XI
“LE STANZE”
Siamo al secolo decimoquinto. Il
mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei,
che tutti vogliono visitare e studiare. L'Italia ritrova i suoi antenati, e i
Boccacci si moltiplicano, l'impulso dato da lui e dal Petrarca diviene una
febbre, o per dir meglio, quella tale corrente elettrica che incerti momenti
investe tutta una società e la riempie dello stesso spirito. Quella stessa
attività che gittava l'Europa crociata in Palestina, e più tardi spingendola
verso le Indie le farà trovare l'America, tira ora gl'italiani a disseppellire
il mondo civile rimasto per così lungo tempo sotto le ceneri della barbarie.
Quella lingua era la lingua loro, e quel sapere era il loro sapere:
agl'italiani pareva avere racquistato la conoscenza e il possesso di sè stessi,
essere rinati alla civiltà. E la nuova èra fu chiamata il “Rinascimento”.Nè
questo era un sentimento che sorgeva improvviso. Per lunga tradizione Roma era
capitale del mondo, gli stranieri erano barbari, gl'italiani erano sempre gli
antichi romani, erano sangue latino, e la loro lingua era il latino, e la
lingua parlata era chiamata il “latino volgare”, un latino usato dal volgo.
Questo sentimento, legato in Dante con le sue opinioni ghibelline, ispirava più
tardi l'Africa e latinizzava anche le facezie del Boccaccio. Ora diviene
il sentimento di tutti e dà la sua impronta al secolo. La storia ricorda con
gratitudine gli Aurispi, i Guarini, i Filelfi, i Bracciolini, che furono i
Colombi di questo mondo nuovo. Gli scopritori sono insieme professori e
scrittori. Dopo le lunghe peregrinazioni in oriente e in occidente, vengono le
letture, i comenti, le traduzioni. Il latino è già così diffuso, che i classici
greci si volgono in latino, perchè se ne abbia notizia, come i dugentisti
volgevano in volgare i latini. Pullulano latinisti e grecisti: la passione
invade anche le donne. Grande stimolo è non solo la fama, ma il guadagno.
Diffusa la coltura, i letterati moltiplicano e si stringono intorno alle corti
e si disputano i rilievi ringhiando. Sorgono centri letterari nelle grandi
città: a Roma, a Napoli, a Firenze, più tardi a Ferrara intorno agli Estensi. E
quei centri si organizzano e diventano accademie Sorge la pontaniana a Napoli,
l'Accademia platonica a Firenze, quella di Pomponio Leto e di Platina a Roma.
Illustri greci, caduta Costantinopoli, traggono a Firenze. Gemistio spiega
Platone a' mercatanti fiorentini. Marsilio Ficino, il traduttore di Platone, lo
predica dal pulpito, come la Bibbia. Pico della Mirandola, morto a trentun
anno, stupisce l'Italia con la sua dottrina, ed oltrepassando il mondo greco,
cerca in Oriente la culla della civiltà.
I caratteri di questa coltura
sono palpabili.
Innanzi
tutto ti colpisce la sua universalità. Il centro del movimento non è più solo
Bologna e Firenze. Padova gareggia con Bologna. Il mezzodì dopo lungo sonno
prende il suo posto nella storia letteraria, e il Panormita fa già presentire
il Pontano e il Sannazzaro. Roma è il convegno di tutti gli eruditi, attirati
dalla liberalità di Nicolò quinto. La coltura acquista una fisonomia nazionale,
diviene italiana. Anche il volgare, trattato dalle classi colte ed atteggiato
alla latina, si scosta dagli elementi locali e municipali, e prende aria
italiana.
Ma
è l'Italia de' letterati, col suo centro di gravità nelle corti. Il movimento è
tutto sulla superficie, e non viene dal popolo e non cala nel popolo. O, per
dir meglio, popolo non ci è. Cadute sono le repubbliche, mancata è ogni lotta
intellettuale, ogni passione politica. Hai plebe infinita, cenciosa e
superstiziosa, la cui voce è coperta dalla rumorosa gioia delle corti e de'
letterati, esalata in versi latini. A' letterati fama, onori e quattrini; a'
principi incensi, tra il fumo de' quali sono giunti a noi papa Nicolò, Alfonso
il magnanimo, Cosimo padre della patria, e più tardi Lorenzo il magnifico, e
Leone decimo e i duchi di Este. I letterati facevano come i capitani di ventura:
servivano chi pagava meglio: il nemico dell'oggi diventa il protettore del
dimani. Erranti per le corti, si vendevano all'incanto.
Questa
fiacchezza e servilità di carattere, accompagnata con una profonda indifferenza
religiosa, morale e politica, di cui vediamo gli albori fin da' tempi del
Boccaccio, è giunta ora a tal punto che è costume e abito sociale, e si
manifesta con una franchezza che oggi appare cinismo. Una certa ipocrisia c'è,
quando si ha ad esprimere dottrine non ricevute universalmente; ma quanto alla
rappresentazione della vita, ti è innanzi nella sua nudità. È una letteratura
senza veli, e più sfacciata in latino che in volgare.
Ne
nasce l'indifferenza del contenuto. Ciò che importa non è cosa s'ha a dire, ma
come s'ha a dire. I più sono secretari di principi, pronti a vestire del loro
latino concetti altrui. La bella unità della vita, come Dante l'aveva
immaginata, la concordia amorosa dell'intelletto e dell'atto, è rotta. Il
letterato non ha obbligo di avere delle opinioni, e tanto meno di conformarvi
la vita. Il pensiero è per lui un dato, venutogli dal di fuori, quale esso sia:
a lui spetta dargli la veste. Il suo cervello è un ricco emporio di frasi, di
sentenze, di eleganze; il suo orecchio è pieno di cadenze e di armonie: forme
vuote e staccate da ogni contenuto. Così nacque il letterato e la forma
letteraria.
Il
movimento iniziato a Bologna era intellettuale: si cercava negli antichi la
scienza. Il movimento ora è puramente letterario: si cerca negli antichi la
forma. Sorge la critica, circondata di grammatiche e di rettoriche; il gusto si
raffina; gli scrittori antichi non sono più confusi in una eguale adorazione:
si giudicano, si classificano, pigliano posto. Questi lavori filologici ed
eruditi sono la parte più seria e più durevole di questa coltura. Spiccano fra
tutti le Eleganze di Lorenzo Valla. Il titolo ti dà già la fisonomia del
secolo.
Effetti
di questa coltura cortigiana e letteraria, co' suoi vari centri in tutta
Italia, sono una certa stanchezza di produzione, l'inerzia del pensiero,
l'imitazione delle forme antiche come modelli assoluti, l'uomo e la natura
guardati a traverso di quelle forme. È una nuova trascendenza, il nuovo
involucro. Lo scrittore non dice quello che pensa o immagina o sente, perchè
non è l'immagine che gli sta innanzi, ma la frase di Orazio o di Virgilio vede
il mondo non nella sua vista immediata, ma come si trova rappresentato da'
classici, a quel modo che Dante vedea Beatrice a traverso di Aristotile e di
san Tommaso.
Ma
non ci è guscio che tenga incontro all'arte. Dante potè spesso rompere quel
guscio, perchè era artista. E se in questa cultura fossero elementi seri di
vita intellettuale e di elevate ispirazioni, non è dubbio che vedremmo venire
il grande artista, destinato a farne sentire il suono pur tra queste forme
latine. Ciò che ferve nell'intimo seno di una società, tosto o tardi vien su e
spezza ogni involucro. Si dà colpa al latino, che questo non sia avvenuto. E se
il medio evo non ha potuto sviluppare tra noi tutte le sue forme, se il mondo
interiore della coscienza s'è infiacchito, la colpa è de' classici che
paganizzarono la vita e le lettere! La verità è che i classici di questo fatto
sono innocentissimi. Certo, il mondo di Omero e di Virgilio, di Tucidide e di
Livio, non è un mondo fiacco e frivolo. E se i latinisti non poterono
riprodurne che l'esterno meccanismo, e se sotto a quel meccanismo ci è il
vuoto, gli è che il vuoto era nell'anima loro, e nessuno dà ciò che non ha. Un
cuore pieno trova il modo di spandersi anche nelle forme più artificiali e più
ripugnanti.
Leggete
questi latinisti. Cosa c'è lì dentro che viva e si mova? Lo spirito del
Boccaccio che aleggia in quei versi e in quelle prose: la quiete idillica e il
sale comico, in una forma elegante e vezzosa. Questo studio dell'eleganza nelle
forme, accompagnato co' tranquilli ozi della villa e i sollazzevoli convegni
della città, era in iscorcio tutta la vita del letterato.
Così,
quando il secolo era travagliato da mistiche astrazioni e da disputazioni
sottili, il latino fu scolastico. E ora che il naturalismo idillico e comico
del Boccaccio è il vero e solo mondo poetico, il latino è idillico, dico il
latino artistico e vivo. La grande orchestra di Dante è divenuta già nel
Petrarca la flebile elegia. In questo latino elegante il dolore è elegiaco, e
il piacere è idillico. La vita è tutta al di fuori, è un riso della natura e
dell'anima: la stessa elegia è un rapimento voluttuoso de' sensi. Sulle rive di
Mergellina il Pontano canta gli Amori e i Bagni di Baia, ora
tutto vezzeggiativi e languori, ora motteggevole e faceto. Mergellina,
Posilipo, Capri, Amalfi, le isole, le fonti, le colline escono dalla sua
immaginazione pagana ninfe vezzose, e allegrano le nozze della sua Lepidina.
La crassa sensualità è vaporizzata fra le grazie dell'immaginazione e i
deliziosi profumi dell'eleganza. La sua musa, come la sua colomba, “fugit
insulsos et parum venustos” “odit sorditiem”, nega i suoi doni a
quelli che sono “illepidi atque inelegantes”, e “gaudet nitore”,
e rassomiglia alla sua “puella”, di cui nessuna “vivit mundior
elegant'orve”. Spirito ed eleganza, questo è il mondo poetico di una
borghesia colta e contenta, che cantava i suoi ozi e passava il tempo tra
Quintiliano, Cicerone, Virgilio, e i bagni e le cacce e gli amori. Ne senti
l'eco tra le delizie di Baia e tra le villette di Fiesole. Il Pontano scrivea
la Lepidina tra' susurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il Rusticus
tra le aure della sua villetta fiesolana. In tutte e due ispiratrice è la bella
natura campestre, con più immaginazione nel Pontano, con più sentimento nel
Poliziano. Piace la “cerula” ninfa Posilipo e la “candida” Mergellina, e quel
voler essere uccello per cascarle in grembo è un bel tratto galante, una
sensualità dell'immaginazione. Il Pontano è figurativo, tutto vezzi e tutto
spirito; il Poliziano è più semplice, più vicino alla natura, e te ne dà
l'impressione:
Hic resonat blando tibi pinus amata susurro;
hic vaga coniferis insibilat aura cupressis:
hic scatebris salit et bullantibus incita
venis
pura coloratos interstrepit unda lapillos.
Questo latino, maneggiato con
tanta sveltezza, modulato con tanta grazia, non cade nel vuoto, come lingua
morta, e questi canti non sono stimati lavori di pura erudizione e imitazione.
Lorenzo Valla chiama il latino la “lingua nostra”; nessuna cosa di qualche
importanza non si scrivea se non in latino, e metteasi a fuggire il volgare
quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto. Dante stesso era detto
“poeta da calzolai e da fornai”. Non pareva impossibile continuare il latino,
come i greci continuavano il greco, parlare la lingua universale, la lingua
della scienza e della coltura, essere intesi da tutti gli uomini istrutti.
Ma
queste tendenze trovavano naturale resistenza a Firenze, dove il volgare avea
messo salde radici, illustrato da tanta gloria, nè potea parer vergogna
scrivere nella lingua di Dante e del Petrarca. Ivi una classe colta nettamente
distinta non era, e popolo grasso e popolo minuto erano ancora il popolo, con
una comune fisonomia. Grandissima l'ammirazione de' classici; frequentissimi
gli Studi del Landino, del Crisoloro, del Poliziano; si udiva a bocca aperta
Gemistio e il Ficino e il Pico; si disputava di Platone e di Aristotile
(discussioni erudite, senza conclusione e serietà pratica); si applaudiva al
Poliziano quando cantava la bellezza o la morte dell'Albiera o gli occhi di
Lorenzo, “purus apollinei sideris nitor”, come fossero gli occhi di
Laura. Ma insieme si difendeva il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo
spiegava Dante, e il Landino sponeva il Petrarca, e Leonardo Bruni sosteneva
essere il volgare lo stesso latino antico com'era parlato a Roma, e Lorenzo de'
Medici preferiva il Petrarca a' poeti latini, chiamava “unico” Dante, celebrava
la facondia e la vena del Boccaccio, e di Cino e di Cavalcanti e di altri
minori scrivea le lodi con acume e maturità di giudizio. Ci erano gli
oppositori, i grammatici, i pedanti, che dicevano Dante uno spropositato, un
ignorante, “rerum ommum ignarum” e che scrivea così male in latino. Ma
in Firenze non attecchivano. Cristoforo Landino nel suo studio, dove spiegava a
un tempo Dante e Virgilio, pigliando a esporre il Petrarca, insegnava non esser
la lingua toscana al di sotto della latina, e non altrimenti che quella doversi
sottoporre a regole di grammatica e di rettorica. Certo, il vezzo del latino
introduceva nel volgare caduto in mano a' pedanti vocaboli e frasi e giri, di
cui si sentono gli effetti fino nella prosa del Machiavelli; ma quella barbara
mescolanza per la sua esagerazione divenne ridicola, e non potè alterare le
forme del volgare, così come erano state fissate negli scrittori e si
mantenevano vive nel popolo. Nè l'uso fu mai intermesso; e Lionardo scrivea in
volgare la vita di Dante e del Boccaccio, e in volgare Feo Belcari scrivea le
vite de' santi e le rappresentazioni, e si continuavano i rispetti, gli
strambotti, le frottole, le cacce, le ballate, tutt'i generi di lirica popolare
legati con le feste e gl'intrattenimenti pubblici e privati, le mascherate, le
giostre, le serenate, le rappresentazioni, i giuochi, le sfide. Non era cosa
facile guastare o sopraffare una lingua legata così intimamente con la vita.
La
forza della lingua volgare era appunto in questo: che rifletteva la vita pubblica
e privata, divenuta parte inseparabile della società nelle sue usanze e ne'
suoi sentimenti. Onde se gli uomini colti, trasportati dalla corrente comune,
scrivevano in latino per procacciarsi fama, nell'uso vario della vita
adoperavano il volgare, condotto ormai al suo maggior grado di grazia e di
finezza, parlato e scritto bene generalmente. Un gran mutamento era però
avvenuto nella letteratura volgare. Il mondo ascetico-mistico-scolastico del
secolo passato non era potuto più risorgere di sotto a' colpi del Petrarca e
più del Boccaccio, ed era tenuto rozzo e barbaro, e continuava la sua vita come
un mondo fatto abituale e convenzionale a cui è straniera l'anima. Al contrario
era in uno stato di produzione e di sviluppo il mondo profano, la “gaia scienza”,
e dava i suoi colori anche alle cose sacre. Le laude erano intonate come i
rispetti, e i misteri acquistavano la tinta romanzesca delle novelle e romanzi
allora in voga. La Stella ricorda in molte parti le avventure della bella
sventurata Zinevra, “sei anni andata tapinando per lo mondo”. Spesso c'entra il
comico e il buffonesco, e ti par d'essere in piazza a sentir le ciane che si
accapigliano. La lauda tende al rispetto; la leggenda tende alla novella.
La leggenda è
un racconto maraviglioso animato da uno spirito mistico e ascetico, con le sue
estasi, le sue visioni, i suoi miracoli. Ci è al di sotto la fede che fa
muovere i monti e ti tiene al di sopra de' sensi, anzi sforza i sensi e dà loro
le ali dell'immaginazione. Questo mondo miracoloso dello spirito, fatto così
palpabile come fosse corpo, è rappresentato senza alcuno artificio che lo renda
verisimile, anzi con la più grande ingenuità, essendo quelle verità
incontrastate pel narratore e pe' lettori. Questa impressione ti fanno le
leggende del Passavanti e le Vite del Cavalca.
Questo
è il mondo stesso che comparisce nelle rappresentazioni o misteri di questo
secolo. Sono antiche rappresentazioni, messe a nuovo, intonacate, imbiancate, a
uso di un pubblico più colto. Santo Abraam, Alessio, Abramo, Eugenia e
Maddalena, i santi e i padri e i romiti del Cavalca ti sfilano innanzi. Con la
natia rozzezza è ita via anche la semplicità e l'unzione e ogni sentimento
liturgico e ascetico. Il miracolo ci sta come miracolo, cioè a dire come una
macchina del maraviglioso, a quel modo che è la fortuna nelle novelle del
Boccaccio. Il motivo drammatico è l'effetto che fanno sugli spettatori certe
grandi mutazioni e improvvise nello stato de' personaggi, morale o materiale:
perciò non gradazioni, non ombre, non sfumature; i contorni sono chiari e
decisi; l'azione è tutta esteriore e superficiale, e si ferma solo quando una
mutazione improvvisa provoca esplosioni liriche di gioia, di dolore, di
maraviglia. Ci è quella lirica superficiale e quella chiarezza epica che è
propria del Boccaccio. La lirica è sacra di nome, e non ha quell'elevazione
dell'anima verso un mondo superiore, che senti in Dante o in Caterina: ci è la
preghiera, non ce n'è il sentimento. L'azione è pedestre e borghese, di una
prosaica chiarezza, non animata dal sentimento, non trasformata
dall'immaginazione. E il mondo dantesco vestito alla borghese, i cui accenti di
dolore sono elegia, le cui mistiche gioie sono idilli mancato è il senso del
terribile e del sublime, mancata è l'indignazione e l'invettiva: se alcuna
serietà rimane ancora in queste spettacolose rappresentazioni, apparecchiate
con tanta pompa di scene e di decorazioni, è reminiscenza ed eco di un mondo
indebolito nella coscienza. Ci erano ancora le confraternite, che a grandi spese
davano di queste rappresentazioni; ma i fratelli non erano più i contemporanei
di Dante, e non gli autori e non gli spettatori. Si andava alle
rappresentazioni, come alle feste carnascialesche, per sollazzarsi. E si
sollazzavano, come si conviene a gente colta e artistica, co' piaceri dello
spirito e dell'immaginazione. Il mistero era per essi un piacevole esercizio
dell'immaginazione, una ricreazione dello spirito. Con la coscienza vuota e con
la vita tutta esterna e superficiale, il dramma era così poco possibile come la
tragedia o l'eloquenza sacra, o come rifare la visione o la leggenda. Se quelle
rappresentazioni fra tanto liscio e intonaco rimasero stazionarie, e non
poterono mai acquistare la serietà e profondità di un vero mondo drammatico, fu
perchè mancò all'Italia un ingegno drammatico, come affermano alcuni, quasi
l'ingegno fosse un frutto miracoloso, generato senza radici, e venuto
espressamente dal cielo? O fu, come affermano altri, perchè il latino attirò a
sè gli uomini colti, e il mistero fu trascurato come cosa del popolo, quasi che
autori de' misteri non fossero gli uomini più colti di quel tempo, o il latino,
che non potè uccidere il volgare, potesse uccidere l'anima di una nazione,
quando un'anima ci fosse stata? La verità è che il povero latino non potè
uccider nulla, perchè nulla ci era, niuna serietà di sentimento religioso,
politico, morale, pubblico e privato, da cui potesse uscire il dramma. Quel
mondo spensierato e sensuale non ti potea dare che l'idillico e il comico; e in
tanto fiorire della coltura, con tanta disposizione ed educazione artistica,
non potea produrre che un mondo simile a sè, un mondo di pura immaginazione. Il
mistero è un aborto, è una materia sacra che non dice più nulla alla mente ed
al cuore, senza alcuna serietà di motivi, e trasformata da uomini colti in un
puro giuoco d'immaginazione dove angioli e demoni, paradiso e inferno hanno
così poca serietà come Apollo e Diana e Plutone. La serietà e solennità della
materia era in flagrante contraddizione con quella forma tutta senso e tutta
superficie, e con quel mondo spensierato e allegro della pura immaginazione,
idillico-comico-elegiaco. Il mistero ci fu, quale poteva realizzarlo l'Italia
in questa disposizione dello spirito, e ci fu l'ingegno, quale poteva essere allora
l'ingegno italiano. Quel mistero fu l'Orfeo, e quell'ingegno fu Angiolo
Poliziano.
Il
Poliziano è la più spiccata espressione della letteratura in questo secolo. Ci
è già l'immagine schietta del letterato, fuori di ogni partecipazione alla vita
pubblica, vuoto di ogni coscienza religiosa o politica o morale, cortigiano,
amante del quieto vivere, e che alterna le ore tra gli studi e i lieti ozi.
Ebbe in Lorenzo un protettore, un amico, e divenne la sua ombra, il suo
compagno ne' sollazzi pubblici e secreti. Cominciò la vita, voltando l'Iliade
in latino, grecista e latinista sommo. Dettava epigrammi latini con la facilità
di un improvvisatore. Si traeva da tutta Europa a sentirlo spiegare Omero e
Virgilio. E non si ammirava solo l'erudito, ma l'uomo di gusto e il poeta, che
ispirato vi aggiungeva le sue emozioni e le sue impressioni e i suoi carmi. Il
suo studio e la sua villetta di Fiesole sono il compendio di questa vita
tranquilla e placida, spenta a quarant'anni.
Il
Poliziano aveva uno squisito sentimento della forma nella piena indifferenza di
ogni contenuto. Il tempio era vuoto: vi entrò Apollo e lo empì d'immagini e di
armonie. Il mondo antico s'impossessò subito di un'anima dove ogni vestigio del
medio evo era scomparso. Il Boccaccio senti che è ancora medio evo, e lo vedi
alle prese co' canoni e le scienze sacre e le forme dantesche: il vecchio e il
nuovo Adamo combattono in lui, come nel Petrarca: erano tempi di transizione.
Nel Poliziano tutto è concorde e deciso: non ci è più lotta. Teologia,
scolasticismo, simbolismo, il medio evo nelle sue forme e nel suo contenuto, di
cui vedevi ancora la memoria prosaica nelle laude e ne' misteri, è un mondo in
tutto estraneo alla sua coltura e al suo sentire. Quello è per lui la barbarie.
E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua anima: non ve lo trova. Il sentimento
della bella forma, già così grande nel Petrarca e nel Boccaccio, in lui è
tutto; e quel mondo della bella forma, appresso al quale correvano
faticosamente il Boccaccio e il Petrarca fin da' primi anni, è il mondo suo, e
ci vive come fosse nato là dentro, e ne ha non solo la conoscenza, ma il gusto.
Questo era la coltura, l'umanità, il risorgimento, orgoglio di una società
erudita, artistica, idillica, sensuale, quale il Boccaccio l'avea abbozzata, e
che ora si specchia nel Poliziano come nel suo modello ideale. Perchè questa
generazione, caduta così basso, fiacca di tempra e vuota di coscienza, aveva
pure la sua idealità, il suo divino, ed era l'orgoglio della coltura, il
sentimento della forma. Le sue mascherate, le cacce, le serenate, le giostre,
le feste, tanta parte di quella vita oziosa e allegra, erano nobilitate dalle
arti dello spirito e da' piaceri dell'immaginazione. E se il cardinale Gonzaga,
rientrando nella patria, bandisce pubbliche feste e cerca nella poesia il loro
ornamento e decoro, il giovane Poliziano gli scrive in due giorni l'Orfeo.
E che cosa è l'Orfeo? Come gli venne in mente Orfeo? Giovanni Boccaccio
nel Ninfale e nell'Ameto canta la fine della barbarie e il regno
della coltura o dell'umanità. Il rozzo Ameto, educato dalle arti e dalle muse,
apre l'animo alla bellezza e all'amore, e di bruto si sente fatto uomo.
Atalante trasforma il bosco di Diana in città, e vi marita le ninfe, e
v'introduce costumi civili. Orfeo è il grande protagonista di questo regno
della coltura, venuto dall'antichità giovine e glorioso ne' carmi di Ovidio e
di Virgilio. Questo fondatore dell'umanità col suono della lira e con la
dolcezza del canto mansuefà le fiere e gli uomini e impietosisce la morte e
incanta l'inferno. È il trionfo dell'arte e della coltura su' rozzi istinti
della natura, consacrato dal martirio, quando, sforzando le leggi naturali, è
dato in balìa all'ebbro furore delle baccanti. Dopo lungo obblio nella notte
della seconda barbarie, Orfeo rinasce tra le feste della nuova civiltà,
inaugurando il regno dell'umanità, o per dir meglio, dell'umanismo. Questo è il
mistero del secolo, è l'ideale del Risorgimento. Le sacre rappresentazioni
cacciate dalle città menano vita oscura nei contadi, e cadono in così profondo
obblio che giacciono ancora polverose nelle biblioteche.
L'Orfeo
è un mondo di pura immaginazione. I misteri avevano la loro radice in un
mondo ascetico, fatto tradizionale e convenzionale, pur sempre reale per una
gran parte degli spettatori. Qui tutti sanno che Orfeo, le driadi, le baccanti,
le furie, Plutone e il suo inferno sono creature dell'immaginazione. A quel
modo che nelle giostre i borghesi camuffati da cavalieri riproducevano il mondo
cavalleresco, i nuovi ateniesi dovevano provare una grande soddisfazione a
vedersi sfilare innanzi co' loro costumi e abiti le ombre del mondo antico. Che
entusiasmo fu quello, quando Baccio Ugolini, vestito da Orfeo e con la cetra in
mano, scendeva il monte, cantando in magnifici versi latini le lodi del
cardinale! “Redeunt saturnia regna.” Sembravano ritornati i tempi di
Atene e Roma; salutavano con immenso grido di applauso Orfeo, nunzio alle genti
della nuova èra, della nuova civiltà. Nel medio evo si dicea “vivere in
ispirito”, ed era il ratto dell'anima alienata da' sensi in un mondo superiore.
Ciò che una volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira il sentimento
dell'arte, la sola religione sopravvissuta, e si vive in immaginazione. I
ricchi, a quel modo che decorano i palagi degli avi, decorano con l'arte i loro
piaceri.
E
che decorazione è quest'Orfeo! Dove sotto forme antiche vive e si move
quella società, idealizzata nell'anima armoniosa del poeta. È un mondo mobile e
superficiale, a celeri apparizioni, e mentre fissi lo sguardo il fantasma ti
fugge: la parola è come ebbra e si esala nel suono e nel canto; il pensiero è
appena iniziale, incalzato dalle onde musicali; la tragedia è un'elegia; l'inno
è un idillio; e n'esce un mondo idillico-elegiaco, penetrato di un dolce
lamento, che non ti turba, anzi ti lusinga e ti accarezza, insino a che questo
bel mondo dell'arte ti si disfà come nebbia, e ti svegli violentemente tra il
furore e l'ebbrezza dei sensi. Il canto di Aristeo, il coro delle driadi, il
ditirambo delle baccanti sono le tre tappe di questo mondo incantato, la cui
quiete idillica penetrata di flebile e molle elegia si scioglie nel disordine
bacchico. La lettura non basta a darne un'adeguata idea. Bisogna aggiungervi
gli attori e le decorazioni e il canto e la musica e l'entusiasmo e l'ebbrezza
di una società che ci vedea una così viva immagine di se stessa. Il suo ideale,
il suo Orfeo è una lieve apparizione, ondeggiante tra' più delicati profumi, a
cui se troppo ti accosti, ti fuggirà come Euridice. È un mondo che non ha altra
serietà, se non quella che gli dà l'immaginazione; le passioni sono emozioni,
gli avvenimenti sono apparizioni, i personaggi sono ombre; la vita danza e
canta, e non si ferma e non puoi fissarla. La stessa leggerezza penetra nelle
forme, flessibili, variamente modulate, e come tutta un'orchestra di metri,
entranti gli uni negli altri in una sola armonia. Il settenario rammorbidisce
l'endecasillabo; la ballata dà le ali all'ottava; le rime si annodano ne' più
voluttuosi intrecci. Ora è il dialetto nella sua grazia, ora è la lingua nella
sua maestà; qui lo sdrucciolo ti tira nella rapida corsa, là il tronco ti
arresta e ti culla; con una facilità e un brio che pare il poeta giuochi con i
suoi strumenti.
Così
Orfeo, il figlio di Apollo e di Calliope, rinacque; così divenne il nunzio del
Risorgimento. Le edizioni moltiplicarono; penetrò dalle corti nel contado; se
ne fecero imitazioni; comparve la Istoria e favola d'Orfeo; e anche oggi
nelle valli toscane ti giunge la melodia di Orfeo dalla dolce lira, una
storia in ottava rima. Personaggio indovinato, comparso proprio alla sua ora
nel mondo moderno, segnacolo e vessillo del secolo.
L'Orfeo
nacque tra le feste di Mantova; e tra le feste di Firenze nacquero le Stanze.
Quel mondo borghese della cortesia, così ben dipinto nel Decamerone,
riproducea nelle sue giostre il mondo profano de' romanzi e delle novelle, la
cavalleria. I poeti celebrano a suon di tromba “le gloriose pompe e i fieri
ludi” di questi mercanti improvvisati cavalieri e vestiti all'eroica: non ci
era più la realtà; ce n'era l'immaginazione. Le giostre erano in fondo una
rappresentazione teatrale, e i giostranti erano attori che rappresentavano i
personaggi de' romanzi, spettacolo continuato oggi nelle corse, con questo
progresso, che gli attori sono i cavalli. Ridicoli sono i poeti che narrano le
alte geste de' giostranti come fossero Orlando e Carlomagno, con le frasi
ampollose de' romanzi, e descrivono minutamente gli abiti, le fogge, le divise,
gli stemmi, gli scontri con una serietà frivola. Anche Giuliano de' Medici fece
la sua giostra, e divenne l'eroe di quel poemetto che i posteri hanno chiamato
le Stanze.
Comincia
a suon di tromba. Il poeta vuol celebrare le gloriose imprese:
sì
che i gran nomi e ' fatti egregi e soli
fortuna
o morte o tempo non involi.
Ma i fatti egregi e i gran nomi
sono dimenticati. E che cosa è rimasto? Le Stanze: forme vaganti, di cui
nessuno cerca il legame, ciascuna compiuta in sè. Nella giovine mente del poeta
non ci è il romanzo: ci è Stazio e Claudiano con le loro Selve, ci è
Teocrito ed Euripide, ci è Ovidio con le sue Metamorfosi, ci è Virgilio
con la sua Georgica, ci è il Petrarca con la sua Laura; ci è tutto un
mondo d'immagini fluttuanti, sciolte, disseminate come le stelle nel cielo
all'occhio semplice del pastore. Questo è il mondo che vien fuori in un legame
artificiale e meccanico, delle cui fila interrotte nessuno si cura: perchè la
giostra non è il motivo di questo mondo, è la semplice occasione. La sua unità
non è in un'azione frivola e incompiuta, debole trama. La sua unità è in se
stesso, nello spirito che lo move, ed è quel vivo sentimento della natura e
della bellezza che dal Boccaccio in qua è il mondo della coltura.
La
primavera, la notte, la vita rustica, la caccia, la casa di Venere, il giardino
d'Amore, gl'intagli, non sono già episodi, sono questo mondo esso medesimo
nella sua sostanza, animato da un solo soffio. Sono l'apoteosi di Venere e
d'Amore, della bella natura, la nuova divinità.
E
la natura non ha già quel vago, che ti fa pensoso e ti tiene in una dolce
malinconia; non sei nel regno de' misteri e delle ombre, nel regno musicale del
sentimento: sei nel regno dell'immaginazione. Venere è nuda, Iside ha alzato il
velo. Non hai più gli schizzi di Dante, hai i quadri del Boccaccio; non hai più
la faccia di Giotto, hai la figura del Perugino; non hai più il terzetto nel
suo raccoglimento, hai l'ottava rima nella sua espansione. Ci è quel sentimento
idillico e sensuale che ispirò il Boccaccio, e di cui senti la fragranza nella Lepidila
e nel Rusticus: l'anima sta come rilassata in dolce riposo, non
fantasticando ma figurando parte a parte e disegnando, quasi voglia assaporare
goccia a goccia i suoi piaceri. E non è la descrizione minuta, anatomica,
spesso ottusa, del Boccaccio; chè mentre la natura ti si offre distinta come un
bel paesaggio, non sai onde o come ti giungono mormorii, concenti, note, come
la voce di una divinità nascosta nel suo grembo. La sensualità filtrata fra
tanta dolcezza di note lascia in fondo la sua parte grossolana ed esce fuori
purificata; e non è la musa civettuola del Boccaccio, è la casta musa del
Parnaso, che copre la sua nudità e vi gitta sopra il suo manto verginale. Nel
Boccaccio è la carne che accende l'immaginazione: nel Poliziano l'immaginazione
è come un crogiuolo, dove l'oro si affina. La sensuale e volgare Griseida si
spoglia in quel crogiuolo la sua parte terrea, e diviene la gentile Simonetta,
bellezza nuda, sviluppata da ogni velo allegorico dantesco e petrarchesco, a
contorni precisi e finiti, pur divina nella sua realtà:
nell'atto
regalmente è mansueta,
e
pur col ciglio le tempeste acqueta.
Tra il poeta e il suo mondo non
ci è comunione diretta: ci stanno di mezzo Virgilio, Teocrito, Orazio, Stazio,
Ovidio, che gli prestano le loro immagini e i loro colori. Ma egli ha un gusto
così fine e un sentimento della forma così squisito, che ciò che riceve esce
con la sua stampa come una nuova creazione. Ci è nel suo spirito una grazia che
ingentilisce il volgare naturalismo del suo tempo, e una delicatezza che gli fa
cogliere del suo mondo il più bel fiore. L'insignificante, il rozzo, il plebeo
non entra nella sua immaginazione: ciò che sta lì dentro è tutto elegante e
profumato, e non cessa che non l'abbia reso con l'ultima finitezza e
perfezione. Le sue reminiscenze mitologiche e classiche sono semplici mezzi di
colorito e di rilievo: gli sta innanzi Venere, Diana, e la tale e tale frase di
Ovidio o di Virgilio; ma il suo spirito va al di là della frase, attinge le
cose nella loro vita, e le rende con evidenza e naturalezza. Perciò, raro
connubio, l'eleganza in lui non è mai rettorica e si accompagna con la
naturalezza, perchè ha delle cose una impressione propria e schietta. La
mammola, la rosa, l'ellera, la vite, il montone, la capra, gli uccelli, le
aurette, l'erba e il fiore, tutto si anima e si configura e prende le più vaghe
e gentili attitudini innanzi a questa immaginazione idillica. Ciò che prova non
è sensualità, è voluttà, sensazione alzata a sentimento, che fonde il plastico
e te ne fa sentire la musica interiore. Ottiene potentissimi effetti con la
massima semplicità de' mezzi, spesso col solo allogare gli oggetti, ora
aggruppando, ora distinguendo, e tutto animando, come persone vive. Tale è la
mammoletta verginella con gli occhi bassi e vergognosa, e l'ellera che va
carpone co' piedi storti, o l'erba che si maraviglia della sua bellezza,
bianca, cilestre, pallida e vermiglia. Il sentimento che n'esce non ha virtù di
tirarti dalle cose e lanciarti in infiniti spazi; anzi ti chiude nella tua
contemplazione e vi ti tiene appagato, come fosse quella tutto il mondo, e non
pensi di uscirne, e la guardi parte a parte nella grazia della sua varietà.
Perchè il motivo dell'ispirazione non è lo spirito nella sua natura
trascendente e musicale, quale si mostra in Dante, ma il corpo, e non come un
bel velo, una bella apparenza, ma terminato e tranquillo in se stesso, quale si
mostra nel periodo e nell'ottava, le due forme analitiche e descrittive del Boccaccio,
divenute la base della nuova letteratura. L'ottava del Boccaccio, diffusa,
pedestre, insignificante, qui si fissa, prende una fisonomia. Ciascuna stanza è
un piccolo mondo, dove la cosa non lampeggia a guisa di rapida apparizione, ma
ti sta riposata innanzi come un modello e ti mostra le sue bellezze. Non è un
periodo congegnato a modo di un quadro, dove il protagonista emerga tra minori
figure; ma è come una serie, dove ti vedi sfilare avanti le parti ad una ad una
di quel piccolo mondo. Diresti che in questa bella natura tutto è interessante,
e non ci è principale ed accessorio: maniera di ottava accomodata al genio di
un uomo che non ammette l'insignificante e l'indifferente, e tutto vuole sia
oro e porpora. Perciò non hai fusione, ma successione, che è la cosa come ti si
spiega innanzi, prima che il tuo spirito la scruti e la trasformi. La stanza
non ti dà l'insieme, ma le parti; non ti dà la profondità, ma la superficie,
quello che si vede. Pure le parti sono così bene scelte e la serie è ordita con
una gradazione così intelligente, che all'ultimo te ne viene l'insieme,
prodotto non dalla descrizione, ma dal sentimento. Vuol descrivere la primavera
e ti dà una serie di fenomeni:
Zefiro
già di be' fioretti adorno
avea
ai monti tolta ogni pruina;
avea
fatto al suo nido già ritorno
la
stanca rondinella peregrina;
risonava
la selva intorno intorno
soavemente
all'òra mattutina;
e
la ingegnosa pecchia al primo albore
giva
predando or uno or altro fiore.
Questi fenomeni sono così bene scelti,
legati con tanto accordo di pause e di tono, armonizzati con suoni così freschi
e soavi, che sembrano le voci di un solo motivo, e te ne viene non all'occhio
ma all'anima l'insieme, ed è quel senso d'intima soddisfazione, che ti dà la
primavera, la voluttà della natura. In Dante non ci è voluttà, ma ebbrezza:
così è trascendente. Nel Boccaccio non ci è voluttà, ma sensualità. La voluttà
è la musa della nuova letteratura, è l'ideale della carne o del senso, è il
senso trasportato nell'immaginazione e raffinato, divenuto sentimento. Qui è
una voluttà tutta idillica, un godimento della natura senz'altro fine che il
godimento, con perfetta obblivione di tutto l'altro; senti le prime e fresche
aure di questo mondo della natura assaporato da un'anima, il cui universo era
la villetta di Fiesole illuminata e abbellita da Teocrito e da Virgilio. Da
questa doppia ispirazione, un intimo godimento della natura accompagnato con un
sentimento puro e delicato della forma e della bellezza, sviluppato ed educato
da' classici, è uscito il nuovo ideale della letteratura, l'ideale delle Stanze,
una tranquillità e soddisfazione interiore piena di grazia e di delicatezza
nella maggior pulitezza ed eleganza della forma; ciò che possiamo chiamare in
due parole: “voluttà idillica”. Il contenuto di questo ideale è l'età dell'oro
e la vita campestre, con tutto il corteggio della mitologia, ninfe, pastori,
fauni, satiri, driadi, divinità celesti e campestri, in una scala che dal più
puro e più delicato va sino al lascivo e al licenzioso. La forma è il
descrittivo ammollito e liquefatto in dolci note musicali, quale apparisce
nell'Orfeo e nelle Stanze, i due modelli di questa letteratura,
che iniziata nel Boccaccio, andrà fino al Metastasio.
La
quale non è lavoro solitario di letterato nel silenzio del gabinetto, ma è lo
spirito stesso della società, come si andava atteggiando, còlto nelle
costumanze e feste pubbliche. Centro di questo movimento è Lorenzo de' Medici,
col suo coro di dotti e di letterati, il Ficino, il Pico, i fratelli Pulci, il
Poliziano, il Rucellai, il Benivieni, e tutti gli accademici. La letteratura
vien fuori tra danze e feste e conviti.
Lorenzo
non avea la coltura e l'idealità del Poliziano. Avea molto spirito e molta
immaginazione, le due qualità della colta borghesia italiana. Era il più
fiorentino tra' fiorentini, non della vecchia stampa, s'intende. Cristiano e
platonico in astratto e a scuola, in realtà epicureo e indifferente, sotto
abito signorile popolano e mercante da' motti arguti e dalle salse facezie,
allegro, compagnevole, mezzo tra' piaceri dello spirito e del corpo, usando a
chiesa e nelle bettole, scrivendo laude e strambotti, alternando orgie notturne
e disputazioni accademiche, corrotto e corruttore. Era classico di coltura,
toscano di genio, invescato in tutte le vivezze e le grazie del dialetto.
Maneggiava il dialetto con quella facilità che governava il popolo, lasciatosi
menare da chi sapeva comprenderlo e secondarlo nel suo carattere e nelle sue
tendenze. Chi comprende l'uomo è padrone dell'uomo. Portò a grande perfezione
la nuova arte dello Stato, quale si richiedeva a quella società, divenute le
feste e la stessa letteratura mezzi di governo. Alla violenza succedeva la
malizia, più efficace: il pugnale del Bandini uccise un principe, non il
principato; la corruzione medicea uccise il popolo; o per dire più giusto,
Lorenzo non era che lo stesso popolo studiato, compreso e realizzato, l'uno
degno dell'altro. Tal popolo, tal principe. Quella corruzione era ancora più
pericolosa, perchè si chiamava “civiltà”, ed era vestita con tutte le grazie e
le veneri della coltura.
Il giovine Lorenzo, odorando
ancora di scuola, tra il Landino e il Ficino, dantesco, petrarchesco,
platonico, con reminiscenze e immagini classiche, entra nella folla de' rimatori,
i quali continuavano il mondo tradizionale de' sonetti e delle canzoni. Ce
n'erano a dozzina, e in tutte le parti d'Italia: l'uomo colto esordiva col
sonetto, uso giunto fino a' tempi nostri. Molti canzonieri uscirono in questo
secolo; appena è se oggi si ricordi Giusto de' Conti e il Benivieni. Continuare
il Petrarca dovea significare realizzarlo, sviluppare quell'elemento sensuale,
idillico, elegiaco, che giace sotto il suo strato platonico e che è l'elemento
nuovo. Ma il povero Petrarca era malato, e i sonettisti esalano sospiri poetici
dall'anima vuota e indifferente. Del Petrarca rimane il cadavere: immagini e
concetti scastrati dal mondo in cui nacquero e campati in aria, senza base. Non
c'è più un mondo organico, ma un accozzamento fortuito e monotono di forme
divenute convenzionali. Manca l'immaginazione e la malinconia e l'estasi, i
veri fattori del mondo petrarchesco: restano le astrattezze platoniche e le
acutezze dello spirito, congiunta l'insipidezza con le vuote sottigliezze, come
nelle rime tanto celebrate del Ceo, del Notturno, del Serafino, del Sasso, del
Cornazzano, del Tebaldeo. Lorenzo comincia lui pure con qualche cosa come la Vita
nuova, e narra il suo innamoramento, con le occasioni e le spiegazioni de'
suoi sonetti, in una prosa grave e ampia alla maniera latina, pur disinvolta e
franca. Anche nel suo Canzoniere appariscono forme e idee convenzionali;
anche vi domina lo spirito, di cui avea sì gran dovizia. Ma c'è lì una sua
impronta; ci è un sentimento idillico e una vivacità d'immaginazione che alcuna
volta ti rinfresca e ti fa andare avanti con pazienza. Non ci è sonetto o
canzone che si possa dire una perfezione; ma c'è versi assai belli e qua e là
paragoni, immagini, concetti che ti fermano.
Il
sonetto e la canzone sono quasi forme consacrate e inalterabili, dove nessuno
osa mettere una mano profana. Rimangono perciò immobili, senza sviluppo. Il
nuovo spirito si fa via nella nuova forma, l'ottava rima o la stanza. Vi
apparisce l'amore idillico-elegiaco, proprio del tempo; la forma condensata del
Petrarca si scioglie e si effonde ne' magnifici giri dell'ottava; non più
concetti e sottili rapporti; hai narrazioni vivaci e fiorite descrizioni. Anche
dove il concetto è dantesco, come nelle stanze del Benivieni, che, lasciato il
primo casto amore e corso appresso alla sirena, si sente trasformato in lonza,
la forma è lussureggiante e vezzosa, e più simile a sirena che a casta donna.
Modello di questo genere è la Selva d'Amore di Lorenzo, composizione a
stanze, d'un fare largo e abbondante, alquanto sazievole, il cui difetto è
appunto il soverchio naturalismo, una realtà minuta, osservata e riprodotta
esattamente ne' suoi caratteri esterni, non fatta dall'arte mobile e leggiera,
non idealizzata. Tra le sue più ammirate descrizioni è quella dell'età
dell'oro, dove è patente questo difetto. Vedi l'uomo in villa, che tutto
osserva, e anima con l'immaginazione la natura senza averne il sentimento. Ci è
l'osservatore, manca l'artista.
Bella
e parimente sazievole è la descrizione degli effetti che gli occhi della sua
donna producono sulla natura. La soverchia esattezza nuoce all'illusione e
addormenta l'immaginazione. Veggasi questa ottava:
Siccome
il cacciator ch'i cari figli
astutamente
al fero tigre fura;
e
benchè innanzi assai campo gli pigli,
la
fera, più veloce di natura
quasi
già il giunge e insanguina gli artigli;
ma
veggendo la sua propria figura
nello
specchio che trova in su la rena,
crede
sia 'l figlio e 'l corso suo raffrena.
Ci si vede un uomo che in un
fatto così pieno di concitazione rimane tranquillo in uno stato prosaico, e
osserva e spiega il fenomeno e lo rende con evidenza, ma non ne riproduce il
sentimento: c'è l'esattezza, manca il calore e l'armonia. Veggasi ora
l'artista, il Poliziano:
Qual
tigre a cui dalla pietrosa tana
ha
tolto il cacciator gli suoi car figli;
rabbiosa
il segue per la selva ircana,
che
tosto crede insanguinar gli artigli;
poi
resta di uno specchio all'ombra vana,
all'ombra
ch'e suo' nati par somigli;
e
mentre di tal vista s'innamora
la
sciocca, el predator la via divora.
Anche Lorenzo descrive le rose,
come fa il Poliziano; ma si paragoni. Ciò che in Lorenzo è naturalismo, è
idealità nel Poliziano. Nell'uno è il di fuori abbellito dall'immaginazione,
l'altro nel di fuori ti fa sentire il di dentro. Lorenzo dice:
Eranvi
rose candide e vermiglie:
alcuna
a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta
prima, poi par s'apra e scompiglie:
altra
più giovinetta si dislega
appena
dalla boccia; eravi ancora
chi
le sue chiuse foglie all'aer niega;
altra
cadendo a piè il terreno infiora.
Minuta analisi, con perfetta
esattezza di osservazione e con proprietà rara di vocaboli. Vedete ora nel
Poliziano queste rose animarsi come persone vive: ne senti la fragranza, la
grazia, la freschezza:
questa
di verdi gemme s'incappella;
quella
si mostra allo sportel vezzosa;
l'altra
che 'n dolce foco ardea pur ora,
languida
cade e il bel pratello infiora.
In questo genere narrativo e
descrittivo, di cui il Boccaccio nel Ninfale dava l'esempio, il poeta
non è obbligato a platonizzare e sottilizzare intorno alle sue poetiche fiamme
per tutta una vita. Finge amori altrui, e in luogo di chiudersi nella natura e
ne' fenomeni dell'amore fino alle più raffinate acutezze, trae colori nuovi e
freschi dalla qualità degli avvenimenti e dalla natura e condizioni dei
personaggi che introduce sulla scena. La donna cala dalle nubi e acquista una
storia umana. Come son care queste ricordanze di donna amata, che torna a casa
e non vi trova il suo amore!
Qui
l'aspettai, e quinci pria lo scòrsi,
quinci
sentii l'andar de' leggier piedi,
e
quivi la man timida li porsi;
qui
con tremante voce dissi: - Or siedi, -
qui
volle allato a me soletto porsi,
e
quivi interamente me li diedi...
O
sospirar che d'ambo i petti uscia!
O
mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
che
tanto ben ve ne portaste via!
Quivi
lasciommi piena di disio,
quando
già presso al giorno disse: - Addio.
L'Ambra, il Corinto,
Venere e Marte, la Nencia sono poemetti di questo genere.
Soprastà per calore ed evidenza di rappresentazione l'Ambra, graziosa
invenzione ispirata da Ovidio e dal Boccaccio. Ma il capolavoro è la Nencia,
che pare una pagina del Decamerone. Qui Lorenzo lascia la mitologia e
gli amori sentimentali e idillici, ed entra nel vivo della società,
rappresentando gli amori di Vallera e Nencia, due contadini, con un tono
equivoco che non sai se dica da senno o da burla, e scopre il borghese disposto
a pigliarsi beffe della plebe. Tutta Firenze fu piena della Nencia; era
la città che metteva in caricatura il contado. L'idillio vi si accompagna con
quel sale comico, che si sente nel prete di Varlungo e monna Belcolore, e che è
la vera genialità di Lorenzo: basta ricordare i Beoni. Chi ama i
paragoni ragguagli la Beca, la Nencia e la Brunettina, tre ritratti di
contadine. Nella Beca del Pulci senti il puzzo del contado: la caricatura è
sfacciatamente volgare e licenziosa. Nella Nencia hai l'idealità comica: una
caricatura fatta con brio e con grazia, con un'aria perfetta di bonomia e di
sincerità. Nella Brunettina del Poliziano hai il ritratto ideale della
contadina, rimossa ogni intenzione comica. È la Venere del contado con
morbidezza di tinte assai ben fuse, vezzosa e leggiadra nella maggior
correzione ed eleganza del disegno. Notabile è soprattutto la verità del
colorito e la perfetta realtà.
Tra
le feste si ravviva la poesia popolare. Vedevi Lorenzo andar per le vie, come
re Manfredi, sonando e cantando tra' suoi letterati. Il poeta della Nencia
qui è nel suo vero terreno, divenuto la voce di quella società licenziosa e
burlevole. La trasformazione è compiuta: giungiamo sino alla parodia fatta con
intenzione. I Beoni o il Simposio è una parodia della Divina
Commedia e dei Trionfi non pur nel disegno, ma nelle frasi: le sacre
immagini dell'Alighieri sono torte a significare le sconcezze e turpitudini
dell'ebbrezza. Tra questi passatempi poetici è da porre la Caccia col
falcone, fatti frivoli e insignificanti, ma raccontati con lepore e con
grazia in stanze sveltissime, con tutt'i sali e le vivezze del dialetto. Così
si passava allegramente il tempo:
E
così passo, compar, lieto il tempo,
con
mille rime in zucchero ed a tempo.
Che è la fine e insieme il
significato di questa pittura di costumi.
Lo stesso
spirito è nelle ballate e ne' canti carnascialeschi: una sensualità illuminata
dall'allegria e dall'umor comico. Il mondo convenzionale de' trovatori è ito
via, e insieme il suo vocabolario. Ti senti in mezzo a un popolo festevole e
motteggiatore, che ha rotto il freno e si dà balìa. Un'allegria spensierata e
licenziosa è il motivo di questi canti: l'amore non è un affetto, ma un
divertimento, un modo di stare allegri. Il motto comune è la brevità della
vita, l'orrore della vecchiezza, il dovere di coglier la rosa mentre è fiorita,
quel tale: “Edamus et bibamus: post mortem nulla voluptas”. Aggiungi la
caricatura de' predicatori di morale e delle cose sacre, com'è la confessione
di Lorenzo e la sua preghiera a Dio contro i mal parlanti. In questo mondo,
rappresentato dal vero e nell'atto della vita, così di fuga e tra le
impressioni, non hai concetti raffinati, ma pittura vivace di costumi e di
sentimenti, come l'ansia dell'aspettare nella canzone:
Io
non so qual maggior dispetto sia
che
aspettar quel che il cor brama e desia;
o il dispetto contro i gelosi:
Non
mi dolgo di te, nè di me stessi,
chè
so mi aiuteresti stu potessi;
o quel volere e disvolere della
donna nella canzonetta sulla pazzia, e nell'altra, tirata giù tutta di un
fiato, così rapida e piena di cose:
Ei
convien ti dica il vero
una
volta, dama mia.
Questo carnevale perpetuo si
manifesta ne' Canti e Trionfi carnascialeschi in tutta la sua licenza.
Uscivano di carnovale, come si costuma anche oggi, carri magnificamente
addobbati, ora rappresentazioni mitologiche, com'è il Trionfo di Bàcco e
Arianna co' suoi satiri e Sileno e Mida, ora corporazioni di arti e
mestieri, com'è il canto de' “cialdonai”, o de' “calzolai”, o delle “filatrici”,
o de' “bericuocolai”, ora pitture sociali, come il canto delle “fanciulle”, o
delle “giovani donne”, o de' “romiti”, o de' “poveri”. Il motivo generale è
l'amor licenzioso, stuzzicato spesso da equivoci e allusioni che mettono in
moto l'immaginazione. È il cinismo del Boccaccio giunto in piazza e portato in
trionfo. La rappresentazione della vita e de' costumi e delle condizioni
sociali e l'allegra caricatura, che sono l'anima di questo genere di
letteratura, com'è nel “carnevale” di Goethe, si perdono ne' bassi fondi della
oscenità plebea. Cosa ora possono essere le sue Laude, se non parodie?
Concetti, antitesi, sdolcinature e freddure.
In
questa pozzanghera finirono le serenate, le mattinate, le dipartite, le
ritornate, le lettere, gli strambotti, le cacce, le mascherate, le frottole, le
ballate, venute a mano de' letterati. Il mondo del Boccaccio e del Sacchetti
perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie ne' sonetti plebei del canonico Franco e
suoi pari, che non avevano neppure l'arguzia e la festività di Lorenzo.
Il
popolo era meno corrotto de' suoi letterati. Ne' suoi canti non trovavi certo
l'amore platonico e ascetico e i concetti raffinati, ma neppure gli equivoci
osceni di Lorenzo e le brutture del Franco.
La
più schietta voce di questa letteratura popolare è Angelo Poliziano. Rado
capita negli equivoci. Scherza, motteggia, ma con urbanità e decenza, come ne'
suoi consigli alle donne:
Io
vi vo', donne, insegnare
come
voi dobbiate fare;
e nel “ritratto della vecchia”, e
in quella ballata graziosissima:
Donne
mie, voi non sapete
che
io ho il mal che avea quel prete.
Nelle sue ballate senti la
gentilezza e la grazia delle “montanine” di Franco Sacchetti, massime quando il
fondo è idillico, come nella ballata dell'“augelletto”, e nell'altra:
Io
mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di
mezzo maggio, in un verde giardino.
Nelle sue canzoni e canzonette,
nelle sue Lettere e ne' suoi rispetti non trovi novità d'idee o d'immagini o di
situazioni, e neppure un'impronta personale e subbiettiva, come nel Petrarca.
Ci trovi il segretario del popolo, che traduce in forme eleganti il repertorio
comune de' canti popolari dall'un capo all'altro d'Italia. Perciò non hai qui
la freschezza e originalità delle stanze idilliche: spesso ci senti la fretta e
la distrazione, come di chi scriva di fuga e per occasione. Vedi ritornare le
stesse idee con lievi mutamenti, com'è il fuggire del tempo e il coglier la
rosa fiorita. Il dizionario delle idee popolari è piccolo volume, e non
s'ingrandisce in mano al Poliziano. Quelle poche idee si aggirano intorno a
situazioni generiche e semplici, come sono la bellezza del damo o della dama,
la gelosia, la dipartita, l'attendere, lo sperare, l'incitare, la disperazione
e i pensieri di morte, le dichiarazioni e le disdette. Sono l'espressione di un
essere collettivo, non del tale e tale individuo. E così sono nel Poliziano. I
nomi mutano, secondo l'argomento, come la dipartita e la ritornata, e anche
secondo il tempo, come la serenata o il notturno o la mattinata; ma le forme
sono le stesse. Sono per lo più stanze in rime variamente alternate, come nelle
ballate e ne' rispetti, fatte svelte e leggiere nelle canzonette, ove domina il
settenario o l'ottonario. Spesso non hai che un solo motivo variamente modulato
e con graziose ripigliate, come fosse un trillo o un gorgheggio:
E
crederrei, s'io fossi entro la fossa,
risuscitare
al suon di vostra gola;
crederrei,
quando io fussi nell'inferno,
sentendo
voi, volar nel regno eterno.
La ripigliata è il vezzo del
rispetto toscano. Ci si vede il cervello in riposo, fra onde musicali, e come
viene l'idea, non corre a un'altra, ma ci si ferma e la trattiene
deliziosamente nell'orecchio, finchè non le abbia data tutta la sua armonia.
Questo palpare e accarezzare l'idea, compiuta già come idea, ma non ancora
compiuta come suono, è proprio della poesia popolare, povera d'idee, ricca
d'immagini e di suoni. La parola è nel popolo più musica che idea. Ciò che si
diceva allora: “cantare a aria”, qual si fosse il contenuto, o come dice un
poeta, “siccome ti frulla”. Così cantavasi “Crocifisso a capo chino”, una
lauda, con la stess'aria di una canzone oscena.
Tra
queste impressioni nacque la “canzone di maggio”, il saluto della primavera:
Ben
venga Maggio,
e
il gonfalon selvaggio,
cantata dalle villanelle, che
venivano a Firenze, anche due secoli dopo, come afferma il Guadagnoli. Vi si
nota la fina eleganza di un uomo che fa oro ciò che tocca, congiunta con una
perspicuità che la rende accessibile anche alle classi inculte. Se Lorenzo
esprime della vita popolare il lato faceto e sensuale, con l'aria di chi
partecipa a quella vita ed è pur disposto a pigliarne spasso; il Poliziano
anche nelle sue più frivole apparenze le gitta addosso un manto di porpora,
elegante spesso, gentile e grazioso sempre. Alla idealità del Poliziano si
accosta alquanto solo il Trionfo di Bacco e Arianna.
Lorenzo
e il Poliziano sono il centro letterario de' canti popolari, sparsi in tutta
Italia non solo in dialetto, ma anche in volgare, e di alcuni ci sono rimasti i
primi versi, come: “O crudel donna, che lasciato m'hai”; “Giù per la villa
lunga / la bella se ne va”; “Chi vuol l'anima salvare / faccia bene a'
pellegrini”, ecc. Vi si mescolavano laude, racconti e poemetti spirituali con
le stesse intonazioni. Li portavano ne' più piccoli paesi i rapsodi o poeti
ambulanti e i ciechi con la loro chitarra o mandòla in collo, che vivevano di
quel mestiere. E si chiamavano “cantastorie”, quando i loro canti erano
romanzette o romanze, racconti di strane avventure intercalati di buffonerie e
motti licenziosi. Questa letteratura profana e proibita a' tempi del Boccaccio,
come s'è visto, era il passatempo furtivo anche delle donne colte ed eleganti.
Erano alla moda “romanzi franceschi” con le loro traduzioni, imitazioni e
raffazzonamenti in volgare. In questo secolo moltiplicarono co' rispetti e le
ballate anche i romanzi. Della cavalleria si vedeva l'immagine sfarzosa nelle
corti, e alcuna lontana reminiscenza ne davano le compagnie di ventura.
Cavaliere e cavallo era ancora il tipo della storia, l'ideale eroico celebrato
nelle giostre e riflesso ne' romanzi. Se ne scrivevano in dialetto e in
volgare. Tra gli altri che venner fuori, sono degni di nota l'Aspromonte,
l'Innamoramento di Carlo, l'Innamoramento di Orlando, Rinaldo,
la Trebisonda, i Fioretti de' paladini, il Persiano, la Tavola
rotonda, il Troiano, la Vita di Enea, la Vita di
Alessandro di Macedonia, il Teseo, il Pompeo romano, il Ciriffo
Calvaneo. Il maggiore attrattivo era la libertà delle invenzioni: si
empivano le carte di fole e di sogni, come dice il Petrarca; e chi le dicea più
grosse, era stimato più. Questo elemento fantastico penetrò anche ne' misteri,
come nelle laude era penetrato il canto popolare. Le rappresentazioni presero
una tinta romanzesca: l'effetto, non potendosi più trarre da un sentimento
religioso che faceva difetto, si cercava nella varietà e nel maraviglioso degli
accidenti, com'è il San Giovanni e Paolo di Lorenzo.
Il
romanzo adunque era penetrato in tutti gli strati della società, e dalle corti
scendeva fino ne' più umili villaggi e di là risaliva alle corti. La plebe
aveva i suoi cantastorie, la corte aveva i suoi novellatori. E non si
contentavano di riferire i fatti come erano trasmessi dalle cronache e dalle
tradizioni, ma vi aggiungevano del loro non solo nel colorito e negli
accessorii, ma nella invenzione. Il Boccaccio recitava i suoi romanzi a corte e
tra liete brigate, come immagino fossero recitate le sue novelle. Il suo
Florio, il Teseo, il Troilo lasciarono poco durevole vestigio, perchè argomenti
poco popolari e guasti dall'erudizione e dalla mitologia. Ma l'impulso da lui
dato fu grande; e la ballata, la novella, il romanzo, ciò che chiamasi
letteratura profana, divennero l'impronta del secolo, da Franco Sacchetti a
Lorenzo de' Medici. La cavalleria propriamente detta avea per suo centro gli
eroi della Tavola rotonda e i paladini di Carlomagno. In antico la Tavola
rotonda avea molta popolarità, e Tristano e Isotta tennero per qualche
tempo il primato. Il Boccaccio nell'Amorosa visione cita gli eroi
principali di queste tradizioni normanne, come nomi già noti e volgari. Ma la
Francia era più nota, e i “romanzi franceschi più diffusi”, e Carlomagno avea
un certo legame con l'Italia, come un eroe religioso, protettore del papa e
vincitore de' saracini e precursore delle crociate. Era già comparso l'Innamoramento
di Orlando. E Matteo Boiardo ci die' l'Orlando innamorato, una vasta
tela in sessantanove canti, interrotta dalla morte.
Il
Boiardo, conte di Scandiano, crebbe nella corte estense, divenuta un centro
letterario importante accanto a Napoli, Roma e Firenze. Ivi la letteratura
nasceva pure fra le giostre, gli spettacoli e le danze. Il Boiardo, uomo
coltissimo, dotto di greco e di latino, studiosissimo di Dante e del Petrarca,
era rimasto estraneo al movimento impresso dal Boccaccio alla letteratura
toscana. Ne' suoi sonetti, canzoni e ballate è facile a vedere non so che
astratto e rigido, come di uomo ben composto negli atti e nella persona, pure
impacciato. È in lui una serietà di motivi che in quel secolo della parodia si
può chiamare un anacronismo. Gli piace recitare i suoi canti tra liete brigate,
e averne le lodi; ma i passatempi e gli scherzi non sono il suo elemento, e
crederebbe profanare i suoi eroi a pigliarsene gioco. Racconta con la serietà
d'Omero, e fu salutato allora l'“Omero italiano”. Certo, non crede alle sue
favole, e non ci credono i suoi colti uditori, e la comune incredulità scappa
fuori alcuna volta in qualche tratto ironico; ma questo riso della coltura a
spese della cavalleria non è il motivo, e un accessorio fuggevole del racconto.
Cosa dunque aveva più di serio la cavalleria nella coscienza italiana? Di vivo
non era rimasto altro che le pompe e le cerimonie e le feste delle corti.
Quelle forme erano così vuote, come le cerimonie chiesastiche, scomparso ogni
sentimento eroico e religioso, anzi negato e parodiato. Invano si studia il
Boiardo di togliere alla plebe il romanzo e dargli le serie proporzioni di
un'epopea.
Il
mondo omerico è un organismo vivente, dove sentimenti, pensieri, costumi e
avvenimenti sono perfettamente realizzati e armonizzati: il mondo cavalleresco,
mancati tutt'i suoi motivi interiori, è qui sotto forme epiche il mondo plebeo
dell'immaginazione, un maraviglioso sciolto dalle leggi dello spazio e del
tempo, senza serietà di scopo e di mezzi, tra castelli incantati e colpi di
spada. Come Elena nell'Iliade, qui è Angelica che move intorno a sè
Europa e Asia; salvo che Elena è un semplice antecedente, rimasto ozioso nel
racconto, e Angelica è la vera motrice dell'immensa macchina, è il maraviglioso
in permanenza, la maga. Il miracolo continua: non lo fanno i santi; lo fanno i
maghi e le maghe. E il miracolo non è la macchina o l'istrumento, ma è fine a
se stesso. Voglio dire che il miracolo non è un mezzo per conseguire uno scopo
serio e sviluppare un'azione interessante, come nelle leggende e ne' primitivi
poemi cavallereschi animati dalla fede; non essendo nel mondo del Boiardo altra
serietà che il miracolo stesso, il fine di sorprendere gli uditori con la
straordinarietà degli avvenimenti. I motivi delle azioni non sono a cercare
nella serietà di un mondo religioso, morale, eroico, divenuto convenzionale e
tradizionale, come il mondo cristiano, ma nel libero gioco delle passioni e de'
caratteri sotto l'influsso di potenze occulte. Onde nasce un mondo pieno di
vivacità e di mobilità, dove tutte le forze dell'individuo, non frenate da
leggi e da autorità superiori, si sviluppano nel pieno rigoglio della natura e
producono effetti così maravigliosi come le stregonerie e gl'incanti. Orlando e
Rinaldo ti fanno maravigliare non meno che Malagigi e Angelica. Un mondo così
essenzialmente fantastico e insieme così poco serio per il poeta e per gli
uditori è in fondo quel mondo della cortesia calato dal Boccaccio in mezzo alla
borghesia e fatto moderno, e ritirato dal Boiardo alle sue aure natie. Il
ferrarese ha creduto renderlo cosa seria, dandogli forma nobile e decorosa, purgata
dalle licenze e da' disordini de' romanzi plebei; ma è appunto quest'apparenza
di serietà che toglie attrattivo al suo racconto. Ne' romanzi plebei il
maraviglioso fa un effetto serio sugl'ignoranti e ingenui uditori; ma i colti
“signori e cavalieri”, alla cui presenza recitava il Boiardo i suoi canti, non
potevano vedere in quei fantastici racconti che un puro giuoco d'immaginazione,
disposti a spassarsi della plebe, che faceva gli occhioni e apriva la bocca.
Quel mondo dunque non poteva divenire borghese se non trasportato
nell'immaginazione e accompagnato da un sogghigno. E tutte e due queste
condizioni mancano nell'Orlando innamorato. Il Boiardo ha molta vena
inventiva: avvenimenti e personaggi pullulano sotto la sua penna. Certo, non è
tutto cosa sua; raccoglie di qua e di là; trova innanzi a sè un immenso
materiale agglomerato da' secoli: ma quella materia la fa sua, scegliendo,
combinando, padroneggiandola. Il suo intento, direi quasi la sua vanità, è di
sorprendere gli uditori con la ricchezza e varietà de' suoi intrecci,
menandoseli appresso tra le più strane avventure. Ma al Boiardo mancano tutte
le grandi qualità dell'artista, e soprattutto quelle due che sono essenziali
alla rappresentazione di questo mondo, l'immaginazione e lo spirito. Ben tenta
talora lo scherzo; ma rimane un tentativo abortito: non ha brio, non facilità,
non grazia. Gli manca lo spirito e gli manca ancora quell'alta immaginazione
artistica che si chiama fantasia. Vede chiaro, disegna preciso, come fosse un
mondo storico; e appunto perciò in un mondo così fantastico rimane pedestre e
minuto, e non ti sottrae al reale, non ti ruba i contorni, non ti tira per
forza in una regione incantata. A questo grande inventore di magie la natura
negò la magia più desiderabile, la magia dello stile. Le più originali
concezioni, le più interessanti situazioni ti cascano sul più bello: sei nel
fantastico e ti trovi nel volgare, e Angelica ti si trasforma in una
donnicciuola e Orlando in un babbeo. Il che avviene senza intenzione comica,
unicamente per la soverchia crudezza de' colori, a cui mancano le gradazioni e
le mezze tinte. Così quel mondo, che nella sua intima natura dovea essere
fantastico e comico, ti riesce spesso nella rappresentazione prosaico e
volgare. Non una sola situazione, non una figura è rimasta viva. Dicesi che il
nobil conte facesse suonare a festa le campane del villaggio, quando gli venne
trovato il nome di Rodamonte, quasi l'importanza fosse ne' nomi o ne' fatti. E
non è Rodamonte che è rimasto vivo, è Rodomonte.
Se
il Boiardo recitava i suoi canti a' signori ferraresi, Luigi Pulci rallegrava
le feste e i conviti di Lorenzo recitando le stanze del suo Morgante.
Qui ritroviamo la fisonomia letteraria del tempo nelle sue gradazioni, dal
Burchiello “sgangherato e senza remi”, come lo chiama Battista Alberti, sino a
Lorenzo de' Medici. Il Pulci discende in diritta linea dal Boccaccio e dal
Sacchetti, e ne sviluppa le tendenze con più energia che non il Poliziano e non
Lorenzo.
Piglia
il romanzo come lo trova per le vie, un miscuglio di santo e di profano, di
buffonesco e di serio. E non pensa a dargli un carattere eroico, anzi niente
più gli ripugna che la tromba. Ti dà un mondo rimpiccinito, fatto borghese: gli
eroi sono scesi dal piedistallo, hanno perduta la loro aureola, e ti camminano
innanzi semplici mortali. Niente è più volgare che Carlo o Gano. Carlo è un
rimbambito, Gano è un birbante destituito di ogni grandezza: volgare lui,
volgari i suoi intrighi. Rinaldo è un ladrone di strada, Ulivieri è un
cacciatore di donne e la sua Meridiana non è in fondo che una femminella. Di
caratteri e passioni non è a far parola: è un mondo superficiale e mobilissimo,
e vai di palo in frasca, e non ti raccapezzi. Gano trama la rovina de'
paladini, Forisena si gitta dalla finestra, Babilonia rovina, Carlo è scoronato
da Rinaldo; tutti questi grandi avvenimenti scappan fuori appena abbozzati,
come non fossero opera di uomini, ma di qualche bacchetta magica, rappresentati
con la stessa indifferenza e leggerezza di colorito, con la quale Morgante si
mangia un elefante e sfracella il capo a una balena. È la cavalleria com'era
concepita e trasformata dalla plebe. Il cantastorie è in fondo un giullare, o
piuttosto un buffone plebeo, che abbassa quel mondo al suo livello e de' suoi
uditori, e invocati gravemente Dio e i santi e la Madonna, si abbandona a' suoi
lazzi, e ti fa sbellicar dalle risa. Il buffone, personaggio accessorio ne'
racconti e nelle commedie, è qui il personaggio principale, è lo spirito stesso
del racconto. La parte più seria del romanzo è certo la morte di Orlando; e
anche lì quanti lazzi! Ecco il principio della grande battaglia:
Chi
vuol lesso Macon, chi l'altro arrosto;
ognun
volea del nimico far torte:
dunque
vegnamo alla battaglia tosto,
sì
ch'io non tenga in disagio la morte,
che
colla falce minaccia ed accenna
ch'io
muova presto le lance e la penna.
Nell'inferno si fa gran festa,
che attendono i pagani; Lucifero “trangugiava a ciocche le anime che piovean
de' seracini”; e san Pietro attende le anime de' cristiani:
E
perchè Pietro a la porta è pur vecchio,
credo
che molto quel giorno s'affanna;
e
converrà ch'egli abbi buon orecchio,
tanto
gridavan quelle anime: - Osanna! -
ch'eran
portate dagli angeli in cielo:
sicchè
la barba gli sudava e 'l pelo.
I campi di battaglia svegliano
immagini tolte ad imprestito da' macellai e da' cucinieri; i colpi di spada
sono in modo così grossolano esagerati che la morte stessa diviene ridicola; i
miracoli sono così strani e così caricati che perdono ogni serietà, come è
Orlando morto, trasformato in colomba, che si posa sulla spalla di Turpino e
gli entra in bocca con tutte le penne.
Se
il buffone fosse di buona fede, seriamente credulo e sciocco, avremmo il
grottesco, com'è ne' romanzi primitivi. Ma qui il buffone è un uomo colto, che
parla a un colto uditorio, e non è il buffone, ma fa il buffone, contraffacendo
il cantastorie e la plebe che gli crede. Sicchè ci troviamo in quella stessa
disposizione di animo che ispirò la Belcolore e la Nencia: è il
borghese che si spassa alle spalle della plebe. E te ne accorgi alla finta
serietà con che il poeta, quando le dice assai grosse, chiama in testimonio
Turpino, o dove nelle cose più gravi fa boccacce e t'esce fuori con una smorfia
e si burla del suo argomento e de' suoi personaggi. La parodia è ancora più
comica, perchè dissimulata con molta cura, di rado rilevata, e posta il più
sovente nella natura stessa del fatto senza alcuno artificio di forma, come è
Morgante che uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino, o Margutte che
scoppia dalle risa e muore. E riderà in eterno, nota l'angiolo Gabriello,
trasformato l'individuo in tipo. La rappresentazione è anch'essa conforme a
questa parodia plebea. La plebe non analizza e non descrive; ma ha l'intuito
sicuro e la percezione viva, e coglie ciò che vede alla naturale e così in
grosso, e non ci si ferma e passa oltre. La forma qui è tutta esteriore e
rapida; si movono insieme “le lance e la penna”; l'autore, mentre move la
penna, vede le lance moversi, vede quello che scrive; le figure si staccano dal
fondo, e ti balzano innanzi vivide, e tu le cogli in una sola girata d'occhio.
L'ottava non ha periodo e le rime non hanno gioco: è un incalzare di versi
senza posa, frettolosi, poco curati, gli uni addossati agli altri, e spesso
tutto il quadro è un verso solo. Al che aiuta il dialetto, maneggiato
maestrevolmente, soprattutto per la proprietà de' vocaboli. Tutto è plebeo:
azioni, passioni e linguaggio. Un capolavoro di questa vita plebea è il sacco
di Sarragozza, col supplizio di Gano e di Marsilio. - “E io voglio fare il
boia” -, dice l'arcivescovo Turpino. Uno di quei tratti che illuminano tutta
una situazione. La risposta di Rinaldo a Marsilio, che vuol farsi cristiano
all'ultima ora, è quale potrebbe suonare in bocca di un becero.
Il
romanzo è una commedia, che contro l'intenzione dell'autore si volge in
tragedia. Ma la tragedia è da burla, e non ce n'è il sentimento. Lo spirito del
racconto è il basso comico, un comico vuoto e spensierato, che imputridisce
nelle acque morte di un'immaginazione volgare e non si alza a fantasia.
Maggiore spirito è in Lorenzo e nel Boccaccio, che si mescolano fra la plebe, e
non sono plebe e la guardano alcun poco dall'alto. Ma il Pulci, ancorchè uomo
colto, per i sentimenti e le inclinazioni è plebe, e a forza di rappresentare
la parte del buffone plebeo, diviene egli medesimo quel cotale. Perciò gli
mancano tutte le alte qualità di un artista comico: la grazia, la finezza, la
profondità dell'ironia, e ti riesce spesso grossolano, superficiale, inculto e
negletto anche nella forma. Ha non solo la grossolanità, ma anche l'angustia di
un'immaginazione plebea, non essendoci ne' suoi personaggi molta ricchezza di
carattere, quella varietà di movenze, di sentimenti e d'istinti che fa
dell'uomo un piccolo mondo. Rinaldo, Orlando, Ulivieri, Astolfo, Sansonetto,
Ricciardetto, i paladini sono tutti a uno stampo, e non ci è differenza in loro
che della forza. Malagigi è insignificante. Gano, Falserone, Bianciardino,
Marsilio, Caradoro, Manfredonio, Falcone, Salincorno, tutt'i pagani sono esseri
superficiali, e spesso puri nomi. I più accarezzati dall'autore sono i due
personaggi del suo cuore, Morgante e Margutte. Morgante è lo scudiere di
Orlando, ed è il vero protagonista, lo spirito del racconto. Non è il
cavaliere, è lo scudiere l'eroe di questa storia plebea, il cui spirito penetra
dappertutto e si continua anche dopo la sua morte. Morgante rappresenta il lato
eroico e cavalleresco della plebe, ghiotto, millantatore, ignorante, di poca
malizia, ma buono, fedele e coraggioso. Il suo battaglio è l'emulo di
Durindana. Margutte è la plebe nella sua degenerazione e corruzione, ignobile,
beffardo, ladro, fraudolento, assai vicino all'animale. Questi due esseri
accoppiati insieme si compiono e si spiegano. Se ci fosse maggiore stacco tra
queste figure volgari e i cavalieri, nel loro antagonismo o dualismo sarebbe la
vera parodia, come è di Sancio Panza e don Chisciotte. Ma lo spirito plebeo
penetra ancora fra' cavalieri, e Margutte e Morgante sono non una parte, ma il
tutto, l'alto modello a cui più o meno è informata la storia, intitolata a
buona ragione Il Morgante.
Una
concezione originale è Astarotte. Il diavolo cornuto di Dante, che già riceve
una prima trasformazione nel suo nero cherubino, il bravo loico che ha tutta
l'aria di un dottore di Bologna, qui prende aria paesana, ed è un buon
compagnone. Come il nero cherubino arieggia agli scolastici, Astarotte è il
nuovo spirito del secolo, motteggiatore, ironico e libero pensatore, che fa il
teologo e l'astrologo, e spiega la Bibbia a modo suo, e battezza asini Dionisio
e Gregorio; chè
ognuno erra
a
voler giudicare il ciel di terra
Astarotte, che è stato un
serafino e de' principali, sa molte cose, che non sanno “i poeti, i filosofi e
i morali”, e dice la verità, e non fa come gli spiriti folletti che si aggirano
per l'aria e ingannano gli uomini, “facendo parere quel che non è”:
chi
si diletta ir gli uomini gabbando,
chi
si diletta di filosofia,
chi
venire i tesori rivelando,
chi
del futuro dir qualche bugia.
Vedesi la filosofia messa a
fascio con l'astrologia e le altre arti di gabbare gli uomini.
Ma
Astarotte promette di dire la verità, e tiene la promessa, come un diavolo
d'onore:
Chè
gentilezza è bene anche in inferno.
E sa la verità non per ragione,
ma per esperienza, come di cose che vede e tocca, confermandole anche con
l'autorità della Scrittura. Dove ci vuol ragione, come nella quistione della
prescienza, la quale “l'umana gente avvolge di tanti errori”, dice: - “Nol so:
però non ti rispondo” -. Ma quanto a' fatti, afferma ardito e sicuro. E afferma
che, salvo i giudei e i saracini, piacciono a Dio quelli che osservano la loro
religione, come fecero gli antichi romani, su' quali piovve tanta grazia
celeste; che al di là delle colonne d'Ercole è l'altro emisperio, abitato come
questo, e ben vi si può ire; che quella gente è parte della famiglia di Adamo,
anch'essa redenta, altrimenti Dio sarebbe stato partigiano; che gli animali pinti
nel padiglione di Luciana non sono tutti, e compie la lista descrivendo un gran
numero di animali poco noti. Rinaldo, avido d'imparare, si propone di lanciarsi
pe' mari ignoti e scoprire il nuovo mondo rivelato da Astarotte: la poesia
indovina Cristoforo Colombo, o piuttosto la scienza, perchè il dotto Astarotte
era in fondo il celebre Toscanelli, amico e suggeritore del Pulci.
Questa
concezione è una delle più serie della nostra letteratura e delle meglio
disegnate e sviluppate del Morgante. Ci è lì il secolo nelle sue intime
tendenze non ancora ben chiare, che volge le spalle alle forme scolastiche e
alle contemplazioni ascetiche, e diffida de' ragionamenti astratti, e si gitta
avido nella esplorazione della natura e dell'uomo. Il mondo gli si allarga
innanzi, e mentre gli uni ricalcano le vie della storia e rifanno Atene e Roma,
gli altri lasciando teologia, filosofia e astrologia e fatture e altre
“opinioni sciocche”, mostre ingannevoli degli spiriti folletti, percorrono la
terra in tutt'i versi e già sono con l'immaginazione al di là dell'oceano. Il
secolo comincia a prender possesso della terra; la storia naturale, la fisica,
la nautica, la geografia prendono il posto delle quistioni sugli enti e
sull'esistenza degli universali - i fatti e l'esperienza occupano le menti più
che i ragionamenti sottili. Aggiungi l'ironia, quel prender le cose così alla
leggiera e sdrucciolandovi appena, quell'aria già scettica e miscredente,
ancorachè non ci sia ancora negazione e scetticismo, e avrai l'immagine del secolo,
il ritratto di Astarotte. Ma l'autore sembra quasi non accorgersi della
stupenda concezione, e abborraccia dappertutto, anche qui. Gli manca la
coscienza seria e intelligente delle nuove vie, nelle quali entra il secolo;
gli manca quell'elevatezza d'animo che rende eloquente l'uomo quando gli
lampeggiano innanzi nuovi orizzonti. L'Ulisse di Dante è sublime; il suo
Rinaldo è insignificante. E l'Astarotte riesce l'eco volgare e confusa di un
secolo ancora inconsapevole di sè.
Il
Pulci, il Boiardo, il Poliziano, Lorenzo, il Pontano e tutti gli eruditi e i
rimatori di quell'età non sono che frammenti di questo mondo letterario, ancora
nello stato di preparazione, senza sintesi.
Ci
è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse abbracciarlo tutto, dico
Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e
letterato; fiorentino di origine, nato a Venezia, educato a Bologna, cresciuto
a Roma e a Ferrara, vivuto lungamente a Firenze accanto al Ficino, al Landino,
al Filelfo; caro a' papi, a Giovan Francesco signore di Mantova, a Lionello
d'Este, a Federigo di Montefeltro; celebrato da' contemporanei come “uomo
dottissimo e di miracoloso ingegno”, “vir ingenii elegantis, acerrimi
iudicii, exquisitissimaeque doctrinae”, dice il Poliziano. Destrissimo
nelle arti cavalleresche, compì i suoi studi a Bologna dalle lettere sino alle
leggi, datosi poi con ardore alle matematiche e alla fisica. Deesi a lui la
facciata di Santa Maria Novella, la cappella di San Pancrazio, il palazzo
Rucellai, la chiesa di Sant'Andrea in Mantova e di San Francesco primon Rimini.
Sono suoi trovati la camera ottica, il reticolo de' pittori e l'istrumento per
misurare la profondità del mare, detto “bolide albertiana”. Nelle sue Piacevolezze
matematiche trovi non pochi problemi di molto interesse, e nei suoi libri Dell'architettura,
che gli procacciarono il nome di “Vitruvio moderno”, hai cenni di parecchie
invenzioni o fatte o intravedute. I suoi Rudimenti e i suoi Elementi
di pittura e la sua Statua contengono preziosi insegnamenti tecnici
di queste arti.
Fu
così pratico del latino, che un suo scherzo comico scritto a venti anni e
intitolato Philodoxeos, venne da tutti gli eruditi attribuito a un
antico scrittore latino, e da Alberto d'Eyb a Carlo Marsuppini, professore di
rettorica a Firenze e segretario della repubblica. E non minor pratica ebbe del
volgare, in prosa e in verso, addestratosi anche nel maneggio del dialetto,
quando con Cosimo de' Medici e gli altri sbanditi fu richiamato in Firenze. Ne'
suoi Intercenali o “intrattenimenti della cena”, ne' suoi Apologhi,
nel suo Momo scritto a Roma il 1451, dove rappresenta se stesso,
piacevoleggia con urbanità. Scrisse i soliti sonetti e canzoni: e chi non ne
scrivea allora? O chi non ne scrisse poi? Meglio riuscirono le sue Egloghe
e le sue Elegie, amorosi idilli, come era la voga dal Boccaccio in qua.
Era in voga anche Platone, e platonizzò. Ma al suo ingegno così pratico, così
lontano dalle astrazioni, non potea piacere il misticismo platonico, che facea
andare in visibilio il suo amico Ficino, e lo seguì come artista ne' suoi
dialoghi della Tranquillità dell'animo e della Famiglia, il cui
terzo libro fu lungo tempo attribuito al Pandolfini, e del Teogenio o della
vita civile e rusticana. Tali sono pure l'Ecatomfilea, la Deifira,
la Cena di famiglia, la Sofrona, la Deiciarchia. Il
dialogo è la sua maniera prediletta, un certo discorrere alla familiare e alla
buona, così alieno dalle pedanterie scolastiche, e che trovi anche dove parla
uno solo come nelle sue Efebie, nella sua epistola sull'Amore,
nella sua Amiria. Chi misura l'ingegno dalla quantità delle opere e
dalla varietà delle cognizioni, dee tenerlo ingegno così miracoloso come fu
tenuto a quel tempo. Certo, egli fu l'uomo più colto del suo tempo e l'immagine
più compiuta del secolo nelle sue tendenze.
Battista
ha già tutta la fisonomia dell'uomo nuovo, come si andava elaborando in Italia.
La scienza, svestite le sue forme convenzionali, è in lui amabile e familiare.
Lascia le discussioni teologiche e ontologiche. Materia delle sue
investigazioni è la morale e la fisica con tutte le sue attinenze, cioè l'uomo
e la natura così com'è, secondo l'esperienza, il nuovo regno della scienza. È
un artista, perchè non solo studia e comprende, ma contempla, vagheggia, ama
l'uomo e la natura. Anima idillica e tranquilla, alieno dalle agitazioni
politiche, ritirato nella pace e nell'affetto della famiglia, abitante in
ispirito più in villa che in città, non curante di ricchezze e di onori, vuoto
di ogni cupidigia e ambizione, si formò una filosofia conforme, di cui è base
l'“aurea mediocritas”, una moderazione ed eguaglianza d'animo, che ti
tenga fuori di ogni turbazione. Il suo amore della natura campestre non ha
nulla di sentimentale e d'indefinito, che t'induca a fantasticare; anzi tutto è
disegnato partitamente con la sagacia di un osservatore intelligente e con
l'impressione fresca di uomo che se ne senta ricreare l'occhio e riposare
l'anima. E non è la natura in se stessa che lo alletta, com'è ne' “quadretti di
genere” del Poliziano, ma è l'uomo nella natura: il paesaggio è un fondo appena
abbozzato, sul quale vedi muoversi la vita campestre in quella sua temperanza e
tranquillità, dov'è posto l'ideale della felicità. Il vero protagonista è
perciò l'uomo, com'era concepito allora, sottratto alle tempeste della vita
pubblica, che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e tra' campi, tutto
alle sue faccende e a' suoi onesti diletti. Ma è insieme l'uomo colto e civile
e umano, che disputa e ragiona nel cerchio degli amici e con la famiglia
attorno, porgendo utili ammaestramenti intorno all'arte della vita. La quale
arte si può ridurre in questa sentenza: che l'uomo dee tener lontane da sè le
passioni e le turbazioni dello spirito e serbar regola e modo in tutte le cose.
Questo equilibrio interno, metà epicureo, è quella pace che Dante cercava
nell'altro mondo, e che Battista ti offre in questo mondo, il nuovo principio
etico generato dagli antichi moralisti e che Lorenzo Valla chiama argutamente
la “voluttà”. Il concetto ascetico che l'uomo non può conseguire vera felicità
in terra, è alieno dal Quattrocento, che non nega e non afferma il cielo e si
occupa della terra. Battista non ti dà una filosofia con deduzioni rigorose,
non cessa di essere un buon cristiano e riverente alla religione; e non
sospetta egli, e non sospettavano i contemporanei, a quali pericolose
conseguenze traeva quello indirizzo. Non è il filosofo: è l'artista e il
pittore della vita, come gli si porgeva. I suoi ragionamenti non movono da
princìpi filosofici, ma dalle sentenze de' moralisti antichi, dagli esempli
della storia, e soprattutto dalla sua esperienza della vita. Il suo uomo non è
un'astrazione, un'idea formata da concezioni anticipate, ma è preso dal vero
nella vita pratica, co' suoi costumi e le sue inclinazioni. Pinge e descrive
più che non ragiona; e non è un descrivere letterario o rettorico, ma rapido,
evidente, concentrato, come chi ha innanzi agli occhi il modello e n'è
vivamente impressionato. Onde riesce pittore di costumi e di scene di famiglia,
o campestri o civili, impareggiabile. E non hai già la vuota esteriorità, come
spesso è in Lorenzo; ma dentro è il nuovo ideale dell'uomo savio e felice, che
par fuori nella calma decorosa e composta de' lineamenti, a cui fa spesso da
contrapposto la faccia disordinata dell'uomo sregolato e turbato. È l'onesto
borghese idealizzato, che succede al tipo ascetico o cavalleresco del medio
evo, un borghese purgato ed emendato, toltagli l'aria beffarda e licenziosa. Di
questo ideale immagine parlante è lo stesso Battista, di cui suprema virtù era
la pazienza delle ingiurie anche più gravi e de' mali più stringenti della
vita: “protervorum impetum patientia frangebat”, dice di sè: ottimo
rimedio a non guastarsi il sangue. Questa pazienza o uguaglianza dell'animo è
la genialità della nuova letteratura, impressa sulla fronte tranquilla del
Boccaccio, del Sacchetti, del Poliziano e del nostro Battista e che gl'innamora
delle forme terse e riposate, il cui interno equilibrio si manifesta nella
bellezza e nella grazia. Questo amore della bella forma, non solo in sè
tecnicamente, ma come espressione dell'interna tranquillità, è la musa di
Battista. Scrivendo di sè, dice:
“Praecipuam et singularem voluptatem capiebat spectandis
rebus, in quibus aliquod esset specimen formae ac decus. Senes praeditos
dignitate aspectus et integros atque valentes iterum atque iterum demirabatur,
delitiasque naturae sese venerari praedicabat... Quicquid ingenio esset hominum
cum quadam effectum elegantia, id “prope divinum” dicebat... Gemmis floribus,
ac locis praesertim amoenis visendis, nonnumquam ab aegritudine in bonam
valetudinem rediit.”
Quest'uomo,
che alla vista della bella natura si sente tornar sano, che sta lì a
contemplare l'aspetto decoroso di una vecchiezza sana e intera, che chiama
divina l'opera elegante dell'ingegno, e sente voluttà a contemplare le belle
forme, aggiunge a questa squisita idealità un senso così profondo del reale,
che gli rende familiari gli arcani della natura e anche della storia, come
mostrò nelle lettere a Paolo Toscanelli, dove predice con molta sagacia
parecchi avvenimenti, le future sorti di principi e di pontefici, e i moti
delle città. Indi è che nelle sue pitture trovi precisione tecnica, verità di
colorito e grande espressione: è una realtà finita ed evidente, che mostra
nelle sue forme impressioni e sentimenti. Veggasi nel Governo della famiglia
la pittura della vita villica, e la descrizione del convito, e quella
maravigliosa scena di famiglia, dove Agnolo, veggendo la sua donna tutta pinta
e impomiciata, dice: “Tristo a me! E ove t'imbrattasti così il viso? Forse
t'abbattesti a qualche padella in cucina? Laveraiti, chè quest'altri non ti
dileggino. - Ella m'intese e lagrimò. Io le die' luogo ch'ella si lavasse le
lagrime e il liscio”. Dello stesso genere è la pittura de' giocatori nella Cena
di famiglia e nella Deiciarchia, e il ritratto nel Teogenio
della vita quieta e felice di Genipatro, nel quale intravvedi Battista:
“Truovomi
ancora per la età riverito, pregiato, riputato; consigliansi meco; odonmi come
padre; ricordanmi; lodanmi in suoi ragionamenti; approvano, seguono i miei
ammonimenti; e se cosa mi manca, vedomi presso al porto ove io riposi ogni
stracchezza della vita, se ella forse a me fusse, qual certo ella non è, grave.
Nulla truovo per ancora in vita che mi dispiaccia, e questo mi conosco oggidì
più felice che mai, poi che in cosa niuna a me stesso dispiaccio... Godo testè
qui ragionando con voi; godo solo leggendo questi libri; godo pensando e
commentando queste e simili cose, quali io vi ragiono, e ricordandomi la mia
ben trascorsa vita e investigando fra me cose sottili e rare, sono felice. E
parmi abitare fra gl'iddii, quando io investigo e ritruovo il sito e forze in
noi de' cieli e suoi pianeti. Somma certo felicità viversi senza cura alcuna di
queste cose caduche e fragili della fortuna, con l'animo libero da tanta
contagione del corpo; e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in
solitudine, parlarsi con la natura maestra di tante maraviglie, seco disputando
della cagione, ragione, modo e ordine di sue perfettissime e ottime opere,
riconoscendo e lodando il padre e procreatore di tanti beni.”
Parti
udire Cicerone a discorrere della vecchiezza e dell'amicizia, e delle lettere e
dell'uomo felice: senti in questo Teogenio quella superiorità dell'intelligenza
sulla forza e sulla fortuna, e della coltura sulla barbarie e la rozzezza
plebea; quella beatitudine dell'uomo ritirato nello studio, nella famiglia, ne'
campi; quell'ardore delle scoperte, quel culto dell'arte, che è la fisonomia
del secolo. Animate da questo spirito sono pure le ultime pagine della Tranquillità
dell'animo, ove Battista pinge maravigliosamente se stesso. Nell'Ecatomfilea
ti arrestano ritratti di ancora maggior freschezza ed evidenza, com'è la pittura
degli amanti troppo giovani o troppo vecchi e dell'amore degli uomini “che
fioriscono in età ferma e matura”: pittura che ha ispirato le belle ottave
dell'Ariosto. De' vagheggini perditempo dice:
“Parmi
poca prudenzia amare questi oziosi e inerti, i quali per disagio di faccende
fanno l'amore suo quasi esercizio e arte, e con sue parrucchine, frastagli,
ricamuzzi e livree, segni della loro leggerezza, vagosi e frascheggiosi per
tutto discorrono. Fuggiteli, figliuole mie, fuggiteli; però che questi non
amano, ma così logorano passeggiando il dì, non seguendo voi, ma fuggendo
tedio.”
La
storia dell'amore e della gelosia di Ecatomfila sembra un bel frammento di un
romanzo fisiologico perduto, e per finezza e verità di osservazione è molto
innanzi alla Fiammetta del Boccaccio, la cui imitazione è visibile nella
Ecatomfilea, e più nella Deifira e nella Epistola di un
fervente amante: pianti e querele amatorie, dove il buon Battista, uscendo
della sua natura, come il Boccaccio, dà nella rettorica. Per trovare il grande
scrittore devi cogliere Battista quando pinge o descrive, come nell'epistola
sopra l'amore, reminiscenza del Corbaccio, e la pittura delle donne e
l'altra dell'amante, pari alle più belle del Corbaccio. E, per finirla,
vedi nella Tranquillità dell'animo la descrizione del duomo di Firenze,
con tanta idealità nella massima precisione degli accessorii:
“...
questo tempio ha in sè grazia e maestà, e ... mi diletta ch'io veggo in questo
tempio giunta una gracilità vezzosa con una sodezza robusta e piena: tale che
da una parte ogni suo membro pare posto ad amenità, e dall'altra parte
comprendo che ogni cosa qui è fatta ed offirmata a perpetuità... Qui senti in
queste voci il sacrificio e in questi, quali gli antichi chiamavano misteri,
una soavità maravigliosa... Ei possono in me questi canti ed inni della Chiesa
quello a che fine ei dicono che furon trovati: troppo m'acquietano da ogni
altra perturbazione d'animo, e commovuomi a certa non so quale io la chiami
lentezza d'animo piena di riverenza verso di Dio. E qual cuore sì bravo si
trova che non mansueti se stesso, quando ei sente su bello ascendere e poi
discendere quelle intere e vere voci con tanta tenerezza e flessitudine?
Affermovi questo, che mai sento in quei misteri e cerimonie funerali invocare
da Dio aiuto ... alle nostre miserie umane, che io non lacrimi.”
Come son vere queste impressioni!
E con quanta felicità rese! “Gracilità vezzosa”, “lentezza d'animo”, sono forme
nuove, pregne d'idealità. Il sentimento religioso, cacciato dalla coscienza, si
trasforma in sentimento artistico, e move l'animo come architettura e come
musica.
Pittore
egregio, Battista non è del pari felice, quando ragiona, o quando narra. I suoi
ragionamenti non sono originali e non profondi, e sembrano uscire più dalla
memoria che dall'intelletto; e la sua novella di Lionora de' Bardi,
vivace, rapida, rimane una pura esteriorità, lontana assai dal suo modello, il
Boccaccio.
Volle
Battista raggiungere nella prosa quella idealità che il Poliziano poi raggiunse
nella poesia. Amendue maneggiano maestrevolmente il dialetto, ma abborrono dal
plebeo rozzo e licenzioso, e mirano a dare alla forma un aspetto signorile ed
elegante. Come il Poliziano vagheggiò una poesia illustre, così Battista
continua la prosa illustre di Dante e del Boccaccio. Patente è su di lui
l'influsso che esercita la prosa latina e la maniera del Boccaccio. Ne' suoi
trattati e dialoghi trovi prette voci latine, come “bene est”, “etiam”,
“idest”, “praesertim”; e parole e costruzioni e giri latini, come
“proibire” e “vietare”, e participii presenti e infiniti con costruzione
latina, e “affirmare”, “asseguire”, “conditore di leggi”, “duttore”,
“valitudine”, e moltissimi altri vocaboli simili. Anche nel collocamento delle
parole e nell'intreccio del periodo latineggia. Ma non è un barbaro, che ti
faccia strane mescolanze; anzi è uno spirito colto ed elegante, che ha nella
mente un tipo e cerca di realizzarlo. Mira a un parlare di gentiluomo, se non
con latina maestà, certo con gravità elegante ed urbana. E come è un toscano,
anzi un fiorentino, la latinità è temperata dalla vivezza e grazia paesana. Se
guardiamo a' trecentisti, il congegno del periodo, l'arte de' nessi e de'
passaggi, una più stretta concatenazione d'idee, una più intelligente distribuzione
degli accessorii, una più salda ossatura ti mostra qui una prosa più virile e
uno spirito più coltivato, fatto maturo dalla educazione classica. Pure, se per
queste qualità Battista avanza i trecentisti, è inferiore al Boccaccio, e
rimane molto al di qua dalla perfezione. La prosa non è nata ancora: ci è una
prosa d'arte, dove lo scrittore è più intento alla forma che alle cose, e mira
principalmente all'eleganza, alla grazia e alla sonorità. Come arte, i ritratti
di Battista sono ciò che la prosa ti dà di più compìto in questo secolo. Ma
sono frammenti, e tutti quasi vogliono gli ultimi tocchi, e nessuno si può dir
cosa così perfetta come è un quadro del Poliziano.
Cosa
dunque rimane vivo di Battista? Niuna cosa intera come il Decamerone,
fra le trentacinque sue opere. Rimangono di bei frammenti, quadri staccati. Il
secolo finisce, e non hai ancora il libro del secolo, quello che lo riassume e
lo comprende ne' suoi tratti sostanziali Se hassi a dir “secolo” un'età
sviluppata e compiuta in sè in tutte le sue gradazioni, come un individuo, il
primo secolo comprende il Dugento e il Trecento, il cui libro fondamentale è la
Commedia, e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo
compimento, la sua sintesi, nel Cinquecento. Il Petrarca è la transizione
dall'uno all'altro.
Il
Quattrocento è un secolo di gestazione ed elaborazione. È il passaggio dall'età
eroica all'età borghese, dalla società cavalleresca alla società civile, dalla
fede e dall'autorità al libero esame, dall'ascetismo e simbolismo allo studio
diretto della natura e dell'uomo, dalla barbarie scolastica alla coltura
classica. Hai un mutamento profondo nelle idee e nelle forme, di cui il secolo
non si rende ben conto. Hai perciò un immenso repertorio di forme e di
concetti: hai frammenti, manca il libro; hai l'analisi, manca la sintesi. Il
secolo ha tendenze varie e spiccate; ma non ne ha la coscienza. Nella sua
coscienza ci è questo solo chiaro e distinto, che la perfezione è ne' classici,
e che a quel modello bisogna conformarsi: onde lo studio dell'eleganza, della
bella forma in qualsivoglia contenuto. Perciò il grande uomo del secolo per
confessione de' contemporanei fu Angiolo Poliziano, che nelle Stanze si
accostò più a quell'ideale classico.
Ma
questo grande movimento, che più tardi si manifestò in Europa come lotta
religiosa, fu in Italia generalmente indifferenza religiosa, morale e politica,
con l'apoteosi della coltura e dell'arte. Il suo dio è Orfeo, e il suo ideale è
l'idillio, sono le Stanze. L'eleganza e il decoro delle forme è
accompagnato con la licenza de' costumi ed uno spirito beffardo, di cui i
frati, i preti e la plebe fanno le spese. Non era una borghesia che si andava
formando: era una borghesia che già aveva avuta la sua storia, e fra tanto
fiore di coltura e d'arte si dissolveva sotto le apparenze di una vita prospera
e allegra. A turbare i baccanali sorse sullo scorcio del secolo frate Geronimo
Savonarola, e parve l'ombra scura e vindice del medio evo che riapparisse
improvviso nel mondo tra frati e plebe, e gitta nel rogo Petrarca, Boccaccio,
Pulci, Poliziano, Lorenzo e gli altri peccatori, e rovescia il carro di Bacco e
Arianna, e ritta sul carro della Morte tende la mano minacciosa e con voce
nunzia di sciagure grida agli uomini: - Penitenza! Penitenza! - Tra questo
canto de' morti:
Dolor,
pianto e penitenza
ci
tormentan tutta via:
questa
morta compagnia
va
gridando: - Penitenza. -
Fummo
già come voi siete:
voi
sarete come noi:
morti
siam, come vedete;
così
morti vedrem voi.
E
di là non giova poi
dopo
il mal far penitenza.
La borghesia gaudente e scettica
chiamò quella gente i “piagnoni”, e quella gente pretese dal suo frate qualche
miracolo; e poichè il miracolo non fu potuto fare, si volse contro al frate.
Nessuna cosa dipinge meglio quale stacco era fra una borghesia colta e
incredula, e una plebe ignorante e superstiziosa. Su questi elementi non poteva
edificar nulla il frate. Voleva egli restaurare la fede e i buoni costumi
facendo guerra a' libri, a' dipinti e alle feste, come se questo fosse la causa
e non l'effetto del male. Il male era nella coscienza, e nella coscienza non ci
si può metter niente per forza. Ci vogliono secoli, prima che si formi una
coscienza collettiva; e formata che sia, non si disfà in un giorno. Chi mi ha
seguito e ha visto per quali vie lente e fatali si era formata questa coscienza
italiana, può giudicare qual criterio e quanto buon senso fosse nell'impresa
del frate. Nella storia c'è l'impossibile, come nella natura. E il frate, che
voleva rimbarbarire l'Italia per guarirla, era alle prese con l'impossibile.
Savonarola
fu una breve apparizione. L'Italia ripigliò il suo cammino, piena di confidenza
nelle sue forze, orgogliosa della sua civiltà. Quaranta anni di pace, la lega
medicea tra Napoli, Firenze e Milano, l'invenzione della stampa, la digestione
già fatta del mondo latino, l'apparizione e lo studio del mondo greco, la vista
in lontananza del mondo orientale, l'audacia delle navigazioni e l'ardore delle
scoperte, e tanto splendore e gentilezza di corti a Napoli, a Firenze, a
Urbino, a Mantova, a Ferrara, tanta prosperità e agiatezza e allegria della
vita, tanta diffusione ed eleganza della coltura e amore dell'arte avevano
ravvivate le forze produttive, indebolite nella prima metà del secolo, e creato
un movimento così efficace di civiltà, che non potè essere impedito o
trattenuto dalle più grandi catastrofi. Spuntava già la nuova generazione
intorno al Boiardo, al Pulci, a Lorenzo, al Poliziano. E i giovani si
chiamavano Nicolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, Ludovico Ariosto,
Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Bembo, Berni, tutta una falange
predestinata a compiere l'opera de' padri. L'un secolo s'intreccia talmente
nell'altro, che non si può dire dove finisca l'uno, dove l'altro cominci. Sono
una continuazione, un correre non interrotto intorno allo stesso ideale.
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