, la stagnazione del pensiero e del sentimento,
la morte, il nulla, il caos, le tenebre dello spirito, un sublime negativo.
Come il sublime delle tenebre è nella luce che muore, il sublime della
disperazione è nella morte della speranza:
nulla
speranza gli conforta mai
non
che di posa, ma di minor pena.
L'espressione estetica della
disperazione è la bestemmia, violenta reazione dell'anima, innanzi a cui tutto
muore, e che nel suo annichilamento involge l'universo:
Bestemmiavano
Iddio e i lor parenti,
l'umana
specie e il luogo e il tempo e 'l seme
di
lor semenza e di lor nascimenti.
La passione trasforma la faccia
dell'uomo, abitualmente tranquilla, il peccato gli siede sulla fronte e
fiammeggia negli occhi: momento fuggevole che Dante coglie e rende eterno ne'
suoi gruppi. Gli avari stanno col pugno chiuso, gl'irosi si lacerano le membra:
violenza di moti appassionati, niente che sia basso o vile: puoi abborrirli,
non puoi disprezzarli.
Immaginate
una piramide. Nella larghissima base vedete la natura infernale. Più su è il
demonio, figura bestiale in faccia umana, bestia talora in tutto, mai in tutto
uomo. Alzate ancora l'occhio, e vedete gruppi nella violenza della passione. È la
stessa idea che si sviluppa e si spiritualizza, insino a che da questo triplice
fondo si eleva sulla cima la statua, l'individuo libero, l'idea nella sua
individuale realtà, e più che l'idea, se stesso nella sua libertà. È di mezzo a
quella folla confusa, a quei gruppi, che escono i grandi uomini dell'inferno o
piuttosto della terra; è da questa triplice base dell'eternità che esce fuori
il tempo e la storia e l'Italia e più che altri Dante come uomo e come
cittadino.
L'inferno
degl'incontinenti e de' violenti è il regno delle grandi figure poetiche. Qui
trovi come in una galleria di personaggi eroici Francesca, Farinata,
Cavalcanti, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, Capaneo, Dante, il Fato, Dio e
la Fortuna. Sono in presenza forze colossali, la energia della passione e la
serenità del fato. Qui è Francesca eternamente unita al suo Paolo, là è la
Fortuna che non ode le imprecazioni degli uomini e beata si gode. Ora ti
percote il suono della divina giustizia che in eterno rimbomba; ora ti stupisce
Capaneo che tra le fiamme oppone sè a tutte le folgori di Giove. Su questo
fondo tragico s'innalza la libera persona umana e vi si spiega in tutta la
ricchezza delle sue facoltà. Qui usciamo dalle astrattezze mistiche e
scolastiche, e prendiamo possesso della realtà. La donna non è più Beatrice, il
tipo realizzato de' trovatori, fluttuante ancora tra l'idea e la realtà; qui
acquista carattere, storia, passioni, una ricca e vivace personalità, è
Francesca da Rimini, la prima donna del mondo moderno. L'uomo non è più il
santo con le sue estasi e le sue visioni; qui ha la sua patria, il suo uffizio,
il suo partito, la sua famiglia, le sue passioni e il suo carattere; è
Farinata, è Cavalcanti, è Brunetto, è Pier delle Vigne, è Dante Alighieri, alla
cui fiera natura Virgilio applaude:
...
... Alma sdegnosa,
benedetta
colei che in te s'incinse!
L'inferno dà loro una realtà più
energica, creando nuove immagini e nuovi colori. Pier delle Vigne giura “per le
nuove radici del suo legno”. Farinata dice:
ciò
mi tormenta più che questo letto.
All'annunzio della morte del
figlio, Cavalcanti
supin
ricadde e più non parve fuora.
Brunetto raccomanda il suo Tesoro,
nel quale si sente vivere ancora. Capaneo può dire: “Qual i' fui vivo, tal son
morto”. E Francesca ricorda il tempo felice nella miseria. L'inferno è il loro
piedistallo, sul quale si ergono col petto e con la fronte, affermando la loro
umanità. Nascono situazioni e forme novissime, che danno rilievo alle figure e
a' sentimenti.
Questo
mondo tragico, dove l'impeto della passione e la violenza del carattere mette
in gioco tutte le forze della vita, ha la sua perfetta espressione in questi
grandi individui, rimasti così vivi e giovani e popolari, come Achille ed
Ettore. È il mondo della grande poesia, della epopea e della tragedia. E ora
quale contrasto! Lasciamo appena le falde dilatate di foco e la rena che
s'infiamma come esca sotto fucile, e ci troviamo in una pozzanghera che fa
zuffa con gli occhi e col naso. Lasciamo i tragici demòni dell'antichità, i
centauri e le arpie, e incontriamo diavoli con le corna e armati di frusta, e
vilissimi uomini che alle prime percosse scappano senz'aspettar le seconde nè
le terze. In luogo di Capaneo con la fronte levata, il primo che vediamo ha gli
occhi bassi, vergognoso di mostrarsi; e Dante, così riverente e pietoso finora
e anche sdegnoso, diviene maligno e sarcastico, e compone per la prima volta il
labbro ad un sorriso sardonico. Chiama “salse pungenti” quel letamaio,
che dagli uman privati parea mosso
. Un altro lo
sgrida:
...
... “Perchè se' tu sì ingordo
di
riguardar più me che gli altri brutti?”
E Dante, che lo vede col capo
lordo tanto che non parea “s'era laico o cherco”, gli ricorda crudelmente di
averlo veduto in terra co' capelli asciutti. E quegli esprime il suo dolore,
“battendosi la zucca”. Tutto è mutato: natura, demonio e uomo, immagini e
stile. Cadiamo in pieno plebeo. Chi sono questi uomini? Sono adulatori e
meretrici dannati alla stessa pena: gli uni vendono l'anima, le altre vendono
il corpo. Sentite che noi passiamo in un altro mondo, nel mondo de'
fraudolenti.
Esteticamente,
il mondo de' fraudolenti è la prosa della vita; precipitata dal suo piedistallo
ideale, e divenuta volgarità. È la passione che si muta in vizio, il carattere
che diviene abitudine, la forza che diviene malizia. La passione è poetica,
perchè ha virtù di concitare tutte le forze dell'anima, sì ch'elle prorompano
di fuori liberamente: il vizio è la passione fatta abitudine, ripetizione degli
stessi atti, un fare perchè si è fatto; è l'artista divenuto artefice, l'arte
divenuta mestiere. L'uomo appassionato spiritualizza la sua azione, ci mette
dentro se stesso, ma nel vizioso l'anima è sonnolenta, la sua azione è stupida
materia, atto meccanico a cui lo spirito rimane estraneo. La passione produce
il carattere, la forte volontà, che è la stessa passione in continuazione; il
vizio ha compagna la fiacchezza e bassezza dell'anima, non essendo altro la
bassezza che l'abdicazione e l'apostasia della propria anima. I grandi
caratteri sicuri di sè hanno a loro istrumento la forza, impetuosi fino
all'imprudenza, semplici fino alla credulità; gli animi fiacchi hanno a loro
istrumento la malizia, coscienza della loro impotenza, e, pipistrelli notturni,
assaltano alle spalle e non osano guardare in viso.
In
questo mondo il di fuori è mutato, perchè mutato è il di dentro, ove non trovi
più caratteri e passioni, ma vizio, bassezza e malizia, lo spirito oscurato e
materializzato, la dissoluzione della vita. A quei cerchi indeterminati, a
quella città rosseggiante di Dite, nomi e figure terrene, succede un non so
che, una cosa senza nome, che il poeta chiama bizzarramente “Malebolge”, una
natura sformata e in dissoluzione, ripe scoscese, scogli mobili che fanno da
ponticelli, e giù valloni paludosi, dove le acque finora impetuose e correnti
stagnano e si putrefanno, valloni angusti, bolge, valigie, borse, che
stringendosi più e più vanno a finire in un pozzo: natura piccola, in rovina e
in putrefazione. Al demonio mitologico iroso e appassionato succede il diavolo
cornuto, essere grottesco, o piuttosto i diavoli che vanno in frotte, e si
mescolano in ignobili parlari con la gente più abbietta, e canzonano e sono
canzonati, maliziosi, bugiardi, plebei, osceni. Al vivo movimento delle bufere
e delle grandini e delle fiamme succede la materia in decomposizione, quanti
strazi di carne umana ti offrono i campi di battaglia e quante malattie ti
offre lo spedale. Tali la natura, il demonio, le pene. Vedi ora l'uomo. La
faccia umana è rimasta finora inviolata: innanzi all'immaginazione la passione
invermiglia la faccia di Francesca, e la grandezza dell'anima pare nella faccia
dell'uomo che si leva dritto dalla cintola in su. Qui la faccia umana sparisce:
hai caricature e sconciature di corpi. Uomini cacciati in una buca, capo in
giù, piedi in su; vólti travolti in su le spalle, sì che il pianto scende giù
per le reni; visi, occhi e corpi imbacuccati e incappucciati; musi umani fuor
della pegola a modo di ranocchi; corpi, altri smozzicati, accismati, altri
marciti e imputriditi, scabbiosi, tisici, idropici. Di questa figura umana
deturpata e contraffatta l'immagine più viva è Bertram dal Bormio, il cui busto
si fa lanterna del suo capo che porta pesol per le chiome. In questo mondo prosaico
e plebeo, che comincia con Taide e finisce con mastro Adamo, la materia ovvero
la parte bestiale prevale tanto, che spesso siamo in sul domandarci: - Costoro
sono uomini o bestie? - Non sono ancora bestie, e l'uomo già muore in loro:
che
non è nero ancora e il bianco muore.
Sono figure miste in una faccia
tra bestiale e umana; e la più profonda concezione di Malebolge è questa
trasformazione dell'uomo in bestia e della bestia in uomo: hanno l'appetito e
l'istinto della bestia, hanno la coscienza dell'uomo. Si sanno uomini e sono
bestie; e qui è la pena, nella coscienza umana che loro è rimasta.
La
forma estetica di questo mondo è la commedia, rappresentazione de' difetti e
de' vizi. Fra tanta fiacchezza della personalità il grande uomo, l'individuo, è
gittato nell'ombra, e vien su il descrittivo, l'esteriorità. Nell'inferno
tragico le descrizioni sono sobrie e rapide, l'interesse principale è negli
attori che prendono la parola: qui è un gregge muto, visto da lontano. Virgilio
dice a Dante: - Vedi là Mirra, vedi Giasone, vedi Manto. - Appena è se qualche
epiteto ti segna in fronte alcuno de' più grandi personaggi, come si fa di
Giasone:
e
per dolor non par lacrima spanda.
Prima dite: “Il canto di Francesca,
di Farinata, di ser Brunetto Latini” ; ora dite: “Il canto de' ladri, de'
falsari, de' truffatori”: vi sono gruppi, non individui; vi è il descrittivo,
manca il drammatico. Manca la grandezza negli attori, e manca la pietà negli
spettatori. La figura umana così torta, che il pianto degli occhi bagnava le
natiche, cava a Dante lacrime; l'“homo sum” si sente colpito in lui; ma
Virgilio lo sgrida:
Ancor
sei tu degli altri sciocchi?
Qui
vive la pietà, quand'è ben morta.
Abbonda il descrittivo; l'immaginazione
di Dante è così robusta, che avendo a fare con oggetti così fuori della natura,
non che sentirsi impacciata, pare che scherzi: con tanta facilità e spontaneità
esprime le più varie e strane attitudini: la fiamma parla come lingua d'uomo, le
zanche piangono e fremono. Il più grande sforzo dell'immaginazione umana è la
trasformazione di uomini in bestie, nel canto ventesimoquinto, quantunque la
soverchia minutezza generi sazietà.
Fra
tanti gruppi sorge qua e là alcuno individuo in cui si sviluppa con più chiara
coscienza il concetto di Malebolge. Un lato serio di questo concetto è lo
spirito che varca il limite assegnatogli. Se la ragione potesse veder tutto,
mestier
non era partorir Maria.
L'esperienza avea le sue colonne
d'Ercole; la ragione avea pure le sue colonne. Questo concetto qui è serio, non
è sublime, nè tragico; perchè l'uomo, che con la temerità oraziana sforza la
natura, è qui non dirimpetto a Dio come Prometeo e Capaneo, ma colpito e
soggiogato, senza che in lui paia vestigio di ribellione, di orgoglio e di
violenza:
...
... Dove rui,
Anfiarao?
perchè lasci la guerra?
E
non restò di rovinare a valle,
fino
a Minòs che ciascheduno afferra.
L'uomo di Orazio è sublime,
perchè lo vedi nell'opera, senti in lui la voluttà del frutto proibito,
malgrado Dio e la natura. Anfiarao è un puro nome; sublime di terrore è quel
suo precipitare a valle, mostrandocelo successivamente inabissarsi, ma il
grottesco vien subito dopo:
Mira
che ha fatto petto delle spalle:
perchè
volle veder troppo davante,
di
rietro guarda e fa ritroso calle.
Ulisse, che ha varcato i segni di
Ercole, è travolto nelle acque per giudizio di Dio, “come a lui piacque”. Pure
un po' dell'audacia di Ulisse è ancora in Dante, che gli mette in bocca nobili
parole, e ti fa sentire quell'ardente curiosità del sapere che invadeva i
contemporanei. Ti par di assistere al viaggio di Colombo. Il peccato diviene
virtù. Se la logica ghibellina pone in inferno l'autore dell'agguato contro
Troia, radice dell'impero sacro romano, la poesia alza una statua a questo
precursore di Colombo, che indica col braccio nuovi mari e nuovi mondi, e dice
a' compagni:
Considerate
la vostra semenza:
fatti
non foste a viver come bruti,
ma
per seguir virtute e conoscenza.
Ulisse è il grand'uomo solitario
di Malebolge. È una piramide piantata in mezzo al fango. Il comico penetra da
tutt'i lati, traendosi appresso il lordo, l'osceno, il disgustoso: lo spirito,
divenuto malizia, è qui decaduto, degradato; e con lui si oscura la nobile
faccia umana. Ulisse stesso per la sua malizia ha la sua figura coperta e
fasciata dalle fiamme. Siamo in un mondo comico.
La
regina delle forme comiche è la caricatura, il difetto colto come immagine e
idealizzato. Al che si richiede che il personaggio operi ingenuamente e
brutalmente, come non avesse coscienza del suo difetto, a quel modo che si vede
in Sancio Panza e in don Abbondio, eccellenti caratteri comici. I dannati di
Malebolge sono così fatti: essi sono cinici e perciò ridicoli, come i diavoli
nel canto ventesimosecondo, rissosi, abietti, vanitosi, bassamente feroci ne'
loro atti. Così sono i ladri, i truffatori, i barattieri, plebe in cui il vizio
è così connaturato, che non se ne accorge più. Tale è Nicolò terzo vano del suo
papale ammanto, che crede Dante venuto nell'inferno apposta per veder lui. Tali
sono pure Sinone e maestro Adamo. Essi si mostrano nella loro naturalezza, e
possono essere rappresentati nella forma diretta e immediata, isolando il
difetto dagli accessorii e idealizzandolo, divenuto un contromodello,
l'immagine opposta a quel tipo, a quel modello di perfezione che ciascuno ha in
mente: qui è la caricatura. Le concezioni di Dante sono di un comico plebeo
della più bassa lega: sia esempio la rissa tra Sinone e maestro Adamo. Si
rimane nel buffonesco, l'infimo grado del comico. Quest'uomo, così possente
creatore d'immagini nell'inferno tragico, qui si sente arido, freddo, in un
mondo non suo. Le situazioni sono comiche, ma il comico è rozzamente formato, e
non è artistico, non ha la sua immagine che è la caricatura, nè la sua
impressione che è il riso. Due persone in rissa cadono in un lago d'acqua
bollente che li divide. Situazione comica, se mai ce ne fu. Il poeta dice:
Lo
caldo sghermidor subito fue.
Espressione vivace, ma che non
sveglia nessuna immagine e ti lascia freddo. Non ha saputo cogliere quel
movimento, quella smorfia che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono.
La pancia di mastro Adamo, che sotto il pugno di Sinone “sonò come fosse un
tamburo”, è una felice caricatura; ma è una freddura il dire:
e
mastro Adamo gli percosse 'l volto
col
pugno suo che non parve men duro.
Manca spesso a Dante la
caricatura, e i suoi versi più comici non fanno ridere. Perchè a fare la
caricatura bisogna fermare l'immaginazione nell'oggetto comico, spassarcisi,
obbliarsi in quello, alzarlo a contromodello. Dante non ha questo sublime
obblio comico, non ha indulgenza, nè amabilità. Teme di sporcarsi tra quella
gente, e se ode, se ne fa rimproverare da Virgilio, e se ci sta, se ne scusa:
Ahi
fera compagnia! Ma in chiesa
coi
santi e in taverna coi ghiottoni.
Il suo riso è amaro; di sotto
alla facezia spunta il disdegno; e spesso nella mano la sferza gli si muta in
pugnale.
Il
riso muore, quando il personaggio comico ha coscienza del suo vizio, e non che
sentirne vergogna vi si pone al di sopra e ne fa il suo piedistallo. Allora non
sei tu che gli fai la caricatura; ma è lui stesso il suo proprio artista, che
si orna del suo difetto come di un manto reale, e se ne incorona e se ne fa
un'aureola, atteggiandosi e situandosi nel modo più acconcio a dire: - Miratemi
-; più acconcio a dare spicco al suo vizio. La bestia non cela il suo vizio e
non arrossisce; il rossore è proprio della faccia umana. L'uomo consapevole del
suo difetto, che vi si pone al di sopra, rinuncia alla faccia umana e dicesi
“sfacciato” o “sfrontato”. Qui la caricatura uccide se stessa, il comico giunto
alla sua ultima punta si scioglie; e n'esce un sentimento di supremo disgusto e
ribrezzo, che è il sublime del comico: la propria abbiezione predicata e
portata in trionfo aggiunge al disgusto un sentimento che tocca quasi l'orrore.
Qui Dante è nel suo campo. Il suo eroe è Vanni Fucci. Mastro Adamo è come
animale, senza coscienza della sua bassezza, Vanni Fucci ha avuto la coscienza
e l'ha soffocata; sono i due estremi nella scala del vizio; l'uno non è mai
salito fino all'uomo; l'altro è passato per l'uomo ed è ricaduto nella bestia.
Si sente bestia, e si pone come tipo bestiale, e sceglie le circostanze più
acconce a darvi risalto:
Vita
bestial mi piacque e non umana,
siccome
a mul ch'io fui. Son Vanni Fucci
bestia,
e Pistoia mi fu degna tana.
Ecco l'uomo che fa le fiche a
Dio, il Capaneo di Malebolge, l'umano divenuto bestiale e idealizzato come
tale.
Ma
l'umano non muore mai in tutto. L'uomo diviene bestia, ma la bestia torna uomo.
E con senso profondo Dante anche sulla faccia sfrontata di Vanni Fucci scoperto
ladro gitta il rossore della vergogna:
e
di trista vergogna si dipinse.
L'uomo che ha coscienza del suo
vizio e se ne vergogna, in luogo di mostrarlo al naturale (ciò che produce la
caricatura) cerca occultarlo sotto contraria apparenza: il poltrone fa il
bravo. Nasce il contrasto tra l'essere e il parere: la situazione divien
comica, e la sua forma è l'ironia. Lo spettatore indulgente e che vuole
spassarsi a sue spese finge di crederlo e di secondarlo; accetta come seria
l'apparenza che si dà, anzi la carica ancora di più; fa il bravo, ed egli lo
chiama un “Orlando”, ma accompagnando le parole di un cotale ammiccar d'occhi
che esprima scambievole intelligenza, di un tuono di voce in falsetto, di un
riso equivoco, che vuol dire: - Io ti conosco. - Perciò l'essenziale
dell'ironia non è nell'immagine, ma nel sottinteso: è il riflesso che succede
allo spontaneo; immagine sottilizzata nel sentimento. Forma delicata, perchè lo
spettatore, alla vista del difetto che altri cerca di mascherare, non sente
collera, non gli strappa la maschera dal viso, anzi se la mette egli stesso e
serba una compostezza e una pulitezza, equivoca ne' movimenti e ne' gesti.
Forma di tempi civili, assai rara nelle età barbare e nelle poesie primitive.
Dante, accigliato, brusco, tutto di un pezzo, com'è ne' suoi ritratti, ha
troppa bile e collera, e non è buono nè alla caricatura, nè all'ironia. Ma
dalla sua fantasia d'artista è uscita una di quelle creazioni, che sono le
grandi scoperte nella storia dell'arte, un mondo nuovo: il “nero cherubino”,
che strappa a san Francesco l'anima di Guido da Montefeltro, è il padre di
Mefistofele. Egli crea il diavolo, gli dà il suo concetto e la sua funzione. Il
diavolo è l'ironia incarnata: non ci è uomo tanto briccone che il diavolo non
sia più briccone di lui, e capite che non è disposto a guastarsi la bile per le
bricconerie degli uomini. L'uomo può ingannare un altro uomo, ma non può
ficcarla al diavolo, perchè il diavolo nel suo senso poetico è lui stesso, la
sua coscienza che risponde con un'alta risata a' suoi sofismi, e gli fa il
controsillogismo, e gli dice beffandolo:
...
... Forse
tu
non sapevi ch'io loico fossi!
Il brutto come il bello muore nel
sublime. E il brutto è sublime quando offende il nostro senso morale ed
estetico e ci gitta in violenta reazione. Scoppia la collera, l'indignazione,
l'orrore: il comico è immediatamente soffocato. Quando veggo un difetto
rivelarsi all'improvviso, uso la caricatura. Quando veggo un difetto che cerca
mascherarsi, prendo la maschera anch'io e uso l'ironia. Ma quando quel difetto
mi offende, mi sfida, mi provoca, si mette dirimpetto a me come contraddizione
al mio intimo senso, la mia coscienza così audacemente negata e contraddetta
reagisce: io strappo al vizio la maschera e lo mostro qual è, nella sua laida
nudità. La caricatura e l'ironia si risolvono in una forma superiore, il
sarcasmo, la porta per la quale volgiamo le spalle al comico e rientriamo nella
grande poesia.
Nel
sarcasmo caricatura e ironia riappariscono, ma per morire: nasce la caricatura,
ed è guastata; spunta la maschera, ed è strappata. E la morte viene da questo,
che nella forma sarcastica del brutto ci è l'idea che l'uccide, il suo
contrario. Nel canto de' simoniaci il sarcasmo fa la sua splendida apparizione.
Il comico muore sotto l'ira di Dante. L'antitesi tra quello che è di fuori e
quello che è nella sua anima scoppia in ravvicinamenti innaturali, come
“calcando i buoni e sollevando i pravi”, “Dio d'oro e d'argento”; e spesso in
parole a doppio contenuto, che è l'immagine del sarcasmo. Tale è la parola
rimasa proverbiale, con che è qualificata la servilità della Chiesa. Parimente
chiama “adulterio” la simonia e “idolatria” l'avarizia, parole, nelle quali
entrano come elementi la santità del matrimonio e il vero Dio: in una sola
immagine c'è il brutto e ci è l'idea che lo condanna.
Ma
il sarcasmo dee purificare e consumare se stesso. Finchè rimane nel particolare
e nel personale, il linguaggio è acre, bilioso: hai Giovenale e Menzini. Il
poeta, non che rimanere imprigionato in quello spettacolo, dee spiccarsene,
porcisi al di sopra, allargare l'orizzonte, essere eloquente, voce di verità,
espressione impersonale della coscienza. Certo, in quel canto de' simoniaci
vive immortale la vendetta dell'uomo ingannato che anticipa a Bonifazio
l'inferno, e del ghibellino e del cristiano che vede nel papato temporale una
pietra d'inciampo e di scandalo. Ma i sentimenti e le passioni personali, se
hanno ispirato il poeta e resa terribilmente ingegnosa la sua fantasia, non
penetrano nella rappresentazione. Bisogna sapere la storia per indovinare i
terribili incentivi dell'alta creazione. Ciò che qui senti è la convinzione, la
buona fede del poeta, la sincerità e l'impersonalità della sua collera: onde
sgorga dal suo labbro eloquente tanta magnificenza d'immagini e di concetti.
Prima Dante è in collera con Nicolò, pinto in pochi tratti vano, piccolo, col
cervello e co' sensi nel piede. E comincia col “tu”, e l'assale corpo a corpo,
con ironia amara che si trasforma nel pugnale del sarcasmo:
e
guarda ben la mal tolta moneta,
ch'esser
ti fece contra Carlo ardito.
Ma nel pendìo dell'ingiuria si
contiene d'un tratto, passaggio meritamente ammirato: la piccola persona di
Nicolò scomparisce; sottentra il “voi”, i papi, il papato; le idee guadagnano
di ampiezza senza perdere di energia, e da ultimo la collera svanisce in una
certa tristezza pura di ogni stizza; è un deplorare, non è più un inveire:
Ahi
Costantin, di quanto mal fu matre,
non
la tua conversion, ma quella dote
che
da te prese il primo ricco patre!
Tale è Malebolge: miniera
inesausta di caratteri comici, concezione delle più originali, dove il comico è
posto ed è sciolto. Poco felice nel maneggio delle forme comiche, il poeta è
insuperabile quando se ne sviluppa, mutato il riso in collera, come nella sua
invettiva, nella pena di Bertram dal Bormio, nella rappresentazione di Vanni
Fucci. Rimane un fondo comico che aspetta ancora il suo artista. Pure in quella
materia appena formata vive immortale il suo nero cherubino.
Nel
pozzo de' traditori la vita scende di un grado più giù: l'uomo bestia diviene
l'uomo ghiaccio, l'essere petrificato, il fossile. In questo regresso
dell'inferno, in questo cammino a ritroso dell'umanità siamo giunti a quei
formidabili inizi del genere umano, regno della materia stupida, vuota di
spirito, il puro terrestre, rappresentato ne' giganti, figli della terra, nella
loro lotta contro Giove, natura celeste e spirituale, inferiore di forza
fisica, ma armato del fulmine:
...
... con minaccia
Giove
dal cielo ancora, quando tuona
Con questo mito concorda la
storia biblica degli angeli ribelli. Qui all'ingresso trovi i giganti; alla
fine Lucifero: mitologia e Bibbia si mescolano, espressioni della stessa idea.
La lotta è finita: i giganti sono incatenati; Lucifero è immenso e stupido
carname, il gradino infimo nella scala de' demòni. Il gigantesco è la poesia
della materia; ma qui, vuoto e inerte, è prosa. Tra' giganti e Lucifero stanno
i dannati fitti nel ghiaccio. Le acque putride di Malebolge, ventate dalle
enormi ali di Lucifero, si agghiacciano, s'indurano, diventano mare di vetro,
di dentro a cui traspariscono come festuche i traditori contro i congiunti
nella Caina, contro la patria nell'Antenora, contro gli amici nella Tolomea, e
contro i benefattori nella Giudecca. La pena è una, ma graduata secondo il
delitto. Il movimento si estingue a poco a poco, la vita si va petrificando,
finchè cessa in tutto la lacrima, la parola e il moto. L'immagine più schietta
di questo mondo cristallizzato è il teschio dell'arcivescovo Ruggieri,
inanimato e immobile sotto i denti di Ugolino.
L'Ugolino
è una delle più straordinarie e interessanti fantasie. E per lui che la vita e
la poesia entra in questo mare morto, dove la natura e il demonio e l'uomo è
materia stupida e senza interesse. Come concetto morale, il tradimento è la
colpa più grave; ma qui manca l'organo della colpa: il grido della coscienza
sembra agghiacciato insieme col colpevole. Questo grido può uscire dal petto
concitato di Dante spettatore, come è già avvenuto in Malebolge, dove
l'invettiva di Dante risolve il comico. Qui ci è di meglio. Tra questi esseri
petrificati Dante gitta il suo Ugolino, ghiacciato con gli altri, come
traditore egli pure, ma col capo sul capo di Ruggieri, perchè insieme egli è il
suo tradito e il suo carnefice. È la vittima che qui alza il grido contro il
traditore, e gli sta eternamente co' denti sul capo, saziando in quello il suo
odio, istrumento inconscio della vendetta di Dio. Così è nato l'Ugolino, il
personaggio più ricco, più moderno, più popolare di Dante dove l'analisi è più
profonda e più sviluppata, nelle sue straordinarie proporzioni così umano e
vero.
Prendete
ora una carta topografica dell'inferno, e guardate questa piramide capovolta, a
forma d'imbuto. Vedete l'immensa base alla cima, senza figura altra che di
cerchi, fra le tenebre eterne; e poi quei cerchi prendon figura di città
rosseggiante di fiamme, e la città di bolgia putrida e puzzolenta, e la bolgia
di pozzo entro il quale è petrificata la natura; in cima l'infinito, alla fine
il tristo buco
sopra
'l qual pontan tutte le altre rocce;
e voi avete così l'immagine
visibile di questo inferno estetico. Gli è come nelle rivoluzioni. Nel primo
entusiasmo tutto è grande; poi vien fuori il sanguinario, il feroce,
l'orribile, finchè da' più bassi fondi della società sale su il laido,
l'abietto e il plebeo. Questa decomposizione e depravazione successiva della
vita è l'Inferno.
L'Inferno
è l'uomo compiutamente realizzato come individuo, nella pienezza e libertà
delle sue forze. E può misurare la grandezza dell'opera, chi vede gli abbozzi
di Dino Compagni, o lo scarno Ezzelino, o le rozze formazioni de'
misteri e delle leggende. L'individuo era ancora astratto e impigliato nelle
formole, nelle allegorie e nell'ascetismo. In quelle vuote generalità ci è la
donna e l'uomo, come genere, come simbolo, come l'anima; manca l'individuo. E
manca tanto, che spesso non ha un nome, ed è la “mia donna”, o “un giovine”,
“un santo uomo”. Non un nome solo era rimasto vivo nel mondo dell'arte, fra
tante liriche e leggende. Dante volea scrivere il mistero dell'anima; si cacciò
tra allegorie e formole, ed ecco uscirgli dalla fantasia l'individuo, volente e
possente, nel rigoglio e nella gioventù della forza, spezzato il nocciolo dove
lo avea chiuso il medio evo. I pittori disegnavano santi e cupole, i filosofi
fantasticavano sull'ente; i lirici platonizzavano, gli ascetici contemplavano e
pregavano: Dante pensava l'inferno; e là, tra' furori della carne e l'infuriar
delle passioni, trovava la stoffa di Adamo, l'uomo com'è impastato, con la sua
grandezza e con la sua miseria, e non descritto, ma rappresentato e in azione,
e non solo ne' suoi atti, ma ne' suoi motivi più intimi. Così apparvero
sull'orizzonte poetico Francesca, Farinata, Cavalcanti, la Fortuna, Pier delle
Vigne, Brunetto, Capaneo, Ulisse, Vanni Fucci, il “nero cherubino”, Nicolò
terzo e Ugolino. Tutte le corde del cuore umano vibrano. Vedi attorno a questa
schiera d'immortali, turba infinita di popolo nella maggior varietà di
attitudini, di forme, di sentimenti, di caratteri, che ti passano avanti,
alcuni appena sbozzati, altri numero e nome, altri segnati in fronte di qualche
frase indimenticabile, che li eterna, come Taide, Mosca, Giasone, Omero,
Aristotile, papa Celestino, Bonifazio, Clemente, Bruto, Bocca degli Abati,
Bertram dal Bormio. Nel regno de' morti si sente per la prima volta la vita nel
mondo moderno. Come è bella la luce, il “dolce lome”, a Cavalcanti! Quanta
malinconia è in quella selva de' suicidi, spogliata del verde! Come è
commovente Brunetto, che raccomanda a Dante il suo Tesoro, e Pier delle
Vigne che gli raccomanda la sua memoria! Come ride quel giardino del peccato
innanzi a Francesca! Col vivo sentimento della dolce vita, della bella natura,
è accompagnato il sentimento della famiglia. Quel padre che cade supino, udendo
la morte del figlio, e Ugolino che dannato a morire di fame guarda nel viso a'
figliuoli, e Anselmuccio che gli domanda: - Che hai? - E Gaddo che gli dice: -
Perchè non mi aiuti? - Sono scene solitarie della poesia italiana. Ciascuno è
in una situazione appassionata. I sentimenti spinti alla punta idealizzano e
ingrandiscono gli oggetti. Tutto è colossale, e tutto è naturale E in mezzo
torreggia Dante, il più infernale, il più vivente di tutti, pietoso, sdegnoso,
gentile, crudele, sarcastico, vendicativo, feroce, col suo elevato sentimento
morale col suo culto della grandezza e della scienza anche nella colpa, coi suo
dispregio del vile e dell'ignobile, alto sopra tanta plebe, così ingegnoso
nelle sue vendette, così eloquente nelle sue invettive.
Queste
grandi figure, là sul loro piedistallo rigide ed epiche come statue, attendono
l'artista che le prenda per mano e le gitti nel tumulto della vita e le faccia
esseri drammatici. E l'artista non fu un italiano: fu Shakespeare.
Chi
vuole ora concepire il Purgatorio, si metta in quella età della vita che
le passioni si scoloriscono, e l'esperienza e il disinganno tolgono le
illusioni, e scemata la parte attiva e personale, l'uomo si sente
generalizzare, si sente più come genere che come individuo. Spettatore più che
attore, la vita si manifesta in lui non come azione, ma come contemplazione
artistica, filosofica, religiosa. In quella calma delle passioni e de' sensi
era posto l'ideale antico del savio, l'ideale nuovo del santo, fuso insieme in
quel Catone, che Dante chiama nel Convito anima nobilissima e la più
perfetta immagine di Dio in terra. Catone è il savio antico, pinto come i
filosofi, con quella sua lunga barba, in quella calma e gravità della sua
decorosa vecchiezza:
degno
di tanta riverenza in vista,
che
più non dee a padre alcun figliuolo.
Ma è qualcosa di più; è il savio
battezzato e santificato, con la fronte radiante, illuminata dalla grazia, sì
che pare un sole. Virgilio non comprende questo savio cristianizzato, e parla
al Catone di sua conoscenza, ricordando la sua virtù, la sua morte per la
libertà, la sua Marzia. E il nuovo Catone risponde: - Marzia, che piacque tanto
agli occhi miei, non mi move più; ma se Donna del cielo ti guida, non ci è
mestier lusinga:
basta
ben che per lei mi richegge.
Che cosa è il Purgatorio?
È il mondo dove questo doppio ideale è realizzato: il mondo di Catone o della
libertà, dove lo spirito si sviluppa dalla carne e cerca la sua libertà:
Libertà
va cercando ch'è sì cara,
come
sa chi per lei vita rifiuta.
Altro concetto, altra natura,
altro uomo, altra forma, altro stile. Non è più l'Iliade, è l'Odissea,
è un nuovo poema. Paragonare Inferno e Purgatorio e maravigliarsi
che qui non sieno le bellezze ammirate colà, gli è come maravigliarsi che il
purgatorio sia purgatorio e non inferno. O, se pur vogliamo maravigliarci di
qualche cosa, maravigliamoci che il poeta abbia potuto così compiutamente
dimenticare l'antico se stesso, le sue abitudini di concepire, di disporre, di
colorire, e seppellito in questo nuovo mondo ricrearsi l'ingegno e la fantasia
a quella immagine, e con tanta spontaneità che pare non se ne accorga: obblio
dell'anima nella cosa, il secreto della vita, dell'amore e del genio.
L'inferno
e il regno della carne, che scende con costante regresso sino a Lucifero. Il
purgatorio e il regno dello spirito, che sale di grado in grado sino al
paradiso. È là che si sviluppa il mistero, la Commedia dell'anima, la
quale dall'estremo del male si riscote e si sente e mediante l'espiazione e il
dolore si purifica e si salva. Onde con senso profondo il purgatorio esce
dall'ultima bolgia infernale, e Lucifero, principe delle tenebre, e quello
stesso per le spalle del quale Dante salendo esce a riveder le stelle.
Ci
è un avanti-purgatorio, dove la carne fa la sua ultima apparizione. Il suo
potere non è più al di dentro: l'anima è già libera; della carne non resta che
la mala abitudine. Gradazione finissima e altamente comica, dalla quale è
uscito l'immortale ritratto di Belacqua, caricatura felicissima nella figura,
ne' movimenti, nelle parole, e tanto più comica quanto più Belacqua si sforza
di rimaner serio, usando un'ironia che si volge contro di lui.
Questo
avanti-purgatorio è quasi una transizione tra l'inferno e il purgatorio: il
peccato vi è e non v'è; e ancora nell'abitudine non è più nell'anima; il
demonio ci sta sotto la forma del serpente d'Eva, involto tra l'erbe e i fiori,
cacciato via da due angioli dalle vesti e dalle ali di color verde, simbolo
della speranza. Comparisce per scomparire, quasi per far testimonianza che se
ne va dalla scena per sempre. Innanzi alla porta del purgatorio scompare il
diavolo e muore la carne, e con la carne gran parte di poesia se ne va.
L'anima
non appartiene più alla carne, ma l'ha avuta una volta sua padrona e se ne
ricorda. La carne non è più una realtà, come nell'inferno, ma una ricordanza.
Ne' sette gironi, rispondenti a' sette peccati mortali, le anime ricordano le
colpe per condannarle; ricordano le virtù per compiacersene.
Quel
ricordare le colpe non è se non l'inferno che ricomparisce in purgatorio per
esservi giudicato e condannato; quel ricordare le virtù non è se non il
paradiso che preluce in purgatorio per esservi desiderato e vagheggiato:
l'inferno ci sta in rimembranza; il paradiso ci sta in desiderio. Carne e
spirito non sono una realtà: la tirannia della carne è una rimembranza; la
libertà dello spirito è un desiderio.
Poichè
la realtà non è più in presenza, ma in immaginazione, essa vi sta non come
azione rappresentata e drammatica, ma come immagine dello spirito, a quel modo
che noi riproduciamo dentro di noi la figura delle cose non presenti, e
pingiamo al di fuori quello spettro della mente. Questa realtà dipinta vien
fuori nelle pareti e ne' bassirilievi del purgatorio. Nell'inferno e nel
paradiso non sono pitture, perchè ivi la realtà è natura vivente, è
l'originale, di cui nel purgatorio hai il ritratto. Inferno e paradiso sono in
purgatorio, ma in pittura, come il passato e l'avvenire delle anime, non
presenti agli occhi, ma all'immaginativa. Quelle pitture sono il loro “memento”,
lo spettacolo di quello che furono, di quello che saranno, che le stimola,
mette in attività la loro mente, si che ricordano altri esempli e si affinano,
si purgano.
Siamo
dunque fuori della vita. Le passioni tornano innanzi alle anime, ma non sono
più le loro passioni, sono fuori di esse, contemplate in sè o in altri con
l'occhio dell'uomo pentito. Anche le virtù sono estrinseche alle anime,
contemplate al di fuori come esempli e ammaestramenti. Le anime sono
spettatrici, contemplanti, non attrici. Passioni buone o cattive non sono in
presenza e in azione, ma sono una visione dello spirito, figurata in intagli e
pitture.
Questa
concezione così semplice e vera nella sua profondità è la pittura e la
scoltura, l'arte dello spazio, idealizzata nella parola e fatta poesia. Perchè
il poeta non dipinge, ma descrive il dipinto. La parola non può riprodurre lo
spazio che successivamente, e perciò è inefficace a darti la figura, come fa il
pennello e lo scarpello. Nè Dante si sforza di dipingere, entrando in una gara
assurda col pittore. Ma compie e idealizza il dipinto, mostrando non la figura,
ma la sua espressione e impressione: dinanzi all'immaginazione la figura
diviene mobile, acquista sentimento e parola.
Le aguglie di Traiano in vista si
movono al vento; la vedovella è atteggiata di lagrime e di dolore;
nell'attitudine di Maria si legge: “Ecce ancilla Dei”; l'angiolo
intagliato in atto soave non sembrava immagine che tace:
Giurato
si saria ch'ei dicesse Ave.
Davide ballando sembra più e meno
che re; e gli sta di contro Micol, che ammirava,
siccome
donna dispettosa e trista.
Erano i tempi di Giotto, e
parevano maravigliosi quei primi tentativi dell'arte. Quest'alto ideale
pittorico di Dante fa presentire i miracoli del pennello italiano. Il poeta
avea innanzi all'immaginazione figure animate, parlanti, dipinte da
Colui,
che mai non vide cosa nuova,
ben più vivaci che non gliele
potevano offrire i suoi contemporanei.
Più in la il dipinto sparisce:
senza aiuto di senso, per sua sola virtù, lo spirito intuisce il bene e il
male, ricorda i buoni e i cattivi esempli, vede da se stesso e in se stesso. La
realtà non solo non ha la sua esistenza, come cosa sensata, il sensibile; ma
neppure come figurativa, in pittura; diviene una visione diretta dello spirito,
che opera già libero e astratto dal senso. Nasce un'altra forma dell'arte, la
visione estatica. L'anima vede farsi dentro di sè una luce improvvisa, nella
quale pullulano immagini sopra immagini come bolle d'acqua che gonfiano e
sgonfiano, e l'universo visibile si dilegua innanzi a questa luce interiore, di
modo che il “suono di mille tube” non basterebbe a rompere la contemplazione.
Dante trova forme nuove ed energiche ad esprimere questo fenomeno. Le immagini
“piovono” nell'alta fantasia; la mente è
... ... sì ristretta
dentro di se', che di fuor non
venia
cosa che fosse allor da lei
ricetta.
L'immaginativa ne “ruba” di
fuori, sì
che uom non s'accorge
perchè d'intorno suonin mille
tube.
L'anima vòlta in estasi ficca gli
occhi nell'immagine con ardente affetto:
come
dicesse a Dio: - D'altro non calme -.
Tra queste visioni bellissima è quella
del martirio di santo Stefano: un quadro a contrasto, dove tra la folla
inferocita che grida: - Martira, martira -, è la figura del santo, la persona
già aggravata dalla morte e china verso terra, ma gli occhi al cielo preganti
pace e perdono: è il soprastare dell'anima nell'abbandono del corpo.
Siamo
dunque in piena vita contemplativa. Il processo della santificazione si
sviluppa. Nell'inferno i tumulti e le tempeste della vita reale appassionata
dal furore de' sensi: qui entriamo in quel mondo di romiti e di santi, in quel
mondo de' misteri e delle estasi, così popolare, nel mondo di Girolamo, di
Francesco d'Assisi e di Bonaventura, dove la pittura attingea le sue
ispirazioni.
Nella
visione estatica lo spirito ha già un primo grado di santificazione, ha
conquistato la sua libertà dal senso, ha già il suo paradiso; ma è un paradiso
interiore, immagine e desiderio, e non sarà realtà, paradiso reale, se non
quando quella luce e quelle immagini, vedute dallo spirito entro di sè, sieno
fuori di sè, sieno cose e non immagini. Il purgatorio è il regno delle
immagini, uno spettro dell'inferno, un simulacro del paradiso.
Nella
visione estatica lo spirito è attivo e conscio; nel sogno è passivo e
inconscio: è una forma di visione superiore, non solo senza opera del senso, ma
senza opera dello spirito; è visione divina, prodotta da Dio. Perciò il sogno
anzi
che 'l fatto sia, sa le novelle;
e l'anima
alle
sue vision quasi è divina.
Nel sogno si rivela il
significato delle visioni e delle apparenze del purgatorio. Che cosa
significano quelle pitture e quelle estasi? che cosa è il purgatorio? È il
regno dell'intelletto e del vero, dove il senso è spogliato delle sue belle e
piacevoli apparenze, e mostrato qual'è, brutto e puzzolento. L'apparenza è una sirena:
Io
son - cantava - io son dolce Sirena,
che
i marinari in mezzo al mar dismago,
tanto
son di piacere a sentir piena.
Ma una donna santa, la Verità,
fende i drappi; e la mostra qual femmina balba e scialba, e mostra il ventre:
quel
mi svegliò col puzzo che ne usciva.
Vinto il senso e l'apparenza, si
presenta a Dante in sogno l'immagine della vita, non quale pare, ma qual è, la
vera vita a cui sospira e che cerca nel suo pellegrinaggio. E vede la vita
nella prima delle due sue forme, la vita attiva, lo affaticarsi nelle buone
opere per giungere alla beatitudine della vita contemplativa. La sirena è
rozzamente abbozzata: manca a Dante il senso della voluttà; senti nel verso
stesso non so che intralciato e stanco. Lia è una delle sue più fresche
creazioni, personaggio tipico così perfetto nel suo genere, come la Fortuna. La
sua felicità non è ancora beatitudine, come è della suora che vive guardando
Dio, il suo miraglio; ma appunto perciò è più interessante e poetica, più
umana, più vicina a noi questa bella fanciulla, che va tutta lieta pel prato, e
coglie fiori e se ne fa ghirlanda e si mira allo specchio. Tale è la prima
immagine che il giovine incontra sovente ne' suoi sogni!
L'ultima
forma sotto la quale si presenta la realtà è la visione simbolica, dove la
forma non significa più se stessa, ma un'altra cosa. Il purgatorio finisce tra'
simboli: è il paradiso che si offre all'anima sotto figura. Cristo è un
grifone, e il carro su cui sta è la Chiesa, e Dante ha una serie di strane
visioni, che rappresentano simbolicamente la storia della Chiesa.
Così
la realtà corpulenta e tempestosa dell'inferno si va diradando e sottilizzando
per trasformarsi nella vera realtà, lo spirito o il paradiso. Questo processo
di carne a spirito è il purgatorio, dove la forma diviene pittura, estasi,
sogno, simbolo. Il simbolo già non è più forma, ma puro spirito, lavoro
intellettuale. Sotto la figura ci è la nuova e vera realtà, pronta a
svilupparsene e comparire essa direttamente.
L'uomo
del purgatorio ha i sentimenti conformi a questo stato dell'anima. Il suo
carattere è la calma interiore, assai simile alla tranquilla gioia dell'uomo
virtuoso, che nella miseria terrena sulle ali della fede e della speranza alza
lo spirito al paradiso. Le ombre sono contente nel fuoco, gli affetti hanno
dolci e temperati, il desiderio puro d'inquietudine e d'impazienza. Ne nasce un
mondo idillico, che ricorda l'età dell'oro, dove tutto è pace e affetto, e dove
si manifestano con effusione le pure gioie dell'arte, i dolci sentimenti
dell'amicizia. In questo mondo di pitture e scolture Dante si è coronato di
artisti: Casella, Sordello, Guido Guinicelli, Buonagiunta da Lucca, Arnaldo
Daniello, Oderisi, Stazio, e ne ha cavato episodi commoventi, che fanno vibrare
le fibre più delicate del cuore umano. Ricorderò il suo incontro con Casella, e
il ritratto di Sordello, e i cari ragionamenti dell'arte con Guinicelli e
Buonagiunta, e l'incontro di Stazio e Virgilio. È un lato della vita nuovo, pur
così vero in tempi che la vita intima della famiglia, dell'arte e dell'amicizia
era un rifugio e quasi un asilo fra le tempeste della vita pubblica. Come tocca
il core l'amicizia di Dante e di Forese, fratello di Corso Donati, il
principale nemico di Dante, e quel domandar ch'egli fa di Piccarda! I movimenti
improvvisi dell'affetto e della maraviglia sono colti con tanta felicità, che
rimangono anche oggi vivi nel popolo, come è l'“o” lungo e roco delle anime che
veggon l'ombra di Dante, o il paragone delle pecorelle, e la calma di Sordello,
a
guisa di leon quando si posa,
mutata subito in un sì vivace
impeto di affetti, e Stazio che corre incontro a Virgilio per abbracciarlo,
obliando di essere un'ombra, e il cerchio dell'anime intorno a Dante,
quasi
obliando d'ire a farsi belle,
e Casella che se ne spicca e si
gitta tra le braccia di Dante:
Oh
ombre vane, fuor che nell'aspetto!
tre
volte dietro a lei le mani avvinsi,
e
tante mi tornai con esse al petto.
Questa intimità, questo tenere
nel cuore un cantuccio chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici,
all'arte, alla natura, quasi tempio domestico, impenetrabile a' profani, è il
mondo rappresentato nel Purgatorio. Le ricordanze de' casi anche più
tristi sono pure di amarezza, raddolcite dalle speranze dell'ultimo giorno.
Manfredi non ha una ingiuria per i suoi nemici, chiede perdono, ed ha già
perdonato.
Io
mi rendei
piangendo
a quei che volentier perdona.
Buonconte di Montefeltro racconta
le circostanze più strazianti della sua morte con una calma e una serenità, che
diresti indifferenza, se non te ne rivelasse il secreto il sentimento espresso
in questi versi:
Qui
vi perdei la vista
nel
nome di Maria finio, e quivi
caddi,
e rimase la mia carne sola.
Ciascuno ha conservato in quel
cantuccio del cuore il suo tempio domestico. Ciascuno vuol essere ricordato a'
suoi diletti. Come è caro quel Forese con quel “Nella mia”,
la
vedovella mia che tanto amai!
E Buonconte ricorda la sua
Giovanna e gli altri che si sono dimenticati di lui, e Manfredi vuol essere ricordato
a Costanza, e Iacopo a' suoi fanesi, che pregassero per lui: la sola Pia non ha
alcun nome nel suo santuario domestico, e non ha che Dante che possa ricordarsi
di lei:
ricordati
di me, che son la Pia.
Questo mondo così affettuoso è penetrato
di malinconia: sentimento nuovo, che avrà tanta parte nella poesia moderna, e
generato qui, nel Purgatorio. Questo sentimento ti prende a udir la Pia,
così delicata nella solitudine del suo cuore; eppure non era sola, e ricorda la
gemma, pegno d'amore. La tenerezza e delicatezza de' sentimenti dispone l'animo
alla malinconia: perchè malinconia non è se non dolce dolore, dolore raddolcito
da immagini care e tenere. Richiede perciò anime raccolte che vivano in
fantasia, sieno “pensose”, non distratte dal mondo, chiuse nella loro intimità
La malinconia è il frutto più delicato di questo mondo intimo. Come ti va al
core quell'ora che incomincia i tristi lai la rondinella, presso alla mattina,
e quella squilla di lontano,
che
pare il giorno pianger che si more,
e quell'ora della sera che i
naviganti partono e s'inteneriscono pensando
lo
dì c'han detto a' dolci amici: addio!
Qui Dante gitta via l'astronomia,
che rende spesso così aride le sue albe e le sue primavere, e rende tutte le
dolcezze di una natura malinconica. Tra le scene più intime, più penetrate di
malinconia, è il suo incontro con Casella. Cominciano espansioni di affetto.
Nel primo impeto corrono ad abbracciarsi. Casella dice:
Così
com'io t'amai
nel
mortal corpo, così t'amo sciolta.
Dante risponde: - Casella mio! -
e lo prega a voler cantare, come faceva in vita, che col canto gli acquietava
l'anima, e ora l'anima sua è così affannata. E Casella canta una poesia di
Dante, e Dante e Virgilio e le anime fanno cerchio, rapite, dimentiche del
purgatorio, sgridate da Catone. Ma se Catone non perdona, perdonano le muse.
Quest'oblio del purgatorio, questa musica che ci riconduce alle care memorie
della vita, la terra che scende nell'altro mondo e si impossessa delle anime,
sì che obliano di essere ombre e vogliono abbracciare gli amici e pendono dalla
bocca di Casella, questo è poesia. Ci si sente qua dentro la malinconia
dell'esilio, l'uomo che giovine ancora desiderava con la sua Bice e i suoi
amici e le loro donne ritrarsi in un'isola e farne il santuario dei suoi
affetti e obliarvi il mondo.
E
c'è la malinconia propria del purgatorio, quel vedere di là con mutati occhi le
grandezze e gli affetti terreni, quel disabbellirsi della vita, quel cadere di
tutte le illusioni:
Non
è il mondan rumore altro ch'un fiato
di
vento, ch'or vien quinci ed or vien quindi,
e
muta nome perchè muta lato.
Una delle figure più interessanti
è Adriano. All'ultimo della grandezza dice:
Vidi
che lì non si quetava il core,
ne
più salir poteasi in quella vita;
per
che di questa in me s'accese amore.
Questo papa disilluso ha lunga e
mala parentela, e sono tutti morti per lui, eccetto la buona Alagia:
E
questa sola m'è di la rimasa.
Quest'ultimo verso è pregno di
malinconia.
Questa calma filosofica, che fa
guardare dall'alto del purgatorio la vita e ne scopre il vano e il nulla,
restringe il circolo della personalità e della realtà terrena. Gli individui
appariscono e spariscono, appena disegnati; hanno la bellezza, ma anche la
monotonia e l'immobilità della calma. Sono uomini che discutono e conversano in
una sala, più che uomini agitati e appassionati. I grandi individui storici, le
grandi creature della fantasia scompariscono.
Più
che negli individui la vita si manifesta nei gruppi: la vita qui è meno
individuo che genere. La comune anima ha la sua espressione nel canto.
Nell'inferno non ci son cori; perchè non vi è l'unità dell'amore. L'odio è
solitario; l'amore è simpatia e armonia; la musica e il canto conseguono i loro
effetti nella misurata varietà delle voci e degl'istrumenti. Qui le anime sono
esseri musicali, che escono dalla loro coscienza individuale, assorte in uno
stesso spirito di carità:
Una
parola era in tutto e un modo,
sì
che parea tra esse ogni concordia.
Le anime compariscono a gruppi e
cantano salmi e inni, espressione varia di dolore, di speranza, di preghiera,
di letizia, di lodi al Signore. Quando giungono al purgatorio, le odi cantare:
“In exitu Israel de Aegypto”. Giungono nella valle, ed ecco intonare il
Salve Regina. La sera odi l'inno: “Te lucis ante terminum Rerum creator poscimus”. Entrando nel
purgatorio, risuona il Te Deum. Sono i salmi e gl'inni della Chiesa,
cantati secondo le varie occasioni, e di cui il poeta dice le prime parole. Ti
par d'essere in chiesa e udir cantare i fedeli. Quei canti latini erano allora
nella bocca di tutti, erano cantati da tutti in chiesa; il primo verso bastava
a ricordarli. Il poeta ha creduto bastar questo ad accendere ne' petti
l'entusiasmo religioso. E forse bastava allora, quando quei versi suscitavano
tante rimembranze e immagini della vita religiosa. La poesia qui non è nella
rappresentazione, ma in quei lettori e in quei tempi. Un nome, una parola basta
in certi tempi a produrre tutto l'effetto: con quei tempi se ne va la loro
poesia, e restano cosa morta. Molte parti del poema dantesco, aride liste di
nomi e di fatti, soprattutto le allusioni politiche, allora così vive, oggi son
morte. E tutta questa lirica del purgatorio è cosa morta. Perchè Dante non crea
dal suo seno quei sentimenti, ma li trova belli e scritti ne' canti latini, e
si contenta di dirne le prime parole. Pure, la situazione delle anime purganti
è altamente lirica; la loro personalità non è individuale, ma collettiva, e
l'espressione di quella comune anima svegliatasi in loro è l'onda canora de'
sentimenti. Qui mancò la vena e la forza al gran poeta, e si rimise a Davide di
quello ch'era suo compito. Più che visioni e simboli e dipinti, la vita del
purgatorio era questa effusione lirica di dolore, di speranza, di amore, di
quell'incendio interiore che rende le anime affettuose, concordi in uno stesso
spirito di carità. Ha saputo così ben dipingerle queste anime ardenti, che
s'incontrano, si baciano e vanno innanzi, tirate su verso il cielo!
Li
veggio d'ogni parte farsi presta
ciascun'ombra,
e baciarsi una con una,
senza
restar, contente a breve feste.
Così
per entro loro schiera bruna
s'ammusa
l'una con l'altra formica,
forse
a spiar lor via e lor fortuna.
E che poteva e sapeva con pari
felicità esprimere i loro sentimenti, non solo il vago e l'indeterminato, ma
anche il proprio e il successivo, ed essere il Davide del suo purgatorio, lo
mostra il suo “paternostro”, rimaso canto solitario.
Le
fuggitive apparizioni degli angeli sono quasi immagine anticipata del paradiso
nel luogo della speranza. In essi non e alcuna subbiettività: sono forme eteree
vestite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni dell'estasi, e nondimeno
ciascuna con propria apparenza e attitudine.
Tal
che parea beato per iscritto...
Verdi
come fogliette pur mo' nate
erano
in veste, che da verdi penne
percosse
traean dietro e ventilate...
Ben
discernea in lor la testa bionda,
ma
nelle facce l'occhio si smarria,
come
virtù ch'a troppo si confonda...
A
noi venìa la creatura bella,
bianco
vestita, e nella faccia quale
par
tremolando mattutina stella.
Molto per la pittura, poco per la
poesia. Manca la parola, manca la personalità. Ci è il corpo dell'angiolo; non ci
è l'angiolo. Nelle dolci note, tra quelle forme d'angioli, l'anima s'infutura,
“gusta le primizie del piacere eterno”. Di che prende qualità la natura del
purgatorio, una montagna, scala al paradiso, in principio faticosa a salire:
E
quanto uom più va su, e men fa male.
Però
quando ella ti parrà soave
tanto
che il su andar ti sia leggiero,
com'a
seconda in giuso l'andar con nave,
allor
sarai al fin d'esto sentiero.
Il luogo è rallegrato da luce non
propria, ma riflessa dal sole e dalle stelle, che sono il paradiso dantesco. La
prima impressione della luce, uscendo dall'inferno, cava a Dante questa bella
immagine:
Dolce
color d'oriental zaffiro
che
s'accoglieva nel sereno aspetto
dell'aer
puro infino al primo giro,
agli
occhi miei ricomincio diletto.
La natura è l'accordo musicale e
la voce di quel di dentro: qui natura, angeli e anime sono un solo canto, un
solo universo lirico. Scena stupenda è nel canto settimo, maravigliosa
consonanza tra le ombre sedute, quete, che cantano “Salve Regina”, e la
vista allegra del seno erboso e fiorito dove stanno:
Non
avea pur natura ivi dipinto,
ma
di soavità di mille odori
vi
faceva un incognito indistinto.
“Salve
Regina” in sul verde e in su' fiori
quindi
seder, cantando, anime vidi.
Le anime piangono e cantano, e il
luogo alpestre è lieto di apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto
ha termine, quando l'anima si leva con libera volontà a miglior soglia, tolte
le “schiume della coscienza”, con pura letizia. Così come nell'inferno si
scende sino al pozzo ghiacciato della morte, nel purgatorio si sale sino al
paradiso terrestre, immagine terrena del paradiso, dove l'anima è monda del
peccato o della carne, e rifatta bella e innocente. Tutto è qui che alletti lo
sguardo e lusinghi l'immaginazione: riso di cielo, canti di uccelli, vaghezza
di fiori, e tremolar di fronde e mormorare di acque, descritto con dolcezza e
melodia, ma insieme con tale austera misura, che non dà luogo a mollezza ed
ebbrezza di sensi, nè il diletto turba la calma.
Il
purgatorio è il centro di questo mistero o commedia dell'anima; è qua che il
nodo si scioglie. Dante, più che spettatore è attore. Uscito dall'inferno,
appena all'ingresso del purgatorio l'angiolo incide sulla sua fronte sette “P”,
che sono i sette peccati mortali, che si purgano ne' sette gironi. Da un girone
all'altro una “P” scomparisce dalla fronte, finchè van via tutte, e puro e
rinnovellato giunge al paradiso terrestre. Passa da uno stato nell'altro in
sonno, cioè a dire per virtù della grazia, senza sua coscienza. È Lucia,
“nemica di ciascun crudele”, che lo piglia dormente e sognante, e lo conduce in
purgatorio. Così la storia intima dell'anima, i suoi errori, le passioni, i
traviamenti, i pentimenti, sono storia esterna e simbolica: il dramma è
strozzato nella sua culla. La crisi del dramma, il punto in cui il nodo si
scioglie, e il pentimento, l'anima che si riconosce, e caccia via da sè il
peccato, e si pente e si vergogna e ne fa confessione. A questo punto il dramma
si fa umano, e ciò che avrebbe potuto far Dante, si vede da quello che ha fatto
qui; ma una storia intima, personale, drammatica dell'anima, com'è il Faust,
non era possibile in tempi ancora epici, simbolici, mistici e scolastici.
Qui
tutt'i personaggi del dramma si trovano a fronte. Di qua Dante, Virgilio,
Stazio; di là Beatrice con gli angeli; in mezzo e il rio che li divide,
bipartito in due fiumi, Lete, l'obblio, ed Eunoè, la forza. Nell'uno l'anima si
spoglia della scoria del passato; nell'altra attinge virtù di salire alle
stelle.
L'alto
fato di Dio sarebbe rotto,
se
Lete si passasse, e tal vivanda
fosse
gustata senza alcuno scotto
di
pentimento che lagrime spanda.
Di là è Matilde, che tuffa le
anime, pagato lo scotto del pentimento, e le passa all'altra riva, rifatte
nell'antico stato d'innocenza. E lo specchio dell'anima rinnovellata è Matilde,
che danza e sceglie fiori, in sembianza ancora umana, celeste creatura, con
l'ingenua giocondità di fanciulla, con la leggerezza di una silfide, col pudico
sguardo di vergine, il viso radiante di luce. Tale era Lia, affacciatasi al
poeta in sogno, il presentimento di Matilde, il nunzio del paradiso terrestre.
La
scena dove questo mistero dell'anima si scioglie ha le sacre e venerabili
apparenze di un mistero liturgico, una di quelle sacre rappresentazioni che si
facevano durante le processioni. Vedi una Chiesa animata e ambulante in
processione: sette candelabri, che a distanza parevano sette alberi d'oro, e
dietro gente vestita di bianco che canta “Osanna”, e le fiammelle
lasciano dietro di sè lunghe liste lucenti, e sotto questo cielo di luce sfila
la processione. Ecco a due a due i profeti e i patriarchi dell'antico
Testamento, sono ventiquattro seniori coronati di giglio:
Tutti
cantavan: - Benedetta tue
nelle
figlie di Adamo, e benedette
sieno
in eterno le bellezze tue. -
Segue la Chiesa in figura di
carro trionfale, a due ruote (i due testamenti), tra quattro animali (i quattro
vangeli), tirato da un grifone, simbolo di Cristo; a destra Fede, Speranza e
Carità; a sinistra Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, vestite di
porpora; dietro due vecchi, san Luca e san Paolo, e dietro a loro, quattro in
umile paruta, forse gli scrittori dell'Epistole, e solo e dormente san
Giovanni dall'Apocalisse:
E
diretro da tutti un veglio solo
venir
dormendo con la faccia arguta.
Si ode un tuono. La processione
si ferma. Comincia la rappresentazione. Virgilio guarda attonito, non meno che
Dante. Il senso di quella processione allegorica gli sfugge. La missione del
savio pagano è finita. Hai innanzi la dottrina nuova, la Chiesa di Cristo co'
suoi profeti e patriarchi, co' suoi evangelisti e apostoli, co' suoi libri
santi.
Fermata
la processione, uno canta e gli altri ripetono: “Veni sponsa, de Libano”,
e sul carro si leva moltitudine di angioli che cantano e gittano fiori.
Tutti
dicean: - Benedictus qui venis
e
fior gittando di sopra e dintorno
manibus
o date lilia plenis. -
Tra questa nuvola di fiori appare
donna sovra candido velo, cinta d'oliva, sotto verde manto, vestita di colore
di fiamma; appare come la Madonna nelle processioni, sotto i fiori che le
gittano dalle finestre i fedeli. Dante non la vede, ma la sente: è Beatrice.
Quest'apoteosi
di Beatrice, questo primo apparire della sua donna ancora velata fra tanta
gloria, scioglie l'immaginazione dalla rigidità de' simboli e de' riti, e le dà
le libere ali dell'arte. Il dramma si fa umano; spuntano le immagini e i
sentimenti:
Io
vidi già nel cominciar del giorno
le
parte oriental tutta rosata,
e
l'altro ciel di bel sereno adorno
e
la faccia del sol nascere ombrata
sì
chè per temperanza di vapori
l'occhio
la sostenea lunga fiata.
Così
dentro una nuvola di fiori,
che
dalle mani angeliche saliva
e
ricadeva giù dentro e di fuori,
sovra
candido vel, cinta di oliva
donna
m'apparve sotto il verde manto
vestita
di color di fiamma viva.
L'apparire di Beatrice è lo
sparire di Virgilio. Qui l'astrattezza del simbolo è superata. Ti senti innanzi
ad un'anima d'uomo. Quella donna è la sua Beatrice, l'amore della sua prima
giovinezza; e Virgilio e il dolcissimo padre che sparisce, quando più ne aveva
bisogno, quando era proprio come un fantolino in paura che si volge alla mamma;
e si volge, e non lo vede più, e lo chiama tre volte per nome nella mente
sbigottita. Il mistero liturgico si trasforma in un dramma moderno:
E
lo spirito mio che già cotanto
tempo
era stato ch'alla sua presenza
non
era di stupor tremando affranto,
senza
dagli occhi aver più conoscenza,
per
occulta virtù che da lei mosse,
d'antico
amor sentì la gran potenza.
Tosto
che nella vista mi percosse
l'alta
virtù che già m'avea trafitto
prima
ch'io fuor di puerizia fosse,
volsimi
alla sinistra, col respitto
col
quale il fantolin corre alla mamma,
quando
ha paura o quando egli è afflitto,
per
dicer a Virgilio: - Men che dramma
di
sangue m'è rimaso, che non tremi;
conosco
i segni dell'antica fiamma -.
Ma
Virgilio ne avea lasciati scemi
di
sè; Virgilio dolcissimo padre,
Virgilio,
a cui per mia salute dièmi.
Dal pianto di Dante esce un
felicissimo passaggio per introdurre in iscena Beatrice:
Dante,
perchè Virgilio se ne vada,
non
pianger anco, non piangere ancora,
che
pianger ti convien per altra spada.
Gli occhi di Dante sono là verso
la donna, che lo chiama per nome:
Guardami
ben: ben son, ben son Beatrice.
Come
degnasti d'accedere al monte?
Non
sapei tu che qui l'uomo è felice?
E gli occhi cadono nella fontana,
e non sostenendo la propria vista, cadono sull'erba:
Gli
occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma
veggendomi in esso, io trassi all'erba:
tanta
vergogna mi gravò la fronte.
Qui
è la prima volta e sola che un'azione è rappresentata nel suo cammino e nel suo
svolgimento, come in un mistero, e Dante vi rivela un ingegno drammatico
superiore. I più intimi e rapidi movimenti dell'animo scappan fuori; i due
attori, Dante e Beatrice, vi sono perfettamente disegnati; gli angioli fanno
coro e intervengono. La scena è rapida, calda, piena di movimenti e di
gradazioni fini e profonde. La vergogna di Dante senza lacrime e sospiri giunge
a poco a poco sino al pianto dirotto. Dapprima sta li più attonito che
compunto, ma quando gli angioli nel loro canto hanno aria di compatirgli, come
se dicessero: “Donna, perchè sì lo stempre?” scoppia il pianto. Quello che non
potè il rimprovero, ottiene il compatimento. Gradazione vera e profonda e
rappresentata con rara evidenza d'immagine. Instando Beatrice: - Di' di', se
questo è vero -, tra confusione e vergogna, esitando e incalzato gli esce un
tale “sì” dalla bocca, che si poteva vedere, ma non udire:
al
quale intender fur mestier le viste.
I sentimenti dell'animo scoppiano
con tanta ingenuità e naturalezza, che rasentano il grottesco; quando Beatrice
dice: “Alza la barba”, il nostro dottore con linguaggio della scuola riflette:
e
quando per la “barba” il “viso” chiese,
ben
conobbi 'l velen dell'argomento.
Il berretto dottorale spunta
tutto ad un tratto sul capo di Dante fra le lacrime e i sospiri, e dà a questa
magnifica storia del cuore un colorito locale.
Queste
gradazioni corrispondono alle parole di Beatrice. Qui non ci è dialogo: è lei
che parla: le risposte di Dante sono le sue emozioni. Pure non ci è monotonia,
ne declamazione: tutto esce da una situazione vera e finamente analizzata.
“Regalmente proterva”, la sua severità è raddolcita poi dal canto degli
angioli. Beatrice non parla più a Dante: parla agli angioli, e narra loro la
storia di Dante. La situazione diviene meno appassionata, ma più elevata: mai
la poesia non s'era alzata a un linguaggio sì nobile; lo spiritualismo
cristiano trovava la sua musa:
Quando
di carne a spirto era salita
e
bellezza e virtù cresciuta m'era,
fu'
io a lui men cara e men gradita:
e
torse i passi suoi per via non vera,
immagini
di ben seguendo false,
che
nulla promission rendono intera.
Poi si volta a Dante, e il
discorso diviene personale, stringente, implacabile nella sua logica. E una
sola idea sotto varie forme, ostinata, insistente, che vuole da Dante una
risposta. - Sei uomo, hai la barba: come potesti preferire a me le cose fallaci
della terra,
o
pargoletta,
o
altra vanità per sì breve uso?
- E quando Dante potè formare la voce, viene
la risposta:
...
... Le presenti cose
col
falso lor piacer volser miei passi,
tosto
che 'l vostro viso si nascose.
Come si vede, è l'antica lotta
tra il senso e la ragione che qui ha il suo termine; è la vita tragica
dell'anima fra gli errori e le battaglie del senso, che qui si scioglie in
commedia, cioè in lieto fine, con la vittoria dello spirito. L'idea è più che
trasparente, è manifestata direttamente nel suo linguaggio teologico. Ma l'idea
e calata nella realtà della vita e produce una vera scena drammatica, con tale
fusione di terreno e di celeste, di passione e di ragione, di concreto e di
astratto, che vi trovi la stoffa da cui dovea sorgere più tardi il dramma
spagnuolo.
Dante,
pentito, tuffato nel fiume Lete, e menato a Beatrice dalle virtù, sue ancelle:
Noi
sem qui ninfe; e nel ciel semo stelle.
Pria
che Beatrice discendesse al mondo,
fummo
ordinate a lei per sue ancelle.
Menrenti
agli occhi suoi...
E Beatrice gli svela la sua
faccia. Non è poesia che possa rendere quello che Dante vede, quello che sente:
O
isplendor di viva luce eterna,
chi
pallido si fece sotto l'ombra
sì
di Parnasso, e bevve in sua cisterna,
che
non paresse aver la mente ingombra,
tentando
a render te, qual tu paresti,
là,
dove armonizzando il ciel ti adombra,
quando
nell'aere aperto ti solvesti?
Compiuta la rappresentazione,
ricomincia la processione sino all'albero della vita, dove, antitesi a questa
Chiesa gloriosa di Cristo, apparisce in visione allegorica la Chiesa terrena,
trafitta dall'impero, travagliata dall'eresia, corrotta dal dono di Costantino,
smembrata da Maometto, e in ultimo meretrice fra le braccia del re di Francia.
Concetto stupendo, questo apparire della vita terrena nell'ultimo del
purgatorio, germogliata dall'albero infausto del peccato di Adamo. Il terreno
apparisce quando ci si dilegua per sempre dinanzi, non solo in realtà, ma in
ricordanza. Siamo già alla soglia del paradiso.
Così
finisce questa processione dantesca, una delle concezioni più grandiose del
poema, anzi in sè sola tutto un poema, dove ci vediamo sfilare davanti tutt'i
grandi personaggi della Chiesa celeste, immagine anticipata del regno di Dio,
un'apoteosi del cristianesimo, entro di cui si rappresenta il più alto mistero
liturgico, la Commedia dell'anima.
Questa
processione dove far molta impressione in quei tempi delle processioni, de'
misteri e delle allegorie, quando gli angeli, le virtù e i vizi, e Cristo e Dio
stesso entravano in iscena. Ma è appunto questo carattere liturgico e
simbolico, che qui scema in gran parte la bellezza della poesia. Questo difetto
nuoce soprattutto nella rappresentazione della Chiesa terrena, dove l'aquila,
la volpe, e il drago e il gigante e la meretrice rimpiccoliscono un concetto
così magnifico, una storia così interessante.
Lo
stesso contrasto si affaccia a Dante, quando il mantovano Sordello, sentendo
Virgilio esser di Mantova, esce dalla sua calma di leone:
O
mantovano, io son Sordello.
della
tua terra. - E l'un l'altro abbracciava.
E Dante pensa alla sua Firenze,
dove
...
... l'un l'altro si rode
di
quei che un muro e una fossa serra.
Qui non è impigliato nelle
allegorie. Scoppia il contrasto impetuoso, eloquente, e n'esce una poesia tutta
cose, dove si riflettono i più diversi movimenti dell'animo, il dolore, lo
sdegno, la pietà, l'ironia, una calma tristezza.
Il
Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza. Quando la vita si
disabbella a' nostri sguardi, quando le volgiamo le spalle e ci chiudiamo nella
santità degli affetti domestici tra la famiglia e gli amici, nelle opere
dell'arte e del pensiero, il Purgatorio ci s'illumina di viva luce e
diviene il nostro libro, e ci scopriamo molte delicate bellezze, una gran parte
di noi. Fu il libro di Lamennais, di Balbo, di Schlosser.
Viene il Paradiso.
Altro concetto, altra vita, altre forme.
Il
paradiso e il regno dello spirito, venuto a libertà, emancipato dalla carne o
dal senso, perciò il soprasensibile, o come dice Dante, il trasumanare, il di
la dall'umano. È quel regno della filosofia che Dante volea realizzare in
terra, il regno della pace, dove intelletto, amore e atto sono una cosa. Amore
conduce lo spirito al supremo intelletto, e il supremo intelletto è insieme
supremo atto. La triade è insieme unità. Quando l'uomo è alzato dall'amore fino
a Dio, hai la congiunzione dell'umano e del divino, il sommo bene, il paradiso.
Questo ascetismo o misticismo non
è dottrina astratta, è una forma della vita umana. Ci è nel nostro spirito un
di là, ciò che dicesi il sentimento dell'infinito, la cui esistenza si rivela
più chiaramente alle nature elevate.
L'arte
antica avea materializzato questo di là, umanando il cielo, e la filosofia
partendo dalle più diverse direzioni era giunta a questa conclusione pratica,
che l'ideale della saggezza, e perciò della felicità, è posto nella eguaglianza
dell'animo, ciò che dicevasi “apatia”, affrancamento dalle passioni e dalla
carne: pagana tranquillità, che vedi nelle figure quiete e serene e semplici
dell'arte greca.
Questa calma filosofica trovi
nelle figure eroiche del limbo:
Sembianza
avevan ne' trista ne' lieta...
Parlavan
rado, con passi soavi
Virgilio n'è il tipo più puro, le
cui impressioni vanno di rado al di là di un sospiro, o di un movimento tosto
represso. Questa calma è la fisonomia del purgatorio, il carattere più spiccato
di quelle anime, dove l'aspirazione al cielo è senza inquietudine, sicure di
salirvi quandochessia. Ma già in quelle anime penetra un elemento nuovo,
l'estasi, il rapimento, la contemplazione; ci sta Catone, ma irradiato di luce.
Col
cristianesimo s'era restaurato nello spirito questo inquieto di là, e divenne
in breve molta parte della vita, anzi la principale occupazione della vita. E
si sviluppò un'arte e una letteratura conforme. Chi vede gli ammirabili mosaici
del paradiso sotto le cupole di San Marco e di San Giovanni Laterano, o le
facce estatiche de' santi consumate dal fervore divino ha innanzi stampato il
tipo di questo uomo nuovo. Quel di là, il celeste, il divino, appare su quelle
facce, come appare nella Città di Dio di santo Agostino e nella Dieta
salutis di san Bonaventura. A questa immagine avea composta la sua Gerusalemme
celeste frate Giacomino da Verona nel secolo decimoterzo.
Questo
di là, intravveduto nelle estasi, ne' sogni, nelle visioni nelle allegorie del
purgatorio, eccolo qui nella sua sostanza, è il paradiso. Il quale intravveduto
nella vita ha una forma, e può essere arte; ma non si concepisce come, veduto
ora nella sua purezza, come regno dello spirito, possa avere una rappresentazione.
Il paradiso può essere un canto lirico, che contenga. non la descrizione di
cosa che è al di sopra della forma, ma la vaga aspirazione dell'anima a “non so
che divino”, ed anche allora l'obietto del desiderio, pur rimanendo “un
incognito indistinto”, riceve la sua bellezza da immagini terrene, come nell'Aspirazione
e nel Pellegrino di Schiller, e in questi bei versi del Purgatorio,
imitati dal Tasso:
Chiamavi
il cielo e intorno vi si gira,
mostrandovi
le sue bellezze eterne.
Per rendere artistico il
paradiso, Dante ha immaginato un paradiso umano, accessibile al senso e
all'immaginazione. In paradiso non c'è canto, e non luce e non riso; ma essendo
Dante spettatore terreno del paradiso, lo vede sotto forme terrene:
Per
questo la Scrittura condescende
a
vostra facultade, e mani e piedi
attribuisce
a Dio ed altro intende.
Così Dante ha potuto conciliare
la teologia e l'arte. Il paradiso teologico è spirito, fuori del senso e
dell'immaginazione, e dell'intelletto; Dante gli dà parvenza umana e lo rende
sensibile ed intelligibile. Le anime ridono, cantano, ragionano come uomini.
Questo rende il paradiso accessibile all'arte.
Siamo
all'ultima dissoluzione della forma. Corpulenta e materiale nell'Inferno,
pittorica e fantastica nel Purgatorio, qui è lirica e musicale,
immediata parvenza dello spirito, assoluta luce senza contenuto, fascia e
cerchio dello spirito, non esso spirito. Il purgatorio, come la terra, riceve
la luce dal sole e dalle stelle, e queste l'hanno immediatamente da Dio, sicchè
le anime purganti, come gli uomini, veggono il sole, e nel sole intravvedono
Dio, offertosi già alla fantasia popolare come emanazione di luce; ma i beati
intuiscono Dio direttamente per la luce che move da lui senza mezzo:
lume
che a lui veder ne condiziona.
Adunque il paradiso e la più
spirituale manifestazione di Dio; e perciò di tutte le forme non rimane altro
che luce, di tutti gli affetti non altro che amore, di tutt'i sentimenti non
altro che beatitudine, di tutti gli atti non altro che contemplazione. Amore,
beatitudine, contemplazione prendono anche forma di luce; gli spiriti si
scaldano ai raggi d'amore; la beatitudine o letizia sfavilla negli occhi e
fiammeggia nel riso; e la verità è siccome in uno specchio dipinta nel cospetto
eterno:
Luce
intellettual piena d'amore,
amor
di vero ben pien di letizia,
letizia
che trascende ogni dolzore.
Gli affetti e i pensieri delle
anime si manifestano con la luce; l'ira di san Pietro fa trascolorare tutto il
paradiso.
Il
paradiso ha ancora la sua storia e il suo progresso, come l'inferno e il
purgatorio. È una progressiva manifestazione dello spirito o di Dio in una
forma sempre più sottile sino al suo compiuto sparire, manifestazione
ascendente di Dio che risponde a' diversi ordini o gradi di virtù. Sali di
stella in stella, come di virtù in virtù, sino al cielo empireo, soggiorno di
Dio.
Ad
esprimere queste gradazioni, unica forma è la luce. Perciò non hai qui, come
nell'inferno o nel purgatorio, differenze qualitative, ma unicamente
quantitative, un più e un meno. Prima la luce non è così viva che celi la
faccia umana; più si sale e più la luce occulta le forme come in un santuario.
Come è la luce, così è il riso di Beatrice, un “crescendo” superiore ad ogni
determinazione; la fantasia, formando, non può seguire l'intelletto, che
distingue. Bene il poeta vi adopera l'estremo del suo ingegno, conscio della
grandezza e difficoltà dell'impresa:
L'acqua
ch'io prendo giammai non si corse.
Minerva
spira e conducemi Apollo,
e
nove Muse mi dimostran l'Orse.
Dapprima caldo di questo mondo,
sua fattura, allettato dalla novità o dal maraviglioso de' fenomeni che gli si
affacciano, le immagini gli escono vivaci, peregrine; poi quasi stanco diviene
arido e dà in sottigliezze; ma lo vedi rilevarsi e poggiare più e più a
inarrivabile altezza, sereno, estatico: diresti che la difficoltà lo alletti,
la novità lo rinfranchi, l'infinito lo esalti.
Il
paradiso propriamente detto è il cielo empireo, immobile e che tutto move,
centro dell'universo. Ivi sono gli spiriti, ma secondo i gradi de' loro meriti
e della loro beatitudine appariscono ne' nove cieli che girano intorno alla
terra, la luna, Mercurio, Venere, il sole, Marte, Giove, Saturno, le stelle
fisse e il primo mobile. Ne' primi sette cieli, che sono i sette pianeti, ti
sta avanti tutta la vita terrena. La luna è una specie di avanti-paradiso. I
negligenti aprono l'inferno e il purgatorio, e aprono anche il paradiso. E i
negligenti del paradiso sono i manchevoli non per volontà propria, ma per
violenza altrui. Il loro merito non è pieno, perchè mancò loro quella forza di
volontà che tenne Lorenzo sulla grata e fe' Muzio severo alla sua mano. Perciò
in loro rimane ancora un vestigio della terra: la faccia umana. In Mercurio,
Venere, il sole, Marte, Giove hai le glorie della vita attiva, i legislatori,
gli amanti, i dottori, i martiri, i giusti. In Saturno hai la corona e la
perfezione della vita, i contemplanti. Percorsi i diversi gradi di virtù,
comincia il tripudio, o come dice il poeta, il trionfo della beatitudine. Ed
hai nelle stelle fisse il trionfo di Cristo, nel primo mobile il trionfo degli
angioli, e nell'empireo la visione di Dio, la congiunzione dell'umano e del
divino, dove s'acqueta il desiderio. Questa storia del paradiso secondo i
diversi gradi di beatitudine ha la sua forma ne' diversi gradi di luce.
La
luce, veste e fascia delle anime, è la sola superstite di tutte le forme
terrene, e non è vera forma, ma semplice parvenza e illusione dell'occhio
mortale. Essa è la stessa beatitudine, la letizia delle anime, che prende
quell'aspetto agli occhi di Dante:
La
mia letizia mi ti tien celato
che
mi raggia d'intorno e mi nasconde
quasi
animal di sua seta fasciato.
Queste parvenze dell'interna letizia
si atteggiano, si determinano, si configurano ne' più diversi modi, e non sono
altro che i sentimenti o i pensieri delle anime che paion fuori in quelle
forme. E n'esce la natura del paradiso, luce diversamente atteggiata e
configurata, che ha aspetto or di aquila, or di croci, or di cerchio, or di
costellazione, ora di scala, con viste nuove e maravigliose. Queste
combinazioni di luce non sono altro che gruppi d'anime, che esprimono i loro
pensieri co' loro moti e atteggiamenti. A rendere intelligibili le parvenze di
questo mondo di luce, il poeta si tira appresso la natura terrestre e ne coglie
i fenomeni più fuggevoli, più delicati, e ne fa lo specchio della natura
celeste. Così rientra la terra in paradiso, non come sostanziale, ma come
immagine, parvenza delle parvenze celesti. È la terra che rende amabile questo
paradiso di Dante; è il sentimento della natura che diffonde la vita tra queste
combinazioni ingegnose e simboliche. La terra ha pure la sua parte di paradiso,
ed è in quei fenomeni che inebbriano, innalzano l'animo e lo dispongono alla
tenerezza e all'amore: trovi qui tutto che in terra è di più etereo, di più
sfumato, di più soave. E come l'impressione estetica nasce appunto da questo
profondo sentimento della natura terrestre, avviene che il lettore ricorda il
paragone, senza quasi più sapere a che cosa si riferisca. Questi paragoni di
Dante sono le vere gemme del Paradiso:
Come
a raggio di sol che puro mèi
per
fratta nube, già prato di fiori
vider
coverti d'ombra gli occhi miei;
vid'io
così più turbe di splendori
fulgorati
di su da' raggi ardenti,
senza
veder principio di fulgori.
Sì
come 'l Sol che si cela egli stessi
per
troppa luce, quando il caldo ha rose
le
temperanze de' vapori spessi,
per
più letizia sì mi si nascose
dentro
al suo raggio la figura santa,
e
così chiusa chiusa mi rispose...
Come
l'augello, intra l'amate fronde,
posato
al nido de' suoi dolci nati,
la
notte che le cose ci nasconde,
che
per veder gli aspetti desiati
e
per trovar lo cibo onde gli pasca,
in
che i gravi labori gli sono grati,
previene
'l tempo in su l'aperta frasca,
e
con ardente affetto il sole aspetta,
fiso
guardando pur se l'alba nasca...
...
come orologio che ne chiami
nell'ora
che la sposa di Dio surge
a
mattinar lo sposo perchè l'ami;
che
l'una parte e l'altra tira ed urge,
“tin
tin” sonando con si dolce nota,
che
il ben disposto spirto d'amor turge...
...
e cantando vanio
come
per acqua cupa cosa grave.
Qual
lodoletta che in aere si spazia,
prima
cantando e poi tace contenta
dell'ultima
dolcezza che la sazia...
Pareva
a me che nube ne coprisse
lucida,
spessa, solida e pulita,
quasi
adamante che lo sol ferisse.
Per
entro sè l'eterna margherita
ne
ricevette, com'acqua recepe
raggio
di luce, rimanendo unita.
Siccome
schiera d'api che s'infiora
una
fiata, ed una si ritorna
là
dove suo lavoro s'insapora...
E
vidi lume in forma di riviera,
fulvido
di fulgore, intra duo rive,
dipinte
di mirabil primavera.
Di
tal fiumana uscian faville vive,
e
d'ogni parte si mettean ne' fiori
quasi
rubin che oro circoscrive.
Poi
come inebriate dagli odori
riprofondavan
sè nel miro gurge;
e
s'una entrava, un'altra usciane fuori.
Queste tre ultime terzine sono
mirabili di spontaneità e di evidenza. Il poeta ha circonfuso le celesti
sustanze di tutto ciò che in terra è più ridente e smagliante. Siamo
nell'empireo. La virtù visiva è stanca, ma si raccende alle parole di Beatrice,
sì che gli appare la riviera di luce, e fortificata la vista in quella riviera,
in quei fiori inebbrianti, in quell'oro, in quei rubini, in quelle vive
faville, Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio del loro
tripudio. Ma in verità gli scanni de' beati sono meno poetici di queste due
rive dipinte di mirabil primavera.
Ma
la forma, come parvenza dello spirito, è un press'a poco, un quasi, un come,
“fioca e corta” al concetto. Questa impotenza della forma produce un sublime
negativo, che Dante esprime con l'energia intellettuale di chi ha vivo il
sentimento dell'infinito:
...
appressando sè al suo desire
nostro
intelletto si profonda tanto
che
la memoria retro non può ire.
...
ogni minor natura
è
corto recettacolo a quel bene,
che
non ha fine e sè con sè misura.
...
nella giustizia sempiterna
la
vista che riceve il vostro mondo,
com'occhio
per lo mare, entro s'interna;
chè,
benchè dalla proda veggia il fondo,
in
pelago nol vede; e nondimeno
egli
è, ma 'l cela lui l'esser profondo.
La letizia che move le anime e
“trascende ogni dolzore”, non è se non beatitudine. E rende beate le anime
l'entusiasmo dell'amore e la chiarezza intellettiva, o come dice Dante, “luce
intellettual piena d'amore”. Esse hanno allegro il cuore e allegra la mente.
Nel cuore è perenne desiderio e perenne appagamento. Nella mente la verità sta
come “dipinta”.
La
luce è forma inadeguata della beatitudine. Ti dà la parvenza, ma non il
sentimento e non il pensiero. Spuntano perciò due altre forme, il canto e la
visione intellettuale.
Quello
che nel purgatorio è amicizia, nel paradiso è amore, ardore di desiderio
placato sempre non saziato mai, infinito come lo spirito. Stato lirico e
musicale, che ha la sua espressione nella melodia e nel canto. La medesimezza
del sentimento spinto sino all'entusiasmo genera la comunione delle anime; la
persona non è l'individuo, ma il gruppo, come è delle moltitudini nei grandi
giorni della vita pubblica. I gruppi qui non sono cori, che accompagnino e
compiano l'azione individuale, ma sono la stessa individualità diffusa in tutte
le anime, o se vogliamo chiamarli cori, sono il coro di personaggi invisibili e
muti, di Cristo, di Maria e d'Iddio. Ecco il coro di Maria:
Per
entro 'l cielo scese una facella,
formata
in cerchio a guisa di corona,
e
cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque
melodia più dolce suona
quaggiù
e più a sè l'anima tira,
parrebbe
nube che squarciata tuona,
comparata
al suonar di quella lira,
onde
si coronava il bel zaffiro,
del
quale il ciel più chiaro s'inzaffira.
-
Io sono amore angelico che giro
l'alta
letizia che spira dal ventre
che
fu albergo del nostro desiro;
e
girerommi, Donna del ciel, mentre
che
seguirai tuo Figlio e farai dia
più
la spera superna, perchè lì entre -.
Così
la circulata melodia
si
sigillava, e tutti gli altri lumi
facèn
sonar lo nome di Maria...
E
come fantolin che inver' la mamma
tende
le braccia, poi che 'l latte prese,
per
l'animo che infin di fuor s'infiamma;
ciascun
di quei candori in su si stese
con
la sua cima sì che l'alto affetto
ch'egli
aveano a Maria, mi fu palese.
Indi
rimaser lì nel mio cospetto,
“Regina
coeli” cantando sì dolce
che
mai da me non si partì il diletto.
Quella facella è l'angiolo Gabriele,
e il coro è angelico. Angioli e beati sono penetrati dello stesso spirito,
hanno vita comune, se non che negli angioli la virtù è innocenza e la letizia è
irriflessa: plenitudine volante tra' beati e Dio, che il poeta ha rappresentato
in alcuni bei tratti; è un andare e venire nel modo abbandonato e allegro della
prima età, tripudianti e folleggianti con una espansione che il poeta chiama
“arte” e “gioco”:
Qual
è quell'angel che con tanto gioco
guarda
negli occhi la nostra Regina,
innamorato
sì che par di fuoco?
L'amicizia o comunione delle
anime è detta dal poeta “sodalizio”. I loro moti sono danze, le loro voci sono
canti; ma, in quell'accordo di voci, in quel turbine di movimenti la
personalità scompare: è una musica in cui i diversi suoni si confondono e si
perdono in una sola melode. Non ci è differenza di aspetto, ma per dir così una
faccia sola. Questa comunanza di vita è il fondo lirico del Paradiso, ma
è la sua parte fiacca, perchè il poeta, contento a citare le prime parole di
canti ecclesiastici, non ha avuta tanta libertà e attività di spirito da creare
la lirica del paradiso, rappresentando nel canto i sentimenti e gli affetti del
celeste sodalizio. E dove potea giungere, lo mostra la preghiera di san
Bernardo, che è un vero inno alla Vergine, e l'inno a san Francesco d'Assisi e
l'inno a san Domenico, nella loro semplicità anche un po' rozza tutto cose e
più schietti che i magniloquenti inni moderni.
I
canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e non parole, musica e non poesia:
è tutto una sola onda di luce, di melodia e di voce, che ti porta seco:
-
Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo -
cominciò
- gloria - tutto il paradiso,
tal
che m'inebbriava il dolce canto.
Ciò
ch'io vedeva, mi sembrava un riso
dell'universo,
perochè mia ebbrezza
entrava
per l'udire e per lo viso.
Oh
gioia! Oh ineffabile allegrezza!
Oh
vita intera d'amore e di pace!
Oh
senza brama sicura ricchezza!
È l'armonia universale, l'inno
della creazione. La luce, vincendo la corporale impenetrabilità e
frammischiando i suoi raggi, esprime anche al di fuori questa compenetrazione
delle anime, l'individualità sparita nel mare dell'essere. Il poeta, signore
anzi tiranno della lingua, forma ardite parole a significare questa medesimezza
amorosa degli esseri nell'essere: “inciela”, “imparadisa”, “india”, “intuassi”,
“immei”, “inlei”, “s'infutura”, “s'illuia”, delle quali voci alcune dopo lungo
obblio rivivono. La redenzione dell'anima è la sua progressiva emancipazione
dall'egoismo della coscienza; la sua individualità non le basta; si sente
incompiuta, parziale, disarmonica, e sospira alla idealità nella vita
universale. Questo è il carattere della vita in paradiso. Non solo sparisce la
faccia umana, ma in gran parte anche la personalità. Vivono gli uni negli altri
e tutti in Dio.
Questo
vanire delle forme e della stessa personalità riduce il paradiso a una corda
sola, a lungo andare monotona, se non vi penetrasse la terra e con la terra
altre forme ed altre passioni. La terra penetra come contrapposto a questa vita
d'amore e di pace. È vita d'odio e di vana scienza, e provoca le collere e i
sarcasmi de' celesti.
Il
contrapposto è colto in alcuni momenti altamente poetici. Accolto nel sole
gloriosamente allato a Beatrice, si affaccia al poeta tutta la vanità delle
cure terrestri:
O
insensata cura de' mortali
quanto
son difettivi sillogismi
quei
che ti fanno in basso batter l'ali!
Chi
dietro a iura, e chi ad aforismi
sen
giva, e chi seguendo sacerdozio,
e
chi regnar per forza o per sofismi,
e
chi in rubare, e chi in civil negozio;
chi
nel diletto della carne involto
s'affaticava
e chi si dava all'ozio.
Un altro momento di alta poesia è
quando il poeta dall'alto delle stelle fisse guarda alla terra:
...
e vidi questo globo
tal
ch'io sorrisi del suo vil sembiante.
La terra “che ci fa tanto
feroci”, veduta dal cielo, gli pare un'aiuola. Il concetto, abbellito e
allargato dal Tasso, ha qui una severità di esecuzione quasi ieratica. Il poeta
si sente già cittadino del cielo, e guarda così di passata e con appena un
sorriso a tanta viltà di sembiante volgendone immediatamente l'occhio e mirando
in Beatrice:
L'aiuola
che ci fa tanto feroci,
volgendomi
io con gli eterni gemelli,
tutta
m'apparve da' colli alle foci:
poscia
rivolsi gli occhi agli occhi belli.
Pure è quest'aiuola che desta nel
seno de' beati varietà di sentimenti e di passioni, facendo vibrar nuove corde.
Accanto all'inno spunta la satira in tutte le sue gradazioni, il frizzo, la caricatura,
l'ironia, il sarcasmo. Qual frizzo, che l'allusione di Carlo Martello, così
pungente nella sua generalità:
e
fanno re di tal, che è da sermone!
Beatrice, dottissima in teologia,
si mostra non meno dotta nel maneggio della caricatura e dell'ironia, frustando
i predicatori plebei di quel tempo:
Or
si va con motti e con iscede
a
predicare, e pur che ben si rida,
gonfia
'l cappuccio e più non si richiede.
Giustiniano conchiude il suo nobilissimo
racconto dei casi e della gloria dell'antica Roma con fiere minacce ai guelfi,
nemici dell'aquila imperiale. Papa e monaci sono i più assaliti. San Tommaso,
dette le lodi di san Francesco, riprende i francescani, e san Benedetto i
benedettini, e san Pietro il papa. Tutt'i re di quel tempo mandano sangue sotto
il flagello di Dante. Non si può attendere da' santi alcuna indulgenza alle
umane fralezze. La satira è acerba; la sua musa è l'indignazione, e la sua
forma ordinaria è l'invettiva. Le forme comiche sono uccise in sul nascere e si
sciolgono nel sarcasmo. Il sarcasmo non è qui nè un pensiero, nè un tratto di
spirito, ma pittura viva del vizio, con parole anche grossolane, come “cloaca”,
che mettano in vista il laido e il disgustoso. Il vizio è colto non in una
forma generale e declamatoria, ma là, in quegli uomini, in quel tempo, sotto
quelli aspetti, con pienezza di particolari ed esattezza di colorito.
Capilavori di questo genere sono la pittura de' benedettini e l'invettiva di
san Pietro.
Questo
contrapposto tra il cielo e la terra non è altro se non l'antitesi che è in
terra tra i buoni e i cattivi, e per scendere al particolare, tra l'età
dell'oro del cristianesimo e i tempi degeneri del poeta; è il presente
condannato dal passato, è il passato messo in risalto dal suo contrasto con la
corruzione presente. Ci erano i benedettini, ma ci era stato san Benedetto; ci
era Bonifazio e Clemente, ma ci era stato san Pietro e Lino e Cleto e Sisto e
Pio e Calisto e Urbano. Gli uomini di quell'aurea età più illustri per santità
e per scienza sono qui raccolti, come in un pantheon; è il mondo eroico
cristiano, succeduto a quel mondo eroico pagano stato descritto nel Limbo, e di
cui Giustiniano fa il panegirico in paradiso.
Questa
età dell'oro collocata nel passato e messa a confronto con la tristizia di quei
tempi ha ispirato a Dante una delle scene più interessanti, ed è la pittura
dell'antica e della nuova Firenze, fatta dal Cacciaguida, uno de' suoi
antenati. Ivi inno e satira sono fusi insieme: vedi l'ideale dell'età dell'oro
e della domestica felicità con tanta semplicità di costumi, con tanta modestia
di vita, e di rincontro vedi il villano di Aguglione e le sfacciate donne
fiorentine. La conclusione di questa scena di famiglia prende proporzioni
epiche: Dante si fa egli medesimo il suo piedistallo. Nella predizione che
Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben
si pare la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta. L'esilio non è
rappresentato ne' patimenti materiali: Dio riserba dolori più acuti ai
magnanimi, lasciare ogni cosa diletta più caramente e domandare il pane
all'insolente pietà degli estranei: questo strazio di tanti miseri vive qui
immortale ne' versi divenuti proverbiali del più misero e del più grande. Ma è
un dolore virile: tosto rileva la fronte, e dall'alto del suo ingegno e della
sua missione poetica vede a' suoi piedi tutt'i potenti della terra.
La
letizia delle anime non è solo amore, ma visione intellettuale. La luce, il
riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce
e detta “intellettuale”. Beatrice spiega così il suo riso a Dante:
S'io
ti fiameggio nel caldo d'amore
di
là dal modo che in terra si vede,
sì
che degli occhi tuoi vinco il valore,
non
ti maravigliar; chè ciò procede
da
perfetto veder, che, come apprende,
così
nel bene appreso move il piede.
La beatitudine e la
contemplazione, e la contemplazione è appunto questa perfetta visione
intellettuale. Perciò le anime non investigano, non discutono e non dimostrano,
ma veggono e descrivono la verità, non come idea, ma come natura vivente. In
terra ci è l'apparenza del vero, e perciò diversità di sistemi filosofici, come
spiega Beatrice:
Voi
non andate giù per un sentiero
filosofando:
tanto vi trasporta
l'amor
dell'apparenza e 'l suo pensiero.
In paradiso la verità è tutta
dipinta nel cospetto eterno; in Dio è legato con amore in un volume ciò che per
l'universo si squaderna; vedere Dio è vedere la verità. E non è visione solo di
cose, ma di pensieri e di desidèri. I beati vedono il pensiero di Dante senza
ch'egli lo esprima.
La
scienza com'era concepita a' tempi di Dante, sposata alla teologia, avea una
forma concreta e individuale, materia contemplabile e altamente poetica. Un Dio
personale, che, immobile motore, produce amando l'idea esemplare dell'universo,
pura intelligenza e pura luce, che penetra e risplende in una parte più e meno
in un'altra sino alle ultime contingenze; gli astri, dove si affacciano i
beati, influenti sulle umane sorti e governati da intelligenze da cui spira il
moto e le virtù de' loro giri; il cielo empireo, centro di tutt'i cerchi
cosmici e soggiorno della pura luce; l'universo, splendore della divinità, dove
appare squadernato ciò che in Dio è un volume; l'ordine e l'accordo di tutto il
creato dalle infime incarnazioni fino alle nove gerarchie degli angioli; la
caduta dell'uomo per il primo peccato e il suo riscatto per l'incarnazione e la
passione del Verbo; la verità rivelata, oscura all'intelletto, visibile al
cuore, avvalorata dalla fede, confortata dalla speranza, infiammata dalla
carità: in questa scienza della creazione il pensiero è talmente concretato e
incorporato, che il poeta può contemplarlo come cosa vivente, come natura.
Perciò la forma scientifica è qui meno un ragionamento che una descrizione,
come di cosa che si vede e non si dimostra. Il perfetto vedere de' beati è
privilegio di Dante; nessuno gli sta del pari nella forza e chiarezza della
visione. Spirito dommatico, credente e poetico, predica dal paradiso la verità
assoluta, e non la pensa, la scolpisce. Diresti che pensi con l'immaginazione,
aguzzata dalla grandezza e verità dello spettacolo. Nascono ardite metafore e
maravigliose comparazioni. L'accordo della prescienza col libero arbitrio è una
delle concezioni più difficili e astruse; ma qui non è una concezione, è una
visione, uno spettacolo: così potente è questa immaginazione dantesca:
La
contingenza che fuor del quaderno
della
vostra materia non si stende,
tutta
è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità
però quindi non prende,
se
non come dal viso in che si specchia
nave
che per corrente giù discende.
Da
indi, sì come viene ad orecchia
dolce
armonia da organo, mi viene
a
vista il tempo che ti si apparecchia.
Il poeta procede per deduzione,
guardando le cose dall'alto del paradiso, da cui dechina via via fino alle
ultime conseguenze: forma contemplativa e dommatica, anzi che discorsiva e
dimostrativa, e propria della poesia, presentando all'immaginazione vasti
orizzonti in una sola comprensione:
Guardando
nel suo Figlio con l'Amore
che
l'uno e l'altro eternalmente spira
lo
primo e ineffabile valore
quanto
per mente e per occhio si gira
con
tant'ordine fe' ch'esser non puote
senza
gustar di lui chi ciò rimira.
Questa forma poetica della
scienza, questa visione intellettuale, abbozzata nel Tesoretto, è
condotta qui a molta perfezione. È un certo modo di situare l'oggetto e
metterlo in vista, sì che l'occhio dell'immaginazione lo comprenda tutto. Se ci
è cosa che ripugna a questa forma, è lo scolasticismo con la barbarie delle sue
formole e le sue astrazioni; ma l'immaginazione vi fa penetrare l'aria e la
luce: miracolo prodotto dalle due grandi potenze della mente dantesca, la virtù
sintetica e la virtù formativa. Veggasi la stupenda descrizione che fa Beatrice
del moto degli astri, di poco inferiore alla storia del processo creativo, il
capolavoro di questo genere. Qui la scienza della creazione è abbracciata in un
solo girar d'occhio, con sì stretta e rapida concatenazione che tutto il creato
ti sta innanzi come una sola idea semplice. Ci sono concetti difficilissimi ad
esprimersi, come l'unità della luce nella sua diversità, e l'imperfezione della
natura, che non ti dà mai realizzato l'ideale. I concetti qui non sono
astrazioni, ma forze vive, gli attori della creazione, la luce, il cielo, la
natura, e non hai un ragionamento, hai una storia animata, con una chiarezza e
vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura vere persone poetiche:
Ciò
che non muore e ciò che può morire
non
è se non splendor di quell'idea,
che
partorisce amando il nostro Sire.
Chè
quella viva luce che si mea
dal
suo Lucente, che non si disuna
da
lui, nè dall'amor che in lor s'intrea;
per
sua bontate il suo raggiare aduna
quasi
specchiato in nuove sussistenze,
eternalmente
rimanendosi una.
Queste tre terzine sono una
maraviglia di chiarezza e di energia in dir cosa difficilissima. Nè minor
potenza d'intuizione trovi nella fine, quando, paragonando l'ideale alla cera
del suggello, aggiunge:
ma
la natura la dà sempre scema,
similemente
operando all'artista,
che
ha l'abito dell'arte e man che trema.
Ed anche la mano di Dante trema, che
fra tante bellezze ci è non poca scoria. Non di rado vedi non il poeta, ma il
dottore che esce dall'università di Parigi, pieno il capo di tesi e di
sillogismi. Molte quistioni sono troppo speciali, altre sono infarcite di
barbarie scolastica: definizioni, distinzioni, citazioni, argomentazioni. E
questo è non per difetto di virtù poetica, ma per falso giudizio. A lui pare
che questo lusso di scienza sia la cima della poesia, e se ne vanta, e si beffa
di quelli che lo hanno sin qui seguito in piccola barca. - Tornate indietro -
egli dice - che il mio libro e per soli quei pochi che possono gustare il pan
degli angioli; - e sono i filosofi e i dottori suoi pari. Perciò il Paradiso
e poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto la sua monotonia, che par quasi
una serie di dimande e di risposte fra maestro e discente.
La
visione intellettuale è la beatitudine. L'esposizione della scienza riesce in
cantici e inni, le ultime parole del veggente si confondono con gli osanna del
cielo:
Finito
questo, l'alta corte santa
risuona
per le spere un Dio lodiamo,
nella
melode che lassù si canta.
Siccome
io tacqui, un dolcissimo canto
risono
per lo cielo, e la mia donna
dicea
con gli altri: “Santo, santo, santo !”
Così è sciolto questo mistero
dell'anima. Adombrato ne' simboli e allegorie del Purgatorio, qui il
mistero è svelato, è la Divina Commedia dell'anima, il suo indiarsi
nell'eterna letizia. La forza che tira Dante a Dio, si che sale come rivo,
se
di alto monte scende giuso ad imo,
è l'amore, è Beatrice, che
all'alto volo gli veste le piume Beatrice è in sè il compendio del paradiso, lo
specchio dove quello si riflette ne' suoi mutamenti. Puoi dipingerla quando
prega Virgilio o quando “regalmente proterva” rimprovera l'amante; ma qui è
spiritualizzata tanto, che è indarno opera di pennello. La stessa parola non è
possente di descrivere quel riso e quella bellezza trasmutabile, se non ne'
suoi effetti su Dante e su' celesti. Ecco uno de' più bei luoghi:
Quivi
la donna mia vid'io sì lieta,
come
nel lume di quel ciel si mise,
che
più lucente se ne fe' il pianeta;
e
se la stella si cambiò e rise,
qual
mi fec'io, che pur di mia natura
trasmutabile
son per tutte guise!
Come
in peschiera che è tranquilla e pura
traggono
i pesci a ciò che vien di fuori,
per
modo che lo stimin lor pastura;
sì
vid'io ben più di mille splendori
trarsi
ver' noi, ed in ciascun s'udia:
Ecco
chi crescerà li nostri amori. -
Spiritualizzato il corpo,
spiritualizzata l'anima. L'amore è purificato: nulla resta più di sensuale.
Dante che nel purgatorio sentì il tremore dell'antica fiamma, qui ode Beatrice
con un sentimento assai vicino alla riverenza. Quando ella si allontana, ei non
manda un lamento: ogni parte terrestre è in lui arsa e consumata. Le sue parole
sono affettuose; ma è affetto di riverente gratitudine, siccome, nel piccolo
cenno che gli fa Beatrice, l'amore dell'uomo come ombra si dilegua nell'amore
di Dio, ella lo ama in Dio:
Così
orai, e quella si lontana,
come
parea, sorrise e riguardommi:
poi
si tornò alla eterna fontana.
Come Dante non potè entrare nel
paradiso terrestre a vedere il simbolo del trionfo di Cristo senza lo “scotto”
del pentimento, così non può ne' “gemelli” o stelle fisse contemplare il
trionfo di Cristo che non dichiari la sua fede. Allora san Pietro lo incorona
poeta, e poeta vuol dire banditore della verità. San Pietro gli dice:
e
non asconder quel ch'io non ascondo.
Così la Commedia ha la sua
consacrazione e la sua missione. È la verità bandita dal cielo, della quale
Dante si fa l'apostolo e il profeta: è il “poema sacro”. Con quella
stessa coscienza della sua grandezza che si fe' “sesto fra cotanto senno”,
qui si pone accanto a san Pietro e se ne fa l'interprete, congiungendo in sè le
due corone, il savio e il santo, l'antica e la nuova civiltà, il filosofo e il
teologo. Dichiarata la sua fede, consacrato e incoronato, Dante si sente oramai
vicino a Dio. Avea già contemplata la divinità nella sua umanità, il Dio-uomo.
Il trionfo di Cristo, la festa dell'Incarnazione, sembra reminiscenza di
funzioni ecclesiastiche, co' suoi principali attori, Cristo, la Vergine,
Gabriello. Cristo e la Vergine sono come nel santuario, invisibili; la festa è
tutta fuori di loro e intorno a loro. Succede il trionfo degli angioli, e poi
nell'empireo il trionfo di Dio.
L'empireo
è la città di Dio, il convento de' beati, il proprio e vero paradiso. Beatrice
raggia sì, che il poeta si concede vinto più che tragedo o comico superato dal
suo tema, e desiste dal seguir
più
dietro a sua bellezza poetando,
come
all'ultimo suo ciascun artista.
Ivi è la luce intellettuale, che
fa visibile
lo
Creatore a quella creatura
che
solo in lui vedere ha la sua pace.
La luce ha figura circolare, come
il giallo di una rosa, le cui bianche foglie si distendono per l'infinito
spazio, e sono gli scanni de' beati. San Bernardo spiega e descrive il
maraviglioso giardino. Il punto che più splende è là dove sono
gli
occhi da Dio diletti e venerati,
dove è la Vergine e gli angioli.
Quel punto è la pacifica orifiamma del paradiso, la bandiera della pace. Il
giardino, la rosa, l'orifiamma sono immagini graziose, ma inadeguate. Queste
metafore non valgono la stupenda terzina, dove san Bernardo è rappresentato in
forma umana e intelligibile:
Diffuso
era per gli occhi e per le gene
di
benigna letizia, in atto pio,
quale
a tenero padre si conviene.
Il paradiso, appunto perchè
paradiso, non puoi determinarlo troppo e descriverlo, senza impiccolirlo. La
sua forma adeguata è il sentimento, l'eterno tripudio: ciò che è ben colto in
quella plenitudine volante di angeli, che diffondono un po' di vita tra quella
calma. Il vero significato lirico del paradiso è nell'inno di Dante a Beatrice
e nell'inno di san Bernardo alla Vergine, ne' quali è il paradiso guardato
dalla terra con sentimenti e impressioni di uomo. I beati stessi diventano
interessanti, quando tra quella luce vedi spuntare
visi a carità suadi,
ed atti ornati di tutte onestadi
o quando “chiudon le mani”
implorando la Vergine.
Anche
Dio ha voluto descrivere Dante, e vede in lui l'universo, e poi la Trinità, e
poi l'Incarnazione, congiunzione dell'umano e del divino, in cui si acqueta il
desiderio, il “disiro” e il “velle”,
sì
come ruota ch'egualmente e mossa.
Dante vede, ma è visione, di cui
hai le parole e non la forma; ci è l'intelletto, non ci è più l'immaginazione,
divenuta un semplice lume, un barlume. La forma sparisce; la visione cessa
quasi tutta; sopravvive il sentimento:
...
quasi tutta cessa
mia
visione, ed ancor mi distilla
nel
cor lo dolce che nacque da essa.
Così
la neve al sol si disigilla;
così
al vento nelle foglie lievi
si
perdea la sentenzia di sibilla.
L'immaginazione morendo manda in questi
bei versi l'ultimo raggio. All'“alta fantasia” manca la possa; e insieme con la
fantasia muore la poesia.
Così
finisce la storia dell'anima. Di forma in forma, di apparenza in apparenza,
ritrova e riconosce se stessa in Dio, pura intelligenza, puro amore e puro
atto. Ed è in questa concordia che l'anima acqueta il suo desiderio, trova la
pace. Nell'Inferno signoreggia la materia anarchica: le sue forme
ricevono d'ogni sorte differenze, spiccate, distinte, corpulente e personali.
Nel Purgatorio la materia non è più la sostanza, ma un momento: lo
spirito acquista coscienza di sua forza, e contrastando e soffrendo conquista
la sua libertà: la realtà vi è in immaginazione, rimembranza del passato da cui
si sprigiona, aspirazione all'avvenire a cui si avvicina; onde le sue forme
sono fantasmi e rappresentazioni dell'immaginativa anzi che obbietti reali:
pitture, sogni, visioni estatiche, simboli e canti. Nel Paradiso lo
spirito già libero di grado in grado s'india; le differenze qualitative si
risolvono, e tutte le forme svaporano nella semplicità della luce, nella
incolorata melodia musicale, nel puro pensiero. Quel regno della pace che tutti
cercavano, quel regno di Dio, quel regno della filosofia, quel “di là”,
tormento e amore di tanti spiriti, è qui realizzato. Il concetto della nuova
civiltà, di cui avevi qua e là oscuri e sparsi vestigi, è qui compreso in una
immensa unità, che rinchiude nel suo seno tutto lo scibile, tutta la coltura e
tutta la storia. E chi costruisce così vasta mole, ci mette la serietà
dell'artista, del poeta del filosofo e del cristiano. Consapevole della sua
elevatezza morale e della sua potenza intellettuale, gli stanno innanzi, acuti
stimoli all'opera, la patria, la posterità, l'adempimento di quella sacra
missione che Dio affida all'ingegno, acuti stimoli, ne' quali sono purificati
altri motivi meno nobili, l'amor della parte, la vendetta, le passioni
dell'esule: ci è là dentro nella sua sincerità tutto l'uomo, ci è quel d'Adamo
e ci è quel di Dio. A poco a poco quel mondo della fantasia diviene parte del
suo essere, il suo compagno fino agli ultimi giorni, e vi gitta, come nel libro
della memoria, l'eco de' suoi dolori, delle sue speranze e delle sue
maledizioni. Nato a immagine del mondo che gli era intorno, simbolico, mistico
e scolastico, quel mondo si trasforma e si colora e s'impolpa della sua
sostanza, e diviene il suo figlio, il suo ritratto. La sua mente sdegna la
superficie, guarda nell'intimo midollo, e la sua fantasia ripugna all'astratto,
a tutto dà forma. Onde nasce quella intuizione chiara e profonda che è il
carattere del suo genio. E non solo l'oggetto gli si presenta con la sua forma,
ma con le sue impressioni e i suoi sentimenti. E n'esce una forma, che è
insieme immagine e sentimento, immagine calda e viva, sotto alla quale vedi il
colore del sangue, il movere della passione. E con l'immagine tutto è detto, e
non vi s'indugia e non la sviluppa, e corre lievemente di cosa in cosa, e
sdegna gli accessorii. A conseguire l'effetto spesso gli basta una sola parola
comprensiva, che ti offre un gruppo d'immagini e di sentimenti, e spesso,
mentre la parola dipinge, non fosse altro, con la sua giacitura, l'armonia del
verso ne esprime il sentimento. Tutto è succo, tutto è cose, cose intere nella
loro vivente unità, non decomposte dalla riflessione e dall'analisi. Per dirla
con Dante, il suo mondo è un volume non squadernato. È un mondo pensoso,
ritirato in sè, poco comunicativo, come fronte annuvolata da pensiero in
travaglio. In quelle profondità scavano i secoli, e vi trovano sempre nuove
ispirazioni e nuovi pensieri. Là vive involto ancora e nodoso e pregno di
misteri quel mondo, che sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si
chiama oggi letteratura moderna.
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