IX
IL DECAMERONE
Se ora apri il Decamerone,
letta appena la prima novella, gli è come un cascar dalle nuvole e un
domandarti col Petrarca: “Qui come venn'io o quando?”. Non è una evoluzione, ma
è una catastrofe, o una rivoluzione, che da un dì all'altro ti presenta il
mondo mutato. Qui trovi il medio evo non solo negato, ma canzonato.
Ser
Ciapperello è un Tartufo anticipato di parecchi secoli, con questa differenza,
che il Molière te ne fa venire disgusto e ribrezzo, con l'intenzione di
concitare gli uditori contro la sua ipocrisia, dove il Boccaccio ci si spassa
con l'intenzione meno d'irritarti contro l'ipocrita che di farti ridere a spese
del suo buon confessore e de' creduli frati e della credula plebe. Perciò
l'arma del Molière è l'ironia sarcastica; l'arma del Boccaccio è l'allegra
caricatura. Per giungere a queste forme e a queste intenzioni bisogna andare
fino al Voltaire. Giovanni Boccaccio sotto un certo aspetto fu il Voltaire del
secolo decimoquarto.
Molti
se la pigliano col Boccaccio e dicono ch'egli guastò e corruppe lo spirito
italiano. Egli medesimo in vecchiezza fu preso dal rimorso e finì chierico,
condannando il suo libro. Ma quel libro non era possibile, se nello spirito
italiano non fosse già entrato il guasto, se “guasto” s'ha a dire. Ove le cose,
di cui ride il Boccaccio, fossero state venerabili, poniamo pure ch'egli avesse
potuto riderne, i contemporanei ne avrebbero sentita indignazione. Ma fu il
contrario. Il libro parve rispondere a qualche cosa che volea da lungo tempo
uscir fuori dalle anime, parve dire a voce alta ciò che tutti dicevano nel loro
segreto, e fu applauditissimo, con tanto successo che il buon Passavanti se ne
spaventò e vi oppose come antidoto lo Specchio di penitenza. Il
Boccaccio fu dunque la voce letteraria di un mondo, quale era già confusamente
avvertito nella coscienza. C'era un segreto: egli lo indovinò, e tutti
batterono le mani. Questo fatto, in luogo d'essere maledetto, merita di essere
studiato.
Il carattere
del medio evo è la trascendenza, un dì là oltreumano ed oltrenaturale, fuori
della natura e dell'uomo, il genere e la specie fuori dell'individuo, la
materia e la forma fuori della loro unità, l'intelletto fuori dell'anima, la
perfezione e la virtù fuori della vita, la legge fuori della coscienza, lo
spirito fuori del corpo, e lo scopo della vita fuori del mondo. La base di
questa teologia filosofica è l'esistenza degli universali. Il mondo fu popolato
di esseri o intelligenze, sulla cui natura molto si disputò: sono esse idee
divine? Sono generi e specie reali? Sono specie intelligibili? Questo edificio
gemeva già sotto i colpi dei nominalisti, cioè di quelli che negavano
l'esistenza de' generi e delle specie, e li chiamavano puri nomi, e dicevano
esistere solo il singolo, l'individuo. Sulla loro bandiera era scritto un motto
divenuto così popolare: “Non bisogna moltiplicare enti senza necessità”.
L'ascetismo
era il frutto naturale di un mondo teocratico spinto all'esagerazione. La vita
quaggiù perdeva la sua serietà e il suo valore. L'uomo dimorava con lo spirito
nell'altra vita. E la cima della perfezione fu posta nell'estasi, nella
preghiera e nella contemplazione.
Così nacque la
letteratura teocratica, così nacquero le leggende, i misteri, le visioni, le
allegorie: così nacque la Commedia, il poema dell'altra vita. Il
pensiero non aveva intimità, non calava nell'uomo e nella natura, ma se ne
teneva fuori, tutto intorno alla natura e alle qualità degli enti, che erano le
stesse forze umane e naturali sciolte dall'individuo ed esistenti per sè
stesse. Le astrazioni dello spirito divennero esseri viventi. E perchè le
astrazioni, frutto dell'intelletto inesauribile nelle sue distinzioni e
suddistinzioni, sono infinite, questi esseri moltiplicarono nell'acuto intelletto
degli scolastici. Come il mondo scolastico fu popolato di esseri astratti, così
il mondo poetico fu popolato di esseri allegorici, l'uomo, l'anima, la donna,
l'amore, le virtù, i vizi. Non erano persone, come le pagane divinità: erano
semplici personificazioni.
Il
sentimento, come frutto di inclinazioni umane e naturali, era peccato. Le
passioni erano scomunicate. La poesia era madre di menzogne. Il teatro cibo del
diavolo. La novella e il romanzo generi di letteratura profani. Tutto questo si
chiamava il senso, e il luogo comune di questo mondo ascetico era la lotta del
senso con la ragione, da fra Guittone a Francesco Petrarca. Il sentimento,
reietto come senso e costretto ad esser ragione, strappato dal cuore umano,
divenne anch'esso un universale, un fatto esteriore, ora simbolico, ora
scolastico, o, come si diceva, “platonico”. Il padre de' sentimenti, l'amore,
divenne un fatto filosofico, forza unitiva, unità dell'intelletto e dell'atto.
Così nacque la lirica platonica, dal Guinicelli al Petrarca. Il senso e
l'immaginazione si ribellavano contro questo platonismo. Ed è in questa
ribellione, ancorachè poco scrutata e poco accentuata, che è la grandezza della
lirica petrarchesca. Rappresentare i moti del cuore e della immaginazione nella
loro naturalezza e intimità era vietato. E colui che più gustò di questo frutto
proibito, fu il Petrarca.
L'immaginazione
era un istrumento dell'intelletto, destinata a creare forme e simboli di
concetti astratti. Lo sa il povero Dante. Nessuno ebbe mai l'immaginazione così
torturata. E nacquero forme simboliche e intellettuali, nella cui generalità
scomparve l'individuo con la sua personalità. Erano forme tipiche, generi e
specie, anzichè l'individuo. La regina delle forme, la donna, non potè
sottrarsi a questa invasione degli universali, e rimase un ideale più divino
che umano, bella faccia, ma faccia della sapienza, più amata che amante, e
amata meno come donna che come scala alle cose celesti. Così nacquero Beatrice
e Laura.
Certo,
a nessuno è lecito parlare con poca riverenza di questo mondo dell'autorità che
segna un momento interessantissimo nella storia dello spirito umano, e che ha
pure il suo fondamento nella vita. L'illuminismo o il misticismo, la visione
estatica, è un portato naturale dello spirito nella sua alienazione dal corpo,
ciò che dicevasi a “vivere in astrazione”: momento di concitazione e di
entusiasmo, che l'uomo pare più che uomo e sembra in lui parli un dio o un
demonio. Perciò quell'entusiasmo fu detto “furore divino” o “estro”, qualità
de' profeti e de' poeti, che sono tutt'uno per Dante. Questa elevazione
dell'anima in se stessa, e al di sopra de' limiti ordinari della vita reale, è
il lato eroico dell'umanità, il privilegio della giovinezza, la condizione di
tutte le società primitive, quando, cessati i bisogni materiali, vi si sveglia
lo spirito. Tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e le ricchezze e i piaceri,
è degno di stima.
Ma
è uno stato di tensione e di disquilibrio che non può aver durata. L'arte, la
coltura, la conoscenza e l'esperienza della vita lo modificano e lo
trasformano.
L'arte,
impossessandosi di questo mondo, lo umanizza, lo accosta all'uomo e alla
natura, lo mescola di altri elementi, vi fa penetrare le passioni e i furori
del senso. Non ci hai ancora equilibrio; non ci hai qualche cosa che sia la
vita nella sua intimità, insieme paradiso e inferno; ma già di rincontro al
paradiso hai l'inferno, di rincontro a Beatrice hai Francesca da Rimini, e di
rincontro a Dante, simbolo dell'umanità, hai Dante Alighieri, l'individuo in
tutta la sua personalità. Nel Canzoniere quel mondo si spoglia pure le
sue forme natie, teologiche, scolastiche, allegoriche, e prende aspetto più
umano e naturale.
E
se fosse durato ancora un pezzo nella coscienza, non è dubbio che l'arte vi si
sarebbe compiutamente sviluppata, e come la visione e la leggenda divenne la Commedia,
come Selvaggia divenne Beatrice, e Beatrice Laura, dal seno de' misteri sarebbe
uscito il dramma, e molti generi di letteratura ancora iniziali e abbozzati già
nella Commedia sarebbero venuti a maturità, come l'inno e la satira. Ma
già quel mondo nel Canzoniere non ha più il calore dell'entusiasmo e
della fede, e in quelle forme così eleganti lascia una parte della sua
sostanza. Il sentimento religioso, morale, politico vive fiaccamente nella
coscienza del poeta; e il posto rimasto vuoto è occupato dall'arte.
Questo
infiacchirsi della coscienza, questo culto della bella forma fra tanta
invasione di antichità greco-romana sono i due fatti caratteristici della nuova
generazione, che succede all'età virile e credente e appassionata di Dante.
Quegli uomini non si appassionano più per le dottrine, e non cercano il vero
sotto i “versi strani”; la “bella veste” li appaga. I loro studi non hanno più
a guida l'investigazione della verità, ma l'erudizione: c'è il sapere per il
sapere, come l'arte per l'arte. I Fiori, I Giardini, I Conviti,
I Tesori, dove la sapienza sacra e profana era usata a scopo morale,
danno luogo a raccolte semplicemente storiche ed erudite. Ci sono ancora gli
scolastici, che chiamano il Petrarca un insipiente, ma le loro querele si
sperdono nel plauso universale, che pone il Petrarca accanto a Virgilio. E
codesto Virgilio non è più il mago, precursore del cristianesimo, e neppure il
savio “che tutto seppe”, ma è il dolce ed elegante poeta. Dante s'incorona da
sè in paradiso poeta, profeta e apostolo: i contemporanei incoronano nel
Petrarca l'autore dell'Africa, della nuova Eneide. La coltura e
l'arte sono i nuovi idoli dello spirito italiano.
Ma
la coltura e l'arte non è il naturale fiorire di un mondo interiore, anzi è
accompagnata con l'infiacchirsi della coscienza, e si pone già per se stessa,
come un fatto estrinseco che abbia il suo valore in sè e sia a un tempo mezzo e
scopo. È una coltura e un'arte “formale”, non riscaldata abbastanza dal
contenuto. Ci è lì dentro lo stesso mondo di Dante, ma c'è come ragione in
lotta col sentimento e con l'immaginazione; lotta fiacca e inconcludente:
scemato è il vigore della fede e della volontà.
Gli
è che quel mondo mistico, fuori della natura e dell'uomo, appunto per la sua
esagerazione, non poteva avere alcun riscontro con la realtà. Ebbe la sua età
dell'oro, evocata da Dante con tanta malinconia; ma a lungo andare dovea
rimanere pura teoria, ammessa per tradizione e per abitudine e contraddetta
nella vita pratica. Più alto era il modello, più visibile era la contraddizione
e più scandalosa. Nel secolo di Dante e di Caterina grandi sono i lamenti e le
invettive per la corruttela de' costumi, specialmente ne' papi e ne' chierici,
che con l'esempio contraddicevano alle loro dottrine. Queste invettive
divennero il luogo comune della letteratura, e ne odi l'eco un po' rettorica
ne' versi eleganti del Petrarca contro l'avara Babilonia. Ma lo spettacolo,
divenuto abituale e generale, non moveva più indignazione; e mentre Caterina
ammoniva e il Petrarca satireggiava, il mondo continuava sua via. Allato al
misticismo vedevi il cinismo. Dirimpetto a Caterina vedevi Giovanna di Napoli.
La
corruttela de' costumi non era negazione ardita delle dottrine cristiane, anzi
tutti si tenevano buoni cristiani, ed erano zelantissimi contro gli eretici, e
molti facevano all'ultimo penitenza. Ma era qualche cosa di peggio: era
indifferenza, un oscurarsi del senso morale. Quel mondo viveva ancora
nell'intelletto, non creduto e non combattuto, ozioso, senza alcuna efficacia
su' sentimenti e sulle azioni.
In
questa condizione degli spiriti, la coltura dovea avere un effetto deleterio.
La parte leggendaria, fantastica, miracolosa di quel mondo dovea parere a
quegl'ingegni così svegliati cosa così poco seria, come le prediche de' frati
contraddette dalla vita. Sparisce quel candore infantile di fede anche nelle
cose più assurde, che tanto ci alletta negli scrittori antecedenti. Le classi
colte cominciano a separarsi dalla plebe e a prendersi spasso della sua
credulità. Esser credente era prima un titolo di gloria de' più forti ingegni.
Essere incredulo diviene ora indizio di animo colto.
D'altra
parte la maggiore coltura, generando un più vivo sentimento della natura e
dell'uomo, dovea affrettare la rovina di un mondo così astratto e così
estrinseco alla vita. Il reale disconosciuto dovea prender la sua rivincita; la
natura troppo compressa dovea reagire a sua volta. Così di rincontro a quello
spiritualismo esagerato sorgeva una reazione inevitabile, il naturalismo e il
realismo nella vita pratica.
Indi
è che la coltura, in luogo di calare in quel mondo e modificarlo e trasformarlo
e riabilitarlo nella coscienza, come fu più tardi in Germania, si collocò
addirittura fuori di esso, e lasciata la coscienza vuota, impiegò la sua
attività ne' piaceri dell'erudizione e dell'arte.
Così
quel mondo si trovò fuori della coscienza, senza lotta intellettuale, anzi
rimanendo ozioso padrone dell'intelletto. Ci erano anche allora i liberi
pensatori, soprattutto ne' conventi, ma erano sforzi isolati, scuciti. Una
lotta più seria era stata iniziata da' ghibellini; ma la rotta di Benevento e
il trionfo durevole de' guelfi avea posto fine alla discussione e all'esame.
Gli uomini amavano meglio scoprire e postillare manoscritti, e nelle cose di
fede lasciar dire il papa, e vivere a modo loro.
Questo
fu il naturale effetto della vittoria guelfa. Finirono le lotte e le
discussioni; successe l'indifferenza religiosa e politica, fra tanto fiorire di
coltura, di erudizione, di arte, di commerci e d'industrie. Ci erano tutti i
segni di un grande progresso: una più esatta conoscenza dell'antichità, un
gusto più fine e un sentimento artistico più sviluppato, una disposizione meno
alla fede che alla critica e all'investigazione, minor violenza di passioni,
maggiore eleganza di forme: l'idolo di questa società dovea essere il Petrarca,
nel quale riconosceva e incoronava se stessa. Ma sotto a quel progresso v'era
il germe di una incurabile decadenza, l'infiacchimento della coscienza.
Il
Canzoniere, posto tra quei due mondi, senza esser nè l'uno, nè l'altro,
così elegante al di fuori, così fiacco e discorde al di dentro, è l'ultima voce
letteraria, rettorica ed elegiaca, di un mondo che si oscurava nella coscienza.
I contemporanei applaudivano alla bella forma, e non cercavano e non si
appassionavano pel contenuto, come avveniva con la Commedia.
Quel
mondo, divenuto letterario e artistico, anche un po' rettorico e convenzionale,
non rispondeva più alle condizioni reali della vita italiana. Quel misticismo,
quell'estasi dello spirito, che si rivela un'ultima volta con tanta malinconia
e tenerezza nel Petrarca, era in aperta rottura con le tendenze e le abitudini
di una società colta, erudita, artistica, dedita a' godimenti e alle cure
materiali, ancora nell'intelletto cristiana, non scettica e non materialista ma
nella vita già indifferente e incuriosa degli alti problemi dell'umanità. Il
linguaggio era lo stesso, ma dietro alla parola non ci era più la cosa. Questo
era il segreto di tutti, quel qualche cosa non avvertito e non definito, ma che
pur si manifestava con tanta chiarezza nella vita pratica. E colui che dovea
svelare il segreto e dargli una voce letteraria, non usciva già dalle scuole:
usciva dal seno stesso di una società che dovea così bene rappresentare.
Tutti
i grandi scrittori erano usciti dall'università di Bologna, Guinicelli, Cino,
Cavalcanti, Dante, Petrarca.
Giovanni
Boccaccio, nato il 1313, nove anni dopo il Petrarca e otto prima della morte di
Dante, “non pienamente avendo imparato grammatica”, come scrive Filippo
Villani, “volendo e costringendolo il padre per cagione di guadagno, fu
costretto ad attendere all'abbaco, e per la medesima cagione a peregrinare”. Il
padre era un mercante fiorentino, e alla mercatura indirizzò il figlio. Quando
i giovani appena cominciavano i loro studi nella università, il nostro Giovanni
faceva, come si direbbe oggi, il commesso viaggiatore in servigio del padre, e
il suo libro era la pratica e la conoscenza del mondo. Girando di città in
città, si mostrava più dedito alle piacevoli letture e a' passatempi che
all'esercizio della mercatura, e più uomo di spirito e d'immaginazione che uomo
d'affari. Era chiamato “il poeta”. Venuto in Napoli a ventitrè anni, menava
vita signorile, bazzicava in corte, usava co' gentiluomini, spendeva
largamente, amoreggiava, scribacchiava, leggicchiava. Dicesi che alla vista
della tomba di Virgilio rimase pensoso e sentì la sua vocazione poetica. Fatto
è che il buon padre, visto che non se ne potea cavare un mercante, pensò farne
un giureconsulto, e lo mise a studiare i canoni, con gran rincrescimento del
giovane, che chiama sciupato il tempo messo a fare il mercante e ad imparare i
canoni. Finalmente, libero di sè, si gittò agli studi letterari, e come portava
il tempo, si die' al latino e al greco, e si empì il capo di mitologia e di
storia greca e romana. Ei menava la vita, mezzo tra gli studi e i piaceri,
spesso viaggiando, non più a mercatare, ma a cercar manoscritti. Narrasi che al
7 aprile del 1341 siAsi nella chiesa di San Lorenzo invaghito di Maria, figlia
naturale di re Roberto: certo, nella corte spensierata e licenziosa della
regina Giovanna non potè prender lezione di buon costume, nè di amori
platonici. E volse lo studio e l'ingegno a rallegrare col suo spirito la corte
e la sua non ingrata Maria, che con nome poetico chiamò Fiammetta. Il
Petrarca non era ancora comparso sull'orizzonte: tutto era pieno di Dante, e
tra' suoi più appassionati era il nostro poeta. Frutto della sua ammirazione fu
la Vita di Dante, uno de' suoi lavori giovanili. Ma egli poteva
ammirarlo, non comprenderlo, perchè lo spirito di Dante non era in lui.
Formatosi fuori della scuola, alieno da ogni seria coltura scolastica e
ascetica, profano anzichè mistico ne' sentimenti e nella vita, si foggiò un
Dante a sua immagine. Chi vuol conoscere le opinioni e i sentimenti del nostro
giovane, legga quel libro e vi troverà già la stoffa, da cui uscì il Decamerone.
Nessuna originalità e profondità di pensiero, nessuna sottigliezza di
argomentazione; tutto vi è dimostrato, anche le più comuni verità, ma il
fondamento della dimostrazione non è nell'intelletto, è nella memoria; non hai
innanzi un pensatore, nè un disputatore, ma un erudito. Vuol mostrare
l'ingratitudine di Firenze verso Dante, ed ecco uscir fuori Solone, “il cui
petto uno umano tempio di divina sapienza fu reputato”, e la Siria, la
Macedonia, la greca e la romana repubblica, e Atene, e Argo, e Smirne, e Pilos,
e Chios, e Colofon, e Mantova, e Sulmona, e Venosa, e Aquino. “Tu sola, ”
conchiude il poeta “quasi i Cammilli, i Publicoli, i Torquati, Fabrizi, Catoni,
Fabi, Scipioni ... in te fossero, ... avendoti lasciato il tuo antico cittadino
Claudiano cader dalle mani, non hai avuto del presente poeta cura, ma l'hai da
te scacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del tuo soprannome”.
Volendo parlar di Dante, comincia ab ovo, dalla prima fondazione di
Firenze. Spesso lascia lì Dante ed esce in lunghe digressioni, tra le quali è
notabile quella sulla natura della poesia. Secondo lui, il linguaggio poetico
fu trovato per porgere “sacrate lusinghe” alla divinità, con parole lontane “da
ogni altro plebeo e pubblico stile di parlare” e “sotto legge di certi numeri
composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse e cacciassesi il
rincrescimento e la noia”. I poeti imitarono “dello Spirito santo le vestigie”,
perchè come nella divina Scrittura, “la quale teologia appelliamo,
quando con figura di alcuna storia, quando col senso di alcuna visione”, si
mostra l'“alto mistero della Incarnazione del Verbo divino, la vita di quello,
le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa ... così i poeti,
... quando con finzioni di vari iddii, quando con trasmutazioni di uomini in
varie forme, quando con leggiadre persuasioni ne dimostrano le cagioni delle
cose e gli effetti delle virtù e de' vizi”. Poi spiega ciò che lo Spirito santo
volle mostrare nel rogo di Mosè, nella visione di Nabuccodonosor, nelle
lamentazioni di Geremia; e ciò che i poeti vollero mostrare in Saturno, Giove,
Giunone, Nettuno e Plutone e nelle trasformazioni di Ercole in dio e di Licaone
in lupo, e nella bellezza degli Elisi e nell'oscurità di Dite. E ribattendo
quelli che chiamano i poeti antichi “uomini insensati”, inventori di favole “a
niuna verità convenienti”, conclude che “la teologia e la poesia quasi una cosa
si posson dire”, anzi che la “teologia niun'altra cosa è che una poesia d'Iddio”
e “poetica finzione”. L'erudito poeta non si arresta qui, e ci regala la favola
di Dafne, amata da Febo e in lauro convertita, per darci spiegazione perchè i
poeti avevano la corona d'alloro. Di quello che fu il mondo interiore di Dante,
qui non è alcun vestigio; invece il mondo esterno vi è sviluppato fino
all'aneddoto, fino al pettegolezzo. Ci si vede uno spirito curioso e profano
che cerca il maraviglioso e lo straordinario negli accidenti umani, disposto a
spiegarli con la superficialità di un erudito e di un uomo di mondo, o “del
secolo”, come si diceva allora. Spende le ultime pagine ad almanaccare sopra un
sogno attribuito alla madre di Dante e vi fa pompa di tutta la sua erudizione.
Sotto il suo sguardo profano Beatrice perde tutta la sua idealità, e l'amore di
Dante, scacciato dalle sue regioni ascetiche e platoniche e scolastiche,
acquista una tinta romanzesca. Il nostro Giovanni non si fa capace come Dante a
nove anni abbia potuto amare Beatrice. Il caso gli pare strano, e ne cerca
diverse spiegazioni. Forse fu “conformità di complessioni o di costumi”; forse
anche “influenza da cielo”. Ma queste spiegazioni non lo appagano, e si ferma
in quest'altra, che cava dall'esperienza. Dante, secondo lui, vide Beatrice in
una festa il primo di maggio, quando la “dolcezza del cielo riveste dei suoi
ornamenti la terra, e tutta per la varietà de' fiori mescolati tra le verdi
fronde la fa ridente, e per esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza
de' suoni, per la generale allegrezza, per la delicatezza de' cibi e de' vini,
gli animi eziandio degli uomini maturi non che de' giovanetti ampliarsi e
divenire atti a poter leggermente esser presi da qualunque cosa che piace”.
Dante dunque
amò fanciullo per la stessa ragione che può amare un uomo maturo; i cibi e i
vini delicati e l'allegrezza generale, ecco ciò che dispose il suo animo
all'amore. Beatrice era per Dante “angeletta bella e nova”, senza contorni e
senza determinazioni scesa di cielo a mostrare le bellezze e le virtù che le
piovono dalle stelle. Tutto questo non entra al Boccaccio, il quale vuol pure
spiegarsi come la potè parere un'angioletta, e si foggia nella profana
immaginazione una bella immagine di fanciulla, e la descrive così:
“Assai
leggiadretta secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e
piacevole molto, con costumi e con parole assai più gravi e modeste che 'l suo
picciolo tempo non richiedeva; ed oltre a questo, aveva le fattezze del volto
dilicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta
onesta vaghezza, che quasi un'angioletta era reputata da molti.”
Ecco un'angioletta di carne;
eccoci dalle mistiche altezze di Dante caduti in piena fisiologia e notomia.
Dante amò, perchè tra vivande e sollazzi l'animo è disposto ad amare; e
Beatrice parea quasi un'angioletta, perchè era fatta così e così. Beatrice
muore a ventiquattro anni. Il nostro biografo non se ne maraviglia, perchè “un
poco di soperchio di freddo o di caldo che noi abbiamo, ... ci conduce” alla
morte. I parenti e gli amici per consolare Dante gli diedero moglie:
“Oh menti
cieche, oh tenebrosi intelletti!”, esclama il nostro scapolo e nemico
dell'amore regolato. “Qual medico” egli aggiunge
“s'ingegnerà
di cacciare l'acuta febbre col fuoco, o 'l freddo delle midolla delle ossa col
ghiaccio o colla neve? Certo niun altro se non colui, il quale con nuova moglie
crederà le amorose tribolazioni mitigare”.
E qui da uomo
esperto della materia parla della natura e de' fenomeni dell'amore e
dell'indole delle donne, e delle noie e degli affanni de' mariti, e compiange
il povero Dante. Dipinge con tocchi sicuri, e in certi punti è eloquente,
perchè qui è in casa sua. Udite questo periodo: “Possiamo pensare quanti dolori
nascondono le camere, li quali da fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacia
trapassa le mura, sono riputati diletti”. Ma Dante, secondo ch'egli narra,
dimenticò presto moglie e Beatrice, e si die' all'amore delle donne: ciò che
l'indusse al gran viaggio nell'altro mondo, ove se ne fece così aspramente
rimproverare da Beatrice. Il quale amore non pare poi un così gran peccato al
nostro scapolo: “Chi sarà tra' mortali giusto giudice a condannarlo? Non io”.
Ed ecco venire innanzi l'erudito, e citare parecchi casi di uomini illustri
vinti dalle donne, Giove, Ercole, Paride, Adamo, Davide, Salomone, Erode. Ti
par di assistere a una parodia. Eppure niente è più serio. Il giovane è pieno
di ammirazione verso Dante che chiama un “iddio fra gli uomini”, e crede con
questa Vita riparare alla ingratitudine di Firenze e alzargli un
monumento.
La
Vita di Dante è una rivelazione. Qui dentro si manifesta l'autore in
tutta la sua ingenuità e spontaneità: vi trovi il nuovo uomo che si andava
formando in Italia. Mette in un fascio mondo sacro e profano, Bibbia e
mitologia, teologia e poesia: la teologia è una “poesia di Dio”, una “finzione
poetica”. Questa strana mescolanza era già comune al secolo; Dante stesso ne
dava esempio. Ma dove Dante tirava il mondo antico nel circolo del suo universo
e lo battezzava, lo spiritualizzava, il Boccaccio sbattezza tutto l'universo e
lo materializza. In teoria ammette la religione, e parla con riverenza della
teologia, che ci fa conoscere “la divina essenza e le altre separate
intelligenze”. Ma in pratica questo mondo dello spirito rimane perfettamente
estraneo alla sua intelligenza e al suo cuore. Misticismo, platonicismo,
scolasticismo, tutto il mondo dantesco, non ha alcun senso per lui. Non solo
questo mondo gli rimane estraneo come coltura, ma ancora più come sentimento. E
gli manca non solo il sentimento religioso, ma fino quella certa elevatezza
morale che talora ne fa le veci. Spento è in lui il cristiano, e anche il
cittadino. Non gli è mai venuto in mente che servire la patria e dare a lei
l'ingegno e le sostanze e la vita è un dovere così stretto, come è il
provvedere al proprio sostentamento. Dietro al cittadino comincia a comparire
il buon borghese, che ama la sua patria, ma a patto non gli dia molto fastidio,
e lo lasci attendere alla sua industria, e non lo tiri per forza di casa o di
bottega. De' guelfi e ghibellini è perduta la memoria, tanto che il Boccaccio
crede doverne spiegare il significato. E non si persuade come Dante siesi
potuto mescolare nelle pubbliche faccende, e ne reca la cagione alla sua
vanità, ed ha quasi l'aria di dirgli: - Ben ti sta. - Non voglio dire con
questo che il Boccaccio fosse uomo dispregiatore della religione o della virtù
o della patria. Sciolto era di costumi, pure tutti i doveri comuni della vita
li adempiva con la stessa puntualità e diligenza degli altri, e molte legazioni
gli furono commesse da' suoi concittadini. Ma l'età eroica era passata; la
nuova generazione non comprendeva più le lotte e le passioni de' padri; il
carattere era caduto in quella mezzanità che non è ancora volgarità, e non è
più grandezza; della religione, della libertà, dell'uomo antico c'erano ancora
le forme, ma lo spirito era ito. Di vita pubblica qualche apparenza era ancora
in Toscana, sede della coltura; nelle altre parti era vita di corte.
L'erudizione, l'arte, gli affari, i piaceri costituivano il fondo di questa
nuova società borghese e mezzana, della quale ritratto era il Boccaccio,
gioviale, cortigiano, erudito, artista. Se la malinconia dell'estatico Petrarca
ti presentava un simulacro dell'uomo antico, la spensierata giovialità del Boccaccio
è l'ingresso nel mondo, a voce alta e beffarda, della materia o della carne, la
maledetta, il peccato; è il primo riso di una società più colta e più
intelligente, disposta a burlarsi dell'antica; è la natura e l'uomo, che, pure
ammettendo l'esistenza di separate intelligenze, non ne tien conto, e fa di sè
il suo mezzo e il suo scopo.
Questo
tempo fu detto di transizione. Vivevano insieme nel seno degli uomini due
mondi, il passato nelle sue forme se non nel suo spirito, ed un mondo nuovo che
si affermava come reazione a quello, fondato sulla realtà presa in se stessa e
vuota di elementi ideali. Erano in presenza il misticismo, con le sue forme
ricordevoli del mondo soprannaturale, e il puro naturalismo. Ma il misticismo,
indebolito già nella coscienza, era divenuto abituale e tradizionale,
applaudito nel Petrarca non come il mondo sacro, ma come un mondo artistico e
letterario. Il naturalismo al contrario sorgeva allora in piena concordia con
la vita pratica e co' sentimenti, con tutti gli allettamenti della novità.
Questo mutamento nello spirito dovea capovolgere la base della letteratura. Il
romanzo e la novella, rimasti generi di scrivere volgari e scomunicati, presero
il sopravvento. Al mondo lirico, con le sue estasi, le sue visioni e le sue leggende,
il suo entusiasmo, succede il mondo epico o narrativo, con le sue avventure, le
sue feste, le sue descrizioni, i suoi piaceri e le sue malizie. La vita
contemplativa si fa attiva; l'altro mondo sparisce dalla letteratura; l'uomo
non vive più in ispirito fuori del mondo, ma vi si tuffa e sente la vita e gode
la vita. Il celeste e il divino sono proscritti dalla coscienza, vi entra
l'umano e il naturale. La base della vita non è più quello che dee essere, ma
quello che è: Dante chiude un mondo; il Boccaccio ne apre un altro.
Mettiamo
ora il piè in questo mondo del Boccaccio. Che vi troviamo? Opere latine di gran
mole: una specie di dizionario storico, ove hai tutte le antiche forme
mitologiche usate da' poeti, e con le loro spiegazioni allegoriche, e i fatti
degli uomini illustri e delle celebri donne, libri tradotti in francese, in
tedesco, in inglese, in ispagnuolo, in italiano, di cui si fecero moltissime
edizioni, accolti con infinito favore da' contemporanei, come una nuova
rivelazione dell'antichità. Prima ci erano le enciclopedie e i “fiori” e i
“giardini”, ove si raccoglieva ciò che gli antichi pensarono in filosofia, in
etica, in rettorica; il Boccaccio raccoglie quello che gli antichi
immaginarono, quello che operarono. Al mondo del puro pensiero succede il mondo
dell'immaginazione e dell'azione. Vediamolo ora all'opera. Quest'uomo, che ha
pieno il capo di tanta erudizione greca e latina, che ammira Dante perchè ha
saputo molto bene imitare Virgilio, Ovidio, Stazio e Lucano, e a cui di fiorentino
è rimasto l'amore del bello idioma e il sentimento dell'arte, è insieme il
trovatore e il giullare della corte, rallegrata dalle sue facezie e dai suoi
racconti, è l'erede della gaia scienza, sa a menadito romanzi francesi,
italiani e provenzali, e scrive per sollazzarsi e per sollazzare. Ci erano in
lui parecchi uomini non ben fusi, l'erudito, l'artista, il trovatore, il
letterato e l'uomo di mondo.
Ecco
uscirgli dall'immaginazione il Filocolo. Il titolo è greco, come più
tardi è il Filostrato e come sarà il Decamerone. La materia è
tratta da un romanzo spagnuolo, ed è gli amori di Florio e Biancofiore. Ma si
tratta della Spagna pagana, al tempo di Roma pagana, quando già vi penetrava il
cristianesimo. La materia è tale, che il giovane autore vi può sviluppare tutte
le sue tendenze. Ai giovani innamorati e alle amorose donzelle consacra i
“nuovi versi, i quali - egli dice loro - non vi porgeranno i crudeli
incendimenti dell'antica Troia, nè le sanguinose battaglie di Farsaglia, ma
udirete i pietosi avvenimenti dell'innamorato Florio e della sua Biancofiore, i
quali vi fiano graziosi molto”. Probabilmente i giovani vaghi e le donne
innamorate avrebbero desiderato una storia di amore più breve e meno dotta. Ma
come resistere alla tentazione? Il giovane ci ficca dentro tutta la mitologia,
e ad ogni menoma occasione esce fuori con la storia greca e romana. Giulia,
uccisole il marito, nell'ultima disperazione, parlando all'uccisore, cita Ecuba
e Cornelia. Nè la mitologia ci sta a pigione, come semplice colorito, ma è la
vera macchina del racconto, come in Omero e Virgilio. E se Giove, Pluto,
Venere, Pallade e Cupido fossero personaggi vivi, avremmo un grottesco non
dispiacevole; ma sono personificazioni ampollose e rettoriche, formate dalla
memoria, non dall'immaginazione. Ancora, visto che teologia e poesia sono una
stessa cosa, la teologia è paganizzata, e Dio diviene Giove, e Lucifero diviene
Pluto; sì che pagani e cristiani, inimicandosi a morte, usano le stesse forme e
adorano gli stessi iddii. Macchinismo vuoto che s'intramette dappertutto, e
guasta il linguaggio naturale del sentimento, introducendo ne' fatti e nelle
passioni un'espressione artificiale e metaforica. Volendo dire giovani
innamorati si dice: “i quali avete la vela della barca della vaga mente
dirizzato a' venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane
figliuolo di Citerea”. L'avvicinarsi della sera è espresso così: “I disiosi
cavalli del sole caldi per lo diurno affanno si bagnavano nelle marine acque
d'occidente”. Altrove è detto: “L'Aurora aveva rimossi i notturni fuochi, e
Febo avea già rasciutte le brinose erbe”. Nasce uno stile pomposo e freddo, che
invano l'autore cerca incalorire con le figure rettoriche, in cui è maestro.
Spesseggiano le interrogazioni, le esclamazioni, le personificazioni, le
apostrofi; il sentimento si sviluppa dalle cose e si pone per se stesso in una
forma ampollosa e pretensiosa. Il prode Lelio è ucciso sul campo di battaglia,
e il poeta vi recita su questa magnifica tirata rettorica:
“Oh
misera Fortuna, quanto sono i tuoi movimenti vani e fallaci nelle mondane cose!
Ove sono i molti tesori che tu con ampia mano gli avevi dati? Ove i molti
amici? Ove la gran famiglia? Tu gli hai con subito giramento tolte tutte queste
cose, e il suo corpo senza sepoltura morto giace negli strani campi. Almeno gli
avessi tu concedute le romane lacrime, e le tremanti dita del vecchio padre gli
avessero chiusi i morienti occhi, e l'ultimo onore della sepoltura gli avesse
potuto fare!”
Giulia sviene: “gli spiriti ... vagabondi
pare che vadano per lo vicino aere”; e il poeta fa una lunga apostrofe a Lelio,
che al suo pericol correndo lei semiviva abbandona, e dice di Amore:
“Deh!
Quanto Amore si portò villanamente tra voi, avendovi tenuti insieme con la sua
virtù tanto tempo caramente congiunti; e ora, nell'ultimo partimento, non
consentì che voi vi avessi insieme baciati o almeno salutati.”
I personaggi fanno spesso lunghe
orazioni con tutti gli artifici della rettorica, com'è la parlata di Pluto a' ministri
infernali, imitata dal Tasso. Spesso la sensualità si scopre tra le lacrime.
Giulia si straccia i capelli e si squarcia le vesti; il giovane deplora quello
“sconcio tirare” che traeva “i biondi capelli” “dell'usato modo e ordine”, e
aggiunge: “I vestimenti squarciati mostravano le colorite membra, che in prima
soleano nascondere”. Non mancano qua e colà tratti affettuosi, e anche modi e
forme di dire semplici ed efficaci; ma rimane il più spesso fuori dell'uomo e
della natura, inviluppato in perifrasi, circonlocuzioni, aggettivi, orazioni,
descrizioni e citazioni: ci si sente una viva tendenza al reale guastata dalla
rettorica e dall'erudizione. Accampandosi nel mondo antico, e portandovi
pretensioni erudite e rettoriche, la letteratura, se da una parte si emancipava
da quel mondo teologico-scolastico che sorgeva come barriera tra l'arte e la
natura, s'intoppava dall'altra in una nuova barriera, un mondo
mitologico-rettorico.
Il
successo del Filocolo alzò l'animo del giovane a più alto volo. Pensò qualche
cosa come l'Eneide, e scrisse la Teseide. Ma niente era più
alieno dalla sua natura che il genere eroico, niente più lontano dal secolo che
il suono della tromba. Qui hai assedii, battaglie, congiure di dei e di uomini,
pompose descrizioni, artificiosi discorsi, tutto lo scheletro e l'apparenza di
un poema eroico; ma nel suo spirito borghese non entra alcun sentimento di vera
grandezza, e Teseo e Arcita e Palemone e Ippolito ed Emilia non hanno di epico
che il manto. Il suo spirito è disposto a veder le cose nella loro minutezza,
ma più scende ne' particolari, più l'oggetto gli si sminuzza e scioglie, sì che
ne perde il sentimento e l'armonia. Le armi, i modi del combattere, i
sacrifizii, le feste, tutta l'esteriorità è rappresentata con la diligenza e la
dottrina di un erudito; ma dov'è l'uomo? E dov'è la natura? De' suoi personaggi
carichi di emblemi e di medaglie antiche si è perduta la memoria. Ecco un campo
di battaglia. Egli vede con molta chiarezza i fenomeni che ti presenta, ma è la
chiarezza di un naturalista, scompagnata da ogni movimento d'immaginazione; ci
è l'immagine, manca il fantasma, que' sottintesi e que' chiaroscuri, che ti
danno il sentimento e la musica delle cose:
Dopo
il crudele e dispietato assalto
orribile
per suoni e per fedite,
li
fatto prima sopra il rosso smalto,
si
dileguaron le polveri trite;
non
tutte, ma tal parte, che da alto
ed
ancora da basso eran sentite
parimente
e vedute di costoro
le
opere e 'l marziale aspro lavoro.
È un'ottava prosaica, dove un
fenomeno comunissimo è sminuzzato con la precisione e distinzione di un
anatomico, non di un poeta. Il Tasso tutto condensa in un verso solo, che ti
presenta in unica immagine il campo di battaglia:
la
polve ingombra ciò ch'al sangue avanza.
La stessa prosaica maniera trovi
nell'ottava seguente:
Il
sangue quivi de' corpi versato,
e
de' cavalli ancor similemente,
aveva
tutto quel campo innaffiato,
onde
attutata s'era veramente
e
la polvere e 'l fumo: imbragacciato
di
sangue era ciascun destrier corrente,
o
qualunque uomo vi fosse caduto,
benchè
a caval poi fosse rivenuto.
Qui il sangue è talmente
analizzato negli oggetti e congiunto con particolari così vuoti e insignificanti,
che se ne perde l'impressione. Alla grande maniera, sobria, rapida, densa, di
Dante, del Petrarca, succede il prolisso, il diluito e il volgare. Chi ricorda
descrizioni simili nell'Ariosto e nel Tasso, vi troverà le stesse cose, ma vive
e mobili, piene di sentimento e di significato. Nel canto duodecimo descrive la
bellezza di Emilia da' capelli fino alle anche, anzi fino a' piedi, e non si
contenta di passare a rassegna tutte le parti del corpo, chè di ciascuna fa
minuta descrizione, e non solo nel quale, ma nel quanto, sì che pare un
geometra misuratore. Delle ciglia dice:
...
più che altra cosa
nerissime
e sottil, nelle qua' lata
bianchezza
si vedea lor dividendo,
nè
il debito passavan se' estendendo..
Ecco un'ottava similmente prosaica
su' capelli:
Dico
che li suoi crini parean d'oro,
non
per treccia ristretti, ma soluti
e
pettinati sì che infra loro
non
n'era un torto, e cadean sostenuti
sopra
li candidi omeri, nè fòro
prima
nè poi sì be' giammai veduti:
nè
altro sopra quelli ella portava
ch'una
corona che assai si stimava.
Ottave e versi soffrono malattia
di languore: così procede il suono fiacco e sordo.
La
Teseide è indirizzata a Fiammetta, e copertamente e sotto nomi
greci espone una vera storia d'amore. Ma la gravità del soggetto, e le
intenzioni letterarie soperchiarono l'autore e lo tirarono in un mondo epico,
pel quale non era nato. Meglio riuscì nel Filostrato, dove lo scheletro
greco e troiano esattamente riprodotto nella sua superficie è penetrato di una
vita tutta moderna. L'allusione non è in questo o quel fatto, come nella Teseide,
ma è nello spirito stesso del racconto. I languori di Troilo, gli artifici di
Pandaro, che è il mezzano, le resistenze sempre più deboli di Griseida, le
gradazioni voluttuose di un amore fortunato, le arti e le lusinghe di Diomede
presso Griseida, la sua vittoria e le disperazioni di Troilo, questo non è
epico e non è cavalleresco, se non solo ne' nomi de' personaggi: è una pagina
tolta alla storia secreta della corte napoletana, è il ritratto della vita
borghese, collocata di mezzo fra la rozza ingenuità popolana e l'ideale vita
feudale o cavalleresca. Qui per la prima volta l'amore, squarciato il velo
platonico, si manifesta nella sua realtà ed autonomia, separato da' suoi
antichi compagni, l'onore e il sentimento religioso; e non è già amore
popolano, ma borghese, cioè a dire raffinato, pieno di tenerezze e di languori,
educato dalla coltura e dall'arte. Mancati tutti gli alti sentimenti della vita
pubblica e religiosa, non rimane altra poesia che della vita privata. La quale
è vil prosa, quando il fine del vivere non è che il guadagno, ed è nobilitata
dall'amore. Vivere tra' godimenti di amore, con l'animo lontano da ogni
cupidigia di onori e di ricchezze, questo è l'ideale della vita privata, nella
quale la parte seria e prosaica è rappresentata dal mercante. È un ideale che
il Boccaccio trova nella sua propria vita, quando volse le spalle alla
mercatura e si diè a' piacevoli studi e all'amore. Descritti in morbidissime
ottave i voluttuosi ardori di Troilo e Griseida, il poeta, calda ancora
l'immaginazione, così prorompe:
Deh!
Pensin qui gli dolorosi avari,
che
biasiman chi è innamorato,
e
chi, come fan essi, a far denari
in
alcun modo non si è tutto dato,
e
guardin se, tenendoli ben cari
tanto
piacer fu mai a lor prestato,
quanto
ne presta amore in un sol punto
a
cui egli è con ventura congiunto.
Ei
diranno di sì, ma mentiranno;
e
questo amor “dolorosa pazzia”
con
risa e con ischerni chiameranno;
senza
veder che sola un'ora fia
quella
che sè e' danari perderanno,
senza
aver gioia saputo che sia
nella
lor vita: Iddio gli faccia tristi,
ed
agli amanti doni i loro acquisti.
Ottave sconnesse e saltellanti, assai
inferiori alle bellissime che precedono; il poeta sa meglio descrivere che
ragionare: pure ci senti per entro un po' di calore, e la conclusione è
felicissima: è un moto subito e vivace di immaginazione, come di rado
gl'incontra.
Sotto
aspetto epico questo racconto è una vera novella con tutte le situazioni
divenute il luogo comune delle storie d'amore, i primi ardenti desiri,
l'intramessa di un amico pietoso e le ritrosie della donna, le raffinate
voluttà del godimento, la separazione degli amanti, le promesse e i giuramenti
e gli svenimenti della donna, la sua fragilità e i lamenti e i furori del
tradito amante. Sotto vernice antica spunta il mondo interiore del Boccaccio,
una mollezza sensuale dell'immaginazione congiunta con una disposizione al comico
e al satirico. L'infedeltà di Griseida lo fa uscire in questo ritratto della
donna:
Giovine
donna è mobile, e vogliosa
è
negli amanti molti, e sua bellezza
estima
più ch'allo specchio, e pomposa
ha
vanagloria di sua giovinezza;
la
qual quanto piacevole e vezzosa
è
più, cotanto più seco l'apprezza:
virtù
non sente, nè conoscimento,
volubil
sempre come foglia al vento.
A Beatrice e Laura succede
Griseida; all'amore platonico l'amore sensuale; al volo dell'anima verso la sua
patria, il cielo, succede il tripudio del corpo. La reazione è compiuta. A
Dante succede il Boccaccio.
La
contraddizione prende quasi aria di parodia inconscia nell'Amorosa visione.
La Commedia è imitata nel suo disegno e nel suo meccanismo. Anche il
Boccaccio ha la sua visione. Anch'egli incontra la bella donna, che dee
guidarlo all'altura, che è “principio e cagion di tutta gioia”, via a salute e
pace. Ma dove nella Commedia si va di carne a spirito, sino al sommo
Bene, in cui l'umano è compiutamente divinizzato o spiritualizzato, dove nella Commedia
il sommo Bene è scienza e contemplazione: qui il fine della vita è l'umano e la
scienza è il principio, e l'ultimo termine è l'amore, e la fine del sogno è in
questi versi:
Tutto
stordito mi riscossi allora,
e
strinsi a me le braccia, e mi credea
infra
esse madonna averci ancora.
Il paradiso del Boccaccio è un
tempio dell'umanità, un nobile castello, che ricorda il Limbo dantesco, ricco
di sale splendide e storiate, come sono le pareti del purgatorio. Ed è tutta la
storia umana, che ti viene innanzi in quelle pitture. Dante invoca le muse,
l'alto ingegno; il Boccaccio invoca Venere:
O
somma e graziosa intelligenza
che
movi il terzo cielo, o santa dea,
metti
nel petto mio la tua potenza.
Una scala assai stretta mena al
castello, e sulla piccola porta è questa scritta:
...
... questa piccola porta mena a via di vita,
posta
che paia nel salir molesta:
riposo
eterno dà cotal salita.
Dunque
salite su senza esser lenti:
l'animo
vinca la carne impigrita.
Eccoci nella prima sala. E vi son
pinte le sette scienze, e via via schiere di filosofi e poi di poeti, a quel
modo che fa Dante nel limbo. Tutto il canto quinto è consacrato a Virgilio e a
Dante, del quale dice:
Costui
è Dante Alighieri fiorentino,
il
qual con eccellente stil vi scrisse
il
sommo ben, le pene e la gran morte:
gloria
fu delle muse mentre visse,
ne
qui rifiutan d'esser sue consorte.
Dalla sala delle Muse si passa
nella sala della Gloria. E ti sfilano innanzi moltitudine di uomini venuti in
fama, quasi un quadro della storia del mondo. Da Saturno e Giove scendi all'età
de' giganti e degli eroi; poi giungi agli uomini e alle donne illustri di
Grecia e di Roma, in ultimo viene la cavalleria ne' suoi due circoli di Arturo
e Carlomagno, sino all'ultimo cavaliere, Federico secondo, e l'occhio si stende
a Carlo di Puglia, Corradino, Ruggieri di Loria e Manfredi. Il poeta dà libero
corso alla sua vasta erudizione, intento più a raccogliere esempli che a
lumeggiarli: sicchè nessuno de' suoi personaggi è giunto a noi così vivo, come
è l'Omero e l'Aristotile del limbo dantesco, o l'Omero del Petrarca.
Siamo
infine nella sala di Amore e Venere. E come innanzi la storia, qui vien fuori
la mitologia, e senti le prodezze amorose di Giove, Marte, Bacco e Pluto ed
Ercole. Poi vengono gli amori di Giasone, Teseo, Orfeo, Achille, Paride, Enea,
Lancillotto.
Scienza,
gloria, amore, ecco la vita quando non vi s'intrometta la Fortuna e colpisca
Cesare o Pompeo nel sommo della felicità. Percorsi i circoli della vita,
comincia il tripudio, o la beatitudine; e non sono già le danze delle luci
sante nel trionfo di Cristo o degli angeli, ma le voluttuose danze di un
paradiso maomettano, o le danze delle ninfe napolitane a Baia. Il poeta
s'innamora, e mentre in sogno si tuffa negli amorosi diletti e tiene fra le
braccia la donna, si sveglia, e la sua guida gli dice:
Ciò
che porse
il
tuo dormire alla tua fantasia
tutto
averai.
E mentre la visione si dilegua,
ella lo raccomanda al “sir di tutta pace”, all'Amore.
Con
le stesse forme e con lo stesso disegno di Dante il Boccaccio riesce a un
concetto della vita affatto opposto, alla glorificazione della carne, nella
quale è il riposo e la pace. La “Divina Commedia” qui è cavata fuori del
soprannaturale, in cui Dante aveva inviluppata l'umanità e se stesso e il suo
tempo, ed è umanizzata, trasformata in un real castello, sede della coltura e
dell'amore. Se non che il Boccaccio non vide che quelle forme contemplative e
allegoriche, naturale involucro di un mondo mistico e soprannaturale, mal si
attagliavano a quella vita tutta attiva e terrena, ed erano disformi al suo
genio, superficiale ed esterno, privo di ogni profondità ed idealità: perciò
riesce monotono, prolisso e volgare. Oggi, a tanta distanza, c'è difficile a
concepire come non abbia trovato subito il suo genere, che è la
rappresentazione della vita nel suo immediato, sciolta da ogni involucro non
solo teologico e scolastico, ma anche mitologico e cavalleresco. Ma lento è il
processo dell'umanità anche nell'individuo, che passa per molte prove e
tentennamenti prima di trovare se stesso. Il Boccaccio, amico delle muse, stima
co' suoi contemporanei che “le cose volgari non possono fare un uomo letterato”
e che si richiedono “più alti studi”. E gli alti studi sono il latino e il
greco, la conoscenza dell'antichità. Il suo maggior titolo di gloria era
l'ampia erudizione, che lo rendeva superiore a Dante ed anche al suo “Silvano”,
il Petrarca. Trova innanzi a sè forme consacrate e ammirate, le forme epiche di
Virgilio e Stazio, le forme liriche di Dante e di Silvano, e in quelle forme
vuol realizzare un mondo prosaico che gli si moveva dentro. Nei suoi primi
lavori salta fuori tutto il suo mondo greco-romano, mitologico e storico, con
grande ammirazione de' contemporanei. Gli amori di Troilo e Griseida, d'Arcita
e Palemone passarono le Alpi e fecondarono l'immaginazione di Chaucer; i quadri
storici e mitologici della sua Visione ispirarono molti Saggi e
molti Tempi dell'umanità. Chi legge i Reali di Francia e tante
scarne traduzioni di romanzi francesi allora in voga, può concepire che gran
miracolo dovè parere la Teseide, il Filostrato e il Filocolo.
Anche nelle sue Rime si vede l'uomo nuovo alle prese con forme vecchie.
Vi trovi il solito repertorio, l'innamoramento, i sospiri, i desiri, i
pentimenti, il volgersi a Dio e alla Madonna, ma la bella unità lirica del
mondo di Dante e del Petrarca è rotta, ed ogni idealità è scomparsa. Dietro
alle stesse forme è un diverso contenuto che mal vi si adagia. La donna in nome
è ancora un'angioletta, ma che angiolo! Ella sta non raccolta e modesta nella
sua ingenuità infantile, come Bice; o nella sua casta dignità, come Laura; ma
all'ombra
di mille arbori fronzuti,
in
abito leggiadro e gentilesco
tende lacci
con
gli occhi vaghi e col cianciar donnesco.
Hai la donna vezzosa e civettuola
della vita comune, ed un amante distratto, che ora esala sospiri profani in
forme platoniche e tradizionali, ora pianta lì la sua angioletta, e si sfoga
contro i suoi avversari, e ragiona della morte e della fortuna, o inveisce
contro le donne:
Elle
donne non son, ma doglia altrui,
senza
pietà, senza fè, senz'amore,
liete
del mal di chi più lor credette.
Perchè meglio si comprenda questa
disarmonia tra forme convenzionali e un contenuto nuovo, guardiamo questo
sonetto:
Sulla
poppa sedea d'una barchetta,
che
'l mar segando presta era tirata,
la
donna mia con altre accompagnata,
cantando
or una, or altra canzonetta.
Or
questo lito ed or quell'isoletta,
ed
ora questa ed or quella brigata
di
donne visitando, era mirata
qual
discesa dal ciel nuova angioletta.
Io
che seguendo lei vedeva farsi
da
tutte parti incontro a rimirarla
gente,
vedea come miracol novo:
ogni
spirito mio in me destarsi
sentiva,
e con Amor di commendarla
vago
non vedea mai il ben ch'io provo.
Il sonetto comincia bene, in
forma disinvolta e fresca, ancorachè per la parte tecnica un po' trascurata. In
quelle giovanette, che cantano a mare e vanno a visitare le amiche e sono
ammirate dalla gente, vedi una scena tutta napolitana, e ti corre innanzi Baia,
sede di secrete delizie che destano le furie gelose del poeta. Ma questa bella
scena alla fine si guasta, col solito “spirito” e col solito “Amore vago di
commendare”, e riesce in una freddura. Chi vuol vedere un sonetto affatto
moderno, dove l'autore si è sciolto da ogni involucro artificiale, e ti coglie
in atto la vita di Baia con le sue soavità e le sue licenze, senta questo:
Intorno
ad una fonte, in un pratello
di
verdi erbette pieno e di bei fiori,
sedeano
tre angiolette, i loro amori
forse
narrando; ed a ciascuna il bello
viso
adombrava un verde ramoscello
che
i capei d'or cingea, al qual di fuori
e
dentro insieme due vaghi colori
avvolgeva
un soave venticello.
E
dopo alquanto l'una alle due disse
com'io
udii: - Deh! Se per avventura
di
ciascuna l'amante or qui venisse,
fuggiremo
noi quinci per paura? -
- A cui le due risposer: - Chi fuggisse,
poco
savia saria con tal ventura. -
Qui senti il Boccaccio in quella
sua mescolanza di sensuale e malizioso. Gli scherzi del venticello sono
abbozzati con l'anima di un satiro che divora con gli occhi la preda, e la
chiusa cinica così inaspettata ti toglie a ogni idealità e ti gitta nel comico.
Qui il Boccaccio trova se stesso. Fu chiamato “Giovanni della tranquillità” per
quella sua spensierata giovialità, che lo tenea lontano da ogni esagerazione
delle passioni, e tiravalo nel godimento e nel gusto della vita reale. E
quantunque si doglia dell'epiteto come d'una ingiuria e lo rifiuti
sdegnosamente, pure è là il suo genio e la sua gloria, e non dove sfoggia in
forme rettoriche sentimento ed erudizione. Fu chiamato anche “uomo di vetro”,
per una cotal sua mobilità d'impressioni e di risoluzioni, di cui sono esempio
le Rime, dove invano cerchi l'unità organica del Canzoniere, e un
disegno qualunque, avvolto il poeta dalle onde delle impressioni e della vita
reale e de' suoi studi e reminiscenze classiche. Pure tra molte volgarità trovi
un elevato sentimento dell'arte, o, come egli dice, “l'amor delle muse, che lo
trae d'inferno”, come chiama la terra deserta dalle muse. “Vidi”, egli canta,
...
una ninfa uscire
d
'un lieto bosco, e verso me venire
co'
crin ristretti da verde corona.
A
me venuta disse: - Io son colei,
che
fo di chi mi segue il nome eterno,
e
qui venuta sono ad amar presta;
lieva
su, vieni. - Ed io già di costei
acceso,
mi levai; ond'io d'inferno
uscendo,
entrai nell'amorosa festa.
Da questo elevato sentimento
dell'arte è uscito il sonetto sopra Dante, scritto con una gravità e vigore di
stile così insueto, che farebbe quasi dubitare sia cosa sua:
Dante
Alighieri son, Minerva oscura
d'intelligenza
e d'arte, nel cui ingegno
l'eleganza
materna aggiunse al segno,
che
si tien gran miracol di natura.
L'alta
mia fantasia pronta e sicura
passò
il tartareo e poi il celeste regno,
e
il nobil mio volume feci degno
di
temporale e spirital lettura.
Fiorenza
gloriosa ebbi per madre,
anzi
matrigna a me pietoso figlio,
colpa
di lingue scellerate e ladre.
Ravenna
fummi albergo del mio esiglio;
ed
ella ha il corpo, e l'alma il sommo Padre,
presso
cui invidia non vince consiglio.
La stessa disparità tra le forme
e il contenuto troviamo nella Fiammetta e nel Corbaccio o Laberinto
d'amore. Sono due generi nuovi e pel contenuto affatto moderni. La Fiammetta
e un romanzo intimo e psicologico, dove una giovane amata e abbandonata narra
ella medesima la sua storia, rivelando con la più fina analisi le sue
impressioni. Il Corbaccio è la satira del sesso femminile fatta dal
vendicativo scrittore, canzonato da una donna. La scelta di questi argomenti è
felicissima. L'autore volge le spalle al medio evo e inizia la letteratura
moderna. Di un mondo mistico-teologico-scolastico non è più alcun vestigio.
Oramai tocchiamo terra: siamo in cospetto dell'uomo e della natura. Abbiamo una
pagina di storia intima dell'anima umana, colta in una forma seria e diretta
nella Fiammetta, in una forma negativa e satirica nel Corbaccio.
La letteratura non è più trascendente, ma immanente, cioè a dire vede l'uomo e
la natura in se stessa, e non in forme estrinseche e separate, mitologiche e
allegoriche. Ma il Boccaccio non sa trovare le forme convenienti a questo
contenuto. Per rappresentarlo nella sua verità non aveva che a mettersi in
immediata comunione con quello ed esprimere le sue impressioni così naturali e
fresche come gli venivano. Ma s'accosta a questo mondo con l'animo preoccupato
dall'erudizione, dalla storia, dalla mitologia e dalla rettorica, e lo vede, lo
dipinge a traverso di queste forme. L'impressione giungendo nel suo spirito vi
è immediatamente falsificata, nè si riconosce più dietro a quel denso
involucro, che se non è teologico-scolastico, è pur qualche cosa di più strano,
è mitologico-rettorico. Nasce una nuova trascendenza, la cui radice non è nel
naturale sviluppo del pensiero religioso e filosofico, come l'antica, ma
nell'avviamento classico preso dalla coltura. Fiammetta abbandonata da
Panfilo, prima di fare i suoi lamenti, vuol vedere come in Virgilio si lamenta
Didone abbandonata, pensando che a lei non è lecito di lamentarsi in altra
guisa. E se vuol consolarsi, cercando compagni al suo dolore, ti fa un trattato
di storia antica, narrando tutti i casi infelici di amore degli antichi iddii
ed eroi. E se sogna, cerca in Ovidio la spiegazione de' sogni. Vuol dire che
sente vergogna di palesare i suoi godimenti amorosi? E ti definisce la vergogna
e ragiona lungamente de' suoi effetti sulle donne. Vuol esprimere gioia,
speranza, timore, dolore, ira, gelosia? E analizza ciascuno di questi
sentimenti, facendo tesoro di tutti i luoghi topici registrati da Aristotile.
Bisogna vedere con che diligenza il Sansovino nota tutti i luoghi etici e
patetici, e le imitazioni e le erudizioni della Fiammetta, a guida de'
maestri e degli scolari. Dante, Minerva oscura, potè spesso tra le nebbie delle
sue allegorie attingere il mondo reale, perchè era artista, e se è scolastico,
non è mai rettorico: il Boccaccio non può distrigarsi da quel mondo artificiale
e coglier la natura, perchè gli manca ogni serietà di vita interiore nel
pensiero e nel sentimento, e vi supplisce con le esagerazioni e le
amplificazioni. Che dirò delle sue descrizioni così minute, come le sue
analisi, e tutte di seconda mano, non ispirate dall'impressione immediata della
natura? Veggasi il suo inverno e la primavera e l'autunno, e tutte le sue
descrizioni della bellezza virile e femminile, fatte con la squadra e col
compasso. Così gli è venuto scritto un romanzo prolisso, noioso, in guisa che,
a sentir quegli eterni lamenti della Fiammetta che aspetta Panfilo,
siamo tentati di dire: - Panfilo, torna presto! Che non la sentiamo più. -
Più
conforme al suo genio è il Corbaccio, satira delle donne. Ma come il
burlato è lui, le risa sono a sue spese, specialmente quando si lamenta che una
donna abbia potuto farla a lui, che pure è un letterato. Vi mostra egli così
poco spirito come nella lettera a Nicolò Acciaioli, che il Petrarca grecizzando
chiamava Simonide, dove leva le alte strida perchè, invitato alla corte di
Napoli, gli sia toccata quella cameraccia e quel lettaccio, ed esce in
vitupèri, in minacce, in pettegolezzi, resi ancora più ridicoli da quella forma
ciceroniana. Come qui minaccia e vitupera e inveisce alla latina, così nel Corbaccio
satireggia con la storia, co' luoghi comuni degli antichi poeti, narrando fatti
o allegorie e ammassando noiosi ragionamenti. L'ordito è semplicissimo. Il
Boccaccio, beffato da una donna, si vuole uccidere, ma il timore dell'inferno
ne lo tiene, e pensa più saviamente a vivere e a vendicarsi, non col ferro, ma,
come i letterati fanno, con “concordare di rime” o “distender di prose”. Fra
questi pensieri si addormenta e si trova in sogno nel “laberinto d'amore”, o
valle incantata, una specie di selva dantesca, dove gli appare un'ombra, ed è
il marito della donna, che nel purgatorio espia la troppa pazienza avuta con
lei. Costui gli espone tutte le cattive qualità delle donne, a cominciare dalla
sua. E quando si è bene sfogato, lo conduce sopra di un monte altissimo, onde
vede il laberinto metter capo nell'inferno. Questa vista guarisce il Boccaccio
del mal concetto amore. Come si vede, la satira non è rappresentazione
artistica, ma esposizione, in forma di un trattato di morale, de' vizi
femminili. Nondimeno trovi qua e là di bei motti, e novellette graziose e
descrizioni vivaci dei costumi delle donne, con l'uso felicissimo del dialetto
fiorentino, com'è la donna in chiesa, che “incomincia una dolente filza di
paternostri, dall'una mano nell'altra e dall'altra nell'una trasmutandogli
senza mai dirne niuno”, o la donna che con le sue gelosie non dà tregua al
marito, e “di ciarlare mai non resta, mai non molla, mai non fina: dàlle,
dàlle, dàlle, dalla mattina infino alla sera, e la notte ancora non sa
restare”. Nelle sue gelose querele si rivela il vero genio del Boccaccio, una
forza comica accompagnata con rara felicità di espressione, attinta in un
dialetto così vivace e già maturo, pieno di scorciatoie, di frizzi, di motti,
di grazie. Citiamo alcuni brani:
“Credi
tu ch'i' sia abbagliata, e ch'i' non sappia a cui tu vai dietro? A cui tu vogli
bene? E con cui tutto il dì favelli? Misera me, che è cotanto tempo ch'io ci
venni, e pur una volta ancora non mi dicesti - Amor mio, ben sia venuta. - Ma
alla croce di Dio, io farò di quelle a te che tu fai a me. Or son io così
sparuta? Non son io così bella, come la cotale? Ma sai che ti dico? Chi due
bocche bacia, l'una convien che gli puta. Fàtti costà, se Iddio m'aiuti, tu non
mi toccherai: va' dietro a quelle di cui tu se' degno, chè certo tu non eri
degno d'aver me, e fai bene ritratto di quello che tu sei, ma a fare a far sia.
Questa
è lingua già degna di Plauto, e il Corbaccio è sparso di cotali scene,
degne di colui che aveva già scritto il Decamerone. Fra' tanti peccati
che il marito tradito e l'amante burlato attribuiscono alla donna c'è pur
questo, che “le sue orazioni e i suoi paternostri sono i romanzi franceschi”, e
“tutta si stritola quando legge Lancillotto o Tristano nelle
camere segretamente”. E anche “legge la canzone dello indovinello, e quella di
Florio e di Biancefiore, e simili altre cose assai”. Sono preziose rivelazioni
sulla letteratura profana e proibita, allora in voga. Ma se peccato c'è, il
maggior peccatore era il Boccaccio per l'appunto, che per piacere alle donne
scrivea romanzi. Pure è lecito credere ch'elle leggevano con più gusto la nuda
storia francesca di Florio e Biancefiore, che l'imitazione letteraria fatta dal
Boccaccio, detta Filocolo, dove Biancefiore (Blanchefleur) è chiamata
all'italiana “Biancofiore”. Alle donne caleva poco di mitologia e storia
antica, e se tanta erudizione e artificio rettorico potea parere cosa mirabile
al suo maestro di greco, Pilato, e a' latinisti e grecisti che erano allora i
letterati, le donne, che cercavano ne' libri il piacer loro, facevano de' suoi
scritti poca stima, e, “ciò che peggio era, per lui, Aristotile, Tullio,
Virgilio e Tito Livio e molti altri illustri uomini creduti suoi amici e
domestici, come fango scalpitavano e schernivano”. In verità, le donne col loro
senso naturale erano migliori giudici in letteratura che Leonzio Pilato e tutti
i dotti.
Quelli
che chiamarono “tranquillo” il nostro Giovanni espressero un concetto più
profondo che non pensavano. La tranquillità è appunto il carattere del nuovo
contenuto che egli cercava sotto forme pagane. La letteratura del medio evo è
tutt'altro che tranquilla; anzi il suo genio è l'inquietudine, un cercare
continuo, il di là senza speranza di attingerlo. Il suo uomo è sospeso da
terra, con gli occhi in alto, accesi di desiderio. L'uomo del Boccaccio è, al
contrario, assiso, in ozio idillico, con gli occhi volti alla madre terra, alla
quale domanda e dalla quale ottiene l'appagamento. Ma al Boccaccio non piace
esser chiamato “tranquillo”, inconsapevole che la sua forza è lì dov'è la sua
natura. E si prova nel genere eroico e cavalleresco, e nelle confessioni della Fiammetta
tenta un genere lirico-tragico. Tentativi infelici di uomo che non trova ancora
la sua via. L'indefinito è negato a lui, che descrive la natura con tanta
minutezza di analisi. Il sospiro è negato a lui, che numera ad uno ad uno i
fenomeni del sentimento. L'eroico e il tragico non può allignare in un'anima
idillica e sensuale. E quando vi si prova, riesce falso e rettorico. Perciò non
gli riesce ancora di produrre un mondo, cioè una totalità organica, armonica e
concorde. Nel suo mondo epico-tragico-cavalleresco penetra uno spirito
eterogeneo e dissolvente, che rende impossibile ogni formazione artistica, il
naturalismo pagano: spirito invitto, perchè è il solo che vive al di dentro di
lui, il solo che si possa dire il suo mondo interiore. E quando gli riesce di
coglierlo nella sua semplicità e verità, come gli si move al di dentro, allora
trova se stesso e diviene artista. Questo mondo, gittato come frammento
discorde e caotico ne' suoi romanzi epici e tragici, par fuori in tutta la sua
purezza nel Ninfale fiesolano e nel Ninfale d'Ameto.
Qui
l'autore, volgendo le spalle alla cavalleria e a' tempi eroici, rifà con
l'immaginazione i tempi idillici delle antiche favole e dell'età dell'oro,
quando le deità scendevano amicamente nella terra popolata di ninfe, di
pastori, di fauni e di satiri. La mitologia non è qui elemento errante fuori di
posto in mondo non suo, è lei tutto il mondo.
Questo
mondo mitologico primitivo è un inno alla natura. Nel Ninfale fiesolano
la ninfa sacra a Diana, vinta dalla natura, manca al suo voto ed è trasmutata
in fonte. L'anima del racconto è il dolce peccato, nel quale cadono Africo e
Mensola non per corruzione o depravazione di cuore, ma per l'irresistibile
forza della natura nella piena semplicità ed innocenza della vita; sì che,
saputo il fatto, ne viene compassione alla stessa Diana. Indi a poco
sopraggiunge Atalante, e con la guida del figlio della colpa, nato da Mensola,
distrugge gli asili sacri a Diana, e marita le ninfe per forza, ed edifica
Fiesole, ed introduce la civiltà e la coltura. Così il mondo mitologico perisce
con le sue selvatiche istituzioni, e comincia il viver civile conforme alle
leggi della natura e dell'amore.
Il
racconto è diviso in sette parti o canti ed è in ottava rima. L'autore, non
costretto a gonfiare le gote nè a raffinare i sentimenti, si fa cullare
dolcemente dalla sua immaginazione in questo mondo idillico, e descrive
paesaggi e scene di famiglia e costumi pastorali con una facilità che spesso è
negligenza, non è mai affettazione o esagerazione. La tromba è mutata nella
zampogna, suono più umile, ma uguale e armonioso: l'ottava procede piana e
naturale, talora troppo rimessa; e non mancano di bei versi imitativi. Africo e
Mensola debbono dividersi, chè l'ora è tarda; e il poeta dice:
Partir
non si sanno,
ma
or si partono, or tornano, or vanno.
Altrove dice:
sempre
mirandosi avanti ed intorno,
se
Mensola vedea, poneva mente.
Frequente è in lui l'uso dello
sdrucciolo in mezzo al verso, e quell'entrare de' versi l'uno nell'altro, che
slega e intoppa le sue ottave eroiche, ma dà a queste ottave idilliche un
aspetto di naturalezza e di grazia. Il suo periodo poetico, saltellante e
imbrogliato nella Teseide, qui è corrente e spedito, assai prossimo al
linguaggio naturale e familiare:
Ella
lo vide prima che lui lei,
perchè'
a fuggir del campo ella prendea:
Africo
la sentì gridare - Omei! -
e
poi guardando fuggir la vedea:
e
infra se disse: - Per certo costei
è
Mensola -, e poi dietro le correa;
e
sì la prega e per nome la chiama,
dicendo:
- Aspetta quel che tanto t'ama. -
Africo dorme; e il padre dice
alla moglie, Alimena:
O
cara sposa,
nostro
figliuol mi pare addormentato,
e
molto ad agio in sul letto si posa,
sì
che a destarlo mi parria peccato,
e
forse gli saria cosa gravosa
se
io l'avessi del sonno svegliato.
- E tu di' vero, - diceva Alimena -
lascial
posare e non gli dar più pena. -
Manca il rilievo: per soverchia
naturalezza si casca nel triviale e nel volgare. Più tardi verrà il grande
artista, che calerà in questo mondo della natura e dell'amore appena sbozzato e
pur ora uscito alla luce, e gli darà l'ultima e perfetta forma.
Simile
di disegno, ma in più larghe proporzioni, è il Ninfale d'Ameto. È il
trionfo della natura e dell'amore sulla barbarie de' tempi primitivi. E il
barbaro qui non è la ninfa, sacrata a Diana, che per violenza di natura rompe
il voto, ma è il pastore, abitatore della foresta co' fauni e le driadi, che
scendendo al piano lascia l'alpina ferita e prende abito civile. Il luogo della
scena comincia in Fiesole, negli antichissimi tempi detta Corito, quando vi
abitavano le ninfe e non era venuto ancora Atalante a cacciarle via e
introdurvi costumi umani. Così l'Ameto si collega col Ninfale
fiesolano. Il pastore Ameto erra e caccia su pel monte e per la selva,
quando un dì affaticato giunge co' suoi cani al piano, presso il Mugnone; e
riposando e trastullandosi co' cani, gli giunge all'orecchio un dolce canto, e
guidato dalla melodia scopre più giovanette intorno alla bellissima Lia. Sono
ninfe, non sacrate a Diana, ma a Venere. Lia racconta nella sua canzone la
storia di Narciso, “bellissimo e crudo cacciatore”, che, rifiutando il caro
amore delle donne e innamorato della sua immagine, fu convertito in fiore.
Ameto parte pensoso, recando seco l'immagine di Lia. Venuta la primavera, torna
al piano, e cerca e chiama Lia, descrivendo la sua bellezza e offrendole doni:
Tu
se' lucente e chiara più che il vetro
ed
assai dolce più ch'uva matura;
nel
cuor ti sento, ov'io sempre t'impetro
E
siccome la palma in ver l'altura
si
stende, così tu, viepiù vezzosa
che
'l giovanetto agnel ne la pastura;
e
sei più cara assai e grazïosa
che
le fredde acque a' corpi faticati,
o
che le fiamme a' freddi, e ch'altra cosa.
E
i tuoi capei più volte ho simigliati
di
Cerere a le paglie secche e bionde,
dintorno
crespi al tuo capo legati...
Vieni,
ch'io serbo a te giocondo dono,
che
io ho còlti fiori in abbondanza
agli
occhi bei, d'odor soave e buono.
E
siccome suol esser mia usanza,
le
ciriege ti serbo, e già per poco
non
si riscaldan per la tua distanza.
Con
queste, bianche e rosse come fuoco
ti
serbo gelse, mandorle e susine,
fravole
e bozzacchioni in questo loco.
Belle
peruzze e fichi senza fine,
e
di tortole ho presa una nidiata,
le
più belle del mondo, e piccoline...
Si avvicinano i giorni sacri a
Venere, e nel suo tempio traggono pastori e fauni e satiri e ninfe, e Ameto
trova la sua Lia fra bellissime ninfe, delle quali contempla le bellezze parte
a parte, fatto giudice esperto e amoroso. E tutti fan cerchio a un pastore che
canta le lodi di Venere e di Amore. Sopravvengono altre ninfe, le quali “non
umane pensava, ma dèe”, e contempla rapito celesti bellezze, e di pastore si
sente divenuto amante, dicendo: “Io, usato di seguire bestie, amore poco avanti
da me non saputo seguendo, non so come mi convertirò in amante seguendo donne”.
Le belle ninfe gli siedono intorno, ed egli scioglie un inno a Giove e canta la
sua conversione. Questi sono gli antecedenti del romanzo, sparsi di vaghissime
descrizioni di bellezze femminili in quella forma minuta e stancante che è il
vezzo dell'autore. Lia propone che ciascuna ninfa canti la sua storia e canti
la deità reverita da lei, acciocchè “oziose, come le misere fanno, non passino
il chiaro giorno”. Sedute in cerchio e posto in mezzo Ameto, come loro
presidente o antistite, cominciano i loro racconti. Sono sette ninfe: Mopsa, Emilia,
Adiona, Acrimonia, Agapes, Fiammetta e Lia, ciascuna consacrata a una divinità,
Pallade, Diana, Pomena, Bellona, Venere, delle quali si cantano le lodi. Ne'
racconti delle ninfe vedi la vittoria dell'amore e della natura sulla ferina
salvatichezza degli uomini, e all'ozio bestiale tener dietro le arti di
Pallade, di Diana, di Astrea, di Pomena e di Bellona, la cultura e l'umanità.
Ti vedi innanzi svilupparsi tutto il mondo della cultura, e cominciare da Atene
ed in ultimo posare in Etruria, dove l'autore con giusto orgoglio pone il
principio della nuova cultura. Da ultimo apparisce una luce una e trina, entro
la quale guardando Ameto, Mopsa gli occhi asciugandoli, da quelli levò l'oscura
caligine, sì che nella luce triforme ravvisa la celeste e santa Venere, madre
di amore puro e intellettuale. Tuffato nella fonte da Lia, gittati i panni
selvaggi e lavato di ogni lordura, si sente “di bruto fatto uomo”, e “vede chi
sieno le ninfe, le quali più all'occhio che all'intelletto erano piaciute, e
ora all'intelletto piacciono più che all'occhio; discerne quali sieno i templi,
quali le dee di cui cantano e chenti sieno i loro amori, e non poco in sè si
vergogna de' concupiscevoli pensieri avuti”. Le ninfe, le quali non sono altro
che le scienze e le arti della vita civile, tornano alla celeste patria, e
Ameto canta la sua redenzione dallo stato selvaggio.
Questo
disegno evidentemente è uscito da una testa giovanile, ancora sotto l'azione di
tutti i diversi elementi di quella cultura. Palpabili sono le reminiscenze
della Divina Commedia. Lia e Fiammetta ricordano Matilde e
Beatrice. Il concetto nella sua sostanza è dantesco: è l'emancipazione
dell'uomo, il quale, percorse le vie del senso e dell'amore sensuale, è dalla
scienza innalzato all'amore di Dio. Anche la forma allegorica è dantesca, non
essendo quelle apparizioni che simboli di concetti e figure di quelle separate
intelligenze che presiedono alle stelle e regolano i moti dell'animo. Tutto
questo si trova inviluppato in un mondo mitologico, che è la sua negazione,
animato da un naturalismo spinto sino alla licenza: Apuleio e Longo contendono
con Dante nel cervello dello scrittore. Il romanzo, che nell'intenzione
dovrebbe essere spirituale, è nel fatto soverchiato da un vivo sentimento della
bella natura e de' piaceri amorosi. Si vede il giovane, che sta con Dante in
astratto, ma ha pieno il capo di mitologia, di romanzi greci e franceschi, di
avventure licenziose, e fa di tutto una mescolanza. Se qualche cosa in questa
noiosa lettura ti alletta, è dove lo scrittore si abbandona alla sua natura,
com'è la comica descrizione che Acrimonia fa del suo vecchio marito, nel quale
intravvedi già il povero dottore a cui Paganino rubò la moglie, e com'è qua e
là qualche pittura e sentimento idillico. Pure, in un mondo così dissonante e
scordato si sviluppa chiaramente un entusiasmo giovanile per la coltura e
l'umanità. Ci si sente il secolo, che scuote da sè la rozza barbarie, e
s'incammina fidente verso un mondo più colto e polito. Ameto si spoglia il
ruvido abito del medio evo, e guidato dalle muse prende aspetto gentile e
umano. Le ombre del misticismo si diradano nel tempio di Venere. Dante canta la
redenzione dell'anima nell'altro mondo. Il Boccaccio canta la fine della
barbarie e il regno della coltura. È lo spirito nuovo, da cui più tardi uscirà
Lorenzo de' Medici e Poliziano.
Gittando
ora un solo sguardo su questi lavori, si possono raccogliere con chiarezza i
caratteri della nuova cultura. Le teorie in astratto rimangono le stesse, e il
Boccaccio pensa come Dante. Ma nel fatto lo spirito abbandona il cielo e si
raccoglie in terra: perde la sua idealità e la sua inquietudine, e diviene
tranquillo, calato tutto e soddisfatto nella materia della sua contemplazione.
A un mondo lirico di aspirazioni indefinite, espresso nella visione e
nell'estasi, succede un mondo epico, che ha ne' fatti umani e naturali il suo
principio e il suo termine. Il poeta in luogo d'idealizzare realizza, cioè a
dire fugge le forme sintetiche e comprensive che gittano lo spirito in un di là
da esse, e cerca una forma nella quale l'immaginazione si trovi tutta e si
riposi. Non ci è più il “forse” e il “parere”, non una forma appena abbozzata,
quasi velo di qualcos'altro, ma una forma terminata e chiusa in sè e
corpulenta, nella quale l'oggetto è minutamente analizzato nelle singole parti:
alla terzina succede l'analitica ottava. Rimangono ancora le terzine, e le
visioni e le allegorie, i sonetti e le canzoni, ma come forme prettamente
convenzionali e d'imitazione, sciolte dallo spirito che le ha generate: il
passato per lungo tempo si continua come morta forma in un mondo mutato.
Succedono forme giovani e nuove, più conformi a un contenuto epico. Sul mondo
inquieto delle allegorie e delle visioni si alza il sereno e tranquillo mondo
pagano, con le sue deità umanizzate, con la sua natura animata, col suo vivo
sentimento della bellezza, con la sua disinteressata contemplazione artistica.
Queste tendenze non trovano soddisfazione in un contenuto eroico e
cavalleresco, perchè la serietà di una vita eroica e cavalleresca è ita via
insieme col medio evo, e non è più nella coscienza, e non può essere altro che
imitazione letteraria e artificio rettorico. Più conveniente a quelle forme è
la vita idillica, ne' cui tranquilli ozi, nella cui semplicità e chiarezza
l'anima, agitata dalle lotte politiche e turbata dalle ombre di un mondo
trascendente, si raccoglie come in un porto e si riposa. L'idillio è la prima
forma nella quale si manifesta questa nuova generazione, fiacca e stanca, pur
colta ed erudita, che chiama barbara la generazione passata, e celebra i nuovi
tempi della coltura e dell'umanità, invocando Venere e Amore.
Specchio
di questa società nelle sue fluttuazioni, nelle sue imitazioni, nelle sue
tendenze, è il Boccaccio. I suoi tentennamenti e le sue dissonanze provengono
dalla coesistenza nel suo spirito d'elementi vecchi e nuovi, vivi e morti,
mescolati. Un doppio involucro, mistico e mitologico, circonda come una nebbia
questo mondo della natura.
Fra
questi tentennamenti si andò formando il Decamerone. Il Boccaccio lascia
qui cavalleria, mitologia, allegoria, e tutto il suo mondo classico, tutte le
sue reminiscenze dantesche, e si chiude nella sua società, e ci vive e ci gode,
perchè ivi trova se stesso, perchè vive anche lui di quella vita comune. Par
così facile attingere la società in questa forma diretta e immediata: pur si
vede quanto laboriosa gestazione è necessaria, perchè esca alla luce il mondo
del tuo spirito.
Quel
mondo esisteva prima del Decamerone. In Italia abbondavano romanzi e novelle
e “canzoni latine”, canti licenziosi. Le donne, come abbiam visto, leggevano
secretamente tra loro questi libri profani, e i novellatori intrattenevano le
liete brigate con racconti piacevoli e licenziosi. Il fondo comune de' romanzi
erano le avventure de' cavalieri della Tavola rotonda e di Carlomagno
Nell'Amorosa visione il Boccaccio cita un gran numero di questi eroi ed
eroine, Artù, Lancillotto, Galeotto, Isotta la bionda, Chedino, Palamides,
Lionello, Tristano, Orlando, Uliviero, Rinaldo, Guttifré, Roberto Guiscardo,
Federico Barbarossa, Federico secondo. Egli medesimo scrisse romanzi per far
piacere alle donne, e rifatto il romanzo di Florio e Biancofiore, cercò un
teatro più conforme a' suoi studi classici ne' tempi eroici e primitivi delle greche
tradizioni. Pure, le novelle doveano riuscire più popolari e più gradite,
perchè più conformi a' tempi e a' costumi. E se ne raffazzonavano o inventavano
di ogni sorta, serie e comiche, morali e oscene, variate e abbellite da'
novellatori secondo i gusti dell'uditorio. La novella era dunque un genere
vivente di letteratura, lasciato in balia dell'immaginazione, e come materia
profana e frivola, trascurata dagli uomini colti. Rivale della novella era la
leggenda co' suoi miracoli e le sue visioni. Gli uomini colti si tenevano alto
in una regione loro propria, e lasciavano a' frati i Fioretti di san
Francesco e la Vita del beato Colombino, e a' buontemponi la
semplicità di Calandrino e le avventure galanti di Alatiel.
In
questo mondo profano e frivolo entrò il Boccaccio, con non altro fine che di
scrivere cose piacevoli e far cosa grata alla donna che gliene avea data
commissione. E raccolse tutta quella materia informe e rozza, trattata da
illetterati, e ne fece il mondo armonico dell'arte.
Dotte
ricerche sonosi fatte sulle fonti dalle quali il Boccaccio ha attinte le sue
novelle. E molti credono si tolga qualche cosa alla sua gloria, quando sia
dimostrato che la più parte de' suoi racconti non sono sua invenzione, quasi
che il merito dell'artista fosse nell'inventare, e non piuttosto nel formare la
materia. Fatto è che la materia, così nella Commedia e nel Canzoniere
come nel Decamerone, non uscì dal cervello di un uomo, anzi fu il
prodotto di una elaborazione collettiva, passata per diverse forme, insino a
che il genio non l'ebbe fissata e fatta eterna.
Ci
erano in tutti i popoli latini novelle sotto diversi nomi, ma non c'era la
novella, e tanto meno il novelliere, in cui i singoli racconti fossero composti
ad unità e divenissero un mondo organico. Questo organismo vi spirò dentro il
Boccaccio, e di racconti diversi di tempi, di costumi e di tendenze fece il
mondo vivente del suo tempo, la società contemporanea, della quale egli aveva
tutte le tendenze nel bene e nel male.
Non
è il Boccaccio uno spirito superiore che vede la società da un punto elevato e
ne scopre le buone e cattive parti con perfetta e severa coscienza. È un
artista che si sente uno con la società in mezzo a cui vive, e la dipinge con
quella mezza coscienza che hanno gli uomini fluttuanti fra le mobili
impressioni della vita, senza darsi la cura di raccogliersi e analizzarle.
Qualità che lo distingue sostanzialmente da Dante e dal Petrarca, spiriti
raccolti ed estatici. Il Boccaccio è tutto nel mondo di fuori tra' diletti e gli
ozi e le vicissitudini della vita, e vi è occupato e soddisfatto, e non gli
avviene mai di piegarsi in sè, di chinare il capo pensoso. Le rughe del
pensiero non hanno mai traversata quella fronte, e nessun'ombra è calata sulla
sua coscienza. Non a caso fu detto “Giovanni della tranquillità”. Sparisce con
lui dalla nostra letteratura l'intimità, il raccoglimento, l'estasi, la
inquieta profondità del pensiero, quel vivere dello spirito in sè, nutrito di
fantasmi e di misteri. La vita sale sulle superficie e vi si liscia e vi si
abbellisce. Il mondo dello spirito se ne va: viene il mondo della natura.
Questo
mondo superficiale, appunto perchè vuoto di forze interne e spirituali, non ha
serietà di mezzi e di scopo. Ciò che lo move non è Dio, nè la scienza, non
l'amore unitivo dell'intelletto e dell'atto, la grande base del medio evo; ma è
l'istinto o l'inclinazione naturale: vera e violenta reazione contro il
misticismo. Ti vedi innanzi una lieta brigata, che cerca dimenticare i mali e
le noie della vita, passando le calde ore della giornata in piacevoli racconti.
Era il tempo della peste, e gli uomini con la morte innanzi si sentivano
sciolti da ogni freno e si abbandonavano al carnevale della loro immaginazione.
Di questo carnevale il Boccaccio aveva l'immagine nella corte ove avea passati
i suoi più bei giorni, attingendo le sue ispirazioni in quel letame, sul quale
le Muse e le Grazie sparsero tanti fiori. Un congegno simile trovi già nell'Ameto,
un decamerone pastorale: se non che ivi i racconti sono allegorici e
preordinati ad un fine astratto: non c'è lo spirito della Divina Commedia,
ma ce n'è l'ossatura. Qui al contrario i racconti non hanno altro fine che di
far passare il tempo piacevolmente, e sono veri mezzani di piacere e d'amore,
il vero Principe Galeotto, titolo italiano del novelliere, velato
pudicamente da un titolo greco. I personaggi evocati nell'immaginazione da
diversi popoli e tempi appartengono allo stesso mondo, vuoto al di dentro,
corpulento al di fuori. Personaggi, attori, spettatori e scrittore sono un
mondo solo, il cui carattere è la vita tutta al di fuori, in una tranquilla
spensieratezza.
Questo
mondo è il teatro de' fatti umani abbandonati al libero arbitrio e guidati ne'
loro effetti dal caso. Dio o la provvidenza ci sta di nome, quasi per un tacito
accordo, nelle parole di gente caduta nella più profonda indifferenza
religiosa, politica e morale. E non c'è neppure quella intima forza delle cose,
che crea la logica degli avvenimenti e la necessità del loro cammino; anzi
l'attrattivo del racconto è proprio nell'opposto, mostrando le azioni umane per
il capriccio del caso riuscire a un fine affatto contrario a quello che
ragionevolmente si potea presupporre. Nasce una nuova specie di maraviglioso,
generato non dall'intrusione nella vita di forze oltrenaturali sotto forma di
visioni o miracoli, ma da uno straordinario concorso di accidenti non possibili
ad essere preveduti e regolati. L'ultima impressione è che signore del mondo è
il caso. Ed è appunto nel vario giuoco delle inclinazioni e delle passioni
degli uomini sottoposte a' mutabili accidenti della vita che è qui il deus
ex machina, il dio di questo mondo.
E
poichè la macchina è il maraviglioso, l'imprevisto, il fortuito, lo
straordinario, l'interesse del racconto non è nella moralità degli atti, ma
nella loro straordinarietà di cause e di effetti. Non già che il Boccaccio
sconosca il mondo morale e religioso, ed alteri le nozioni comuni intorno al
bene od al male, ma non è questo di che si preoccupa e che lo appassiona. Poco
a lui rileva che il fatto sia virtuoso o vizioso: ciò che importa è che possa
stuzzicare la curiosità con la straordinarietà degli accidenti e dei caratteri.
La virtù, posta qui a fare effetto sull'immaginazione, manca di semplicità e di
misura, e diviene anch'essa un istrumento del maraviglioso, condotta ad una
esagerazione, che scopre nell'autore il vuoto della coscienza ed il difetto di
senso morale. Esempio notabile è la Griselda, il personaggio più virtuoso di
quel mondo. La quale per mostrarsi buona moglie soffoca tutti i sentimenti
della natura e la sua personalità e il suo libero arbitrio. L'autore, volendo
foggiare una virtù straordinaria, che colpisca di ammirazione gli uditori, cade
in quel misticismo contro di cui si ribella e che mette in gioco, collocando
l'ideale della virtù femminile nell'abdicazione della personalità, a quel modo
che secondo l'ideale teologico la carne è assorbita dallo spirito e lo spirito
è assorbito da Dio. Si rinnova il sacrificio di Abramo, e il Dio che mette la
natura a così crudel prova è qui il marito. Similmente la virtù in Tito e
Gisippo è collocata così fuori del corso naturale delle cose, che non ti
alletta come un esempio, ma ti stupisce come un miracolo. Ma virtù eccezionali
e spettacolose sono rare apparizioni, e ciò che spesso ti occorre è la virtù
tradizionale di tempi cavallereschi e feudali, una certa generosità e
gentilezza di re, di principi, di marchesi, reminiscenze di storie
cavalleresche ed eroiche in tempi borghesi. La qual virtù è in questo, che il
principe usa la sua potenza a protezione de' minori, e soprattutto degli uomini
valenti d'ingegno e di studi e poco favoriti dalla fortuna, come furono
Primasso e Bergamino, verso i quali si mostrarono magnifici l'abate di Cligny e
Can Grande della Scala. Così è molto commendato il primo Carlo d'Angiò, il
quale, potendo rapire e sforzare due bellissime fanciulle, figliuole di un
ghibellino, amò meglio dotarle magnificamente e maritarle. La virtù in questi
potenti signori è di non fare malvagio uso della loro forza, anzi di mostrarsi
liberali e cortesi. Già cominciava in quel mondo a parer fuori una classe di
letterati, che viveva alle spese di questa virtù, celebrando con giusto cambio
una magnificenza, della quale assaporavano gli avanzi. L'anima altera di Dante
mal vi si piegava, nè gli fu ultima cagione d'amarezza quel mendicare la vita a
frusto a frusto e scendere e salire per le altrui scale. Ma i tempi non erano
più all'eroica, e il Petrarca si lasciava dotare e mantenere da' suoi mecenati,
e il Boccaccio vivea de' rilievi della corte di Napoli, comicamente imbestiato,
quando il mantenimento non era dicevole a un par suo, disposto da' buoni o da'
cattivi cibi al panegirico o alla satira. Tale è il tipo di ciò che in questo
mondo boccaccevole è chiamato la virtù, una liberalità e gentilezza d'animo,
che dalle castella penetra nelle città e fino ne' boschi, asilo de' masnadieri,
della quale sono esempio Natan, e il Saladino, e Alfonso, e Ghino di Tacco, e
il negromante di Ansaldo. Questo, se non è propriamente senso morale, è pur
senso di gentilezza, che raddolcisce i costumi e spoglia la virtù del suo
carattere teologico e mistico, posto nell'astinenza e nella sofferenza, le dà
aspetto piacevole, più conforme ad una società colta e allegra. Vero è che
siccome il caso, regolatore di questo mondo, ne fa di ogni maniera, talora
l'allegria che vi domina è funestata da tristi accidenti, che turbano il bel
sereno. Ma è una nuvola improvvisa, la quale presto si scioglie e rende più
cara la vista del sole, o come dice la Fiammetta, è una “fiera materia,
data a temperare alquanto la letizia”. Volendo guardare più profondamente in
questo fenomeno, osserviamo che la gioia ha poche corde, e sarebbe cosa
monotona, noiosa, e perciò poco gioiosa, come avviene spesso ne' poemi idillici,
se il dolore non vi si gittasse entro con le sue corde più varie e più ricche
d'armonia, traendosi appresso un corteggio di vivaci passioni, l'amore, la
gelosia, l'odio, lo sdegno, l'indignazione. Il dolore ci sta qui non per sè, ma
come istrumento della gioia, stuzzicando l'anima, tenendola in sospensione e in
agitazione, insino a che per benignità della fortuna o del caso comparisce
d'improvviso il sereno. E quando pure il fatto sorta trista fine, com'è in
tutt'i racconti della giornata quarta, l'emozione è superficiale ed esterna,
esaltata e raddolcita in descrizioni, discorsi e riflessioni, e non condotta
mai sino allo strazio, com'è nel fiero dolore di Dante. Sono fugaci apparizioni
tragiche in questo mondo della natura e dell'amore, provocate appunto dalla
collisione della natura e dell'amore non con un principio elevato di moralità,
ma con la virtù cavalleresca, “il punto d'onore”. Di che bellissimo esempio,
oltre il Gerbino, è il Tancredi, che testimone della sua onta uccide l'amante
della figliuola, e mandale il cuore in una coppa d'oro: la quale, messa sopra
esso acqua avvelenata, quella si bee e così muore. Il motivo della tragedia è
il punto d'onore, perchè ciò che move Tancredi è l'onta ricevuta, non solo per
l'amore della figliuola, ma ancora più per l'amore collocato in uomo di umile
nazione. Ma la figliuola dimostra vittoriosamente al padre la legittimità del
suo amore e della sua scelta, invocando le leggi della natura e il concetto
della vera nobiltà, posta non nel sangue, ma nella virtù; e l'ultima
impressione è la condanna del padre indarno pentito e piangente sul morto corpo
della figliuola, il quale apparisce non come giusto vendicatore del suo onore
offeso, ma come ribelle verso la natura e l'amore. L'effetto estetico è la
compassione verso il padre e la figliuola, l'una di alto animo, l'altro umano e
di benigno ingegno, vittime tutti e due non per difetto proprio, ma per le
condizioni del mondo in mezzo a cui vivono. La conclusione ultima è la
rivendicazione delle leggi della natura e dell'amore verso gli ostacoli in cui
s'intoppano. Sicchè la tragedia è qui il suggello e la riprova del mondo
boccaccevole, e il dolore fugace che vi fa la sua comparsa, presentato nella
sua forma più mite e tenera, vicina alla compassione, è come il condimento
della gioia, a lungo andare insipida, quando sia abbandonata a se stessa.
La
base della tragedia è mutata. Non è più il terrore che invade gli spettatori
incontro a un fato incomprensibile che si manifesta nella catastrofe, come ne'
greci, e neppure l'espiazione per le leggi di una giustizia superiore, come
nell'inferno dantesco; ma è il mondo abbandonato alle sue forze naturali e
cieche, nel cui conflitto rimane l'amore come una specie di diritto superiore,
incontro a cui tutti hanno torto. La natura, che nel mondo dantesco è il
peccato, qui è la legge, ed ha contro di sè non un mondo religioso e morale, di
cui non è vestigio, ancorchè ammesso in astratto e in parola, ma la società
come si trova ordinata in quel complesso di leggi, di consuetudini che si
chiamano l'“onore”. Il conflitto è tutto però al di fuori nell'ordine de' fatti
prodotti dal diverso urto di queste forze e terminati dalla benignità o
malvagità del caso o della fortuna; e non sale a vera opposizione interna che
sviluppi le passioni e i caratteri. Il poeta non è un ribelle alle leggi
sociali e tantomeno un riformatore; prende il mondo com'è, e se le sue simpatie
sono per le vittime dell'amore, non biasima per ciò coloro che dall'onore sono
mossi ad atti crudeli, anch'essi degni di stima, vittime anch'essi. Così esalta
Gerbino, che volle romper la fede data dal re, suo zio, anzi che mancare alle
leggi dell'amore ed esser tenuto vile; ma non biasima il re che lo fece
uccidere, “volendo anzi senza nipote rimanere, ch'essere tenuto re senza fede”.
Ne nasce in mezzo all'agitazione de' fatti esteriori una calma interna, una
specie di equilibrio, dove l'emozione non penetra se non quanto è necessario a
ravvivare e variare l'esistenza. Perciò in questo mondo borghese e indifferente
e naturale la tragedia rimane esteriore e superficiale, naufragata qui come un
frammento galleggiante nella vastità delle onde. Il movimento non ha radice
nella coscienza, nelle forti convinzioni e passioni stimolate dal contrasto, ma
si scioglie in un giuoco di immaginazione, in una contemplazione artistica de'
vari casi della vita, che sorprendano e attirino la tua attenzione. Per dirla
con un solo vocabolo comprensivo, virtù e vizi qui non hanno altro significato
che di “avventure”, ovvero casi straordinari tirati in iscena dal capriccio del
caso. Gli uditori non vi prendono altro interesse che di trovarvi materia a
passare il tempo con piacere; e del loro piacere è mezzana la stessa virtù e lo
stesso dolore.
Un
mondo, il cui dio è il caso e il cui principio direttivo è la natura, non è
solo spensierato e allegro, ma è anche comico. Già quel non prendere in nessuna
serietà gli avvenimenti e farne un giuoco di pura immaginazione,
quell'intreccio capriccioso de' casi, quell'equilibrio interno che si mantiene
sereno tra le più crudeli vicissitudini, sono il terreno naturale su cui
germina il comico. Un'allegrezza vuota d'intenzione e di significato è cosa
insipida, è appunto quel riso che abbonda nella bocca degli stolti. Perchè il
riso abbia malizia o intelligenza, dee avere una intenzione e un significato,
dee esser comico. E il comico dà a questo mondo la sua fisonomia e la sua
serietà.
Questa
società è essa medesima una materia comica, perchè niente è più comico che una
società spensierata e sensuale, da cui escono i tipi di don Giovanni e di
Sancio Panza. Ma è una società che rappresentava a quel tempo quanto di più
intelligente e colto era nel mondo, e ne aveva coscienza. Una società siffatta
aveva il privilegio di esser presa sul serio da tutto il mondo e di poter
ridere essa di tutto il mondo. In effetti due cose serie sono in queste
novelle, l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina che si fa riconoscere e
rispettare da' più potenti signori, e una certa alterezza borghese che prende
il suo posto nel mondo e si proclama nobile al pari de' baroni e de' conti.
Questi sono i caratteri di quella classe a cui apparteneva il Boccaccio,
istruita, intelligente, che teneva sè civile e tutto l'altro barbarie. E il
comico qui nasce appunto da questo: è la caricatura che l'uomo intelligente fa
delle cose e degli uomini posti in uno strato inferiore della vita
intellettuale. La società colta aveva innanzi a sè i frati ed i preti, o come
dice il Boccaccio, le cose cattoliche, orazioni, confessioni prediche, digiuni,
mortificazioni della carne, visioni e miracoli; e dietro stava la plebe con la
sua sciocchezza e la sua credulità. Sopra questi due ordini di cose e di
persone il Boccaccio fa sonare la sferza.
Materia
del comico è dunque l'efficacia delle orazioni, come il “paternostro” di san
Giuliano, il modo di servire Dio nel deserto, la vita pratica de' frati, de'
preti e delle monache in contraddizione con le loro prediche, l'arte della
santificazione insegnata a fra Puccio, i miracoli e le apparizioni de' santi,
come l'apparizione dell'angelo Gabriello, e la semplicità della plebe,
trastullo dei furbi. Visibile soprattutto è la reazione della carne contro gli
eccessivi rigori di un clero che proscriveva il teatro e la lettura de'
romanzi, e predicava i digiuni e i cilizi come la via al paradiso. È una
reazione che si annunzia naturalmente con la licenza e il cinismo. La carne
scomunicata si vendica, e chiama “meccanici” i suoi maldicenti, cioè gente che
giudica grossamente secondo l'opinione volgare. Così il mondo dello spirito in
quelle sue forme eccessive è divenuto per questa gente il mondo volgare. È
immaginabile con che voluttà la carne dopo la lunga compressione si sfoghi, con
che delizia ti ponga innanzi ad uno ad uno i suoi godimenti, scegliendo i modi
e le frasi più scomunicate, e talora volgendo a senso osceno frasi e immagini
sacre. È il mondo profano in aperta ribellione, che ha rotto il freno e fa la
caricatura al padrone, cadutogli di sella. Su questo fondo comico s'intreccia
una grande varietà di accidenti, di cui sono gli eroi i due protagonisti
immortali di tutte le commedie, chi burla e chi si fa burlare, i furbi e i
gonzi, e di questi i più martoriati e i più innocenti, i mariti. E fra tanti
accidenti si sviluppa una grande ricchezza di caratteri comici, de' quali
alcuni sono rimasti veri tipi, come il cattivello di Calandrino e lo scolare
vendicativo che sa dove il diavolo tien la coda. I caratteri seri sono
piuttosto singolarità che tipi, individui perduti nella minutezza ed
eccezionalità della loro natura, come Griselda, Tito, il conte di Anguersa,
madama Beritola, Ginevra e la Salvestra e l'Isabetta e la figlia di Tancredi.
Ma i caratteri comici sono la parte viva e intima e sentita di questo mondo, e
riflettono in sè fisonomie universali che incontrate nell'uso comune della
vita, come compar Pietro e maestro Simone e fra Puccio e il frate montone e il
giudice squasimodeo e monna Belcolore e Tofano e Gianni Lotteringhi, e tutte le
varietà, perchè “infinita è la turba degli stolti”. Così questo mondo spensierato
e gioviale si disegna, prende contorni, acquista una fisonomia, diviene la
“commedia umana”.
Ecco,
a così breve distanza, la commedia e l'anticommedia, la “Divina Commedia”
e la sua parodia, la “commedia umana”! E sullo stesso suolo e nello stesso tempo
Passavanti, Cavalca, Caterina da Siena, voci dell'altro mondo, soverchiate
dall'alto e profano riso di Giovanni Boccaccio. La gaia scienza esce dal suo
sepolcro col suo riso incontaminato; i trovatori e i novellatori, spenti da'
ferri sacerdotali, tornano a vita e ripigliano le danze e le gioiose canzoni
nella guelfa Firenze; la novella e il romanzo, proscritti, proscrivono alla lor
volta e rimangono padroni assoluti della letteratura. Certo, questo mutamento
non viene improvviso, come appare un moto di terra: lo spirito laicale è
visibile in tutta la letteratura e si continua con tradizione non interrotta,
come s'è visto, insino a che nella Divina Commedia prende arditamente il
suo posto e si proclama anch'esso sacro e di diritto divino, e Dante, laico, assume
tono di sacerdote e di apostolo. Ma Dante il fa con tanta industria che tutto
l'edificio stia in piedi e la base rimanga salda. La sua “commedia” è una
riforma; la “commedia” del Boccaccio è una rivoluzione, dove tutto l'edificio
crolla e sulle sue rovine escono le fondamenta di un altro.
La
Divina Commedia uscì dal numero de' libri viventi, e fu interpretata
come un libro classico, poco letta, poco capita, pochissimo gustata, ammirata
sempre. Fu divina, ma non fu più viva. E trasse seco nella tomba tutti quei
generi di letteratura, i cui germi appaiono così vivaci e vigorosi ne' suoi
schizzi immortali, la tragedia, il dramma, l'inno, la laude, la leggenda, il
mistero. Insieme perirono il sentimento della famiglia e della natura e della
patria, la fede in un mondo superiore, il raccoglimento e l'estasi e
l'intimità, le caste gioie dell'amicizia e dell'amore, l'ideale e la serietà
della vita. In questo immenso mondo, crollato prima di venire a maturità e
produrre tutti i suoi frutti, ciò che rimase fecondo fu Malebolge, il regno
della malizia, la sede della umana commedia. Quel Malebolge, che Dante gitta
nel loto, e dove il riso è soverchiato dal disgusto e dalla indignazione,
eccolo qui che mena sulla terra la sua ridda infernale, abbigliato dalle Grazie,
e si proclama esso il vero paradiso, come capì don Felice e non capì il povero
frate Puccio. In effetti qui il mondo è preso a rovescio. “Commedia” per Dante
è la beatitudine celeste. “Commedia” pel Boccaccio è la beatitudine terrena, la
quale tra gli altri piaceri dà anche questo, di passare la malinconia
spassandosi alle spalle del cielo. La carne si trastulla, e chi ne fa le spese
è lo spirito.
Se
la reazione contro uno spiritualismo esagerato e lontanissimo dalla vita
pratica fosse venuta da lotte vivaci nelle alte regioni dello spirito, il
movimento sarebbe stato più lento o più contrastato, come negli altri popoli,
ma insieme più fecondo. Il contrasto avrebbe fortificata la fede negli uni e le
convinzioni negli altri, e generata una letteratura piena di vigore e di
sostanza, alla quale non sarebbe mancata nè la passione di Lutero, nè
l'eloquenza di Bossuet, nè il dubbio di Pascal, nè le forme letterarie
possibili solo dove la vita interiore è forte e sana. Così il movimento sarebbe
stato insieme negativo e positivo, il distruggere sarebbe stato insieme
l'edificare. Ma le audacie del pensiero punite inesorabilmente, troncata col
sangue l'opposizione ghibellina, rimaso il papato arbitro e vicino e sospettoso
e vigile, quel mondo religioso così corrotto ne' costumi, come assoluto nelle
dottrine e grottesco nelle forme, al contatto con una coltura così rapida e con
lo spirito fatto adulto e maturo dallo studio degli antichi scrittori, non potè
esser preso sul serio dalla gente colta, che pure è quella che ha in mano
l'indirizzo della vita nazionale. Nacque a questo modo la scissura tra la gente
colta e tutto il rimanente della società, che pure era la gran maggioranza,
rimasa passiva e inerte in mano al prete di Varlungo, a donno Gianni, a frate
Rinaldo e a frate Cipolla. Sicchè per la gente istruita quel mondo divenne il
mondo del volgo, o de' meccanici, e saperne ridere era segno di coltura: ne
ridevano anche i chierici che volevano esser tenuti uomini colti. Così
coesistevano l'una accanto all'altra due società distinte, senza troppo
molestarsi. La libertà del pensiero era negata; vietato mettere in dubbio la
dottrina astratta; ma quanto alla pratica, era un altro affare, si viveva e si
lasciava vivere, trastullandosi tutti e sollazzandosi nel nome di Dio e di
Maria. Gli stessi predicatori ne davano esempio, cercando di divertire il
pubblico con motti e ciance ed iscede; cosa che al buon Dante muoveva lo
stomaco, e che faceva ridere il Boccaccio, scrivendo nella conclusione del suo Novelliere:
“se le prediche de' frati per rimorder delle lor colpe gli uomini il più oggi
piene di motti e di ciance e di scede si veggono, estimai che quegli medesimi
non stesser male nelle mie novelle, scritte per cacciar la malinconia delle
femmine.”
L'indignazione
di Dante era caduta: sopravvenne il riso, come di cose oramai comuni. Non si
move la bile se non in quelli che credono e veggono profanata la loro credenza
ne' fatti: è la bile de' santi e di tutti gli uomini di coscienza. Ma quella
colta società, vuota di senso religioso e morale, non era disposta a guastarsi
la bile per i difetti degli uomini. Le “sfacciate donne fiorentine” qui
allettano e lasciviano e fanno “quadri viventi”, come si dice e si fa oggidì.
Il traffico delle cose sacre, occasione allo scisma della credente Germania, e
che Dante nella nobile ira sua chiama “adulterio”, qui è materia di amabili
frizzi, senza fiele e senza malizia. La confessione suggerisce l'idea di
equivoci molto ridicoli, ne' quali sono i laici e le laiche, che la fanno a'
preti, uomini “tondi” e “grossi”, come si mostra nel confessore di ser
Ciappelletto, e nel frate Bestia, carattere comico de' meglio disegnati. Il
foggiar miracoli, come quel di Masetto l'ortolan Alberto o di frate Cipolla, il
fabbricar santi e renderli miracolosi, come è di ser Ciappelletto, è
rappresentato con l'allegria comica di gente colta e incredula. Profanazioni
simili fanno ridere, perchè le cose profanate non ispirano più riverenza.
Questa
società tal quale, sorpresa calda calda nell'atto della vita, è trasportata nel
Decamerone: quadro immenso della vita in tutte le sue varietà di
caratteri e di accidenti i più atti a destare la maraviglia, sul quale spicca
Malebolge tirato dall'inferno e messo sul proscenio, il mondo sensuale e
licenzioso della furberia e della ignoranza, entro cui si move senza
mescolarvisi un mondo colto e civile, il mondo della cortesia, riflesso di
tempi cavallereschi, vestito un po' alla borghese, spiritoso, elegante,
ingegnoso, gentile, di cui il più bel tipo è Federigo degli Alberighi. Gli
abitanti naturali di questo mondo sono preti e frati e contadini e artigiani e
umili borghesi e mercatanti, con un corteggio femminile corrispondente, e le
alte risa plebee di questo perpetuo carnevale coprono le donne e i cavalieri,
le armi e gli amori, le cortesie e le imprese di quel mondo dello spirito,
della coltura, dell'ingegno e della eleganza, allegro anch'esso, ma di
un'allegrezza costumata e misurata, magnifico negli atti, avvenente nelle
forme, e nel parlare e ne' modi decoroso. Questi due mondi, le cui varietà si
perdono nello sfondo del quadro, vivono insieme, producendo un'impressione
unica e armonica di un mondo spensierato e superficiale, tutto al di fuori nel
godimento della vita, menato in qua e in là da' capricci della fortuna.
Questo
doppio mondo così armonizzato nelle sue varietà riceve la sua intonazione
dall'autore e dalla lieta brigata che lo introduce in iscena. L'autore e i suoi
novellatori appartengono alla classe colta e intelligente. Essi invocano spesso
Dio, parlano della Chiesa con rispetto, osservano tutte le forme religiose,
fanno vacanza il venerdì, perchè in quel giorno il nostro Signore per la
“nostra vita morì”, cantano canzoni platoniche e allegoriche, e menano vita
allegra, ma costumata e quale a gentili persone si richiede. Lo spirito,
l'eleganza, la coltura, le muse rendono questa società amabile, come oggi si
riscontra ne' circoli più eleganti. Specchio suo è quel mondo della cortesia,
reminiscenza feudale abbellita dalla coltura e dallo spirito, alla cui immagine
si dipinge la colta e ricca borghesia. E come quel mondo feudale avea i suoi
buffoni e giullari, questa società ha anch'essa chi la rallegri. E i suoi
buffoni e giullari sono quell'infinito mondo che le si schiera innanzi preti,
frati, contadini, artigiani, di cui prende spasso, traendo piacere così dai
babbei come dai furbi. In questo comico non ci è punto una intenzione seria e
alta, come correggere i pregiudizi, assalire le istituzioni, combattere
l'ignoranza, moralizzare, riformare: nel che sta la superiorità del comico di
Rabelais e di Montaigne, che è la reazione del buon senso contro un mondo
artificiale e convenzionale. Lì il riso è serio, perchè lascia qualche cosa
nella coscienza; qui il riso è per il riso, per passare malinconia, per cacciare
la noia. Quel mondo plebeo è guardato come fa un pittore il modello, senz'altra
intenzione che di pigliarne i contorni e i lineamenti e mettere in vista ciò
che può meglio trastullare la nobile brigata. Nell'immenso naufragio
sopravviveva la coscienza letteraria e il sentimento artistico fortificato
dallo spirito e dalla coltura; ed è da quella coscienza che sono usciti questi
capolavori, modelli idealizzati a uso e piacere di una società intelligente e
sensuale dal geniale artista, idolo delle giovani donne a cui sono intitolati.
L'ideale
comico rimasto come il suggello dell'immortalità su questi modelli è nella
rappresentazione diretta di questa società così com'è, nella sua ignoranza e
nella sua malizia messa al cospetto di una società intelligente, che sta lì a
bella posta per applaudire e batter le mani. Il motivo comico non esce dal
mondo morale, ma dal mondo intellettuale. Sono uomini colti che ridono alle
spalle degli uomini incolti, che sono i più. Perciò il carattere dominante che
rallegra la scena è una certa semplicità di spirito di nature inculte, messa in
risalto quando si trova a contatto con la furberia: ciò che costituisce il
fondo del carattere sciocco. Con la sciocchezza è congiunta spesso la
credulità, la vanità, la millanteria, la volgarità de' desidèri. La furberia dà
il rilievo a questo carattere, sì che lo metta in vista nel suo aspetto
ridicolo. Ma la furberia è anch'essa comica, non certo allo sciocco, ma
agl'intelligenti uditori che la comprendono. Così i due attori concorrono ciascuno
per la parte sua a produrre il riso. Qui è il fondamento della commedia
boccaccevole. Si vede la coltura in quel suo primo fiorire mostrar coscienza di
sè, volgendo in gioco l'ignoranza e la malizia delle classi inferiori. Il
comico ha più sapore quando i beffati sono quelli che ordinariamente beffano,
quando cioè i furbi, che burlano i semplici, sono alla lor volta burlati
dagl'intelligenti, com'è il confessore burlato dalla sua penitente.
Il
comico talora vien fuori per un improvviso motto o facezia, che illumina tutta
una situazione e provoca il riso di un tratto e irresistibilmente: ciò che oggi
si direbbe un “tratto di spirito”. Sono brevi novelle, il cui sapore, come nel
sonetto, è tutto nella chiusa. Di questo genere è la novella del giudeo, che
guardando a Roma la corruzione cristiana, si converte al cristianesimo. La
chiusa sopraggiunge così improvvisa e così disforme alle premesse, che
l'effetto è grande. E ce n'è parecchie altre di questo stampo, e non molto
felici, perchè l'autore lavora sopra un motto già trovato e noto. Tali sono le
novelle della marchesana di Monferrato, di Guglielmo Borsiere e di maestro
Alberto. Questi fuochi incrociati di motti e di frizzi, che brillano con tanto
splendore ne' circoli eleganti e bastano ad acquistarti riputazione di uomo di
spirito, sono la parte più appariscente, ma più elementare dello spirito. La
fucina dove si fabbricavano motti, facezie, proverbi, epigrammi, frizzi, era la
scuola de' trovatori e della “gaia scienza”. Moltissimi di questi motti si
erano già accasati nel dialetto fiorentino, e con molti altri usciti
dall'immaginazione di un popolo così svegliato e arguto. Il Decamerone
ne è seminato. Ma questi motti, appunto perchè entrati già nel corpo della
lingua, non sono altro che parole e frasi, un dizionario morto, e raccoglierli
e infilarli, come fa il Burchiello, non è da uomo di spirito. Sono i colori del
comico, non sono il comico esso medesimo. Sono il patrimonio già acquistato
dello spirito nazionale, e perciò mancanti di quella freschezza e di
quell'imprevisto che è la qualità essenziale dello spirito; nè possono
conseguire un effetto estetico se non associandosi a qualche cosa di nuovo e
d'inaspettato, trovato allora allora che ti vengono sotto la penna. Ciò fa che
il Burchiello è insipido, e il Boccaccio è spiritoso; perchè per il Boccaccio i
motti e i frizzi non sono scopo a sè stessi, ma un semplice mezzo di stile, il
colorito.
Lo
spirito nel suo senso elevato è nel comico quello che il sentimento è nel
serio, una facoltà artistica. E come il sentimento, così lo spirito è un grande
condensatore, dando una velocità di percezione che ti faccia cogliere di un
tratto sotto contrarie apparenze il simile o il dissimile. Dove la sagacia
giunge per via di riflessione, lo spirito giunge di un salto e intuitivamente.
I figli di Ugolino nell'esaltazione del sentimento dicono: “Tu ne vestisti
queste misere carni e tu le spoglia”. Qui il sentimento opera nel serio quello
che nel comico lo spirito; congiunge improvvisamente e in una sola frase idee e
immagini diverse. Ma per giungere a questa produzione geniale è necessario che
lo spirito sia anch'esso un sentimento, il sentimento del ridicolo, cioè a dire
che stando in mezzo al suo mondo ne provi tutte le emozioni, e ci viva entro e
ci si spassi, pigliandovi lo stesso interesse che altri piglia nelle cose più
serie della vita. Pure l'emozione dee esser quella di uno spettatore
intelligente, anzi che di un attore mescolato in mezzo a' fatti, sì che tu
guardi quella calma e prontezza e presenza di animo, che ti tenga superiore
allo spettacolo: ond'è che il vero uomo di spirito fa ridere e non ride, lui. È
questa calma superiore che rende lo spirito padrone del suo mondo e glielo fa
foggiare a sua guisa, annodando le fila, sviluppando i caratteri, disegnando le
figure, distribuendo i colori.
Lo
spirito del Boccaccio è meno nell'intelletto che nell'immaginazione, meno nel
cercar rapporti lontani che nel produrre forme comiche. Lo studio che i suoi
antecessori pongono a spiritualizzare, lui lo pone a incorporare. E cerca
l'effetto non in questo o quel tratto, ma nell'insieme, nella massa degli
accessorii tutti stretti come una falange. Gli antecessori fanno schizzi: egli
fa descrizioni. Quelli cercano l'impressione più che l'oggetto: egli si chiude
e si trincera nell'oggetto e lo percorre e rivolta tutto. Perciò spesso hai più
il corpo e meno l'impressione; più sensazione che sentimento; più immaginazione
che fantasia; più sensualità che voluttà. Mancano i profumi a' suoi fiori,
mancano i raggi alla sua luce. È una luce opaca, per troppa densità e
ripetizione di se stessa. Questa maniera nelle cose serie è insopportabile,
come nel Filocolo e nell'Ameto, con quelle interminabili
descrizioni e orazioni, dove ti senti come arenato e che non vai innanzi, E ti offende
anche talora nel Decamerone, quando per esempio si fa parlare Tito o la
figliuola di Tancredi con tutte le regole della rettorica e della logica. Ma
nel comico questa maniera è una delle sue forme più naturali, e la prima a
comparire nell'arte dopo quella esplosione rudimentale di motti e di proverbi.
Perchè il comico è il regno del finito e del senso, e le prime sue impressioni
sono singolarizzate nelle minute pieghe degli oggetti; dove nel serio le prime
impressioni ti danno allegorie e personificazioni, forme generalizzate
nell'intelletto. Questa prima forma del comico è la caricatura.
La
quale è la rappresentazione diretta dell'oggetto, fatta in modo che sia messo
in vista il suo lato difettoso e ridicolo. Certo, basterebbe metterti
sott'occhio il difetto e lasciarti indovinare tutto il resto. Un solo tratto di
spirito illumina tutto il corpo e te lo presenta all'immaginazione. Ma il
Boccaccio non se ne contenta, e come fa il pittore, ti disegna tutto il corpo,
scegliendo e distribuendo in modo gli accessorii e i colori, che ne venga
maggior luce sul lato difettoso. Di che nasce che il ridicolo non rimane
isolato su quel punto, ma si spande su tutta l'immagine, di cui ciascuna parte
concorre all'effetto, apparecchiando, graduando e producendo una specie di
“crescendo” nella scala del comico. Il riso, perchè vi sei ben preparato e
disposto, di rado ti viene improvviso e irresistibile, come in quei brevi
tratti che ti presentano rapporti inaspettati, anzi spesso più che riso è una
gioia uguale che ti tiene in uno stato di pacata soddisfazione. Non ridi, ma
hai la faccia spianata e contenta, e ti si vede il riso sotto le guance, non
tale però che debba per forza scattar fuori in quella forma contratta e
convulsa. Il quale effetto nasce da questo, che l'autore non ti presenta una
serie di rapporti usciti dall'intelletto, ma una serie di forme uscite
dall'immaginazione. E sono forme piene, carnose, togate, minutamente disegnate.
L'autore, come obbliato in questo mondo dell'immaginazione, ha aria di non aggiungervi
niente del suo, egli che ne è il mago. E tu ci stai dentro come incantato.
L'autore non si distrae mai, non mette il capo fuori per fare una smorfia che
provochi il riso, non tratta il suo argomento come cosa frivola, e piglia e
lascia e torna. Quella è la sua idea fissa, e lo incalza e lo tiene e tiraselo
appresso, e non gli dà fiato, se non sia uscita tutta fuori. E tu non ti
distrai, ti senti come dondolato deliziosamente nella tua contemplazione, nè il
riso, che talora ti coglie, t'interrompe, chè subito ti ci rituffi entro, e
corri e corri, e il corso è finito, e tu corri ancora dolcemente naufragato. Ma
non è il mondo orientale, dove l'immaginazione, quasi fatta ebbra dall'oppio,
salta fremente dalle braccia dell'amore pe' vasti campi dell'infinito e ti fa
provare quel sentimento che dicesi voluttà, e che è l'infinito nel senso, quel
vago e indefinito e musicale che tra gli abbracciamenti ti rivela Dio. Questo è
un mondo prettamente sensuale, chiuso e appagato in forme precise e rotonde, da
cui niente è che ti stacchi e ti rapisca in alte regioni. Appunto perchè questi
fiori non mandano profumi e queste luci non gittano raggi, tu hai sensazioni e
non sentimenti, immaginazione e non fantasia, sensualità e non voluttà. Il rêve
scompare. L'estasi non tiene più assorti i tuoi sguardi. Hai trovato già il tuo
paradiso in quella realtà piena e attraente. Diresti che la carne in questo suo
primo riapparire nel mondo ti si sveli nel suo tripudio tutta nuda, ed empia di
lusinghe e di vezzi il tuo paradiso. Perciò la forma di questo paradiso è
cinica, anche più dove un senso ironico di modestia è una civetteria che
riaccende il senso.
Poichè
la forma di questo mondo è la caricatura, uscita da una immaginazione
abbondante, minuta disegnatrice, hai innanzi non punte e rialzi, ma l'oggetto
intero nelle sue più fine gradazioni. Breve ne' preliminari e nella dipintura
astratta di personaggi, l'autore alza subito il sipario, e ti trovi in piena
azione che si movono e parlano. E già fin da' primi lineamenti ti balza innanzi
il motivo comico, che ti si sviluppa a poco a poco per via di gradazioni, l'una
entrata nelle altre con effetto crescente. Il Boccaccio vi spiega quella
qualità che i francesi, mirando alla forza nel suo calore e nella sua facilità,
chiamano “verve”, e noi chiamiamo “brio”, mirando alla forza nella sua
allegra genialità. Di che maraviglioso esempio è la novella di Alibech, e
l'altra di ser Ciappelletto. A render più piccante la caricatura serve
l'ironia, che qui è forma non sostanziale, ma accessoria. Ed è un'apparente
bonomia, un'aria d'ingenuità, con la quale il narratore fa il pudico e lo
scrupoloso, e non vuol dire e pur dice, e non vuol credere e pur crede, e si fa
la croce con un sogghigno. Questa ironia è come una specie di sale comico, che
rende più saporito il riso a spese del “paternostro” di san Giuliano e de'
miracoli di ser Ciappelletto.
Essendo
base di questo mondo la descrizione, cioè l'oggetto non ne' suoi raggi e ne'
suoi profumi, cioè a dire nelle sue impressioni, ma nel suo corpo
singolarizzato ed individuato, ha bisogno di forme piene e ricche, e così
nascono le due forme della nuova letteratura, l'ottava rima nella poesia e il
periodo nella prosa.
Abbiamo
già vista la nona rima svilupparsi con magnificenza orientale nel poema l'Intelligenzia.
L'ottava rima non è inventata dal Boccaccio, come non è sua invenzione il
periodo. Ma è lui che le dà un corpo e l'intonazione. Prima di lui l'ottava
rima è un accozzamento slegato e fortuito, dove diversi oggetti sono ficcati
insieme a caso, che potrebbero assai bene star da sè. Stanno lì dentro oggetti
nudi, non ci e un solo oggetto sviluppato e addobbato. L'ottava rima è un
meccanismo, non è ancora un organismo. Il Boccaccio ha fatto dell'ottava una
totalità organica, ed è l'oggetto che si sviluppa a poco a poco nelle sue
gradazioni. Ben trovi ne' suoi poemi ottave felici; ma in generale elle sono
impigliate, mal costruite, e in sul più bello ti cascano. Nel genere eroico ti
riesce sforzato e teso; nel genere idillico ti riesce volgare e abbandonato.
Gli è che l'ottava, nell'ampiezza e magnificenza delle sue costruzioni, è la
maggiore idealità della forma poetica e richiede un'attività geniale che manca
al Boccaccio, errante in un mondo artificiale e convenzionale. Il difetto è
tutto al di dentro, nell'anima; ciò che freddamente è concepito, nasce debole e
mal congegnato, e non ci vale artificio.
Qui
al contrario l'autore è a casa sua: pinge un mondo, in cui vive, a cui
partecipa con la più grande simpatia, e tutto in esso, gitta via ogni involucro
artificiale. Ci è in lui qualche cosa più che il letterato, ci è l'uomo che vi
guazza entro e vi si dimena e vi si strofina e vi lascivia. E n'esce una forma,
che è quel mondo esso medesimo, di cui sente gli stimoli nella carne e
nell'immaginazione. Così è venuta fuori quella forma di prosa, che si chiama il
“periodo boccaccevole”.
A
quel tempo il grande movimento letterario che aveva il suo centro a Firenze si
era di poco allargato fuori di Toscana. La restaurazione dell'antichità che
presentava all'immaginazione nuovi orizzonti, il mondo greco che allora
spuntava appena, involto in quel vago chiaroscuro che accresce le illusioni,
tirava a sè l'attenzione La lingua di Dante non era ancora lingua italiana: la
chiamavano “idioma fiorentino”. La lingua era sempre il latino, nè era mutata
l'opinione che di sole cose frivole e amorose si potesse scrivere in “latino
volgare”, come si chiamavano i dialetti. Il Boccaccio dice di sè che scrive in
“idioma fiorentino”, e quelli che usavano il volgare dice che scrivevano in
“latino volgare”. Il tipo di perfezione era sempre il latino, e l'ideale
vagheggiato dalla classe erudita era un volgare nobile o illustre, secondo quel
modello configurato, un volgare alzato a quella stessa perfezione di forma. Questo
tentò Dante nel Convito, con piena fede che il volgare fosse acconcio ad
esprimere le più gravi speculazioni della scienza non altrimenti che il latino,
e quello scolastico latino volgare o “volgare latino”, nudo e tutto ossa e
nervi, parve per la prima volta magnificamente addobbato nelle larghe pieghe
della toga romana. Ma la pece scolastica s'era appiccata anche a Dante, e
quella barbarie delle scuole sta così in quelle ampie forme a disagio, come un
contadino vestito a festa in abito cittadinesco. Non ci è fusione, ci è punte e
contrasti.
Il
Boccaccio non era uscito dalle scuole, e quando più tardi studiò filosofia e un
po' anche teologia, il suo spirito era già formato nell'esperienza della vita
comune, nell'uso del suo volgare e nello studio de' classici. Come il Petrarca,
ha in abbominio gli scolastici, ne' quali vede proprio il contrario di quella
elegante coltura greca e romana, vede la barbarie e la rozzezza. Regnano nel
suo spirito, divinità, Virgilio e Ovidio e Livio e Cicerone, e non ci è Bibbia
che tenga, e non ci è san Tommaso. Quando vuol dipingere alcun lato serio,
morale o scientifico, del suo mondo, la sua imitazione è un artificio esterno e
meccanico, perchè ha più immaginazione che sentimento e più intelletto che
ragione. La sua forma è decorosa, nobile, spesso disimpacciata, ma troppo
uguale e placida, e talora ti fa sonnecchiare. Il periodo è un rumor d'onde
uniforme, mosse faticosamente da mare stanco e sonnolento. Manca l'ispirazione,
supplisce la rettorica e la logica. Il che avviene, perchè il Boccaccio
separato dalle immagini e gittato nel vago del sentimento o nell'astratto del
discorso, perde il piede e va giù. Tratta le idee come fossero corpi, e
analizza e minuteggia che è uno sfinimento. Le idee sono luoghi comuni
annacquati in un viavai di piccoli e oziosi accessorii, distinzioni, riserve,
condizioni, “se”, “ma”, “avvegnachè” e “conciossiacosachè”. Uno studio
soverchio di esattezza, una notomia minuta di ogni pensieruzzo mette più in
vista la volgarità e insipidezza dell'idea. La forma si stacca visibilmente
dalla cosa, e appare un meccanismo ingegnoso, lavorato accuratamente e sempre
quello. Cosa c'è sotto? Il luogo comune. Questo fu chiamato più tardi forma
letteraria. E non c'è cosa più contraria alla scienza, che è parola e non
frase, e mal si riconosce nelle circonlocuzioni, nelle perifrasi e ne'
pleonasmi. In questo artificio ci è un progresso: ci è quell'arte de' nessi e
delle gradazioni, che mancava alla prosa, e rivela uno spirito adulto, educato
dai classici. Ma ci è il difetto opposto, un volere di ogni idea fare una
catena cominciata e terminata in sè, ciò che è un pantano, e non acqua
corrente. Il Boccaccio odia gli scolastici; ma il suo periodo non è che
sillogismo mascherato, una frase generica, come “umana cosa è aver compassione
degli affiitti”, che per molti andirivieni riesce in qualche volgare moralità.
Il formulario è divenuto un meccanismo ben congegnato; ma il fondo è lo stesso.
Vedi lo scolastico vestito a nuovo e più alla moda. Se l'ampio giro del periodo
boccaccevole è una catena artificiale dove la scienza perde la sua semplicità
ed elasticità e la sua libertà di movimento, non è meno assurdo
nell'espressione del sentimento, la forza più libera e indisciplinabile dello
spirito, che spezza tutti i legami della logica e sbalza fuori con rapidità. I
bruschi e tragici movimenti dell'animo qui sono come cristallizzati tra
congiunzioni, parentesi e ragionamenti. Manca ogni subbiettività: ti è
difficile guardare al di dentro nella coscienza; i casi sono straordinari, i
fatti interessanti, le situazioni drammatiche, e non ti viene la lacrima, e non
ti senti commosso, perchè l'anima non si manifesta che in frasi comuni e
rigirate. Veggasi la novella di madama Beritola, e l'altra del conte
d'Anguersa, ove tra' più pietosi accidenti e mutazioni della fortuna non si
muta la forma, sempre attillata e guantata. Pure, qua e là si sente una certa
non dirò commozione, ma emozione di una immaginazione calda, e n'escono
movimenti sentimentali, come nelle ultime parole della figliuola di Tancredi e
in alcuni tratti della Griselda.
Questa
forma di periodo, che si affà così poco alla scienza e al sentimento, dove
appare un mero meccanismo foggiato alla latina, acquista senso e moto, quando
il teatro della vita è nell'immaginazione, cioè a dire quando l'autore si trova
nel vivo dell'azione, non con idee e sentimenti, ma con oggetti innanzi ben
determinati. Tale è la descrizione della peste, o del combattimento di Gerbino.
Perchè il fatto non è come l'idea, uno e semplice, ma come il corpo, è un
multiplo, un insieme di circostanze e di accessorii. Questo insieme è il
periodo, il quale nella sua evoluzione è ciò che in pittura si chiama “un
quadro”. Aggruppare le circostanze, subordinarle, coordinarle intorno ad un
centro, ombreggiare, lumeggiare, è arte somma nel Boccaccio. La descrizione,
quando sta per sè, in astratto e separata dall'azione, non riscalda abbastanza
l'immaginazione e riesce fronzuta, com'è spesso nelle introduzioni. Ma quando
ci è qualche cosa che si move e cammina, e rassomiglia ad un'azione,
l'immaginazione si mette in moto anche lei, e assiste pacata allo spettacolo,
disegnando e facendo quadri in quelle larghe forme che si chiamano periodi.
Questa maniera di narrare a quadri non è certo l'andamento naturale dell'azione,
che perde l'impeto e l'attrito, arrestata ne' suoi movimenti più rapidi
dall'occhio tranquillo di una immaginazione disegnatrice. E perciò non è
maniera conveniente alla storia, e non è prosa, ma è arte in forma prosaica, e
narrazione poetica. Que' quadri e periodi ti danno non pur l'ordine e il legame
e il significato de' fatti, ma le movenze, le attitudini, le gradazioni: onde
nasce quell'effetto d'insieme che dicesi “fisonomia” o “espressione”.
Ma
dove il periodo boccaccevole diviene una creazione sui generis, un
organismo vivente, è nel lato comico e sensuale del suo mondo. E non è già che
vi adoperi maggiore artificio o finezza; ma è che qui ci è la musa, vale a dire
tutto un mondo interiore, la malizia, la sensualità, la mordacità, un vero
sentimento comico e sensuale. Ed è questa sentimentalità, la sola che la natura
abbia concessa al Boccaccio, che penetra in quei flessuosi giri della forma e
ne fa le sue corde. Il suo periodo è una linea curva che serpeggia e guizza ne'
più libidinosi avvolgimenti, con rientrature e spezzamenti e spostamenti e
riempiture, e sono vezzi e grazie, o civetterie di stile, che ti pongono
innanzi non pur lo spettacolo nella sua chiarezza prosaica, ma il suo motivo sentimentale
e musicale. Quelle onde sonore, quelle pieghe ampie della forma latina, piena
di gravità e di decoro, dove si sente la maestà e la pompa della vita pubblica,
trasportata dal foro nelle pareti di una vita privata oziosa e sensuale,
diventano i lubrici volteggiamenti del piacere stuzzicato dalla malizia. In
bocca a Tito, a Gisippo senti la rettorica imitazione di un mondo fuori della
coscienza: l'aria è pur quella, ma cantata da un borghese che non ne ha il
sentimento e sbaglia spesso il motivo. Qui al contrario, in questo mondo
erotico e malizioso, hai la stess'aria, penetrata da un altro motivo che la
soggioga e se l'assimila; e quelle forme magniloquenti che arrotondivano la
bocca degli oratori, arrotondiscono il vizio e gli danno gli ultimi finimenti e
allettamenti. I latini nell'espressione del comico gittavano via le armi
pesanti e vestivano alla leggiera: il Boccaccio concepisce come Plauto, e
scrive come Cicerone. Pure il suo concepire è così vivo e vero, che Cicerone si
trasforma nella sua immaginazione in una sirena vezzosa che tutta in sè si
spezza e si dimena. Ma spesso, tutto dentro nel soggetto, gitta via i viluppi e
i contorcimenti, e salta fuori snello, rapido, diritto, incisivo. Maestro di
scorciatoie e di volteggiamenti, la sua immaginazione covata da un sentimento
vero spazia come padrona tra forme antiche e moderne, e le fonde e ne fa il suo
mondo, e vi lascia sopra il suo stampo. Sarebbe insopportabile questo mondo e
profondamente disgustoso, se l'arte non vi avesse profuse tutte le sue veneri,
inviluppando la sua nudità in quelle ampie forme latine, come in un velo
agitato da venti lascivi. L'arte è la sola serietà del Boccaccio, sola che lo
renda meditativo fra le orgie dell'immaginazione e gli corrughi la fronte nella
più sfrenata licenza, come avveniva a Dante e al Petrarca nelle loro più alte e
pure ispirazioni. Di che è uscito uno stile dove si trovano fusi i vari uomini
che vivevano in lui, il letterato, l'erudito, l'artista, il cortigiano, l'uomo
di studio e di mondo, uno stile così personale, così intimo alla sua natura e
al suo secolo, che l'imitazione non è possibile, e rimane monumento solitario e
colossale fra tante contraffazioni.
Che cosa manca a questo mondo?
Mondo
della natura e del senso, gli manca quel sentimento della natura e quel profumo
voluttuoso che gli darà il Poliziano.
Mondo
della commedia, gli manca quell'alto sentimento comico nelle sue forme
umoristiche e capricciose che gli darà l'Ariosto.
E
che cosa è questo mondo?
È il mondo cinico e malizioso
della carne, rimasto nelle basse sfere della sensualità e della caricatura
spesso buffonesca, inviluppato leggiadramente nelle grazie e ne' vezzi di una
forma piena di civetteria, un mondo plebeo che fa le fiche allo spirito,
grossolano ne' sentimenti, raggentilito e imbellettato dall'immaginazione,
entro del quale si move elegantemente il mondo borghese dello spirito e della
coltura con reminiscenze cavalleresche.
È
la nuova “Commedia”, non la “divina”, ma la “terrestre Commedia”. Dante si
avvolge nel suo lucco e sparisce dalla vista. Il medio evo con le sue visioni,
le sue leggende, i suoi misteri, i suoi terrori e le sue ombre e le sue estasi,
è cacciato dal tempio dell'arte. E vi entra rumorosamente il Boccaccio e si
tira appresso per lungo tempo tutta l'Italia.
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