VIII
IL CANZONIERE
Dante morì nel 1321. La sua Commedia
riempie di sè tutto il secolo. I contemporanei la chiamarono “divina”, quasi la
parola sacra, il libro dell'altra vita, o come diceano, il “libro dell'anima”.
Un tal Trombetta, quattrocentista, la mette fra le opere sacre e i libri
dell'anima “da studiarsi in quaresima”, come le Vite de' santi Padri la Vita
di san Girolamo. Il popolo cantava i suoi versi anche in contado, e
pigliava alla semplice la sua fantasia. I dotti ammiravano la scienza sotto il
velo delle favole, quantunque alcuni austeri, come Cecco d'Ascoli, quel velo
non ce l'avrebbero voluto. E Fazio degli Uberti crede di far cosa più degna,
rimovendo ogni velo ed esponendoci arida scienza nel suo Dittamondo, “dicta
mundi”.
L'impressione
non fu puramente letteraria. Ammiravano la forma squisita, ma tenevano il libro
più che poesia. Vedevano là entro il libro della vita o della verità, e ben
presto fu spiegato e comentato come la Bibbia e come Aristotile, accolto con la
stessa serietà con la quale era stato concepito.
Oscurissimo
in molti particolari, e per le allusioni politiche e storiche e pel senso
allegorico, il libro nel suo insieme è così chiaro e semplice, che si abbraccia
tutto di un solo sguardo. La scienza della vita o della creazione è colta ne'
suoi tratti essenziali e rappresentata con perfetta chiarezza e coesione.
L'armonia intellettuale diviene cosa viva nell'architettura, così coerente e
significativa nelle grandi linee, così accurata ne' minini particolari.
L'immaginazione anche più pigra concepisce di un tratto inferno, purgatorio e
paradiso. Il pensiero nuovo, mistico e spiritualista, lunga elaborazione dei
secoli, compariva qui perfettamente armonizzato e pieno di vita. In questo
mondo intellettuale e dommatico, così ben rispondente alla coscienza
universale, si sviluppava la storia o il mistero dell'anima nella più grande
varietà delle forme, sì che vi si rifletteva tutta la vita morale nel suo senso
più serio e più elevato. Il sentimento della famiglia, la viva impressione
della natura, l'amor della patria, un certo senso d'ordine, di unità, di pace
interiore che fa contrasto al disordine e alla licenza di quei costumi pubblici
e privati, la virtù dell'indignazione, il disprezzo di ogni viltà e volgarità,
la virilità e la fierezza della tempra, l'aspirazione ad un ordine di cose
ideale e superiore, il vivere in ispirito e in contemplazione, come staccato
dalla terra, il sentimento della giustizia e del dovere, la professione della
verità, piaccia o non piaccia, con l'occhio volto a' posteri, e quella fede
congiunta con tanto amore, quell'accento di convinzione, quella coscienza che
ha il poeta della sua personalità, della sua grandezza e della sua missione;
tutto questo appartiene a ciò che di più nobile ed elevato e nella natura
umana. Anche quel non so che scabro e rozzo e quasi selvaggio, ch'è nella
superficie, rendeva l'immagine di quella eroica e ancor barbara giovinezza del
mondo moderno.
Ma
l'impressione prodotta dalla Commedia rimaneva circoscritta nell'Italia
centrale. La scuola del nuovo stile non avea fatto ancora sentire la sua azione
nelle rimanenti parti d'Italia, dove la lingua dominante era sempre il latino
scolastico ed ecclesiastico. Malgrado l'esempio di Dante, non era ancora
stabilito che in rima si potesse scrivere d'altro che di cose d'amore. E in
questa sentenza era anche Cino da Pistoia, solo superstite di quella scuola
immortale, dalla quale era uscita la Commedia. Compariva sulla scena la
nuova generazione.
Lo
studio de' classici, la scoperta di nuovi capilavori, una maggior pulitezza
nella superficie della vita, la fine delle lotte politiche col trionfo de'
guelfi, la maggior diffusione della coltura sono i tratti caratteristici di
questa nuova situazione. La superficie si fa più levigata, il gusto più
corretto, sorge la coscienza puramente letteraria, il culto della forma per se
stessa. Gli scrittori non pensarono più a render le loro idee in quella forma
più viva e rapida che si offrisse loro innanzi; ma cercarono la bellezza e
l'eleganza della forma. Dimesticatisi con Livio, Cicerone, Virgilio parve loro
barbaro il latino di Dante; ebbero in dispregio quei trattati e quelle storie
che erano state l'ammirazione della forte generazione scomparsa, e non poterono
tollerare il latino degli scolastici e della Bibbia. Intenti più alla forma che
al contenuto, poco loro importava la materia, pur che lo stile ritraesse della
classica eleganza. Così sorsero i primi puristi e letterati in Italia, e capi
furono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Nel
Petrarca si manifesta energicamente questo carattere della nuova generazione.
Fece lunghi e faticosi viaggi per iscoprire le opere di Varrone, le storie di
Plinio, la seconda deca di Livio; trovò le epistole di Cicerone e due sue
orazioni. Dobbiamo a' suoi conforti e alla sua liberalità la prima versione di
Omero e di parecchi scritti di Platone. Scopritore instancabile di codici
emendava, postillava, copiava: copiò tutto Terenzio. In questa intima
familiarità co' più grandi scrittori dell'antichità greco-latina, tutto quel
tempo di poi, che fu detto “il medio evo”, gli apparve una lunga barbarie; di
Dante stesso ebbe assai poca stima; gli stranieri chiamava “barbari”;
gl'italiani chiamava “latin sangue gentile”; voleva una ristaurazione
dell'antichità, e che non fosse ancora fattibile, ne accagiona la corruttela
de' costumi. Era Petracco e si fece chiamare Petrarca; sbattezzò i suoi amici e
li chiamò Socrati e Lelii, ed essi sbattezzarono lui e lo chiamarono Cicerone.
Conchiuse la sua vita scrivendo epistole a Cicerone, a Seneca, a Quintiliano, a
Tito Livio, ad Orazio, a Virgilio, ad Omero, co' quali viveva in ispirito, e
poco innanzi di morire, scrisse una lettera alla posterità, alla quale
raccomanda la sua memoria.
Così
appariva l'aurora del Rinnovamento. L'Italia volgeva le spalle al medio evo, e
dopo tante vicissitudini ritrovava se stessa e si affermava popolo romano e
latino. Questo proclamava Cola da Rienzo dall'alto del Campidoglio. Guelfi e
ghibellini divennero nomi vieti; gli scolastici cessero il campo agli eruditi e
a' letterati; la teologia fu segregata dagli studi di coltura generale e
divenne scienza de' chierici; la filosofia conquistò il primato in tutto lo
scibile; le allegorie, le visioni, le estasi, le leggende, i miti, i misteri,
separati dal tronco in cui vivevano, divennero forme puramente letterarie e
d'imitazione; tutto quel mondo teologico, mistico nel concetto, scolastico e
allegorico nelle forme, fu tenuto barbarie da uomini che erano già in grado di
gustare Virgilio e Omero.
Questa
nuova Italia, che ripiglia le sue tradizioni e si sente romana e latina e si
pone nella sua personalità di rincontro agli altri popoli, tutti stranieri e
barbari, ispira al giovine Petrarca la sua prima canzone. Qui non ci è più il
guelfo o il ghibellino, non il romano o il fiorentino: c'è l'Italia che si
sente ancora regina delle nazioni; ci è l'italiano che parla con l'orgoglio di
una razza superiore, e ricorda Mario come se fosse vivuto l'altro ieri e quella
storia fosse la sua storia; ci è la viva impressione di quel mondo classico sul
giovine poeta, che ivi trova i suoi antenati e cerca di nuovo quell'Italia
potente e gloriosa, l'Italia di Mario. L'orgoglio nazionale e l'odio de'
barbari è il motivo della canzone, lo spirito che vi alita per entro. Vi
compariscono già tutte le qualità di un grande artista. La chiarezza e lo
splendore dello stile, la fusione delle tinte, l'arte de' chiaroscuri, la
perfetta levigatezza e armonia della dizione, la sobrietà nel ragionamento, la
misura ne' sentimenti, un dolce calore che penetra dappertutto senza turbare
l'equilibrio e la serenità e l'eleganza della forma, fanno di questa canzone
uno de' lavori più finiti dell'arte. L'Italia ha avuto il suo poeta; ora ha il
suo artista.
In
questa risurrezione dell'antica Italia è naturale che la lingua latina fosse
stimata non solo lingua de' dotti, ma lingua nazionale, e che la storia di Roma
dovesse sembrare agl'italiani la loro propria storia. Da queste opinioni uscì
l'Africa, che al Petrarca dove parere la vera Eneide, la grande
epopea nazionale, rappresentata in quella lotta ultima, nella quale Roma,
vincendo Cartagine, si apriva la via alla dominazione universale. Questo poema
rispondeva così bene alla coscienza pubblica, che Petrarca fu incoronato
principe de' poeti, ed ebbe tal grido e tali onori che nessun uomo ha avuto
mai. Nuovo Virgilio, volle emulare anche a Cicerone, accettando volentieri
legazioni che gli dessero occasione di recitare pubbliche orazioni. Scrisse
egloghe, trattati, dialoghi, epistole, sempre in latino: lavori molto apprezzati
da' contemporanei, ma tosto dimenticati, quando cresciuta la coltura e
raffinato il gusto, parve il suo latino così barbaro, come barbaro era parso a
lui il latino di Dante e de' Mussati, de' Lovati e de' Bonati tenuti a' tempi
loro quasi redivivi Orazii e Virgilii.
Ma
la lingua latina potea così poco rivivere come l'Italia latina. Il latino
scolastico avea pure alcuna vita, perchè lo scrittore sforzava la lingua e
l'ammodernava e ci mettea se stesso. Ma il latino classico non potea produrre
che un puro lavoro d'imitazione. Lo scrittore pieno di riverenza verso l'alto
modello non pensa ad appropriarselo e trasformarlo, ma ad avvicinarvisi
possibilmente. Tutta la sua attività è volta alla frase classica, che gli sta
innanzi nella sua generalità, spoglia di tutte le idee accessorie che suscitava
ne' contemporanei, e dove è il più fino e il più intimo dello stile. Perciò
schiva il particolare e il proprio, corre volentieri appresso le perifrasi e le
circonlocuzioni, e arido nelle immagini, povero di colori, scarso di movimenti
interni, e dice non quanto o come gli sgorga dal di dentro, ma ciò che può
rendersi in quella forma e secondo quel modello: difetti visibili nell'Africa.
Così si formo una coscienza puramente letteraria, lo studio della forma in se
stessa con tutti gli artifici e i lenocini della rettorica: ciò che fu detto
“eleganza”, “forma scelta e nobile”; maniera di scrivere artificiosa, che pare
anche nelle sue canzoni politiche, come quella a Cola di Rienzo, opera più di
letterato che di poeta, e perciò pregiata molto, finchè in Italia durò questa
coscienza artificiale.
In
verità il Petrarca era tutt'altro che romano o latino, come pur voleva parere:
potè latinizzare il suo nome, ma non la sua anima. Lo scrittore latino è tutto
al di fuori, ne' fatti e nelle cose, è tutto vita attiva e virile, diresti non
abbia il tempo di piegarsi in sè e interrogarsi. Al Petrarca sta male l'abito
di Cicerone; anche i contemporanei a sentirlo battevano le mani e ridevano. Non
sentivano l'uomo in tutto quel rimbombo ciceroniano. L'uomo c'era, ma più
simile all'anacoreta e al santo che a Livio e a Cicerone, più inclinato alle
fantasie e alle estasi che all'azione. Natura contemplativa e solitaria, la
vita esterna fu a lui non occupazione, ma diversione; la sua vera vita fu tutta
al di dentro di sè: il solitario di Valchiusa fu il poeta di se stesso. Dante
alzo Beatrice nell'universo, del quale si fece la coscienza e la voce; egli
calò tutto l'universo in Laura, e fece di lei e di sè il suo mondo. Qui fu la
sua vita, e qui fu la sua gloria.
Pare
un regresso: pure è un progresso. Questo mondo è più piccolo, è appena un
frammento della vasta sintesi dantesca, ma è un frammento divenuto una compiuta
e ricca totalità, un mondo pieno, concreto, sviluppato, analizzato, ricerco ne'
più intimi recessi. Beatrice sviluppata dal simbolo e dalla scolastica, qui è
Laura nella sua chiarezza e personalità di donna; l'amore, scioltosi dalle
universe cose entro le quali giaceva inviluppato, qui non è concetto nè
simbolo, ma sentimento; e l'amante, che occupa sempre la scena, ti dà la storia
della sua anima, instancabile esploratore di se stesso. In questo lavoro
analitico-psicologico la realtà pare sull'orizzonte chiara e schietta, sgombra
di tutte le nebbie, tra le quali era stata ravvolta. Usciamo infine da' miti,
da' simboli, dalle astrattezze teologiche e scolastiche, e siamo in piena luce,
nel tempio dell'umana coscienza. Nessuna cosa oramai si pone di mezzo tra
l'uomo e noi. La sfinge è scoperta: l'uomo è trovato.
Gli
è vero che la teoria rimane la stessa. La donna è “scala al Fattore”, l'amore è
il “principio delle universe cose”. Ma tutto questo è accessorio, è il
convenuto; la sostanza del libro è la vicenda assidua de' fenomeni più delicati
del cuore umano. Cresciuto in Avignone fra le tradizioni provenzali e le corti
d'amore, quando Francesco da Barberino avea già pubblicato i Documenti
d'amore e i Reggimenti delle donne, raccolta di tutte le leggi e
costumanze galanti, egli attinge nello stesso arsenale e spaccia la stessa
rettorica, allegorie, concetti, sottigliezze, spiritose galanterie. Soprattutto
tiene molto a questo, che tutto il mondo sappia non essere, il suo, amore
sensuale, ma amicizia spirituale, fonte di virtù. Dante chiama infamia l'accusa
di avere espresso il suo amore troppo sensualmente, e a cessare da sè l'infamia
trasformò Beatrice nella filosofia e scrisse canzoni filosofiche. Ma le
continue proteste e dichiarazioni del Petrarca non convincono nessuno; perchè e
il corpo di Laura, non come la bella faccia della sapienza, ma come corpo, che
gli scalda l'immaginazione. Laura è modesta, casta, gentile, ornata di ogni
virtù; ma sono qualità astratte, non è qui la sua poesia. Ciò che move l'amante
e ispira il poeta, è Laura da' capei biondi, dal collo di latte, dalle guance
infocate, da' sereni occhi, dal dolce viso, la quale egli situa e atteggia in
mille maniere e ne cava sempre un nuovo ritratto, che spicca in mezzo ad un bel
paesaggio, il verde del campo, la pioggia de' fiori, l'acqua che mormora, fatta
la natura eco di Laura.
Questo
sentimento delle belle forme, della bella donna e della bella natura, puro di
ogni turbamento, è la musa di Petrarca. Diresti Laura un modello, del quale il
pittore sia innamorato, non come uomo, ma come pittore, intento meno a possederlo
che a rappresentarlo. E Laura è poco più che un modello, una bella forma
serena, posta lì per essere contemplata e dipinta, creatura pittorica, non
interamente poetica: non è la tale donna nel tale e tale stato dell'animo, ma è
la Donna, non velo o simbolo di qualcos'altro, ma la donna come bella. Non ci è
ancora l'individuo: ci è il genere. In quella quietudine dell'aspetto, in
quella serenità della forma ci è l'ideale femminile ancora divino, sopra le
passioni, fuori degli avvenimenti, non tocco da miseria terrena, che il poeta
crederebbe profanare calandolo in terra e facendolo creatura umana. La chiama
una dea, ed è una dea; non è ancor donna. Sta ancora sul piedistallo di statua;
non è scesa in mezzo agli uomini, non si è umanata. Coloro i quali vogliono
leggere nell'anima di questo essere muto e senza espansione, e cercarvi il suo
segreto, fanno il contrario di quello che volle il poeta, cercano la donna
dov'egli vedeva la dea. Certo a' nostri occhi Laura dee parere una forma
monotona, e anche talora insipida; ma chi si mette in quei tempi mitici e
allegorici, troverà in Laura la creatura più reale che il medio evo poteva
produrre.
La
vita di Laura diviene umana appunto allora che è morta ed è fatta creatura
celeste. Qui l'amore non può aver niente più di sensuale: è l'amore di una
morta, viva in cielo, e può liberamente spandersi. Non vedi più i “capei d'oro”
e le “rosee dita” e il “bel piede”, dal quale l'“erbetta verde” e i “fiori di
color mille” desiderano d'esser tocchi. Pure questa Laura non dipinta e più
bella, e soprattutto più viva, perchè “meno altera”, meno dea e più donna,
quando apparisce all'amante, e siede sulla sponda del suo letto, e gli asciuga
gli occhi con quella mano tanto desiata; e salendo al cielo fra gli angioli si
volge indietro, come aspetti qualcuno; e nella suprema beatitudine desidera il
bel corpo e l'amante ed entra con lui in dolci colloqui. Così il mistero di
Laura si scioglie nell'altro mondo, com'è nella Commedia: tutte le
contraddizioni finiscono. Sciolta dalle condizioni del reale, tolta di mezzo la
carne, divenuta creatura libera dell'immaginazione, Laura par fuori con
chiarezza, acquista un carattere, dove ci è la santa, e ci è soprattutto la
donna. Esseri taciturni e indefiniti, mentre vivono, Beatrice e Laura
cominciano a vivere, appunto quando muoiono.
E
il mistero si scioglie anche nel Petrarca. In vita di Laura, sorge
l'opposizione tra il senso e la ragione, tra la carne e lo spirito. Questo
concetto fondamentale del medio evo, se nel Petrarca è purificato della sua
forma simbolica e scolastica, rimane pur sempre il suo “credo” cristiano
e filosofico. L'opposizione era sciolta teoricamente con l'amicizia platonica o
spirituale, legame d'anime, puro di ogni concupiscenza; dalla quale astrazione
non potea uscire che una lirica dottrinale e sbiadita, senza sangue, dove non
trovi nè l'amante, nè l'amata, nè l'amore. Vi sono momenti nella vita del
Petrarca abbastanza tranquilli e prosaici, perchè egli si possa dare a questo
spasso. Allora riproduce la scuola de' trovatori con tutt'i suoi difetti, in
una forma eletta e vezzosa, che li pallia. E vi trovi il convenzionale, il
manierato, le regole e le sottigliezze del codice d'amore, soprattutto il
concettoso, dotato com'era di uno spirito acuto. Non coglie se stesso nel
momento dell'impressione; l'impressione è passata, e se la mette dinanzi e la
spiega, come critico o filosofo: hai un di là dell'impressione, l'impressione
generalizzata e spiegata, come è nella più parte de' suoi sonetti in vita di
Laura; antitesi, freddure, sottigliezze, ragionamenti in forma pretensiosa e
civettuola. Allora tutto è chiaro; tutto e spiegato con Platone e col codice
d'amore; hai il solito contenuto lirico allora in voga sulla donna, sull'amore,
pomposamente abbigliato. Trovi un maraviglioso artefice di verso, un ingegno
colto, ornato, acuto, elegante: non trovi ancora il poeta e non l'artista. Ma
nel momento delle impressioni, tra le sue irrequietezze e agitazioni, circuito
di fantasmi, par fuori la sua personalità: trovi il poeta e l'artista. Quello
che sente è in opposizione con quello che crede. Crede che la carne è peccato;
che il suo amore è spirituale; che Laura gli mostra la via “che al ciel
conduce”; che il corpo è un velo dello spirito. E se in questo “credo” trovasse
ogni suo appagamento, avremmo Dante e Beatrice. Ma non vi si appaga:
l'educazione classica e l'istinto dell'artista si ribella contro queste
astrazioni di uno spiritualismo esagerato; si rivela in lui uno spirito nuovo,
il senso del reale e del concreto, così sviluppato ne' pagani. Non vi si appaga
l'artista, e non vi si appaga l'uomo; perchè si sente inquieto, non ben sicuro
di quello che crede e vuol far credere, e sente il morso del senso e tutte le
ansietà di un amore di donna. Scoppia fuori la contraddizione, o il mistero. Il
suo amore non e così possente che lo metta in istato di ribellione verso le sue
credenze, nè la sua fede è così possente che uccida la sensualità del suo
amore. Nasce un fluttuar continuo di riflessioni contraddittorie, un sì ed un
no, un voglio e non voglio:
Io
medesmo non so quel che mi voglio.
Nasce il mistero dell'amore, che
ti offre le più diverse apparenze, senza che il poeta giunga ad averne chiara
coscienza:
Se
amor non è, che dunque è quel che i' sento?
a
s'egli è amor, per Dio che cosa e quale?
Manca al Petrarca la forza di
sciogliersi da questa contraddizione, e più vi si dimena, più vi s'impiglia. Il
canzoniere in vita di Laura è la storia delle sue contraddizioni. Ora gli pare
che contraddizione non ci sia, e unisce in pace provvisoria cielo e terra,
ragione e senso, gli occhi che mostrano la via del cielo e gli occhi alfin
dolci tremanti,
ultima
speme de' cortesi amanti.
Sono i suoi momenti di sanità e
di forza, di entusiasmo più artistico che amoroso, dal quale escono le vivaci
descrizioni del bel corpo e le tre “canzoni sorelle”. Ora si sente inquieto, e
si lascia ir dietro alla corrente delle impressioni e delle immagini, e vede il
meglio e al peggior s'appiglia, come conchiude nella canzone
I'
vo pensando e nel pensier m'assale,
dove è rappresentata la lotta
interna tra la ragione e il senso, la ragione che parla e il senso che morde. E
ci sono pure momenti che la ragione piglia il di sopra, e si volge a Dio, e si
confessa, e fa proposito di svellere dal suo cuore il “falso dolce fuggitivo”,
che
il mondo traditor può dare altrui.
Non c'è dunque nel Canzoniere
una storia, un andar graduato da un punto all'altro; ma è un vagar continuo tra
le più contrarie impressioni, secondo le occasioni e lo stato dell'animo in
questo o quel momento della vita. Non ci è storia, perchè nell'anima non ci è
una forte volontà, ne uno scopo ben chiaro; perciò è tutta in balìa
d'impressioni momentanee, tirata in opposte direzioni. Di che nasce un difetto
d'equilibrio, la discordia o la scissura interiore. Il reale comparisce la
prima volta nell'arte, condannato, maledetto, chiamato il “falso dolce
fuggitivo”: pur desiderato, di un desiderio vago che si appaga solo in
immaginazione, debolmente contraddetto e debolmente secondato. Minore è la
speranza, più vivo è il desiderio, il quale, mancatagli la realtà, si appaga in
immaginazione. Nasce una vita di sogni, di estasi, di fantasie, di quello che
l'animo desidera, non con la speranza di conseguirlo, anzi con la coscienza di
non conseguirlo mai. Il poeta sogna, e sa che sogna, e gli piace sognare,
e
più certezza averne fora il peggio.
Perchè se per averne più
certezza, rompe il corso dell'immaginazione, sopraggiunge il disinganno. Così
vive in fantasia, fabbricandosi godimenti interrotti spesso dalla riflessione
con un “ahi lasso!”, in un flutto perenne d'illusioni e disillusioni. Il
disaccordo interno è appunto in questo, nella immaginazione che costruisce e
nella riflessione che distrugge: malattia dello spirito, nata appunto
dall'esagerazione dello spiritualismo. Lo spirito non è sano, perchè a forza di
segregarsi dalla natura e dal senso si trova al fine di rincontro e ribelle
l'immaginazione, e l'immaginazione non è sana, perchè ha di rincontro a sè e ribelle
la riflessione, che in un attimo le dissipa i suoi castelli incantati. Lo
spirito rimane pura riflessione o ragione astratta, e non ha forza di
sottoporsi la volontà, per il contrasto che trova nell'immaginazione.
L'immaginazione rimane pura immaginazione, e non ha forza sulla volontà, non
lavora a realizzare i suoi dolci fantasmi per il contrasto che trova nella
riflessione. Se una delle due forze potesse soggiogar l'altra, nascerebbe
l'equilibrio e la salute; ma le due forze lottano senza alcun risultato, non si
giunge mai a un virile “io voglio”, ci è al di dentro il sì e il no in eterna
tenzone: perciò la vita non esce mai al di fuori in un risultato, in un'azione,
rimane pregna di pensieri e immaginazioni tutta al di dentro:
...
... In questi pensier,
lasso,
tienmi dì e notte il signor nostro, Amore.
Lo spirito consuma se stesso in
un fantasticare inutile e in una inutile riflessione. È punito là dove ha
peccato. Ha voluto assorbir tutto in sé; e ora si trova solo, e si ciba di se
stesso ed è egli medesimo il suo avoltoio. Stanco, svogliato, disgustato di una
realtà a cui si sente estraneo, il poeta, come un romito, volge le spalle al
mondo e si riduce nella solitudine di Valchiusa, e ne fa il suo eremo, e rimane
solo con se stesso a fantasticare, “solo e pensoso”, incalzato dal suo interno
avoltoio:
Solo
e pensoso i più deserti campi
vo
misurando a passi tardi e lenti.
Da questa situazione sono uscite
le due più profonde canzoni del medio evo, l'una poco nota, l'altra assai popolare,
amendue poco studiate, l'una che incomincia:
Di
pensiero in pensier, di monte in monte;
l'altra che incomincia:
Chiare,
fresche e dolci acque.
Se il Petrarca avesse avuto piena
e chiara coscienza della sua malattia, di questa attività interna inutile e
oziosa, una specie di lenta consunzione dello spirito, impotente ad uscir da sè
e attingere il reale, avremmo la tragedia dell'anima, come Dante ne concepì la
commedia (una tragedia, nella quale il medio evo avrebbe riconosciuto la sua impotenza
e la sua condanna) tra' dolori della contraddizione vedremmo il misticismo
morire, spuntare l'alba della realtà, il senso o il corpo, proscritto e
dichiarato il peccato, ripigliare la parte che gli tocca nella vita. Ma nel
Petrarca la lotta è senza virilità. Gli manca la forza che abbondò a Dante
d'idealizzarsi nell'universo; e rimanendo chiuso nella sua individualità, gli
manca pure ogni forza di resistenza: sì che la tragedia si risolve in una
flebile elegia. Il poeta si abbandona facilmente, e prorompe in lacrime e in
lamenti. Acuto più che profondo, non guarda negli abissi del suo male e si
contenta descriverne i fenomeni condensati in immagini e in sentenze rimaste
proverbiali. Tenero e impressionabile, capace più di emozioni che di passioni,
non dimora lungamente nel suo dolore, che vien presto l'alleviamento, lo
scoppio delle lagrime e de' lamenti. Artista più che poeta, e disposto a
consolarsi facilmente, quando l'immaginazione abbia virtù di offrirgli un
simulacro di quella realtà di cui sente la privazione:
in
tante parti e sì bella la veggio,
che
se l'error durasse, altro non chieggio.
La
famiglia, la patria, la natura, l'amore sono per il poeta, com'era Dante, cose
reali, che riempiono la vita e le danno uno scopo. Per il Petrarca sono
principalmente materia di rappresentazione: l'immagine per lui vale la cosa. Ma
come ci è insieme in lui la coscienza che è l'immagine e non la cosa, la sua
soddisfazione non è intera, ci è in fondo un sentimento della propria
impotenza, ci e questo: - Non potendo avere la realtà, mi appago del suo
simulacro. - Onde nasce un sentimento elegiaco “dolce-amaro”, la malinconia,
sentimento di tutte le anime tenere, che non reggono lungamente allo strazio e
non osano guardare in viso il loro male, e si creano amabili fantasmi e dolci
illusioni. Manca al suo strazio l'elevata coscienza della sua natura e la
profondità del sentimento. Ci è anzi in lui la tendenza a dissimularselo,
cercando scampo nella benefica immaginazione. La fisonomia di questo stato del
suo spirito è scolpita nella canzone:
Chiare,
fresche e dolci acque,
cielo fosco e funebre che a poco
a poco si rasserena ne' più cari diletti dell'immaginazione, insino a che da
ultimo divien luce di paradiso:
Costei
per fermo nacque in paradiso.
Il poeta è così attirato in
questo mondo fabbricatogli dall'immaginazione, che quando si riscuote, domanda:
Qui
come venn'io, o quando?
Il suo obblio, il suo sogno era
stato così tenace, così simile alla realtà, che gli parea essere in cielo, non
là dov'era. Questa dolce malinconia è la verità della sua ispirazione, è il suo
genio. Quando si sforza di uscirne, spunta spesso il retore: le sue collere, le
sue ammirazioni non sono senza una esagerazione e ricercatezza, che rivelano lo
sforzo. Ma quando vi s'immerge e vi si annega, la sua forma acquista il
carattere della verità congiunta con la grandezza, è un modello di semplicità e
naturalezza.
Gli
è che natura, negandogli le grandi convinzioni e le grandi passioni e lo
sguardo profondo di Dante, ne aveva fatto un artista finito. L'immagine appaga
in lui non solo l'artista, ma tutto l'uomo. Senza patria, senza famiglia, senza
un centro sociale in mezzo a cui viva altro che letterario, ritirato nella
solitudine dello studio e nell'intimo commercio degli antichi, la verità e la
serietà della sua vita e tutta in queste espansioni estetiche, come la vita del
santo e nelle sue estasi e contemplazioni. Dante è sbandito da Firenze, ma la
sua anima è sempre colà. Il Petrarca è costretto a dimostrare la sua italianità:
Non
è questo 'l terren ch'io toccai pria?
A Dante non fa bisogno di
rettorica. Si sente italiano e ne ha tutte le passioni, e ne senti il fremito e
il tumulto nella sua poesia. Ciò che al contrario ti colpisce nel mondo personale
e solitario del Petrarca è la privazione della realtà, e un desiderio di essa
scemo di forza, che si appaga ne' docili sogni dell'immaginazione. Tutto
converge nell'immaginazione; tutto gli si offre come un sensibile: il pensiero
e il sentimento sono in lui contemplazione estetica, bella forma. Ciò che
l'interessa non è entusiasmo intellettuale, nè sentimento morale o patriottico,
ma la contemplazione per se stessa, in quanto è bella, un sentimento puramente
estetico. Laura piange; egli dice: - Quanto son belle quelle lacrime! - Laura
muore; egli dice:
Morte
bella parrea nel suo bel viso.
Fantastica sulla sua morte. Ed
ecco Laura che prega sulla sua fossa,
asciugandosi
gli occhi col bel velo.
La bellezza per Dante è apparenza
simbolica, la bella faccia della sapienza: dietro a quella ci sta la vita nella
sua serietà, vita intellettuale e morale. Qui la bellezza, emancipata dal
simbolo si pone per se stessa, sostanziale, libera, indipendente, quale si sia
il suo contenuto, sia pure indifferente, o frivolo o repugnante. Il contenuto,
già così astratto e scientifico, anzi scolastico, qui pare per la prima volta
essenzialmente come bellezza schietta, realtà artistica. Al Petrarca non basta
che l'immagine sia viva, come bastava a Dante; vuole che sia bella. Ciò che
move il suo cervello a sviluppare e formare l'immagine, non è l'idea, come
storia o filosofia o etica, ma è il piacere estetico, che in lui s'ingenera
della sua contemplazione.
Questo
sentimento della bella forma è così in lui connaturato, che penetra ne' minimi
particolari dell'elocuzione, della lingua e del verso. Dante anche nei più
minuti particolari di esecuzione guarda il di dentro, e non lo perde mai di
vista, perchè è il di dentro che l'appassiona; il Petrarca rimane volentieri al
di fuori, e non resta che non l'abbia condotto all'ultima perfezion tecnica.
Nelle immagini, ne' paragoni, nelle idee non cerca novità e originalità, anzi
attinge volentieri ne' classici e ne' trovatori, intento non a cercare o
trovare, ma a dir meglio ciò che è stato detto da altri. L'obbiettivo della sua
poesia non è la cosa, ma l'immagine, il modo di rappresentarla. E reca a tanta
finezza l'espressione che la lingua, l'elocuzione, il verso finora in uno stato
di continua e progressiva formazione, acquistano una forma fissa e definitiva,
divenuta il modello de' secoli posteriori. La lingua poetica è anche oggi quale
il Petrarca ce la lasciò, nè alcuno gli è entrato innanzi negli artifici del
verso e dell'elocuzione. Quel tipo di una lingua illustre che Dante vagheggiava
nella prosa, il Petrarca lo ha realizzato nella poesia, dalla quale è sbandito
il rozzo, il disarmonico, il volgare, il grottesco e il gotico, elementi che
pur compariscono nella Commedia. È una forma bella non solo per rispetto
all'idea, ma per se stessa, aulica, aristocratica, elegante, melodiosa. La
parola vale non solo come segno, ma come parola. Il verso non è solo armonia, o
rispondenza con quel di dentro, ma melodia, elemento musicale in se stesso.
Ma
questa bella forma non è un puro artificio tecnico o meccanico, una vuota
sonorità, anzi vien fuori da una immaginazione appassionata e innamorata, che
ha il suo riposo, il suo ultimo fine in se stessa. È una immaginazione chiusa
in sè, non trascendente, che di rado si alza a fantasia o a sentimento, anzi
rifugge dal fantasma, e tende spesso a produrre immagini finite, ben
contornate, chiare e fisse. E se vi si appagasse, sarebbe poesia assolutamente
pagana e plastica. Ma il grande artista ne' momenti anche più geniali della
produzione sente come un vuoto, qualche cosa che gli manchi, e non è
soddisfatto, ed è malinconico. Che gli manca?
Gli
manca, com'è detto, il possesso e il godimento e la serietà e la forza della
vita reale. Come artista si sente incompiuto; come immaginazione si sente
isolato: vivere in immaginazione gli piace; pur sente che là non è la vita, e
vi trova sollievo, non appagamento. Questo sentimento del vuoto che penetra ne'
più cari diletti dell'immaginazione, e li tronca bruscamente, questa immaginazione
che, appunto perchè si sente immaginazione e non realtà, produce le sue
creature con la lacrima del desiderio negli occhi, questo desiderio
inestinguibile che pullula dal seno stesso dell'arte e la chiarisce ombra e
simulacro, e non cosa viva, sono il fondo originale e moderno della poesia
petrarchesca. L'immagine nasce trista, perchè nasce con la coscienza di essere
immagine e non cosa, e lo strazio di questa coscienza è raddolcito, perchè, non
ci essendo la cosa, ci è l'immagine, e così bella, così attraente. Situazione
piena di misteri, di contraddizioni e di chiaroscuri, che genera quel non so
che “dolce amaro”, detto malinconia, un sentirsi consumare e struggere
dolcemente:
che
dolcemente mi consuma e strugge.
La malinconia è la musa
cristiana, e il male di Dante e de' più eletti spiriti di quel tempo. Ma la
malinconia del Petrarca e della nuova generazione che gli stava attorno e già
di un'altra natura e accenna a tempi nuovi.
La
malinconia di Dante ha radice nello spirito stesso del medio evo, che poneva il
fine della vita in un di là della vita, nella congiunzione dell'umano e del
divino, che è la base della Divina Commedia. Le anime del purgatorio
sono malinconiche, perchè sospirano appresso ad un bene, di cui hanno innanzi
la sola immagine nelle pitture, ne' simboli, nelle visioni estatiche. Quei
godimenti dell'immaginativa aguzzano più il desiderio. Non basta loro
l'immagine: vogliono la realtà; e questo volere, raddolcito alla presenza del
simulacro, genera la loro malinconia. Sono prive del paradiso, ma lo veggono in
immaginazione, e sperano di salirvi quando che sia: perciò sono contente nel
fuoco. La condizione delle anime purganti è molto simile a quella degli uomini
nella vita terrena: è lo stesso tarlo che li rode. La vita corporale è un velo,
un simulacro di quel di là che la fede e la scienza offriva chiarissimo
all'intelletto e all'immaginazione; perciò la vita corporale era in se stessa
il peccato o la carne, l'inferno, il vasello o la prigione, dove l'anima vive
malinconica: il giorno della morte è per l'anima il giorno della vita e della
libertà. Non che profondarsi nel reale, e cercare di assimilarselo, l'anima
tende a separarsene, e vivere in ispirito o in immaginazione, fabbricandosi un
simulacro di quel di là a cui spera di giungere: indi la tendenza
all'ascetismo, alla solitudine, all'estasi e al misticismo. Questa era la
malinconia di Caterina, quando dicea: “Muoio e non posso morire”.
La
stessa tendenza e la stessa malinconia è nel Petrarca. Anch'egli cerca
fabbricarsi ombre e simulacri di Laura, anch'egli cerca l'obblio e il riposo
ne' sogni dell'immaginazione. Quando la santa e il poeta s'incontrarono in
Avignone, dovettero sentirsi sotto un aspetto parenti di spirito. Il poeta
aveva la stessa inclinazione alla solitudine, alla contemplazione, al
raccoglimento, all'estasi, alla malinconia. E se guardiamo all'apparenza, c'era
in tutti e due le stesse credenze e le stesse aspirazioni. Quel “muoio e non
posso morire” corrisponde bene a questo grido del poeta:
aprasi
la prigione ov'io son chiuso,
e
che 'l cammino a tal vista mi serra.
Ma qui fiutate la rettorica, e là
avete l'espressione nuda ed energica di un sentimento che investe tutta l'anima
e consuma la santa a trentatrè anni. Questa concentrazione ed unità delle forze
intorno ad un punto solo, in che è la serietà della vita, mancò al Petrarca. Il
suo mondo è pur quello di Caterina e di Dante, mondato della sua scorza
scolastica e simbolica, ridotto in forma più chiara e artistica, ma pur quello.
Se non che questo mondo mistico non lo possiede tutto e, sovrano e indiscusso
nella mente non tira a sè tutte le forze della vita. È in lui visibile una
dispersione e distrazione di forze, come di uomo tirato in qua e in là da
contrarie correnti, che vorrebbe pigliar la sua via e non se ne sente la forza,
e vaga in balìa dei flutti scontento e riluttante. La bella unità di Dante, che
vedeva la vita nell'armonia dell'intelletto e dell'atto mediante l'amore, è
rotta. Qui ci è scompiglio interiore ribellione, contraddizione:
e
veggio il meglio ed al peggior m'appiglio.
La malinconia di Caterina è
l'impazienza del morire, di unirsi con Cristo; la malinconia di Dante è la
dissonanza fra il mondo divino e la selva oscura, la vita terrena, malinconia piena
di forza e di speranza, che si scioglie nell'azione. La malinconia del Petrarca
è la coscienza della sua interna dissonanza e della sua impotenza a
conciliarla, malinconia insanabile, perchè il male non è nell'intelletto, è
nella volontà non certo ribelle, ma debole e contraddittoria. Per palliare la
dissonanza, esce in mezzo la sofistica e la rettorica, con le più smaglianti
frasi, con le più sottili distinzioni: intervalli di tregua, che fanno
risorgere più acuta la coscienza del male. Gli è che il medio evo è già nel suo
petto in fermentazione, penetrato di altri elementi, senza che egli abbia una
distinta coscienza di questo nuovo stato: accanto al cristiano ascetico ci è
l'erudito, il letterato, l'artista, il pagano, l'uomo di mondo con tutti gl'istinti
e le tendenze naturali, che vogliono farsi valere. Si forma in lui un essere
contraddittorio, come ne' tempi di transizione, che non è ancora l'uomo nuovo,
e non è più l'uomo antico.
La
malinconia del Petrarca non è dunque più la malinconia del medio evo, di un
mondo formato e trascendente, che rende quaggiù malinconico lo spirito per il
suo legame a quel corpo, ma è la malinconia di un mondo nuovo che, oscuro
ancora alla coscienza, si sviluppa in seno al medio evo e ci sta a disagio, e
tende a sprigionarsene, e non ne ha la forza per la resistenza che trova
nell'intelletto. L'intelletto appartiene al medio evo, alle cui dottrine ha
tolta la ruvida scorza, non la sostanza. Quel mondo nuovo, plastico, pagano,
reazione della natura contro il misticismo, è ancora così debole, così poco
lineato, che l'intelletto può condannarlo e maledirlo, o assimilarselo con una
sofistica apparenza di conciliazione, e se cacciato dalla vita reale
riapparisce nell'immaginazione, può penetrare anche colà e dirgli: - Tu non sei
che un fantasma.
Se
in vita di Laura questo sentimento nuovo che sorge, più vicino all'uomo e alla
natura, e dissimulato co' più ingegnosi sofismi, quasi peccato che si cerchi di
palliare, dopo la morte di Laura purificato e trasformato si manifesta con più
energia. Beatrice morta diviene per Dante la scienza, la voce di quel mondo di
là, ov'era lo scopo della vita. La storia di Beatrice è sviluppo di idee e di
dottrine nella lirica e nella Commedia. Il suo riso è luce
intellettuale, raggio dell'intelletto. La storia di Laura è profondamente umana
e reale, eco de' più delicati sentimenti, delle più tenere emozioni, delle più
vivaci impressioni che colpiscono l'uomo in terra.
La
poesia in vita di Laura è dominata dall'intelletto, da una riflessione
sofistica e rettorica, che altera la purità de' sentimenti, e sottilizza le
immagini, e raffredda le impressioni, e con vani sforzi di conciliazione mette
più in vista quel sì e quel no che battagliavano nella debole volontà del
poeta. In morte di Laura ogni battaglia cessa, e non ci è più vestigio di
sofismi e di rettorica, perchè la conciliazione cercata finora così
ingegnosamente e non conseguita e già avvenuta per la natura delle cose. Laura
morta diviene libera creatura dell'immaginazione, non più persona autonoma e
resistente, ma docile fantasma. Il poeta ne fa la sua creatura, può darle
affetti e pensieri, quali gli piaccia: può piangerla, vederla, parLare seco,
vivere seco in ispirito. La situazione è semplice e umana. È la donna amata,
sparita dalla terra, che ti apparisce in sogno e ti asciuga gli occhi e ti
prende per mano e ti parla: consolazioni malinconiche, interrotte da una
lacrima, quando ti svegli. Dante si asciuga presto la lacrima, e si gitta fra
le onde agitate dell'esistenza, e si rifà un ideale e lo chiama Beatrice. A lui
manca il tempo di piangere, perchè tiene nel suo petto due secoli, ed ha la
forza di comprenderli e realizzarli. Il Petrarca giunge qui, che è già stanco e
disgustato dell'esistenza, vi giunge con l'anima di solitario e di romito, e
non ha altra forza che di piangere:
Ed
io son un di quei che il pianger giova.
Piange la fine delle illusioni,
il vacuo dell'esistenza, il perire di tutte le cose:
Veramente
siam noi polvere ed ombra.
Così, dopo vane speranze e vani
timori, quest'anima tenera e impressionabile rinunzia alla lotta, e si
abbandona, e si separa da un mondo, dove invano erasi sforzata di penetrare, e
si ritira nella solitudine della sua immaginazione con Laura, chiamando
partecipi de' suoi lamenti l'usignolo, e il vago augelletto, e la valle e il
bosco e l'aura e l'onda. La scissura interna dà luogo ad una calma elegiaca; il
cuore stanco si riconcilia con l'intelletto. Il passato, cagione di gioie e di
affanni, gli pare un sogno; la vita gli pare insipida; vivere è un breve sonno;
morire è svegliarsi tra gli spiriti eletti; quando gli occhi si chiudono,
allora si aprono nell'eterno lume; il mondo cristiano, non contraddetto mai dal
suo intelletto, ora penetra nel suo cuore, gli appare come un mondo nuovo, che
dipinge con accenti di maraviglia:
Come
va il mondo! Or mi diletta e piace
quel
che più mi dispiacque; or veggio e sento
che
per aver salute ebbi tormento
e
breve guerra per eterna pace.
Ecco in che modo rappresenta
questo nuovo stato nel suo inno alla Vergine:
Da
poi ch'i' nacqui in su la riva d'Arno,
cercando
or questa, ora quell'altra parte,
non
è stata mia vita altro che affanno.
Mortal
bellezza, atti e parole m'hanno
tutta
ingombrata l'alma.
Vergine
sacra ed alma,
non
tardar: ch'i' son forse all'ultim'anno.
I
dì miei più correnti che saetta
fra
miserie e peccati
sonsen
andati; e sol Morte ne aspetta.
Quest'uomo, che gitta sul passato
lo sguardo del disinganno, che chiama la sua vita miseria e peccato, che vede gli
anni fuggiti con tanta rapidità senza alcun frutto, ben si promette di fare un
altro canzoniere alla Vergine, ma e troppo tardi. - Omai son stanco! - Grida. E
se ne' Trionfi cerca ingrandire il suo orizzonte e uscire da sè e
contemplare l'umanità, ciò che ne' suoi versi ha ancora qualche interesse è il
suo passato, che i vecchi hanno il privilegio di evocare, rifarne qualche
frammento; e soprattutto il sogno di Laura, tanto imitato da poi.
Chi
legge il Canzoniere, non può non ricevere questa impressione, di un
mondo astratto, rettorico, sofistico, quale fu foggiato da' trovatori, dove
appariscono sentimenti più umani e reali e forme più chiare e rilevate, o se
vogliamo guardare più alto, di un mondo mistico-scolastico, oltreumano, ammesso
ancora dall'intelletto, ma repulso dal cuore e condannato dall'immaginazione.
Se guardiamo alla forma, quel mondo ha perduto il suo aspetto
simbolico-dottrinale, che lo teneva al di là della vita e dell'arte, e si è
umanizzato, è divenuto immagine e sentimento; il tempio gotico si è trasformato
in un bel tempietto greco, nobilmente decorato, elegante, con luce uguale, con
perfetta simMetria, ispirato da Venere, dea della bellezza e della grazia. Il
grottesco, il gotico, gli angoli, le punte, le ombre, l'indefinito, il dissonante,
il prolisso, il superfluo, il volgare, il difforme, tutto è cacciato via da
questo tempio dell'armonia, maraviglia d'arte, che chiude un secolo e ne
annunzia un altro. L'artista gode; l'uomo è scontento. Perchè sotto a questa
bella forma così levigata e pulita vive un povero core d'uomo, nutrito di
desidèri e d'immagini, a cui lo tira la natura, da cui lo allontana la ragione,
senza la forza di uscire dalla contraddizione e senza la ferma volontà di
realizzarle. L'uomo è minore dell'artista. L'artista non posa, che non abbia
data l'ultima finitezza al suo idolo; l'uomo non osa di guardarsi, e abbozza i
moti del proprio cuore, e salta nelle più opposte direzioni, quasi tema di
fermarsi troppo, di esser costretto a volere e a risolversi. Perciò quella
bella superficie riman fredda; non ha al di sotto profondità di esplorazione, o
energia di volontà e di convinzione. La situazione poteva esser tragica, rimane
elegiaca; poesia di un'anima debole e tenera, che si effonde malinconicamente
in dolci lamenti, assai contenta, quando possa vivere in immaginazione e
fantasticare: l'uomo svanisce nell'artista. Gli è che a quest'uomo mancava
quella fede seria e profonda nel proprio mondo, che fece di Caterina una santa
e di Dante un poeta. Quel mondo giace nel suo cervello già decomposto e in
fermentazione, mescolato con altre divinità. Ciò che di più serio si move nel
suo spirito è il sentimento dell'arte congiunto con l'amore dell'antichità e
dell'erudizione. È in abbozzo l'immagine anticipata de' secoli seguenti, di cui
fu l'idolo. L'arte si afferma come arte e prende possesso della vita.
Così
il medio evo, quando appena cominciava a svilupparsi negli altri popoli, presso
di noi per una precoce cultura si dissolveva prima che avesse potuto esplicarsi
in tutti gli aspetti dell'arte e produrre la forma drammatica. Dante, che dovea
essere il principio di tutta una letteratura, ne fu la fine. Quel mondo così
perfetto al di fuori è al di dentro scisso e fiacco: è contemplazione
d'artista, non più fede e sentimento. Questa dissonanza tra una forma così
finita e armonica e un contenuto così debole e contraddittorio ha la sua
espressione ne' sentimenti che prevalgono a' tempi di transizione, la
malinconia, la tenerezza, la delicatezza, il molle e voluttuoso fantasticare. E
l'illustre malato, abbandonato a' flutti di questo doppio mondo, di un mondo
che se ne va e di un mondo che se ne viene, e che con tanta dolcezza e grazia
rappresenta una contraddizione a scioglier la quale gli manca la coscienza e la
forza, è Francesco Petrarca.
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