XII
IL
CINQUECENTO
Di questo ideale, di cui adombra
i lineamenti Giovanni Boccaccio, non hai finora che segni, indizi, frammenti.
Il suo lato positivo è una sensualità nobilitata dalla coltura e trasformata
nel culto della forma come forma, il regno solitario dell'arte nell'anima
tranquilla e idillica: di che trovi l'espressione filosofica nell'Accademia
platonica, massime nel Ficino e nel Pico, e l'espressione letteraria
nell'Alberti e nel Poliziano, a cui con pari tendenza, ma con minore abilità
tecnica e artistica, si avvicina il Boiardo. Il protagonista di questo mondo
nuovo è Orfeo, e il suo modello più puro e perfetto sono le Stanze.
Accanto al Poliziano, pittore della natura, sta Battista Alberti, pittore
dell'uomo. Attorno a questi due spuntano egloghe, elegie, poemetti bucolici,
rappresentazioni pastorali e mitologiche: la beata Italia in quegli anni di
pace e di prosperità s'interessava alle sorti di Cefalo e agli amori di Ergasto
e di Corimbo. Le accademie, le feste, le colte brigate erano un'Arcadia
letteraria, alla quale in quel vuoto ozio degli spiriti il pubblico prendeva
una viva partecipazione. A Napoli, a Firenze, a Ferrara si vivea tra novelle,
romanzi ed egloghe. Gli uomini, già cospiratori, oratori, partigiani, patrioti,
ora vittime, ora carnefici, sospiravano tra ninfe e pastori. E mi spiego
l'infinito successo che ebbe l'Arcadia del Sannazzaro, la quale parve a'
contemporanei l'immagine più pura e compiuta di quell'ideale idillico. Ma di
questo Virgilio napolitano non è rimasta viva che qualche sentenza felicemente
espressa, come:
L'invidia,
figliuol mio, se stessa macera...
Peggiora
il mondo e peggiorando invetera.
Nè della sua Arcadia è
oggi la lettura cosa tollerabile, e per la rigidità e artificio della prosa
monotona nella sua eleganza, e per un cotal vuoto e rilassatezza di azione e di
sentimento, che esprime a maraviglia quell'ozio interno, che oggi chiameremmo
noia, e allora era quella placidità e tranquillità della vita, dove ponevano
l'ideale della felicità.
Il
lato negativo di questo ideale era il comico, una sensualità licenziosa e
allegra e beffarda, che in nome della terra metteva in caricatura il cielo, e
rappresentava col piglio ironico di una coltura superiore le superstizioni, le
malizie, le dabbenaggini, i costumi e il linguaggio delle classi meno colte. Da
questa coltura sensuale, cinica e spiritosa uscì quell'epiteto, i “piagnoni”,
che fu a Savonarola più mortale della scomunica papale. I canti carnascialeschi
sono il tipo del genere: il suo poeta è il Boccaccio, il suo storico è il
Sacchetti, il suo istrione è il Pulci, il suo centro è Firenze. A questo lato
negativo si congiunge il Pomponazzi, che spezza ogni legame tra cielo e terra,
negando l'immortalità dell'anima. Era il vero motto, il segreto del secolo, la
coscienza filosofica di una società indifferente e materialista, che si
battezzava platonica, predicava contro i turchi e gli ebrei, voleva il suo
papa, il suo Alessandro sesto, che così bene la rappresentava, e non poteva
perdonare al Pomponazzi di dire ad alta voce i suoi segreti, quando ella
medesima non si aveva fatta ancora la domanda: - Cosa sono? E dove vado?
Questa
società tra balli e feste e canti e idilli e romanzi fu un bel giorno sorpresa
dallo straniero e costretta a svegliarsi. Era verso la fine del secolo. Il
Pontano bamboleggiava in versi latini e il Sannazzaro sonava la sampogna, e la
monarchia disparve, come per intrinseca rovina, al primo urto dello straniero.
Carlo ottavo correva e conquistava Italia col gesso. Trovava un popolo che
chiamava lui un barbaro, nel pieno vigore delle sue forze intellettive e nel
fiore della coltura, ma vuota l'anima e fiacca la tempra. Francesi, spagnuoli,
svizzeri, lanzichenecchi insanguinarono l'Italia, insino a che, caduta con fine
eroica Firenze, cesse tutta in mano dello straniero. La lotta durò un mezzo
secolo, e fu in questi cinquant'anni di lotta che l'Italia sviluppò tutte le
sue forze e attinse quell'ideale che il Quattrocento le aveva lasciato in
eredità.
All'ingresso
del secolo incontriamo Machiavelli e l'Ariosto, come all'ingresso del Trecento
trovammo Dante. Machiavelli aveva già trentun anno, e ventisei ne aveva
l'Ariosto. E sono i due grandi ne' quali quel movimento letterario si concentra
e si riassume, attingendo l'ultima perfezione.
Gittando
un'occhiata sull'insieme, è patente il progresso della coltura in tutta Italia.
Il latino e il greco è generalmente noto, e non ci è uomo colto che non iscriva
corretto ed anche elegante in lingua volgare, che oramai si comincia a dire
senz'altro lingua italiana. Ma fuori di Toscana il tipo della lingua si
discosta dagli elementi locali e nativi, e si avvicina al latino, producendo
così quella forma comune di linguaggio che Dante chiamava aulica e illustre. I
letterati, sdegnando i dialetti e vagheggiando un tipo comune, e riconoscendo
nel latino la perfezione e il modello, secondo l'esempio già dato dal Boccaccio
e da Battista Alberti, atteggiarono la lingua alla latina. E non pur la lingua,
ma lo stile, mirando alla gravità, al decoro, all'eleganza, con grave scapito
della vivacità e della naturalezza. Questo concetto della lingua e dello stile,
creazione artificiosa e puramente letteraria, ebbe seguito anche in Toscana,
come si vede ne' mediocri, quale il Varchi o il Nardi, e anche ne' sommi, come
nel Guicciardini e fino talora nel Machiavelli. La quale forma latina di
scrivere, sposata nel Boccaccio e nell'Alberti alla grazia e al brio del
dialetto, così nuda e astratta ha la sua espressione pedantesca negli Asolani
del Bembo, e giunge a tutto quel grado di perfezione di cui è capace nel Galateo
del Casa e nel Cortigiano del Castiglione. Ma in Toscana quella forma
artificiale di lingua e di stile incontrò dapprima viva resistenza, e senti
negli scrittori il sapore del dialetto, quella non so quale atticità, che nasce
dall'uso vivo, e che ti fa non solo parlare ma sentire e concepire a quella
maniera, come si vede nelle Novelle del Lasca, ne' Capricci del
bottaio e nella Circe del Gelli, nell'Asino d'oro e ne' Discorsi
degli animali di Agnolo Firenzuola. Ma anche in questi hai qua e là un
sentore della nuova maniera ciceroniana e boccaccevole, come non mancano fra
gli altri italiani uomini d'ingegno vivace, che si avvicinano alla spigliatezza
e alla grazia toscana, quale si mostra Annibal Caro negli Straccioni,
nelle Lettere, nel Dafni e Cloe. La lotta durò un bel pezzo tra
la fiorentinità e quella forma comune e illustre, che battezzavano lingua
italiana, cioè a dire tra la forma popolare o viva ed una forma convenzionale e
letteraria. Anche in Toscana gli uomini colti non si contentavano di dire le
cose alla semplice e alla buona, come faceva il Lasca e Benvenuto Cellini, ma
avevano innanzi un tipo prestabilito e cercavano una forma nobile e decorosa.
La borghesia voleva il suo linguaggio, e lo stacco si fece sempre più profondo
tra essa e il popolo.
Fioccavano
i rimatori. Da ogni angolo d'Italia spuntavano sonetti e canzoni. Le ballate, i
rispetti, gli stornelli, le forme spigliate della poesia popolare, andarono a
poco a poco in disuso. Il petrarchismo invase uomini e donne. La posterità ha
dimenticati i petrarchisti, e appena è se fra tanti rimatori sopravviva con
qualche epiteto di lode il Casa, il Costanzo, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa,
Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da Pietro Bembo, boccaccevole e
petrarchista, tenuto allora principe della prosa e del verso.
Certo,
prose e versi erano nel loro meccanismo di una buona fattura, e l'ultimo
prosatore o rimatore scrivea più corretto e più regolato che parecchi pregiati
scrittori de' secoli scorsi. E perchè tutti scrivevano bene e tutti sapevano
tirar fuori un sonetto o un periodo ben sonante, moltiplicarono gli scrittori,
e furono tentati tutt'i generi. Comparvero commedie, tragedie, poemi, satire,
orazioni, storie, epistole, tutto a modo degli antichi. Il Trissino scrivea l'Italia
liberata e la Sofonisba, Luigi Alamanni faceva il Giovenale e
monsignor della Casa contraffaceva Cicerone. A' misteri successero commedie e
tragedie, con magnifica rappresentazione. E non solo le forme del dire latine,
ma anche la mitologia s'incorporava nella lingua: e si giurò per gl'“iddii
immortali”, e Apollo, le muse, Elicona, il Parnaso, Diana, Nettuno, Plutone,
Cerbero, le ninfe, i satiri divennero luoghi comuni in prosa ed in verso.
Sapere il latino non era più un merito: tutti lo sapevano, come oggi il
francese, e mescolavano il parlare di parole latine, per vezzo o per maggiore
efficacia. Ci erano gl'improvvisatori, che nelle corti lì su due piedi
fabbricavano epigrammi e facezie, come oggi si fa i brindisi, e ne avevano in
merito qualche scudo o qualche bicchiere di buon vino, che Leone decimo dava
annacquato al suo “archipoeta”, un improvvisatore di distici, quando il distico
mal riusciva. E c'erano anche non pochi, che conoscevano ottimamente il latino
e lo scrivevano con rara perfezione, come il Sannazzaro, il Fracastoro e il
Vida, i cui poemi latini sono ciò che di più elegante siesi scritto in quella
lingua ne' tempi moderni. Aggiungi le odi ed elegie del Flaminio.
Latinisti
e rimatori erano le due più grosse schiere de' letterati. Nelle loro opere
l'importante è la frase, un certo artificio di espressione, che riveli
nell'autore coltura e conoscenza de' classici. I lettori non meno colti ed
eruditi rimanevano ammirati, trovando nel loro libro le orme del Boccaccio o
del Petrarca, di Virgilio o di Cicerone. Pareva questa imitazione il capolavoro
dell'ingegno. E mi spiego come uomini assai mediocri furono potuti tenere in
così gran pregio, quali Pietro Bembo, il caposcuola, e monsignor Guidiccioni e
Bernardo Tasso e simili, noiosissimi. Ma la frase, in tanta insipidezza del
fondo, non poteva essere sufficiente alimento all'attività di una borghesia
così svegliata ed eccitata, che decorava la sua sensualità e il suo ozio co'
piaceri dello spirito. Salse piccanti si richiedevano, fatti maravigliosi e
straordinari, intrecciati in modo che stimolassero la curiosità e tenessero
viva l'attenzione. L'intrigo diviene la base delle novelle, de' romanzi, delle
commedie e delle tragedie, un intrigo così avviluppato che è assai vicino al
garbuglio. Si cerca ne' fatti il nuovo e lo strano, che stuzzichi
l'immaginazione, il buffonesco e l'osceno nella commedia, il mostruoso e
l'orribile nella tragedia. Dall'una parte ci è la frase, vacua sonorità,
dall'altra il fatto, il vacuo fatto uscito dal caso; e come la frase oltrepassa
l'eleganza ed è pretensiosa, come nel Bembo, o leziosa e civettuola, come nel
Firenzuola o nel Caro, così il fatto, per voler troppo stuzzicare, diviene
osceno o mostruoso, e sempre assurdo. Il realismo abbozzato dal Boccaccio,
sviluppato nel Quattrocento, corre ora a passo accelerato alle ultime
conseguenze: la dissoluzione morale e la depravazione del gusto. Ci è nella
società italiana una forza ancora intatta, che in tanta corruzione la mantiene
viva, ed è nel pubblico l'amore e la stima della coltura, e negli artisti e
letterati il culto della bella forma, il sentimento dell'arte. In quella forma
letteraria e accademica vedevano gl'italiani una traduzione della lingua viva,
il parlare quotidiano idealizzato, secondo quel modello dove ponevano la
perfezione, ed eran larghi non pur di lodi, ma di quattrini e di onori a questi
artefici della forma. I centri letterari moltiplicarono; comparvero nuove
accademie; e le più piccole corti divennero convegni di letterati, i più oscuri
principi volevano il segretario che ponesse in bello stile le loro lettere, e
letterati e artisti che li divertissero. Il centro principale fu a Roma, nella
corte di Leone decimo, dove convenivano d'ogni parte novellatori,
improvvisatori, buffoni, latinisti, artisti e letterati, come già presso
Federico secondo. Anche i cardinali avevano segretari e parassiti di questa
risma; anche i ricchi borghesi, come il conte Gambara di Brescia, il Chigi, i
Sauli a Genova, i Sanseverino a Milano. Intorno a Domenico Veniero in Venezia
si aggruppavano Bernardo Tasso, Trifon Gabriele, il Trissino, il Bembo, il
Navagero, Speron Speroni; a Vittoria Colonna facevano cerchio in Napoli il
vecchio Sannazzaro, e il Costanzo, il Rota, il Tarsia. Da questi noti
s'indovini la caterva de' minori. Pensioni, donativi impieghi, abbazie,
canonicati, era la manna che piovea sul loro capo. E c'era anche la gloria:
onorati, festeggiati, divinizzati, e senza discernimento confusi i sommi e i
mediocri. Furono chiamati “divini”, con Michelangelo e l'Ariosto, Pietro
Aretino e il Bembo, e Bernardo Accolti, detto anche l'“unico”. Costui, fatto
duca, usciva con un corteggio di prelati e guardie svizzere; dove giungeva,
s'illuminavano le città, si chiudevano le botteghe, si traeva ad udire i suoi
versi dimenticati: tanti onori non furono fatti al Petrarca. I letterati
acquistarono coscienza della loro importanza: pitocchi e adulatori, divennero
insolenti, e si posero in vendita, e la loro storia si può riassumere in quel
motto di Benvenuto Cellini: “Io servo a chi mi paga”. Come si facevano statue,
quadri, tempi per commissioni, così si facevano storie, epigrammi, satire,
sonetti a richiesta, e spesso l'ingiuria era via a vendere a più caro prezzo la
lode. In quest'aria viziata gli uomini anche meno corrotti divenivano servili e
ciarlatani per far valere la merce. Non ci è immagine più straziante che vedere
l'ingegno appiè della ricchezza, e udir Machiavelli chiedere qualche ducato a
Clemente settimo, e l'Ariosto gridare al suo signore che non aveva di che
rappezzarsi il manto, e veder Michelangelo, quando,
...
da' rei tempi costretto,
eroi
dipinse a cui fu campo il letto:
sdegnose parole di Alfieri.
Soverchiavano i mediocri con l'audacia, la ciarlataneria, l'intrigo e la
bassezza, ora addentandosi, ora strofinandosi, temuti e corteggiati. Vecchia
storia; ed è a credere che la cosa fosse pure così a' tempi di Federico o di
Roberto. Se non che allora la dottrina era merce rara, e richiedeva molta
fatica ad acquistarla; dove ora la coltura e il sapere era diffuso, e lo
scrivere in prosa e in verso era divenuto un vero meccanismo, facile a
imparare, che teneva luogo d'ispirazione, e per la somiglianza esteriore
confondeva nella stessa lode sommi e mediocri. Di grandi uomini è pieno quel
secolo, se si dee stare a' giudizi de' contemporanei. Francesco Arsilli nella
sua elegia De poëtis urbanis ti dà la lista di cento poeti latini nella
sola corte di Leone decimo, e lo stesso Ariosto celebra nomi oggi dimenticati.
Bernardo Tasso, il Rucellai, l'Alamanni, il Giovio, lo Scaligero, il Muzio, il
Doni, il Dolce, il Franco e altri infiniti furono tenuti cime d'uomini, che
oggi nessuno più legge. Pure ne' più, anche ne' mediocrissimi, era viva la fede
nella loro arte e lo studio di rendervisi perfetti. Venale era il Giovio, e
ossequioso cortigiano era Bernardo Tasso, ma quando prendevano la penna, c'era
qualche cosa nel loro animo che li nobilitava, ed era lo studio della
perfezione, il prendere sul serio il loro mestiere.
Quest'era
la sola forza, la sola virtù rimasta intatta. La corruzione e la grandezza del
secolo non era merito o colpa di principi o letterati, ma stava nella natura
stessa del movimento, ond'era uscito, che ora si rivelava con tanta precisione,
generato non da lotte intellettuali e novità di credenze, come fu in altri
popoli, ma da una profonda indifferenza religiosa, politica, morale,
accompagnata con la diffusione della coltura, il progresso delle forze
intellettive e lo sviluppo del senso artistico. Qui è il germe della vita e qui
è il germe della morte; qui è la sua grandezza e la sua debolezza.
Questo
movimento è già come in miniatura tutto raccolto presso il Boccaccio, il quale,
se riproduce con vivacità le apparenze, non ne ha coscienza, e non sa qual
mondo nuovo sia in fermentazione sotto le sue ciniche caricature. Del qual
mondo nuovo appariscono i frammenti dal Sacchetti al Pulci, che ne fissano il
lato negativo e comico, mentre il suo ideale trasparisce già nell'Alberti, nel
Boiardo, nel Poliziano. La violenta reazione del Savonarola non fa che
accrescere forza e celerità al movimento e dargli coscienza di sè. Il secolo
decimosesto nella sua prima metà non è che questo medesimo movimento scrutato
profondamente, rappresentato nel suo insieme, e condotto per le varie sue forme
sino al suo esaurimento. È la sintesi che succede all'analisi.
Qual
è il lato positivo di questo movimento? È l'ideale della forma, amata e
studiata come forma, indifferente il contenuto.
E
qual è il suo lato negativo? È appunto l'indifferenza del contenuto, una specie
di eccletismo negli uni, come Raffaello, Vinci, Michelangelo, il Ficino, il Pico,
che abbracciano ogni contenuto, perchè ogni contenuto appartiene alla coltura,
all'arte e al pensiero; eccletismo accompagnato negli altri da una satira
allegra e senza fiele di quei princìpi e forme e costumi del passato ancora in
credito presso le classi inculte.
Ciò
che è divino in questo movimento è l'ideale della forma, o per trovare una
frase più comprensiva, è la coltura presa in se stessa e deificata. Il lato
comico e negativo non è esso medesimo che una rivelazione della coltura.
Il
“limbo” di Dante e l'Amorosa visione del Boccaccio fanno già presentire
quest'orgoglio di un'età nuova, che comprendeva e glorificava tutta la coltura.
Orfeo annunzia al suono della lira la nuova civiltà, che ha la sua apoteosi
nella Scuola di Atene, ispirazione dantesca di Raffaello, rimasta così
popolare, perch'ivi è l'anima del secolo, la sua sintesi e la sua divinità.
Questa Scuola d'Atene, con i tre quadri compagni che comprendono nel
loro sviluppo storico teologia, poesia e giurisprudenza, è il poema della coltura,
di così larghe proporzioni come il paradiso di Dante, aggiuntovi il limbo. Il
quadro diviene una vera composizione, come lo vagheggiava Dante ne' suoi
dipinti del purgatorio: il suo santo Stefano e il suo Davide hanno un riscontro
nel Cenacolo, nella Sacra famiglia, nella Trasfigurazione,
nel Giudizio, poemi sparsi qua e là di presentimenti drammatici. Il
pittore vagheggia la bellezza nella forma come l'Alberti o il Poliziano, e
studia possibilmente a non alterare con troppo vivaci commozioni la serenità e
il riposo de' lineamenti: perciò riescono figure epiche anzi che drammatiche.
Quel non so che tranquillo e soddisfatto, che senti nelle stanze del Poliziano,
e ti avvicina più al riposo della natura che all'agitazione della faccia umana,
quella “pace tranquilla senz'alcuno affanno” è l'impronta di queste belle
forme: salvo che quella pace non è già “simile a quella che nel cielo india”,
un ideale musicale, come Beatrice e Laura, ma vien fuori da uno studio del
reale ne' suoi più minuti particolari. Senti che il pittore ha innanzi un
modello accuratamente studiato e contemplato con amore, che nella sua
immaginazione si compie, e prende quella purezza e riposo di forma, che
Raffaello chiamava “una certa idea”. In questa certa idea ci entra pure alcun poco
il classico, il convenzionale e la scuola; difetti appena visibili ne' lavori
geniali, usciti da una sincera ispirazione, dove domina il sentimento della
bellezza e lo studio del reale. Così nacquero le Madonne del secolo, nella cui
fisonomia non è l'inquietudine, l'astrazione e l'estasi della santa, ma la
ingenua e idillica tranquillità della verginità e dell'innocenza. Queste facce
si vanno sempre più realizzando, insino a che nella immaginazione veneziana di
Tiziano pigliano una forma quasi voluttuosa.
La
stessa larghezza di concezione nella purezza e semplicità de' lineamenti trovi
nell'architettura: il gotico è debellato dal Brunelleschi; si collega insieme
l'ardito e il semplice, Michelangiolo e Palladio. Chi ricordi in che guisa
l'Alberti rappresenta il duomo di Firenze, può concepire il San Pietro, la
vasta mole, che è il medio evo nella sua materia e il mondo nuovo ne' suoi
motivi, la vera e profonda sintesi di tutto quel gran movimento, che ti offriva
nell'apparenza lo stesso mondo del passato, quelle forme, quei nomi, quei
costumi, que' concetti e quella materia, pure sostanzialmente trasformato ne'
suoi motivi, uscito dalla coscienza e divenuto un puro ideale artistico,
l'ideale della forma. Questa materia antica penetrata di uno spirito nuovo
nella sua vasta comprensione epica, dove trovi fusi tutti gli elementi della
nuova civiltà, ti dà anche la letteratura nell'Orlando furioso. La Scuola
di Atene, il San Pietro, l'Orlando furioso sono le tre grandi
sintesi del secolo.
L'Orlando
furioso ti dà la nuova letteratura sotto il suo duplice aspetto, positivo e
negativo. È un mondo vuoto di motivi religiosi, patriottici e morali, un mondo
puro dell'arte, il cui obbiettivo è realizzare nel campo dell'immaginazione
l'ideale della forma. L'autore vi si travaglia con la più grande serietà, non
ad altro inteso che a dare alla sua materia l'ultima perfezione, così
nell'insieme come ne' più piccoli particolari. Il poeta non ci è più, ma ci è
l'artista che continua il Petrarca, il Boccaccio, il Poliziano, e chiude il
ciclo dell'arte nella poesia. Ma poichè in fine questo mondo così bello,
edificato con tanta industria, non è che un giuoco d'immaginazione, vi penetra
un'ironia superiore, che se ne burla e vi si spassa sopra col più allegro
umore. La parte plebea, che nel Decamerone occupa il proscenio, qui
giace ne' bassi fondi, con la sua oscenità e la sua buffoneria, e sorge a galla
il mondo della cortesia e del valore, ne' suoi più bei colori, ma accompagnato
da questo sentimento, che è un bel sogno: la realtà si fa valere e disfà il
castello incantato. È la visione severa di un'anima ricca che si effonde in
amabili fantasie, elegiaca nelle sue turbazioni, idillica nelle sue gioie, con
non altro fine e non altra serietà che la produzione artistica. Nelle arti
figurative, la produzione è accompagnata con un perfetto obblio dell'anima
nella sua creatura: Raffaello è tutto intero nella sua opera, e non guarda mai
fuori, e realizza la sua idea con quella serietà con la quale Dante costruisce
l'altro mondo. L'ideale della forma, che si esprime con tanta serietà nelle
arti, non ha ancora la coscienza che esso è mera forma, mero giuoco
d'immaginazione. Ma qui l'arte si manifesta e si sente pura arte, e sa che il
mondo reale non è quello, e accompagna con un sorriso la sua produzione. In
questo sorriso, in questa presenza e coscienza del reale tra le più geniali
creazioni è il lato negativo dell'arte, il germe della dissoluzione e della
morte.
Intorno
a questo mondo ariostesco pullulano poemi e romanzi e novelle. Lascio stare il
Girone e l'Avarchide dell'Alamanni, prette imitazioni, senza alcuna
serietà. Dirò un motto di due che tentarono vie nuove, il Trissino e Bernardo
Tasso. A tutti e due spiacque il sorriso ariostesco. Orlando e Rinaldo parvero
al Trissino, non altrimenti che al cardinale d'Este, delle “corbellerie”, fole
e capricci di cervello ozioso. Cercando nella storia le sue ispirazioni e in
Omero il suo modello, scrisse l'Italia liberata dà' Goti. Nella sua
intenzione dovea essere un poema eroico e serio come l'Iliade, che
chiamasse l'Italia ad alti e virili propositi. Ma il Trissino non era che un
erudito, non poeta e non patriota, e non potea trasfonder negli altri un
eroismo che non era nella sua anima, e nemmeno nella sua arida immaginazione.
Di eroico non c'è nel suo poema che le armi e le divise: manca l'uomo. La sua
punizione fu il silenzio e la dimenticanza, e il poveruomo, non volendo recarne
la colpa a difetto d'ingegno, se la piglia con l'argomento, e prorompe:
Sia
maledetta l'ora e il giorno, quando
presi
la penna e non cantai d'Orlando.
Ma l'argomento cavalleresco non
valse a salvare dal naufragio Bernardo Tasso, che nel suo Floridante e
nel suo Amadigi, più noto, vagheggiò una rappresentazione epica più
conforme a' precetti dell'arte e lontana da ciò ch'egli diceva licenza
ariostesca. Non piacque al pubblico, ma piacque a Speron Speroni, come il Girone
era piaciuto al Varchi. E il pubblico avea ragione; chè non s'intendeva di
Aristotile e di Omero, e non poteva pigliare sui serio gli eroi cavallereschi,
si chiamassero Orlando o Amadigi. Bernardo è tutto fiori e tutto mèle, così
artificiato e prolisso lui, come il Trissino negletto e arido, tutti e due
noiosi. Piacque invece l'Orlando innamorato rifatto dal Berni, dove la
soverchia e uniforme serietà del testo è temperata da forme ed episodi comici
appiccativi dal Berni. Ma il comico non passa la buccia e non penetra
nell'intimo stesso di quel mondo e non lo trasforma, e il Berni mi fa l'effetto
di quel buffone nelle commedie, posto lì per far ridere il pubblico co' suoi
lazzi, mentre gli attori accigliati conservano la lor posa tragica.
Scrivere
romanzi diviene un mestiere: l'epopea ariostesca è smembrata, e i suoi episodi
diventano romanzi. Sei ne scrive Lodovico Dolce, tra' quali Le prime imprese
di Orlando. Il Brusantini ferrarese canta Angelica innamorata, il
Bernia canta Rodomonte, il Pescatore Ruggiero, e Francesco de'
Lodovici Carlo Magno. Romanzi con la stessa facilità composti,
applauditi e dimenticati. Accanto agl'imitatori del Petrarca e del Boccaccio
sorgono gl'imitatori dell'Ariosto.
Il
mondo ariostesco nel suo lato positivo si collega con l'idillio, e nel suo lato
negativo con la satira e la novella.
Dal
Petrarca e dal Boccaccio al Poliziano l'idillio è la vera musa della poesia
italiana, la materia nella quale lo spirito realizza l'ideale della pura forma,
l'arte come arte. In quella grande dissoluzione sociale la poesia lascia le
città e trova il suo ideale ne' campi, tra ninfe e pastori, fuori della
società, o piuttosto in una società primitiva e spontanea.
Là
trovi quell'equilibrio interiore, quella calma e riposo della figura, quella
perfetta armonia de' sentimenti e delle impressioni, che chiamavano l'“ideale
della bellezza” o della “bella forma”. Questo spiega la grande popolarità delle
Stanze, dove questo ideale si vede realizzato con grande perfezione.
Sono imitazioni la Ninfa tiberina del Molza e il Tirsi del Castiglione.
Nella Ninfa tiberina hai di belle stanze: Euridice in fuga con alle
spalle l'innamorato Aristeo è così dipinta:
La
sottil gonna in preda ai venti resta,
e
col crine ondeggiando indietro torna.
Ella
più ch'aura o più che strale presta
per
l'odorata selva non soggiorna,
tanto
che il lito prende snella e mesta,
fatta
per la paura assai più adorna.
Esce
Aristeo la vaga selva anch'egli,
e
la man par avergli entro i capegli.
Tre
volte innanzi la man destra spinse
per
pigliar de le chiome il largo invito;
tre
volte il vento solamente strinse,
e
restò lasso senza fin schernito.
Maniera corretta, e nulla più.
Manca in queste stanze il movimento, il brio, il sentimento, o piuttosto la
voluttà idillica del Poliziano. La stessa parca lode è a fare de' due poemi
idillici, le Api del Rucellai e la Coltivazione dell'Alamanni. Ci
è la naturalezza, manca il sangue.
L'idillio
fu la moda dell'Italia ne' suoi anni di pace e di prosperità. Era il riposo
voluttuoso di una borghesia stanca di lotte e ritirata deliziosamente nella
vita privata, fra ozi e piaceri eleganti. Ora tra il rumore delle armi, fra
tante avventure e agitazioni della vita sottentra il romanzo cavalleresco.
L'idillio cessa di essere un genere vivo, e va a raggiungere il platonismo e il
petrarchismo. Gli angeli e il paradiso, Giove e Apollo, le piagge apriche e i
vaghi colli, i languori di Tirsi e le smanie di Aristeo fanno lega insieme, e
n'esce un vasto repertorio di luoghi comuni, dove attingono poeti e poetesse:
chè di poetesse fu anche fecondo il secolo.
Il
Quattrocento ondeggiava tra l'idillio e il carnevale: ozio di villa e ozio di
città. La quiete idillica era il solo ideale superstite, nella morte di tutti
gli altri, presso una società sensuale e cinica, la cui vita era un carnevale
perpetuo. Celebri diventano il carnevale di Venezia e il carnevale di Roma. I
canti carnascialeschi fanno il giro d'Italia. La buffoneria, l'equivoco osceno,
lo scherzo grossolano diventano un elemento importante della letteratura in
prosa e in verso, l'impronta dello spirito italiano. Le accademie sono il
semenzaio di lavori simili. Esse rassomigliano quelle liete brigate di
buontemponi e fannulloni, che ispirarono il Decamerone, modello del
genere. Sono letterati ed eruditi, in pieno ozio intellettuale, che fanno per
sollazzarsi versi e prose sopra i più frivoli argomenti, tanto più ammirati per
la vivacità dello spirito e l'eleganza delle forme, quanto la materia è più
volgare. Strani sono i nomi di queste accademie e di questi accademici, come lo
Impastato, il Raggirato, il Propaginato, lo Smarrito, ecc. E recitano le loro
dicerie, o come dicevano, “cicalate” sull'insalata, sulla torta ,sulla
ipocondria, inezie laboriose. Simili cicalate fatte in verso erano dette
“capitoli”: il Casa canta la gelosia, il Varchi le ova sode, il Molza i fichi,
il Mauro la bugia, il Caro il naso lungo; si cantano le cose più volgari e anco
più turpi, e spesso con equivoci e allusioni oscene, al modo di Lorenzo, il
maestro del genere. Il carnevale dalla piazza si ritira nelle accademie, e
diviene più attillato, ma anche più insipido. Tra queste accademie era quella
dei Vignaiuoli a Roma, dove recitavano il Mauro, il Casa, il Molza, il Berni
tra prelati e monsignori. Il Berni piacque fra tutti, e si disputavano i suoi
capitoli, e se li passavano di mano in mano.
Francesco
Berni, “maestro e padre del burlesco stile”, detto poi “bernesco”, è l'eroe di
questa generazione, erede di Giovanni Boccaccio e di Lorenzo, nella sua
sensualità ornata dalla coltura e dall'arte. Nella sua ammirazione per questo
“primo e vero trovatore” dello stile burlesco, il Lasca dice:
Non
sia chi mi ragioni di Burchiello;
che
saria proprio come comparare
Caron
dimonio all'agnol Gabriello.
Buontempone, amico del suo comodo
e del dolce far niente, la sua divinità è l'ozio più che il piacere:
Cacce,
musiche, feste, suoni e balli,
giochi,
nessuna sorte di piaceri
troppo il movea...
Onde
il suo sommo bene era in iacere
nudo,
lungo, disteso; e 'l suo diletto
era
il non far mai nulla e starsi in letto.
Ma il poveruomo è costretto a
lavorare per guadagnarsi la vita, e fa il segretario, come tutti quasi i
letterati di quel tempo, a' servigi di questo e quel cardinale:
aveva
sempre in seno e sotto il braccio
dietro
e innanzi di lettere un fastello,
e
scriveva e stillavasi il cervello.
Dietro a' capricci del suo
padrone, una volta non ne può più, chè ha sonno, e dee stare lì a guardarlo
giocare la primiera:
Può
far la nostra donna ch'ogni sera
io
abbia a stare a mio marcio dispetto
infino
alle undici ore andarne a letto
a
petizion di chi gioca a primiera?
Direbbon
poi costoro: - Ei si dispera,
e
a' maggiori di sè non ha rispetto. -
Corpo
di... , io l'ho pur detto:
hassi
a vegliar la notte intera intera?
La morte di papa Leone gitta il
terrore tra' letterati, che vedono mancare la mangiatoia, e più quando il
successore è Adriano sesto spagnuolo, oltramontano, avaro, contadino, e non so
quanti altri epiteti gli appicca nella sua indignazione il Berni:
Pur
quando io sento dire oltramontano
vi
fo sopra una chiosa col verzino,
“idest
nemico del sangue italiano”.
Era in fondo un brav'uomo, senza
fiele, un buon compagnone, col quale si passava piacevolmente un quarto d'ora,
anima tranquilla e da canonico, vuota di ambizioni e di cupidigie e di
passioni, e anche d'idee. Sapea di greco, e più di latino, e fece anche lui i
suoi bravi versi latini e i suoi sonetti petrarcheschi, come portava il tempo.
Scrivea il più spesso a “sfogamento di cervello, il maggior suo passatempo”.
Non cercava l'eleganza, per fuggire fatica, e gli veniva “il sudor della
morte”, quando si dovea “metter la giornea” e rispondere “per le consonanze o
per le rime” a lettere eleganti. Lo scrivere stesso gli era fatica. “A vivere
avemo sino alla morte, - dice al Bini, - a dispetto di chi non vuole, e il
vantaggio è vivere allegramente, come conforto a far voi, attendendo a
frequentar quelli banchetti che si fanno per Roma, e scrivendo soprattutto il
manco che potete; quia haec est victoria quae vincit mundum”. Si
qualifica “asciutto di parole, poco cerimonioso e intrigato in servitù”: ottime
scuse alla sua pigrizia. E quando lo assediano e lo tormentano e si dolgono che
non risponda, e non li ami e li dimentichi, gli viene la stizza:
Perchè
m'ammazzi con le tue querele,
Priuli
mio, perchè ti duoli a torto,
che
sai che t'amo più che l'orso il miele?
Sai
che nel mezzo del petto ti porto
serrato,
stretto, abbarbicato e fitto,
più
che non son le radici nell'orto:
se
ti lamenti perchè non ti ho scritto...
E qui si calma la stizza, e vince
la pigrizia, e la lettera finisce con un eccetera. Benedetta pigrizia, che lo
fa parlare “come gli viene alla bocca” e gli fa scriver lettere che sono “un
zucchero di tre cotte”, intarsiate di brevi motti latini per vezzo, le più
saporite e semplici e disinvolte in quel tempo de' segretari, che se ne
scrissero tante e così sudate! E non bastava che dovesse scriver lettere per
forza, chè volevano da lui anche i capitoli e i sonetti con la coda. - Fateci
un capitolo sulla primiera!
“Compare,
- scrive il poveruomo, - io non ho potuto tanto schermirmi, che pure mi è
bisognato dar fuori questo benedetto capitolo e commento della primiera, e
siate certo che l'ho fatto, non perchè mi consumassi d'andare in istampa, nè
per immortalarmi come il cavalier Casio, ma per fuggire la fatica mia e la
malevolenzia di molti che, domandandomelo e non lo avendo, mi volevano mal di
morte. Avendogliel' a dare, mi bisognava o scriverlo o farlo scrivere; e l'uno
e l'altro non mi piaceva troppo, per non m'affaticare e non m'obbligare.”
Eccolo dunque costretto a fare il
capitolo, e poi a stamparlo; eccolo immortale a suo dispetto. E scrisse sulle
anguille, i cardi, la peste, le pesche, la gelatina, e sopra Aristotile, il
quale
ti
fa con tanta grazia un argomento,
che
te lo senti andar per la persona
fino
al cervello e rimanervi drento.
Così venner fuori capitoli,
sonetti, epistole, dove vivono eterni i capricci e i ghiribizzi di un cervello ozioso
e ameno. Il successo fu grande. Dicono, perchè era fiorentino e maneggiava
assai bene la lingua. Ed è un dir poco. Il vero è che il Berni ha una
intuizione immediata e netta delle cose, che rende vive e fresche con facilità
e con brio. Tra lui e la cosa non ci è nessun mezzo, o imitazione, o artificio
di stile, o repertorio; egli l'attinge direttamente secondo l'immagine che gli
si presenta nel cervello. E l'immagine è la cosa stessa in caricatura, guardata
cioè da un punto che la scopra tutta nel suo aspetto comico. Il quale aspetto
balza improvviso innanzi alla nostra immaginazione, perchè non esce fuori a
pezzi e a bocconi da una descrizione, ma ti sta tutto avanti per virtù di
somiglianze o di contrasti inaspettati. Tale è la pittura di maestro Guazzaletto,
e la mula di Florimonte, e la bellezza della sua donna, contraffazione della
Laura petrarchesca. In questi ritratti a rapporti non hai niente che stagni o
langua; hai una produzione continua, che ti tien desto e ti sforza a ire
innanzi insino a che il poeta trionfalmente ti accomiata:
Ora
eccovi dipinta
una
figura arabica, un'arpia,
un
uom fuggito dalla notomia.
Fin qui avevamo visto dal
Boccaccio al Pulci messa in caricatura plebe e frati; e anche il Berni ci si
prova nella Catrina e nel Mogliazzo, imitazioni caricate di
parlari e costumi plebei, inferiori per grazia e spontaneità alla Nencia.
Ma la materia ordinaria del Berni è la caricatura della borghesia, in mezzo a
cui viveva. Non è più la coltura che ride dell'ignoranza e della rozzezza, è la
coltura che ride di se stessa: la borghesia fa la sua propria caricatura. Il
protagonista non è più il cattivello di Calandrino, ma è il borghese vano,
poltrone, adulatore, stizzoso, sensuale e letterato, la cui immagine è lo
stesso Berni, che mena in trionfo la sua poltroneria e sensualità. L'attrattivo
è appunto nella perfetta buona fede del poeta, che ride de' difetti propri e
degli altrui, come di fragilità perdonabili e comuni, delle quali è da uomo di
poco spirito pigliarsi collera. Il guasto nella borghesia era già così profondo
e tanto era oscurato il senso morale, che non si sentiva il bisogno
dell'ipocrisia, e si mostravano servili e sensuali uomini per altre parti
commendevoli; com'erano moltissimi letterati e il nostro Berni, “il dabbene e
gentile” Berni, dice il Lasca, che si dipinge a quel modo con piena
tranquillità di coscienza, e non pensa punto che gliene possa venire dispregio.
Quando certi vizi diventano comuni a tutta una società, non generano più
disgusto e sono magnifica materia comica, e possono stare insieme con tutte le
qualità di un perfetto galantuomo. Il Berni è poltrone e sensuale e cortigiano,
e non lo dissimula, ciò che farebbe ridere a sue spese, anzi lo mette in
evidenza, cogliendone l'aspetto comico, come fa un uomo di spirito, che non
crede per questo ne scapiti la sua riputazione. Questa credenza o perfetta
buona fede lo mette in una situazione netta e schiettamente comica, sì ch'egli
contempla e vagheggia il suo difetto senz'alcuna preoccupazione di biasimo e
con perfetta libertà di artista. È sottinteso che in questi ritratti berneschi
non è alcuna profondità o serietà di motivi; appena la scorza è incisa: ci è la
borghesia spensierata e allegra, che non ha avuto ancora tempo di guardarsi in
seno, ed è tutto al di fuori, nella superficie delle cose. Questa
superficialità e spensieratezza è anch'essa comica, è parte inevitabile del
ritratto. Perciò la forma comica sale di rado sino all'ironia, e rimane
semplice caricatura, un movimento e calore d'immaginazione, com'è generalmente
ne' comici italiani, a cominciare dal Boccaccio. Dove non è immaginazione
artistica, il comico non si sviluppa, ed il difetto rimane prosaico, e perciò
disgustoso, come è in tutti gli scrittori di proposito osceni. Ne' ritratti del
Berni entra anche l'osceno, ingrediente di obbligo a quel tempo; ma non è lì
che attinge la sua ispirazione, non vi si piace e non vi si avvoltola. Ciò che
l'ispira non è il piacere dell'osceno, o la seduzione del vizio, ma è un
piacere tutto d'immaginazione e da artista, che senti nel brio e nella facilità
dello stile, e che mettendo in moto il cervello gli fa trovare tanta novità di
forme, d'immagini e di ravvicinamenti, come è il ritratto della sua cameriera,
e l'altro, un vero capolavoro, della sua famiglia. Ecco perchè il Berni è tanto
superiore a' suoi imitatori ed emuli, freddamente osceni e buffoni. Pure la
buffoneria oscena diviene l'ingrediente de' banchetti, delle accademie e delle
conversazioni, e invade la letteratura, quasi condimento e salsa dello spirito:
la statua di Pasquino diviene l'emblema della coltura. Ci erano capitoli e
sonetti: sorgono poemi interi berneschi, com'è la Vita di Mecenate del
Caporali, di una naturalezza spesso insipida e volgare, e il suo Viaggio al
Parnaso, e la Gigantea dell'Arrighi, e la Nanea del Grazzini,
o i Nani vincitori de' giganti. Di tanti poeti berneschi si nomina oggi
appena il Caporali. Nondimeno questa lirica bernesca è la sola viva in questo
secolo. Gli stessi poeti petrarcheggiando annoiano, e si fanno leggere
piacevoleggiando; perchè i loro sospiri d'amore escono da un repertorio già
vecchio di concetti e di frasi, e non corrispondono allo stato reale della
società e della loro anima; dove in quel piacevoleggiare ci è il secolo, ci è
loro, e non ci è ancora modelli o forme convenzionali, e qualche cosa dee pur
venire dal loro cervello.
I
canti carnascialeschi, come i rispetti e le ballate e le serenate, erano legati
con la vita pubblica; ora il circolo della vita si restringe: la vita
letteraria è nelle accademie e tra' convegni privati. Per le piazze si aggirano
ancora i cantastorie e si sentono canzoni plebee. Ma la coltura se ne
allontana, e la trovi in corte o nell'accademia o nelle conversazioni, centri
di allegria spensierata e licenziosa; però da gente colta, che sa di greco e di
latino, che ammira le belle forme e cerca ne' suoi divertimenti l'eleganza, o
come dicevasi, il “bello stile”. Vi si recitavano capitoli, sonetti, poemi
burleschi, poemi di cavalleria e novelle. Come però l'arte è una merce rara e
la produzione era infinita, il pubblico diveniva meno severo, e pur d'esser
divertito non mirava tanto pel sottile nel modo. In sostanza questa borghesia
spensierata e oziosa era sotto forme così linde vera plebe, mossa dagli stessi
istinti grossolani e superficiali, la curiosità, la buffoneria, la sensualità,
e quando quest'istinti erano accarezzati, accettava tutto, anche il mediocre,
anche il pessimo: il che era segno manifesto di non lontana decadenza.
Questa
letteratura comica o negativa si sviluppa in modo prodigioso. Accanto a'
capitoli e a' romanzi moltiplicano le novelle. Il cantastorie diviene l'eroe
della borghesia. E tutti hanno innanzi lo stesso vangelo, il Decamerone.
Il petrarchismo era una poesia di transizione, che in questo secolo è un così
strano anacronismo come l'imitazione di Virgilio o di Cicerone. Ma il Decamerone
portava già ne' suoi fianchi tutta questa letteratura, era il germe che
produsse il Sacchetti, il Pulci, Lorenzo, il Berni, l'Ariosto e tutti gli
altri.
Quasi
ogni centro d'Italia ha il suo Decamerone. Masuccio recita le sue
novelle a Salerno, il Molza scrive a Roma il suo decamerone, e il Lasca le sue
Cene a Firenze, e il Giraldi a Ferrara i suoi Ecatommiti o cento favole,
e Antonio Mariconda a Napoli le sue Tre giornate, e Sabadino a Bologna
le sue Porretane, e quattordici novelle scrive il milanese Ortensio
Lando, e Francesco Straparola scrive in Venezia le sue Tredici piacevoli
notti, e Matteo Bandello il suo novelliere, e le sue diciassette novelle il
Parabosco. A Roma si stampano le novelle del Cadamosto da Lodi e di monsignor
Brevio da Venezia. A Mantova si pubblicano le novelle di Ascanio de' Mori,
mantovano, e a Venezia escono in luce le Sei giornate di Sebastiano
Erizzo, gentiluomo veneziano, e le dugento novelle di Celio Malespini,
gentiluomo fiorentino, e i Giunti a Firenze pubblicano i Trattenimenti di
Scipione Bargagli. Aggiungi la Giulietta di Luigi da Porto
vicentino, e l'Eloquenza, attribuita a Speron Speroni.
Tutti
questi scrittori, dal quattrocentista Masuccio sino al Bargagli che tocca il
Seicento, si professano discepoli e imitatori del Boccaccio. Chi se ne
appropria lo spirito, e chi le invenzioni anche e la maniera. I toscani, presso
i quali il Boccaccio è di casa, scrivono con più libertà, e ci hanno una grazia
e gentilezza di dire loro propria, che copre la grossolanità de' sentimenti e
de' concetti: tale è il Lasca, e il Firenzuola nelle novelle inserite ne' suoi Discorsi
degli animali e nel suo Asino d'oro. Gli altri procedono più timidi,
e riescono pesanti, come il Giraldi e il Brevio e il Bargagli, o scorretti e
trascurati, come il Parabosco o lo Straparola o il Cadamosto. Il linguaggio è
quell'italiano comune che già si usava dalla classe colta nello scrivere e
talora anche nel parlare, tradotto in una forma artificiosa e alla latina che
dicevasi letteraria, e solcato di neologismi, barbarismi, latinismi e parole e
frasi locali, salvo ne' più colti, come è il Molza, per speditezza e festività
vicino a' toscani.
Quel
bel mondo della cortesia che nel Decamerone tiene sì gran parte,
rifuggitosi ne' poemi cavallereschi, scompare dalla novella. E neppure ci è
quello stacco tra borghesia e plebe, quella coscienza di una coltura superiore,
che si manifesta nella caricatura della plebe, quell'allegrezza comica a spese
delle superstizioni e de' pregiudizi frateschi e plebei, che tanto ti alletta
nelle novelle fiorentine e fino nella Nencia. Questo mondo interiore
scompare anch'esso. La novella attinge tutta la società ne' suoi vizi, nelle
sue tendenze, ne' suoi accidenti, con nessun altro scopo che d'intrattenere le
brigate con racconti interessanti. L'interesse è posto nella novità e
straordinarietà degli accidenti, come sono i mutamenti improvvisi di fortuna, o
burle ingegnose per far danari o possedere l'amata, o casi maravigliosi di vizi
o di virtù. Re, principi, cavalieri, dottori, mercanti, malandrini, scrocconi,
tutte le classi vi sono rappresentate e tutt'i caratteri, comici e seri, e
tutte le situazioni, dalla pura storia sino al più assurdo fantastico. Sono
migliaia di novelle, arsenale ricchissimo, dove hanno attinto Shakespeare,
Molière e altri stranieri.
La
più parte di queste novelle sono aridi temi, magri scheletri in forma affettata
insieme e scorretta. L'interessante è stimolare la curiosità del pubblico e le
sue tendenze licenziose e volgari. Perciò hai da una parte il comico e
dall'altra il fantastico.
Nel
comico, salvo i toscani, ne' quali supplisce la grazia del dialetto, i
novellieri mostrano pochissimo spirito. Una delle novelle meglio condotte è la
“scimia” del Bandello, la quale si abbiglia co' panni di una vecchia morta, e
par dessa, e spaventa quelli di casa. Il fatto è in sè comico, ma l'esposizione
è arida e superficiale, e i sentimenti e le impressioni comiche ci sono appena
abbozzate. C'è una novella di Francesco Straparola assai spiritosa
d'invenzione, dove si racconta il modo che tenne un marito per rendere
ubbidiente la moglie, e la sciocca imitazione fattane dal fratello, novella che
suggerì al Molière la Scuola de' mariti. Ma di spiritoso non c'è che
l'invenzione, forse neppur sua: così triviale e abborracciata è l'esposizione.
Un villano che fa la scuola ad un astrologo è anche un bel concetto del Lando,
ma scarso di trovati e situazioni comiche. Pure il Lando è scrittor vivace e
rapido, e nelle descrizioni efficace e pittoresco. Il villano predice la
pioggia; ma l'astrologo vede il cielo sereno.
“Alzato
il viso, guatava d'ogni intorno, e diligentemente ogni cosa contemplando,
s'avvide essere il cielo tutto bello, il sole temperato, il monte netto da
nuvoli, e appresso s'accorse che l'austro nel soffiare era dolcissimo, e
cominciò attentamente a considerare in qual segno fosse il sole e in qual grado,
che cosa stesse nel mezzo del cielo, e qual segno stessegli in dritta linea
opposto. Nè potendo in verun modo conoscere che pioggia dovesse dal cielo
cadere, al villano rivolto, disse con ira e con isdegno: - Dio e la Natura
potrebbono far piovere, ma la Natura sola non lo potrebbe fare.”
Sopravvenuta più tardi pioggia
dirottissima, descrive le sue rovine e i suoi effetti in questo modo:
“Rovinarono
torri, sbarbicaronsi molte querce, caddero bellissimi palagi, tremò tutta la
riviera dell'Adige, parve che il cielo cadesse e che tutta la macchina mondana
fosse per disciogliersi.”
Tutta la novella è scritta in
questa prosa spedita e animata, e si legge volentieri, ma il sentimento comico
vi fa difetto, nè vi supplisce una lingua poetica e senza colore locale.
Gran
vantaggio ha sopra di lui il Lasca, non di spirito o di coltura o di arte, ma
di lingua, essendo il dialetto toscano, ricco di sali e di frizzi e di motti e
di modi comici, un istrumento già formato e recato a perfezione dal Boccaccio
al Berni. Materia ordinaria del Lasca è la semplicità degli uomini “tondi e
grossi”, fatta giuoco de' tristi e degli scrocconi. È la novella ne' termini
che l'aveva lasciata il Boccaccio. Il suo Calandrino è Gian Simone o Guasparri,
rigirati e beffati da scrocconi che si prevalgono della loro credulità. Il
Boccaccio mette in iscena preti e frati, il Lasca astrologi, guardando meno
alle superstizioni religiose che alle credenze popolari nell'“orco, tregenda e
versiera”, negli spiriti e ne' diavoli. Oggi abbiamo i magnetisti e gli
spiritisti; allora c'erano i maghi o gli astrologi, con la stessa pretensione
di conoscere l'avvenire e di guarire gl'infermi, e conoscere i fatti altrui, e
farti comparire i morti o le persone lontane: materia inesausta di ridicolo,
non altrimenti che i miracoli de' frati. Se il Boccaccio mette in gioco il
mondo soprannaturale della religione, il Lasca si beffa del mondo
soprannaturale della scienza. Il fantastico regna ancora qua e colà in Italia;
ma a Firenze era morto sotto l'ironia del Boccaccio, del Sacchetti, di Lorenzo
e del Pulci, nè i piagnoni poterono risuscitarlo. Il nostro Lasca non ha lo
spirito e la finezza del Boccaccio, non ha ironia ed è grossolano nelle sue
caricature; ma è facile, pieno di brio e di vena, evidente, e trova nel
dialetto immagini e forme comiche belle e pronte, senza che si dia la pena di
cercarle. Ecco la magnifica pittura dell'astrologo Zoroastro:
“...
era uomo di trentasei in quarant'anni, di grande e di ben fatta persona, di
colore ulivigno, nel viso burbero e di fiera guardatura, con barba nera,
arruffata e lunga infino al petto, ghiribizzoso molto e fantastico; aveva dato
opera all'alchimia, era ito dietro e andava tuttavia alla baia degl'incanti;
aveva sigilli, caratteri, filattiere, pentacoli, campane, bocce e fornelli di
varie sorte da stillare erba, terra, metalli, pietre e legni; aveva ancora
carta non nata, occhi di lupo cerviero, bava di cane arrabbiato, spina di pesce
colombo, ossa di morti, capestri d'impiccati, pugnali e spade che avevano ammazzato
uomini, la chiavicola e il coltello di Salomone, e erba e semi colti a vari
tempi della luna e sotto varie costellazioni, e mille altre favole e
chiacchiere da far paura agli sciocchi; attendeva all'astrologia, alla
fisonomia, alla chiromanzia e cento altre baiacce; credeva molto nelle streghe,
ma soprattutto agli spiriti andava dietro, e con tutto ciò non aveva mai potuto
vedere ne fare cosa che trapassasse l'ordine della natura, benchè mille
scerpelloni e novellacce intorno a ciò raccontasse e di farle credere
s'ingegnasse alle persone; e non avendo nè padre, nè madre, e assai benestante
sendo, gli conveniva stare il più del tempo solo in casa, non trovando per la
paura nè serva, nè famiglio che volesse star seco, e di questo infra sè
maravigliosamente godea; e praticando poco, andando a casa con la barba
avviluppata senza mai pettinarsi, sudicio sempre e sporco, era tenuto dalla
plebe per un gran filosofo e negromante.”
È un periodo interminabile,
tirato giù felicemente, dove, come in un quadro, ti sta dinanzi tutta la
persona, in una ricchezza di accessorii, espressi con una proprietà di
vocaboli, che si può trovar solo in un fiorentino. “Struggersi d'amore” è un
sentimento serio che il Lasca traduce in comico, aggiungendovi le immagini del
dialetto: “la farà in modo innamorar di voi ch'ella non vegga altro dio, e si
consumi e strugga de' fatti vostri, come il sale nell'acqua, e ... vi verrà
dietro, più che i pecorini al pane insalato”. Parlando del banchetto che tenne
l'astrologo con i suoi compagni di giunteria, lo Scheggia, il Pilucca e il
Monaco, alle spese del candido Gian Simone, dice: “E fecero uno scotto da
prelati, con quel vino che smagliava”. Se il Lasca dee molto al dialetto, ha
pure un pregio proprio che lo mette accanto al Berni, una intuizione chiara e
viva delle cose, che te le dà scolpite in rilievo. Tale è il viaggio per aria
del Monaco, come Zoroastro dà a credere al dabben Simone:
“[Zoroastro]
si stese in terra boccone, e disse non so che parole, e rittosi in piede e
fatto due tomboli, s'arreco da un canto del cerchio inginocchioni, e guardando
fisso nel vaso,... disse: - Il Monaco nostro ha già riavuto il resto, e vassene
con l'insalata verso Pellicceria per andarsene a casa; ma in questo istante io
l'ho fatto invisibilmente alzare ai diavoli da terra: oh eccolo che egli e già
sopra il Vescovado: oh che gli vien bene, egli è già sopra la piazza di
Madonna: oh ora egli è sopra la vecchia di Santa Maria Novella: testè entra in
Gualfonda: oh eccolo a mezza la strada! Oh egli è già presso a meno di
cinquanta braccia: oh eccolo, eccolo già rasente alla finestra! Or ora sarà nel
cerchio in pianelle, in mantello, in cappuccio, e con l'insalata e con le
radici in mano.” Il nostro speziale, chè colui che chiamavano “il Lasca”
nell'accademia degli Umidi era appunto lo speziale Anton Maria Grazzini,
dipinge con tanto rilievo gli oggetti, perchè li vede chiarissimi
nell'immaginazione, e non si ha a travagliare intorno alla forma, e non v'usa
alcuno artificio, scrive parlando. Nè è meno evidente e parlante nel dialogo.
Simone, passata la paura e uscitogli tutto l'amore di corpo, non vuol più dare
all'astrologo i venticinque fiorini promessigli. E dice allo Scheggia:
“-
Io ti giuro sopra la fede mia che mi è uscito ... tutto l'amor di corpo, e
della vedova non mi curo più niente... Oh che vecchia paura ebb'io per un
tratto! e' mi si arricciano i capelli quando vi ci penso, sicchè pertanto
licenzia e ringrazia Zoroastro. - Lo Scheggia, udite le di colui parole,
diventò piccino piccino..., e parendogli rimanere scornato, disse: - Oimè, Gian
Simone, che è quello che voi mi dite? Guardate che il negromante non si crucci.
Che diavol di pensiero e il vostro? Voi andate cercando Maria per Ravenna: io
dubito fortemente, come Zoroastro intenda questo di voi, ch'egli non si adiri
tenendosi uccellato e che poi non vi faccia qualche strano gioco. Bella cosa e
da uomini dabbene mancar di parola! ...Tanto è Gian Simone, egli non è da
correrla così a furia: se egli vi fa diventare qualche animalaccio, voi avrete
fatto poi una bella faccenda. - Colui era già per la paura diventato nel viso
un panno lavato, e rispondendo allo Scheggia, disse: - Per lo sangue di tutt'i
diavoli che fo giuro d'assassino, che domattina, la prima cosa, io me ne voglio
andare agli Otto, e contare il caso, e poi farmi bello e sodare, non so chi mi
tiene che non vada ora. - Tosto che lo Scheggia senti ricordare gli Otto,
diventò nel viso di sei colori, e fra sè disse: - Qui non è tempo da battere in
camicia, facciamo che il diavolo non andasse a processione -; e a colui
rivolto, dolcemente prese a favellare e disse: - Voi ora, Gian Simone, entrate
bene nell'infinito, e non vorrei per mille fiorini d'oro in beneficio vostro,
che Zoroastro sapesse quel che voi avete detto. Ora non sapete che l'ufficio
degli Otto ha potere sopra gli uomini, e non sopra i demòni? Egli ha mille modi
di farvi, quando voglia gliene venisse, capitar male, che non si saperrebbe
mai.”
Cosa manca al Lasca? La mano che
trema. Scioperato, spensierato, balzano, vispo e svelto, ci è in lui la stoffa
di un grande scrittor comico; ma gli manca il culto e la serietà dell'arte, e
abborraccia e tira giù come viene, e lascia a mezzo le cose, e si arresta alla
superficie, naturale e vivace sempre, spesso insipido, grossolano e trascurato,
massime nell'ordito e nel disegno.
Questo
basso comico, plebeo e buffonesco, ne' confini della semplice caricatura,
perciò superficiale ed esteriore, ritratto di una borghesia colta, piena di
spirito e d'immaginazione, e insieme spensierata e tranquilla, ha la sua
sorgente colà stesso onde uscì il Morgante, e poi i capitoli e i sonetti
del Berni: è il bernesco nell'arte, buffoneria ingentilita dalla grazia e
alzata a caricatura, maniera sviluppatasi gradatamente dal Boccaccio al Lasca,
infiltratasi nel dialetto e rimasta forma toscana. Nelle altre parti d'Italia
la buffoneria è senza grazia, spesso caricata troppo, e lontana da quel brio
tutto spontaneità e naturalezza, che senti nel Berni e nel Lasca. Tra' più
sgraziati è il Parabosco.
Col
comico va congiunto il fantastico. Il novelliere, in luogo di guardare nella
vita reale e studiarvi i caratteri, i costumi, i sentimenti, cerca combinazioni
tali di accidenti che solletichino la curiosità. Per questa via dal nuovo si va
allo strano, e dallo strano al fantastico, al soprannaturale e all'assurdo.
Così una borghesia scettica, che ride de' miracoli, che si beffa del
soprannaturale religioso e non vuol sentire a parlare di misteri e di leggende,
come forme barbare, sente poi a bocca aperta racconti di fate, di maghi, di
animali parlanti, che tengano desta la sua curiosità. Il Mariconda narra con
serietà rettorica i casi di Aracne, di Piramo e Tisbe e altre favole
mitologiche. E con la stessa serietà Francesco Straparola raccoglie nelle sue
Notti le più sbardellate invenzioni di quel tempo, saccheggiando tutt'i
novellatori, Apuleio, Brevio, soprattutto il napolitano Girolamo Morlino,
autore di ottanta novelle in latino. Ivi trovi il fantastico spinto all'ultimo
limite dell'assurdo. Vedi un anello trasformato in un bel giovane, pesci e
cavalli e falconi e bisce e gatte fatate che fanno maraviglie, e satiri e
uomini salvatici o in forma porcile, e morti risuscitati, e asini e leoni in
conversazione, e fate e negromanti e astrologi. Queste ch'egli chiama “favole”,
si accompagnano con altri racconti osceni o faceti, o com'egli dice,
“ridicolosi”, e sono le solite burle fatte alla gente semplice e grossa, o
com'egli dice, “materiale”. Il pretesto è uno scopo di volgare morale o
prudenza, un “fabula docet”, ma in fondo l'autore mira a render
piacevoli le sue Notti, eccitando il riso o movendo la curiosità. Non
mostra alcuna intenzione letteraria, salvo nelle descrizioni, una goffa
imitazione del Boccaccio chiama egli medesimo “basso” e “dimesso” il suo stile,
e dice che le invenzioni non son sue, ma suo è il modo di raccontarle. Non hai
qui dunque contorcimenti, lenocini, artifici, eleganze: è un narrare alla buona
e a corsa, in quella lingua comune italiana, di forma più latina che toscana,
mescolata di parole venete, bergamasche e anche francesi, come “follare” (fouler)
per calpestare. Non si ferma sul descrivere o particolareggiare, non bada a'
colori salta le gradazioni, va diritto e spedito, cercando l'effetto nelle
cose, più che nel modo di dirle. E le cose, non importa se di lui o di altri,
contengono spesso concetti molto originali, come Nerino, lo studente
portoghese, che fa le sue confidenze amorose al suo maestro Brunello, ch'egli
non sa essere il marito della sua bella onde Molière trasse il pensiero della
sua Ecole des femmes; o l'asino che co' suoi vanti la fa al leone; o i
bergamaschi che con la loro astuzia la fanno a' dottori fiorentini; o la
vendetta dello studente burlato dalle donne; o Flaminio che va in cerca della
morte; o le nozze del diavolo. Il successo fu grande: si fecero in poco tempo
del libro più di venti edizioni; e di molte favole è rimasta anche oggi
memoria. L'osceno, il ridicolo, il fantastico era il cibo del tempo: poi quella
forma scorretta, imperfetta, ma senza frasche e spedita soprattutto nel vivo
del racconto, dovea rendere il libro di più facile lettura alla moltitudine che
non gli Ecatommiti del Giraldi e le novelle dell'Erizzo e del Bargagli,
di una forma artificiata e noiosa. Ma il successo durò poco. Anche la Filenia
del Franco fu tenuta pari al Decamerone, e dimenticata subito. Manca
allo Straparola il calore della produzione, e ti riesce prosaico e materiale
anche nel più vivo di una situazione comica, o nel maggiore allettamento
dell'oscenità, o ne' movimenti più curiosi del fantastico, come di uomini
uccisi e rifatti vivi. Narra il miracolo con quella indifferenza, che i casi
quotidiani della vita; e mi rassomiglia un uomo divenuto per la lunga
consuetudine frigido e ottuso, che non ha più passioni, ma vizi. Chi vuol vederlo,
paragoni le sue “Nozze del diavolo” col Belfegor del Machiavelli,
argomento simile, e il suo studente vendicativo col famoso studente del
Boccaccio. E vedrà che a lui manca non meno il talento comico che la virtù
informativa. Ma che importa? Non mira che a stuzzicare la sensualità e la
curiosità, e chi si contenta gode. E per meglio avere l'uno e l'altro intento,
aggiunge al racconto un enigma o indovinello in verso, osceno di apparenza, e
spiegato poi altrimenti che suona a prima udita. Così oggi i cervelli oziosi
per fuggir la noia fanno o sciolgono sciarade e rebus. Il fantastico era
il cibo de' cervelli oziosi, non meno che l'enigma, o i tanti poemi
cavallereschi. L'arte era divenuta mestiere; e pur di sentire fatti nuovi e
strani, non si cercava altro. Ristorare il fantastico in mezzo a una borghesia
scettica e sensuale era vana impresa. Nelle antiche leggende senti il miracolo,
e senti il maraviglioso ne' romanzi antichi di cavalleria: ora manca
l'ingenuità e la semplicità, e l'arte non può riprodurre il fantastico che con
un ghigno ironico, volgendolo in gioco. Perciò la sola novella fantastica che
si possa chiamare lavoro d'arte è il Belfegor, il diavolo accompagnato
dal sorriso machiavellico. Cosa ha di vivo il diavolo borghese e volgare dello
Straparola o la sua Teodosia, che è la leggenda messa in taverna?
Se
una ristorazione del fantastico non era possibile, come poteva aversi una
ristorazione del tragico? Ma ci furono anche novelle tragiche con la stessa
intonazione del Decamerone, anzi della Fiammetta. E sono quello
che potevano essere, fior di rettorica. D'immaginazione ce n'era molta, ma di
sentimento non ce n'era favilla. Cosa di eroico o di affettuoso o di nobile
poteva essere tra quelle corti e quelle accademie, ciascuno sel pensi. Chi
desideri esempli di questa rettorica, vegga la Giulietta di Luigi da
Porto, o nel Bandello i monologhi di Adelasia e Aleramo, o nell'Erizzo i
lamenti di re Alfonso sulla tomba di Ginevra. Come a svegliare i romani ci
voleva la vista del sangue, a muovere quella borghesia sonnolenta e annoiata si
va sino al più atroce e al più volgare. La figliuola di re Tancredi nel
Boccaccio è una nobile creatura, ma sono mostri volgari la Rosmonda del
Bandello o l'Orbecche del Giraldi, che pur non ti empiono di terrore e non ti
spoltriscono e non ti agitano, per il freddo artificio della forma. Tra gli
eleganti elegantissimo è il Bargagli, che sceglie forme nobili e solenni anche
dove è in fondo cosa da ridere, come è la sua Lavinella, situazione comica in
forma seria, anzi oratoria.
Ciò
che rimane di vivo in questa letteratura non e il fantastico e non il tragico,
ma un comico, spesso osceno e di bassa lega e superficiale, che non va al di là
della caricatura e talora è più nella qualità del fatto che ne' colori. Alcuna
volta ci è pur sentore di un mondo più gentile, soprattutto nell'Erizzo e nel
Bandello, come è la novella di costui della reina Anna; ma in generale, come
nelle corti anche più civili sotto forme decorose e amabili giace un fondo
licenzioso e grossolano, la novella è oscena e plebea in contrasto grottesco
con uno stile nobile e maestoso, puro artificio meccanico. È un comico che a
forza di ripetizione si esaurisce e diviene sfacciato e prosaico. Il capitolo
muore col Berni e la novella col Lasca.
È
il Decamerone in putrefazione. Il difetto del capitolo è di cercare i
suoi mezzi comici più nelle combinazioni astratte dello spirito che nella
rappresentazione viva della realtà. È lo stesso difetto del petrarchismo: il
Petrarca del capitolo è Francesco Berni, e i petrarchisti sono i suoi
imitatori, che a forza di cercar rapporti e combinazioni escono in freddure e
sottigliezze. Il difetto della novella è la sensualità prosaica e la vana
curiosità: senza ideali e senza colori, e in una forma spesso pedantesca e
sbiadita. E capitolo e novella hanno poi un difetto comune, la superficialità,
quel lambire appena la esteriorità dell'esistenza e non cercare più addentro,
come se il mondo fosse una serie di apparenze fortuite e non ci fosse uomo e
non ci fosse natura. Essendo tutto un giuoco d'immaginazione, a cui rimane
estraneo il cuore e la mente, la forma comica nella quale si dissolve è la
caricatura degradata sino alla pura buffoneria. Lo spirito volge in giuoco
anche quel giuoco d'immaginazione, intorno a cui si travagliarono con tanta
serietà il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Poliziano, il Pulci, il
Berni, il Lasca, divenuto nel Furioso il mondo organico dell'arte
italiana, e traduce l'ironia ariostesca in aperta buffoneria, avvolgendo in una
clamorosa risata tutti gl'idoli dell'immaginazione, antichi e nuovi. La nuova
arte, uscita dalla dissoluzione religiosa, politica e morale del medio evo e
rimasta nel vuoto, innamorata di solo se stessa, come Narciso, va a morire per
mano di un frate sfratato, di Teofilo Folengo: muore ridendo di tutto e di se
stessa. La Maccaronea del Folengo chiude questo ciclo negativo e comico
dell'arte italiana. Ma ci era anche un lato positivo. Mentre ogni specie di
contenuto è messa in giuoco, e l'arte cacciata anche dal regno
dell'immaginazione si scopre vuota forma, un nuovo contenuto si va elaborando
dall'intelletto italiano, e penetra nella coscienza e vi ricostruisce un mondo
interiore, ricrea una fede non più religiosa, ma scientifica, cercando la base
non in un mondo sopra naturale e sopra umano, ma al di dentro stesso dell'uomo
e della natura. Pomponazzi, negando l'esistenza degli universali, rigettando i
miracoli, proclamando mortale l'anima, e spezzando ogni legame tra il cielo e
la terra, pose obbiettivo della scienza l'uomo e la natura. Platonici e
aristotelici per diverse vie proclamavano l'autonomia della scienza, la sua
indipendenza dalla teologia e dal dogma. La Chiesa lasciava libero il passo a
tutta quella letteratura frivola e oscena e a tutta quella vita licenziosa,
della quale era esempio la corte di Leone, ma non potea veder senza
inquietudine questo risvegliarsi dell'intelligenza nelle scuole. Il
materialismo pratico, l'indifferenza religiosa era spettacolo vecchio; ma la
spaventava quel materialismo alzato a dottrina, e l'indifferenza divenuta
aperta negazione, con quella ipocrita distinzione di cose vere secondo la fede
e false secondo la scienza. Il concilio lateranense testimonia la sua
inquietudine. Leone decimo proclama eresia quella distinzione, proibisce
l'insegnamento di Aristotile, e sottopone i libri alla censura ecclesiastica. A
che pro? Il materialismo era il motto del secolo. Leone decimo stesso era un
materialista, come fu Lorenzo con tutto il suo platonismo. Nè altro erano il
Pulci, il Berni, il Lasca e gli altri letterati, ancorachè si guardassero di
dirlo. Alcuni manifestavano con franchezza la loro opinione, come Lazzaro
Bonamico, Giulio Cesare Scaligero, Simone Porzio, Andrea Cesalpino, Speron
Speroni, e quel professore Cremonino da Cento che fe' porre sulla sua tomba: “Hic
iacet Cremoninus totus”. Quando gli studenti avevano innanzi un professore
nuovo, e lo vedevano nicchiare, gli dicevano subito: - Cosa pensate dell'anima?
Quando
il materialismo apparve, la società era già materializzata. Il materialismo non
fu il principio, fu il risultato. Fino a quel punto il dogma era stato sempre
la base della filosofia e il suo passaporto. Era un sottinteso che la ragione
non poteva contraddire alla fede, e quando contraddizione appariva, si cercava
il compromesso, la conciliazione. Così poterono lungamente vivere insieme
Cristo e Platone, Dio e Giove: tutta la coltura era unificata nell'arte e nel
pensiero, e non si cercava con quanta logica e coesione e con quanta buona
fede. In nome della coltura si paganizzavano le forme cattoliche anche da' più
pii, come ne' loro poemi sacri facevano il Sannazzaro e il Vida; si paganizzò
anche san Pietro, e paganizzava anche Leone decimo. Tutto questo era arte, era
civiltà, e non solo non era impedito, anzi promosso e incoraggiato; farvi
contro non si poteva senza aver taccia di barbaro e incolto. E si tollerava
pure Pasquino, voglio dire quella buffoneria universale, le cui maggiori spese
le facevano preti, frati, vescovi e cardinali.
In
quella corruzione così vasta, soprattutto nel clero, era il caso di dire: “petimusque
damusque vicissim”; e tutti ridevano, e primi i beffati. Di cose di
religione non si parlava, e quando era il caso, le si faceva di berretto, se ne
osservavano le forme e il linguaggio per l'antica abitudine, senza darvi alcuna
importanza. Sotto il manto dell'indifferenza ci era la negazione. In quel vuoto
immenso non rimaneva altro in piedi che la coltura come coltura e l'arte come
arte. Ed era appunto la negazione che appariva nell'arte sotto forma comica, e
formava il suo contenuto. Che cosa era quell'arte? Era il ritratto dello
spirito italiano. Era la contemplazione di una forma perfetta nella
indifferenza o negazione del contenuto. La società vagheggiava nell'arte se
stessa.
Ma
era una società spensierata e accademica, che non si era ancora guardata al di
dentro, non si avea fatto il suo esame di coscienza. E quando per la prima
volta gitta l'occhio entro di sè e domanda: - Che sono dunque? Onde vengo? Ove
vado? - La risposta non poteva essere altra che questa: - Sono corpo: vengo
dalla terra e torno alla terra, l'“alma parens”, la gran madre antica. -
Questa risposta dapprima fa rabbrividire: sembra una scoperta, ed è un
risultato. E invade le università e si attira i fulmini del concilio. Zitto!
Grida la borghesia gaudente e spensierata, che non volea esser turbata nel suo
alto sonno. E la cosa rimase lì. “Intus ut libet, foris ut moris”,
diceva Cremonino. Credete come volete, ma parlate come parlano. E le audacie
del Valla e del Pomponazzi si perdettero nel rumore de' baccanali. Ci era la
cosa, ma non si voleva la parola. Materialismo era in tutto, nella vita, nelle
lettere, nelle sue applicazioni alla morale, alla politica, all'uomo e alla
natura. Ma non si chiamava materialismo. Si chiamava coltura, arte, erudizione,
civiltà, bellezza, eleganza: ipocrisia in alcuni, in altri corta intelligenza.
Così si viveva tutti in buon accordo e allegramente, e quando veniva la bile ci
era lo sfogatoio: permesso di dir male de' preti e anche del papa, e di
abbandonarsi a tutt'i piaceri corporali, andando a messa, facendosi il segno
della croce e gridando contro gli eretici, e specialmente contro i signori
luterani che con le loro malinconie teologiche minacciavano il mondo di una
nuova barbarie. Pigliare sul serio la teologia! Questo per i nostri letterati
era un tornare indietro di due secoli.
Fu
appunto in quel tempo che Lutero, spaventato come Savonarola alla vista di così
vasta corruttela italiana, proclamò la Riforma e regalò al mondo una teologia
purgata ed emendata. Se innanzi al papato fu un eretico, alla borghesia
italiana apparve un barbaro, come Savonarola. E in verità la sua teologia era
in una vera contraddizione con la civiltà italiana, avendo per base la
reintegrazione dello spirito e l'indifferenza delle forme, cioè a dire negando
quella sola divinità che era rimasta viva nella coscienza italiana, il culto
della forma e dell'arte. Una riforma religiosa non era più possibile in un
paese coltissimo, avvezzo da lungo tempo a ridere di quella corruttela, che
moveva indignazione in Germania e che avea già cancellato nel suo pensiero il
cielo dal libro dell'esistenza. L'Italia avea già valica l'età teologica e non
credeva più che alla scienza, e dovea stimare i Lutero e i Calvino come de' nuovi
scolastici. Perciò la Riforma non potè attecchire fra noi e rimase estranea
alla nostra coltura, che si sviluppava con mezzi suoi propri. Affrancata già
dalla teologia, e abbracciando in un solo amplesso tutte le religioni e tutta
la coltura, l'Italia del Pico e del Pomponazzi, assisa sulle rovine del medio
evo, non potea chiedere la base del nuovo edificio alla teologia, ma alla
scienza. E il suo Lutero fu Nicolò Machiavelli.
Il
Machiavelli è la coscienza e il pensiero del secolo, la società che guarda in
sè e s'interroga e si conosce; è la negazione più profonda del medio evo, e
insieme l'affermazione più chiara de' nuovi tempi; è il materialismo
dissimulato come dottrina, e ammesso nel fatto e presente in tutte le sue
applicazioni alla vita.
Non
bisogna dimenticare che la nuova civiltà italiana è una reazione contro il
misticismo e l'esagerato spiritualismo religioso, e, per usare vocaboli propri,
contro l'ascetismo, il simbolismo e lo scolasticismo: ciò che dicevasi il medio
evo. La reazione si presentò da una parte come dissoluzione o negazione: di che
venne l'elemento comico o negativo, che dal Decamerone va sino alla Maccaronea.
Ma insieme ci era un lato positivo, ed era una tendenza a considerare l'uomo e
la natura in sè stessi, risecando dalla vita tutti gli elementi sopraumani e
soprannaturali: un naturalismo aiutato potentemente dal culto de' classici e
dal progresso dell'intelligenza e della coltura. Onde venne quella tranquillità
ideale della fisonomia, quello studio del reale e del plastico, quella
finitezza dei contorni, quel sentimento idillico della natura e dell'uomo, che
diè nuova vita alle arti dello spazio e che senti ne' ritratti dell'Alberti,
nelle Stanze, nel Furioso e fino negli scherzi del Berni. Questo
era il lato positivo del materialismo italiano, un andar più dappresso al reale
ed alla esperienza, dato bando a tutte le nebbie teologiche e scolastiche, che
parvero astrazioni. Il pensiero o la coscienza di questo mondo nuovo e in
quello che negava e in quello che affermava è il Machiavelli.
Il concetto del Machiavelli è
questo, che bisogna considerare le cose nella loro verità “effettuale”, cioè
come son porte dall'esperienza ed osservate dall'intelletto; che era proprio il
rovescio del sillogismo e la base dottrinale del medio evo capovolta: concetto
ben altrimenti rivoluzionario che non è quel ritorno al puro spirito della
Riforma e che sarà la leva da cui uscirà la scienza moderna.
Questo
concetto applicato all'uomo ti dà il Principe e i Discorsi, e la Storia
di Firenze e i Dialoghi sulla milizia. E il Machiavelli non ha
bisogno di dimostrarlo: te lo dà come evidente. Era la parola del secolo
ch'egli trovava e che tutti riconoscevano.
Così
nasce la scienza dell'uomo, non quale può o dee essere, ma quale è; dell'uomo
non solo come individuo, ma come essere collettivo, classe, popolo, società,
umanità. L'obbiettivo della scienza diviene la conoscenza dell'uomo, il “nosce
te ipsum”, questo primo motto della scienza quando si emancipa dal
soprannaturale e pone la sua indipendenza. Tutti gli universali del medio evo
scompariscono. La “divina commedia” diviene la “commedia umana” e si
rappresenta in terra: si chiama storia, politica, filosofia della storia, la
scienza nuova. La scienza della natura si sviluppa più tardi. Non si crede più
al miracolo, ma si crede ancora all'astrologia. Attendete ancora un poco, e il
concetto del Machiavelli applicato alla natura vi darà Galileo e l'illustre
coorte dei naturalisti.
Non
è il caso di disputare sulla verità o falsità delle dottrine. Non fo una storia
e meno un trattato di filosofia. Scrivo la storia delle lettere. Ed è mio
obbligo notare ciò che si move nel pensiero italiano; perchè quello solo è vivo
nella letteratura che è vivo nella coscienza.
Da
quel concetto esce non solo la scienza moderna, ma anche la prosa. Come nella
scienza ci aveva ancora molta parte l'immaginazione, la fede, il sentimento;
così nella prosa erano penetrati elementi etici, rettorici, poetici, chiusi in
quella forma convenzionale boccaccevole, che dicevasi forma letteraria, ed era
già divenuta maniera, un vero meccanismo. Ma il Machiavelli spezza questo
involucro, e crea il modello ideale della prosa, tutta cose e intelletto,
sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione o del sentimento, di
una struttura solida sotto un'apparente sprezzatura.
E
da quel concetto dovea uscire anche un nuovo criterio della vita, e perciò
dell'arte. L'uomo e la natura hanno nel medio evo la loro base fuori di sè,
nell'altra vita; le loro forze motrici sono personificate sotto nome di
universali ed hanno un'esistenza separata. Questo concetto della vita genera la
Divina Commedia. La macchina della storia è fuori della storia ed è
detta “la provvidenza”. Questa macchina è nel mondo boccaccesco il caso o la
fortuna. Non ci è più la provvidenza, e non ci è ancora la scienza. Il
maraviglioso non è più detto miracolo, anzi del miracolo si fanno beffe; ma è
detto intrigo, nodo, accidente straordinario. Le passioni, i caratteri, le idee
non sono forze che regolano il mondo, sopraffatte da questo nuovo fato, la
volubile e capricciosa fortuna. Il Machiavelli insorge e contro la fortuna e
contro la provvidenza, e cerca nell'uomo stesso le forze e le leggi che lo
conducono. Il suo concetto è che il mondo è quale lo facciamo noi, e che
ciascuno è a se stesso la sua provvidenza e la sua fortuna. Questo concetto
dovea profondamente trasformar l'arte.
La
poesia italiana usciva dal medio evo libera da ogni ingombro allegorico e
scolastico, ma insieme vuota di ogni contenuto, forma pura. Il suo vero
contenuto è negativo, cioè a dire è il ridere del suo contenuto, considerarlo
come un giuoco d'immaginazione, un esercizio dello spirito. Questo doppio
elemento dell'arte è detto dal Cecchi il “ridicolo” e il “grupposo”, intendendo
per grupposo il nodo, l'intreccio, la varietà e novità de' casi. Di questo
maraviglioso perseguitato dal ridicolo ti dà il Machiavelli splendido esempio
nel suo Belfegor. La novella, il romanzo, la commedia sono il teatro
naturale di questa poesia, la Divina Commedia dell'arte nuova. Ma nel
concetto del Machiavelli la vita non è una farsa della provvidenza, e non è il
giuoco capriccioso della fortuna, ma è regolata da forze o da leggi umane e
naturali. Perciò la base dell'arte non è l'avventura o l'intrigo, ma il “carattere”;
e se volete vedere quello che sarà, guardate quali sono gli attori e quali le
forze che mettono in giuoco. L'arte non può starsi contenta alla semplice
esteriorità, e presentare gli avvenimenti come un accozzo fortuito di casi
straordinari, ma dee forare la superficie e cercare al di dentro dell'uomo
quelle cause che sembrano provvidenziali o casuali. Così l'arte non è un vano e
ozioso gioco d'immaginazione, ma è rappresentazione seria della vita nella sua
realtà non solo esteriore, ma interiore. E quest'arte, che cerca la sua base
nella scienza dell'uomo, ti dà la Mandragola e la Storia di Firenze,
e più tardi la Storia d'Italia del Guicciardini e i suoi Ricordi.
A
questo modo si realizza questa grand'epoca, detta il “Risorgimento”, che dal
Boccaccio si stende sino alla seconda metà del secolo decimosesto. Da una
parte, mancati tutti gl'ideali, religioso, politico, morale, e non rimasta
nella coscienza altra cosa salda che l'amore della coltura e dell'arte, il
contenuto non ha alcun valore in se stesso e diviene una materia qualunque
trattata a libito dall'immaginazione, che ne fa la sua creatura e spesso anche
il suo gioco, un gioco che ha la sua idealità nell'ironia ariostesca, e trova
la sua dissoluzione nella caricatura della Maccaronea. Mentre l'arte
produce i suoi miracoli nella piena indifferenza del contenuto, come pura arte,
un nuovo contenuto si forma e penetra nella coscienza, uno studio dell'uomo e
della natura in sè stessi, che cerca la sua base nell'esperienza, e non
nell'immaginazione e non nelle vane cogitazioni. Questo senso profondo del
reale ti crea la scienza e la prosa, e ti segna nella Mandragola un
nuovo indirizzo dell'arte.
Se
dunque vogliamo studiar bene questo secolo, dobbiamo cercarne i segreti ne' due
grandi, che ne sono la sintesi, Ludovico Ariosto e Nicolò Machiavelli.
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