XIII
L' ORLANDO
FURIOSO
Ludovico nacque nello stesso anno
che Michelangiolo, il 1474. Machiavelli, Berni, Bembo, Guicciardini, Folengo,
Aretino, i principali personaggi di questa età letteraria, nacquero in questo
scorcio del secolo, a poca distanza di anni: il Machiavelli nel sessantanove,
il Bembo nel settanta, il Guicciardini nell'ottantadue, e nel novantaquattro il
Folengo, e nel novanta Pietro Aretino.
Nel
novantotto, proprio l'anno che il Machiavelli era eletto segretario del comune
fiorentino, Ludovico scrivea in prosa le sue due prime commedie. L'uno
attendeva alle gravi faccende dello Stato, e ne' suoi viaggi in Italia e in
Europa attingeva quella scienza dell'uomo e quella pratica del mondo, che dovea
fare di lui la coscienza e il pensiero del secolo; l'altro faceva il letterato
in corte, e scrivea sonetti, canzoni, elegie, capitoli, commedie, tutto nel
mondo della sua immaginazione.
Aveva
allora ventisei anni. Cinque ne aveva sciupati intorno alle leggi; finchè,
avuta dal padre licenza, si mise con ardore allo studio delle lettere, e tutto
pieno il capo di Virgilio, Orazio, Petrarca, Plauto, Terenzio, cominciò a far
versi latini e italiani, come tutti facevano, elegie, canzoni, odi, epigrammi,
madrigali, sonetti, epistole, epitalami, carmi.
Nel
'94, quando Carlo ottavo scendeva in Italia, il giovane Ludovico scrive un'ode
oraziana a Filiroe, nome ch'egli appicca ad una contadinella. Carlo minaccia
... ... asperi
furore militis tremendo,
turribus ausoniis ruinam.
E il giovane sdraiato sull'erba e
con gli occhi alla sua Filiroe scrive:
Rursus quid hostis prospiciat sibi,
me nulla tangat cura, sub arbuto
iacentem aquae ad murmur cadentis...
Pensa e sente e scrive come
Orazio. Il mondo precipita: e che importa? sol che possa andar pe' campi,
seguire Lida, Licori, Filli, Glaura, e cantare i suoi amori:
Est mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris
Lyda modo meus est, est modo Phyllis amor...
Antra mihi placeant potius montesque
supini,
vividaque irriguis gramina semper aquis ...
Dum vaga mens aliud poscat, procul este Catones ...
E scrive De puella, De
Lydia, nome oraziano di una sua amata di Reggio, De Iulia, una
cantante, De Glycere et Lycori, De Megilla, e fino De catella
puellae, imitazione felice di Catullo. Luigi decimo-secondo conquista il
ducato di Milano, chiamatovi da Alessandro sesto e che importa,
... ... si furor, Alpibus
saevo flaminis irmpetu
... ... iam spretis, quatiat celticus
ausones?
Che importa servire a re gallo o
latino,
si
sit idem hinc atque hinc non leve servitium?
Barbaricone esse est peius sub nomine, quam sub
moribus?
Tutti barbari e tutti tristi. E
il giovane, esclamando: “Improba secli conditio!” e lamentando “clades
et Latii interitum”,
nuper ab occiduis illatum gentibus, olim
pressa quibus nostro colla fuere iugo,
svolge l'occhio dallo spettacolo
e cerca un asilo in Orazio e Catullo. L'anno appresso alla calata di Carlo
ottavo l'Ariosto recita l'orazione inaugurale degli studi nel duomo di Ferrara,
De laudibus philosophiae, e poi la reca in esametri. Scrivea pure sonetti,
canzoni, elegie, dove si sente lo studio del Petrarca. Nel movantatre a
diciannove anni, scrive un'elegia per la morte di Leonora d'Aragona, moglie del
duca di Ferrara. Nell'introduzione si scopre ancora lo studente e il
dilettante:
Rime
disposte a lamentarvi sempre,
accompagnate
il miserabil core
in
altro stil che in amorose tempre:
che
or giustamente da mostrar dolore
abbiamo
causa, ed è sì grave il danno
che
appena so s'esser potria maggiore.
I suoi amori in italiano sono
platonici, alla petrarchesca; in latino sono sensuali, all'oraziana. In latino
tiene Megilla tra le braccia, e non può credere a' suoi occhi, e dice:
An
haec vera Megilla
cuius detineor sinu?
Haec, haec vera mea est; nil modo fallimur,
mi anceps anime: en sume cupita iam
mellita oscula, sume
expectata diu bona.
Ma in italiano Megilla è “l'alta
beltade”, che “col suo beato lume illustra e imbianca l'occaso”, e l'amante e
“nel dir lento e restio” e non descrive, perchè “chi descriver puote a pieno il
sole?”.
Non
è valore uman che tanto ascenda.
Se avesse potuto apprendere il greco,
Anacreonte o Teocrito gli avrebbe instillata nell'immaginazione un'altra
fraseologia: perchè tutto questo è un gioco di frasi. Ma, tutto dietro al
latino, non pensò per allora al greco:
Che
'l saper nella lingua degli Achei
non
mi reputo onor, s'io non intendo
prima
il parlar de li latini miei.
Mentre
l'uno acquistando, e differendo
vo
l'altro, l'occasion fuggì sdegnata,
poi
che mi porge il crine ed io nol prendo.
Morì il padre, ch'egli aveva soli
ventott'anni, e lo lasciò tra sorelle e piccoli fratelli capo della casa: così
dovè mutare Omero nel libro de' conti:
Mi
more il padre, e da Maria il pensiero
dietro
a Marta bisogna ch'io rivolga;
ch'io
muti in squarci ed in vacchette Omero.
Nè potè avere più agio e modo
d'intendere “nella propria lingua dell'autore ciò che Ulisse sofferse a Troia e
poi nel lungo errore, e ciò che scrisse Euripide, Pindaro e gli altri, a cui le
Muse argive donar sì dolci lingue e sì faconde”; perchè venuto in corte fu
mandato qua e là, oppresso dal giogo del cardinale d'Este:
E
di poeta cavallar mi feo:
vedi
se per le balze e per le fosse
io
potevo imparar greco o caldeo.
Fra questi studi e imitazioni
uscì la Cassaria, una commedia in prosa, scritta con tutte le regole
della commedia plautina, e che parve un miracolo a Ferrara, appunto perchè
vedevano in italiano quello che erano usi ad ammirare in latino. Ai misteri e
alle farse succedea la commedia e la tragedia, con tutte le regole dell'arte
poetica e con le forme di Plauto e Terenzio. E non solo s'imitava quel
meccanismo, ma si riproducea lo stesso mondo comico, servi, parasiti,
cortigiane, padri avari e figli scapestrati. Il giovane autore, a quel modo che
trasforma le sue contadine in Filli e Licori, vive tutto in quel mondo di
Plauto, e nel suo lavoro d'imitazione perde di vista la società in mezzo a cui
si trova. La sua commedia è una ricostruzione, non è una creazione, e intento
al meccanismo, si lascia fuggire le più belle situazioni e contrasti comici.
Nel Bibbiena e nel Lasca ci è una certa vita che viene dal Decamerone,
non so che licenzioso e buffonesco, conforme allo spirito comico, quale s'era
sviluppato a Firenze, e si sentiva nel Lasca e nel Berni, segretario del
Bibbiena. Ma l'Ariosto vive fuori di questo ambiente, e in un mondo tutto di
erudizione, e quando vuol essere faceto, ti riesce grossolano. Oltrechè,
essendo quello un mondo di accatto e con caratteri già dati, ci sta a disagio,
e non ci si abbandona, e non se lo assimila. Un effetto comico ci è; ed è ne'
viluppi, negl'intrighi, negli equivoci, prodotti dal caso o dalla malizia, in
un imbroglio drammatico, che spesso stanca l'attenzione. Ma l'intrigo non basta
a sostenere l'interesse, quando i caratteri non sieno bene sviluppati e
l'intrigo non si trasformi in situazione comica. Trappola, Volpino, Nebbia,
Erofilo, Lucrano sono esseri insignificanti, nè dall'intreccio esce alcuna
scena fondamentale, dove si raccolga l'interesse. Più tardi scrisse altre
commedie, intestatosi a farle in versi sdruccioli, per rendere l'imitazione latina
perfetta, parendogli che quel metro rispondesse a capello al giambo. Nè in
questa forma sgraziata, che vuol essere poesia e non è prosa, gli riesce meglio
la commedia, ancorchè il soggetto alcuna volta potesse convenire a quella
società, come è il Negromante. Sbagliata la via, non si raddrizza più.
Un negromante o astrologo che fa mestiere di sua arte, e con sue bugie cava
quattrini da' gonzi, è un argomento popolarissimo, e trattato allora da tutt'i
novellieri. Il Boccaccio avea messo in iscena il prete o il frate, come il
prete di Varlungo o frate Cipolla: allora la parte di scroccone e giuntatore
era rappresentata dall'astrologo. Il nome era mutato: il motivo comico era lo
stesso. Ricordiamoci con che brio ne ha trattato il Lasca in una sua novella.
Ci si sente la tradizione e la malizia del Boccaccio, e l'ambiente di Firenze,
dove lo speziale arguto continua il Sacchetti, il Pulci, il Magnifico. Ma nel Negromante
ariostesco senti la società latina, dove il servo è più astuto del padrone,
rappresentata da chi non vi sta in mezzo e non l'intende e la studia su' libri.
Cinzio, Camillo, Massimo sono mummie più che uomini, preda facile de' birboni
che ci vivono intorno. Sono essi non il principale, ma il fondo del quadro, la
vile moltitudine sulla quale si esercita la malizia de' servi e degli
avventurieri. Concetto profondo, se l'Ariosto l'avesse trovato lui e ne avesse
cavato un mondo comico. Ma ci sta a pigione e senza alcun senso, come se fosse
cosa naturalissima questo mondo colto al rovescio, sì che i servitori ne
sappiano più dei padroni e diventino i loro tutori e salvatori, come Fazio e
Temolo, che scoprono e sventano le malizie del negromante. Costui, che è il
protagonista, non è proprio un astrologo, com'è nel Lasca, e come il prete è
prete nel Boccaccio; ma è un birbone matricolato, che fa l'astrologo senza
crederci punto. Nel Lasca la materia comica è cavata dall'astrologia messa in
burla: qui l'astrologia ci sta per comparsa, nè da essa escono i mezzi d'azione.
Se mastro Iachelino, che è il negromante, fosse un vero astrologo, che mentre
vuol farla a' padroni è burlato da' servitori, il concetto sarebbe così
spiritoso, com'è nell'astrologo del Lando, di cui si mostra più sapiente un
contadino, anzi l'asina del contadino. Ma qui l'astrologo è un ignorantaccio,
che, come dice il Nibbio suo servo e confidente, mal sapendo leggere e male
scrivere, fa professione di filosofo, di medico, di alchimista, di astrologo,
di mago:
e
sa di queste e dell'altre scienzie
che
sa l'asino e il bue di sonar gli organi.
Sicchè il tutto si riduce a una
gara di malizia tra maestro Iachelino e Nibbio da una parte, e Fazio e Temolo,
che sono i servi, dall'altra. Non mancano bei tratti, che rivelano nell'autore
un ingegno e uno spirito comico non comune. Cinzio racconta al servo le
maraviglie del negromante, e il servo si beffa del negromante e del padrone, ed
è in ultimo colui che l'accocca a tutti. Cinzio l'assicura gravemente che sa
trasformare uomini e donne in animali. Risponde Temolo:
Si
vede far tutto il dì, nè miracolo
è
cotesto . .
Non
vedete voi che subito
un
divien potestade, commissario,
provveditore,
gabelliere, giudice,
notaio,
pagator degli stipendii,
che
li costumi umani lascia, e prendeli
o
di lupo o di volpe o di alcun nibbio?
- Capisco - dice Cinzio. La poca esperienza
che hai del mondo ti fa parlare così. Ma non credi tu dunque che e' possa
scongiurare gli spiriti? - E Temolo risponde:
Di
questi spirti, a dirvi il ver, pochissimo
nè
meno crederei; ma li grandi uomini,
e
principi e prelati, che vi credono,
fanno
col loro esempio ch'io, vilissimo
fante,
vi credo ancora.
Questo tratto è stupendo
d'ironia; è il popolano ignorante che col suo naturale buon senso si prende
spasso de' grandi uomini. Bella situazione drammatica è dove Nibbio, viste le
reti tese a Cinzio, a Massimo e a Camillo, il più ricco, domanda al negromante:
Delle
tre starne che in piè avete, ditemi,
qual
mangerete?
ASTROLOGO
Vedraimi
ir beccandole
ad
una ad una, ed attaccarmi in ultimo
alla
più grassa, e tutta divorarmela.
NIBBIO
Eccoven'una,
e la miglior: mettetevi,
se
avete fame, a piacer vostro a tavola.
ASTROLOGO
Chi
è? Camillo?
NIBBIO
Si.
ASTROLOGO
Si
ben; mangiarmelo
voglio,
che l'ossa non credo ci restino.
E questo Nibbio, quando vede
scoperte le magagne dell'astrologo, egli, suo servo, confidente e mezzano, gli
dà il calcio dell'asino, e lo ruba e lo pianta lì. Sono bei tratti perduti in
un mondo convenzionale e superficiale, e poco studiato, e abborracciato nei
momenti più interessanti. L'autore vi mostra un'attitudine più a narrare, ad
esporre, a descrivere, che a drammatizzare. Che uomo sia mastro Iachelino, è
benissimo esposto in un monologo di Nibbio; ma quando lo si vede in azione, lo
si trova noioso, insipido, grossolano, molto al di sotto dell'aspettazione.
Ludovico
era di coltura al di sotto de' tanti dotti di quel tempo, ed anche di alcuni
della corte. Il cardinale Ippolito pregiava assai meno i poeti, gente oziosa,
che i suoi staffieri e camerieri, e volendo trarre un utile dal nostro poeta,
ne fece un “cavallaro”, mandandolo qua e là in suo servigio. Ludovico,
ricordandosi la grande amicizia di Leone decimo, quando era proscritto con la
sua famiglia da Firenze, vistolo papa, andò a lui pieno di speranza, e non ne
cavò altro che belle parole. Fu anche in Firenze per commissione della corte
ferrarese, e la profonda impressione fattagli da quella vista si rivela in una
elegia scritta in quell'occasione:
A
veder pien di tante ville i colli
par
che 'l terren ve le germogli,
come
vermène germogliar suole e rampolli.
Se
dentro un mur, sotto un medesmo nome,
fosser
raccolti i tuoi palazzi sparsi,
non
ti sarian da pareggiar due Rome.
Inviato governatore in Garfagnana,
alza le strida perchè il cardinale lo abbia tolto a' dolci studi e a' cari
amici e spintolo in quel “rincrescevole laberinto”. Da ultimo il cardinale
volea trarselo appresso in Ungheria, e qui il nostro poeta perde le staffe e
dichiara che in Ungheria non vuole andare. Lodare il cardinale in versi, sta
bene; ma far da comparsa nel suo corteggio, questo no:
Io
stando qui, farò con chiara tromba
il
suo nome sonar forse tanto alto,
che
tanto mai non si levò colomba.
E lo loda in latino e in volgare,
e più sfacciatamente in latino:
Quis patre invicto gerit
Hercule fortius arma?
Mystica quis casto castius Hyppolito?
Ma Ippolito non si curava delle
lodi, e lo volea servo e non poeta:
Non
vuol che laude sua da me composta
per
opra degna di mercè si pona:
di
mercè degno è l'ir correndo in posta...
S'io
l'ho con laude ne' miei versi messo,
dice
ch'io l'ho fatto a piacere e in ozio:
più
grato fòra essergli stato appresso.
Ludovico, scrittor di commedie, è
lui medesimo un carattere de' più comici, e se, rappresentando un mondo
convenzionale, è riuscito nelle commedie poco felice, è stato felicissimo
dipingendo se stesso alla buona e al naturale. Alcune sue qualità te gli
affezionano Ama i fratelli e la vecchia madre, e per loro si acconcia a
servitù, rodendo il freno. Il suo ideale è la tranquillità della vita, starsene
a casa fantasticando e facendo versi, vivere e lasciar vivere. Ma il punto è
che sia lasciato vivere. Il poveruomo era un personaggio idillico, non aveva ambizioni,
non curava grandezze, nè onori; “gli sapeva meglio una rapa” in casa sua che
t“ordo o starna o porco selvaggio ”all'altrui mensa:
E
così sotto una vil coltre,
come
di seta o d 'oro ben mi corco.
E
più mi piace di posar le poltre
membra,
che di vantarle che agli sciti
sien
state, agl'indi, agli etiopi, e oltre.
Degli
uomini son vari gli appetiti;
a
chi piace la chierca, a chi la spada,
a
chi la patria, a chi li strani liti.
Chi
vuole andare attorno, attorno vada;
vegga
Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna:
a
me piace abitar la mia contrada.
Visto
ho Toscana, Lombardia, Romagna,
quel
monte che divide e quel che serra
l'Italia,
e un mare e l'altro che la bagna.
Questo
mi basta: il resto della terra,
senza
mai pagar l'oste, andrò cercando
con
Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.
Ma non è lasciato vivere, e ha
tra' piedi il cardinale, e ne sente una stizza che sfoga con questo e con
quello. Qualche rara volta la stizza si alza a indignazione e gli strappa
nobili accenti:
Apollo,
tua merce, tua mercè, santo
collegio
delle muse, io non possiedo
tanto
per voi, ch'io possa farmi un manto.
...
...
Or,
conchiudendo, dico che, se 'l sacro
cardinal
comperato avermi stima
con
li suoi doni, non mi è acerbo ed acro
renderli,
e tôr la libertà mia prima.
...
...
Se
avermi dato onde ogni quattro mesi
ho
venticinque scudi, nè sì fermi
che
molte volte non mi sien contesi,
mi
debbe incatenar, schiavo tenermi,
obbligarmi
ch'io sudi e tremi, senza
rispetto
alcun ch'io muoia o ch'io m'infermi;
non
gli lasciate aver questa credenza:
ditegli
che più tosto ch'esser servo,
torrò
la povertade in pazienza.
Ma sono scarse faville. Non è
così rimesso d'animo o cupido d'onori, che imiti i cortigiani e sacrifichi la
sua comodità per fare a gusto del cardinale; e non è così altero, che rompa la
catena una buona volta, e lo mandi con Dio. Serve borbottando e sfogando il mal
umore, con una sua propria fisonomia nella scala de' Sancio Panza e de' don
Abbondio. E ne nascono situazioni stupendamente comiche. Tale è il suo viaggio
a Roma, con tante speranze nell'amico Leone. Come lo accoglie bene! Ma sono
parole, e la sera gli tocca andare a cena sino all'insegna del Montone:
Piegossi
a me dalla beata sede:
la
mano e poi le gote ambe mi prese,
e
il santo bacio in amendue mi diede.
Indi,
col seno e con la falda piena
di
speme, ma di pioggia molle e brutto,
la
notte andai sin al Montone a cena.
Ora lo prende la stizza, e si
sfoga descrivendo la cupidità ingorda de' cardinali; ora fa il filosofo, come
volesse dire: - E quando anche avessi le ricchezze del gran Turco e tre e
quattro mitre, ne val poi la pena? -
Sia
ver che d'oro m'empia la scarsella
e
le maniche e il grembo, e se non basta,
m'empia
la gola e il ventre e le budella;
in
che util mi risulta essermi stanco
in
salir tanti gradi? Meglio fora
starmi
in riposo, o affaticarmi manco.
Ora ha aria di scusare il papa. -
Poerino! Parenti, cardinali che gli diedero “il più bel di tutt'i manti,” amici
che lo aiutarono a tornare a Firenze, dee dar bere a tanti!
Se
fin che tutti beano, aspetto a trarme
la
volontà di bere, o me di sete,
o
secco il pozzo d 'acqua veder parme,
meglio
è star nella solita quiete.
Questa
magnifica situazione è sviluppata con ricchezza di motivi e di gradazioni, con
una perfetta varietà di caratteri, e con un'ironia tanto più pungente, quanto
appare più ingenua e più bonaria. Lo stesso ho a dire di Ludovico fatto
governatore, che fa un ritratto stizzoso de' suoi amministrati, e deplora il
tempo sciupato intorno ad essi, o di Ludovico che nega di andare in Ungheria, o
che raccomanda a Pietro Bembo il figlio, e gli narra la sua vita e le sue
contrarietà, i suoi studi. Ci si vede tra la stizza quella specie di
rassegnazione delle anime fiacche, che significa: - Ma che ci è a fare?
Pazienza! - E anche una specie di bonomia, che gli fa sciorinare tutt'i suoi
difetti, come fossero perle. Anche il Berni è così, e si fa bello della sua
poltroneria; ma carica e buffoneggia, con lo scopo di far ridere: dove Ludovico
si dipinge tutto al naturale a semplice sfogo del mal umore, e meno cerca
l'effetto e più l'ottiene. Si ride a spese degli altri e anche un po' a sue
spese, e senza ch'egli se ne accorga o se ne guardi. In un secolo così
artificiato, dove per soverchio studio d'imitazione o per conseguire certi
effetti artistici si perdeva di vista la realtà della vita, Ludovico, che
scrivendo commedie o canzoni e sonetti petrarcheschi si pone in un mondo
convenzionale, qui in presenza di se stesso, come Benvenuto Cellini, crea un
carattere comico de' più interessanti, perchè non è solo il suo ritratto, ma
del borghese e letterato italiano a quel tempo nel suo aspetto men reo. Ha
visto Roma, ha visto Firenze, è stato in Lombardia, ma il suo mondo non si è
ingrandito; il suo centro è rimasto Ferrara; e le sue cure domestiche, i suoi
umori con la corte, i suoi piccoli fastidi, i suoi amori, le sue relazioni
letterarie, i suoi interessi privati sono tutta la sua preoccupazione allora
appunto che l'Italia era corsa da' barbari e si dibatteva nella sua agonia. Il
borghese colto, spensierato, pigro, tranquillo, ritirato nella famiglia o tra le
allegre brigate, è tutto qui con la sua quiete e il suo “fuge rumores”.
Ci è in questo ritratto un po' di Orazio, ma l'imitazione è qui natura, è
somiglianza di anima e di genio. Il riso è puro di amarezza e di disprezzo,
perchè senti che l'uomo di cui tu ridi è onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo,
ha tutte le qualità amabili delle anime deboli e buone. Non ci è il capitolo e
non la satira, perchè quell'uomo non si propone di berteggiare nè di censurare,
ma unicamente di sfogare il suo umore col fratello o l'amico. E perciò la sua
narrazione è mescolata di osservazioni, facezie, motti, proverbi, movimenti
stizzosi d'immaginazione, tratti e pitture satiriche, e soprattutto di apologhi
graziosissimi, piccoli capilavori. La terza rima, il linguaggio eroico e
tragico del medio evo, il linguaggio della Divina Commedia e de' Trionfi,
in questa profonda trasformazione letteraria diviene il linguaggio della
commedia, il metro del capitolo, della satira e della epistola, con una
sprezzatura che arieggia alla prosa. La parabola si compie in queste epistole
dell'Ariosto, dove la terzina è profondamente modificata, e prende forma
pedestre, aguzzata e sentenziosa, come un epigramma o un proverbio.
La
terzina, come il sonetto e la canzone, era il genere letterario e tradizionale.
L'ottava, la cui immagine si vede già abbozzata ne' rispetti e ne' canti
popolari, era il linguaggio de' romanzi, delle narrazioni e delle descrizioni,
recata a perfezione dal Poliziano. Era il linguaggio di moda e popolare. E la
terzina sarebbe rimasta, come il sonetto e la canzone, stazionaria e
convenzionale, se il Berni e l'Ariosto non le avessero data nuova vita,
traendola dal cielo, e dandole abito conforme al tempo. L'ottava rima cantava;
la terzina discorreva, berteggiava, satirizzava, esprimeva la parte prosaica e
reale della vita.
Fra
tanti fastidi e piccole miserie della vita Ludovico scriveva l'Orlando
furioso, con molta noia del cardinale Ippolito, che vedeva sciupato in
quelle “corbellerie” il tempo destinato al suo “servizio”. Il Boiardo
interruppe il suo Orlando innamorato proprio allora che calava le Alpi
Carlo ottavo per andar “non so in che loco”. Morì qualche anno dopo, quando
Ludovico traduceva Plauto e Terenzio e scriveva commedie, rappresentate
magnificamente nel teatro di corte. La gloria dell'Omero ferrarese spronò
l'Ariosto a tentar qualche cosa di simile. Cominciò in terza rima una storia
epica de' fasti estensi, ma smise subito, disacconcio il metro alla sua larga
vena. E si risolse senz'altro di continuar la storia di Orlando, ripigliandola
là dove l'avea lasciata il Boiardo. Se ne consigliò col Bembo, il quale lo
esortò a scrivere il poema in latino. L'Orlando in latino! Il Bembo non capiva
cosa fosse l'Orlando innamorato. Ma lo capiva l'Ariosto, che di quella
lettura facea sua delizia, e deliberò senza più di usare lo stesso metro e le
stesse forme. Così cansò l'imitazione classica, e ricuperò la libertà del suo
ingegno. Pose mano al lavoro nel 1505, al suo trentunesimo anno, e vi si
seppellì per dieci anni, e spese tutto il rimanente della vita a emendarlo. Si
racconta che andasse sino a Modena in pianelle, e non se ne accorse che a metà
della via. Altri fatti si narrano della sua distrazione. Che cosa c'era dunque
nella sua testa? C'era l'Orlando furioso. Niuna opera fu concepita nè
lavorata con maggior serietà.
E
ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento religioso o morale o
patriottico, di cui non era più alcun vestigio nell'arte, ma il puro sentimento
dell'arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi. Ci è ne' suoi fini il
desiderio un po' di secondare il gusto del secolo, e toccare tutte le corde che
gli erano gradite, un po' di tessere la storia o piuttosto il panegirico di
casa d'Este. Ma sono fini che rimangono accessorii naufragati e dimenticati nella
vasta tela. Ciò che lo anima e lo preoccupa è un sentimento superiore, che è
per lui fede, moralità e tutto, ed è il culto della bella forma, la schietta
ispirazione artistica. E lo vedi mutare e rimutare, finchè non abbia dato alle
sue creazioni l'ultima forma che lo contenti. Da questa serietà e genialità di
lavoro uscì l'epopea del Rinascimento, il tempio consacrato alla sola divinità
riverita ancora in Italia, l'Arte.
Ludovico
e Dante furono i due vessilliferi di opposte civiltà. Posti l'uno e l'altro tra
due secoli, prenunziati da astri minori, furono le sintesi, in cui si compì e
si chiuse il tempo loro. In Dante finisce il medio evo; in Ludovico finisce il
Rinascimento.
Ritratto
tutti e due della loro età. Dante fu più poeta che artista: all'artista
nocquero la scolastica, l'allegoria, l'ascetismo, e la stessa grandezza ed
energia dell'uomo. Ci era nella sua coscienza un mondo reale troppo vivo e
appassionato e resistente, perchè l'arte potesse dissolverlo e trasformarlo. E
quel mondo reale era involuto in forme così dense e fisse, che il suo sguardo
profondo non potè sempre penetrarvi e attingerlo nel suo immediato.
Tutto
questo mondo è già sciolto innanzi a Ludovico, nella sua realtà e nelle sue
forme. È sciolto per un lavoro anteriore al quale egli non ha partecipato. Già
nel Petrarca spunta l'artista, che si foggia il mondo del suo cuore, e se lo
compone e atteggia come pittore, e ci crede e ci si appassiona e ne sente i
tormenti e le gioie. Già nel Boccaccio l'arte si trastulla a spese di quella
realtà e di quelle forme. Già su quel mondo è passato il ghigno di Lorenzo, e
il riso beffardo del Pulci, e già, vòto il tempio, è surta sugli altari la
nuova divinità annunziata da Orfeo, tra' profumi eleganti del Poliziano.
Ludovico non ha niente da affermare, e niente da negare. Trova il terreno già
sgombro, e senza opera sua. Non è credente, e non è scettico; è indifferente.
Il mondo in mezzo a cui si forma, destituito di ogni parte nobile e gentile,
senza religione, senza patria, senza moralità, non ha per lui che un interesse
molto mediocre. Buona pasta d'uomo, con istinti gentili e liberi, servo non
fremente e ribelle, ma paziente e stizzoso, adempie nella vita la parte
assegnatagli dalla sua miseria con fedeltà, con intelligenza, ma senza entusiasmo
e senza partecipazione interiore. Lo chiamavano distratto. Ma la vita era per
lui una distrazione, un accessorio, e la sua occupazione era l'arte. Andate a
vedere quest'uomo mezzano e borghese come quasi tutt'i letterati di quel tempo,
nella sua bontà e tranquillità facilmente stizzoso, e che non sa conquistare la
libertà e non sa patire la servitù, e tutto rimpiccinito e ritirato tra le sue
contrarietà e le sue miserie si fa spesso dar la baia per le sue distrazioni e
le sue collere; andate a vedere quest'uomo quando fantastica e compone. Il suo
sguardo s'illumina, la sua faccia è ispirata, si sente un iddio. Là, su quella
fronte, vive ciò che è ancora vivo in Italia: l'artista.
Già
questo mondo cavalleresco, che riempie la sua immaginazione, non era stato
altro mai in Italia che un mondo di fantasia e visto da lontano. E quando ogni
idealità si corruppe, molti cercavano ivi quell'ideale di bontà e di virtù che
altri trovavano nella vita pastorale: così sorse sulle rovine del medio evo il
poema cavalleresco e l'idillio, i due mondi poetici o ideali del Rinascimento.
Una reminiscenza di quel mondo cavalleresco c'era, ma lontana e confusa per le
date, per i luoghi e per i fatti; sicchè veniva alla coscienza non da
tradizioni nazionali, ma dalla lettura di romanzi tradotti o imitati. Pure una
immagine vicina di quel mondo era nelle corti, dove appariva quel non so che
signorile e gentile e umano che fu detto “cortesia”, e dove spesso si davano
spettacoli che richiamavano alla mente quelle forme e que' costumi. Ci era
dunque nella coscienza italiana un mondo della cortesia contrapposto al mondo
plebeo per la pulitezza delle forme e la gentilezza de' sentimenti; un mondo le
cui leggi non erano derivate dal Vangelo, nè da alcun codice, ma dall'essere
cavaliere o gentiluomo; e anche oggi sentiamo dire: “in fè di gentiluomo”. Ci
era il codice dell'onore e dell'amore, che comprendeva gli obblighi del prode e
leale cavaliere. La costanza e fedeltà nell'amore, la devozione al suo signore,
l'osservanza della parola, la difesa de' deboli, la riparazione delle offese,
erano gli articoli principali di quel codice, il cui complesso costituiva il
così detto punto d'onore. Questo è quel mondo della cortesia che nel Decamerone
apparisce come il mondo poetico in contrapposto con la rozzezza plebea: e in
verità Gerbino e Guglielmo e la figlia di Tancredi e Federigo degli Alberighi
sono belle immagini di un mondo superiore per finezza e fierezza di tempra. Ma
nelle corti italiane, come quelle di Urbino, di Ferrara, di Mantova, era
rimasto di quel mondo appena un barlume, e più nell'apparenza che nella
sostanza, anzi non rado avveniva di vedere accoppiata con l'eleganza e la
galanteria dei costumi la più sfacciata perfidia, come in Cesare Borgia. Un
sentimento vero e profondo dell'onore non era dunque parte intima del carattere
nazionale, e se allora potevano esserci uomini di onore, non ci era certo nè un
popolo, nè una classe, dove l'onore fosse regola della vita, anzi quegli uomini
colti e svegliati erano inclinati a dar dello sciocco a quelli che con loro
danno o incomodità osservavano quelle leggi: non era virtù, era dabbenaggine, e
destava quel leggier senso ironico, la cui punta è appena dissimulata
nell'esclamazione del poeta:
O
gran bontà de' cavalieri antichi!
Non ci era dunque in Italia un
serio sentimento cavalleresco, che potesse ispirare qualche cosa come il Cid;
e scaduto ogni sentimento religioso, morale e politico, l'onore rimaneva senza
base, e non avea serbate che alcune delle sue qualità superficiali, e più
brillanti che solide, di cui si vede il codice nel Cortigiano del
Castiglione. Perciò la cavalleria, come la mitologia e come il mondo religioso,
non era fra noi altro che pura leggenda o romanzo, un mondo d'immaginazione,
che interessava non per il suo ideale, ma per la novità, la varietà e la
straordinarietà degli accidenti. Meno il suo significato era serio, e più il
suo contenuto era fantastico e licenzioso, cancellati tutt'i limiti di spazio e
di tempo e di verisimiglianza. Il cantastorie non si proponeva altro scopo che
di stuzzicare la curiosità e appagare l'immaginazione, intessendo sul vecchio
fondo tradizionale cavalleresco le favole più assurde, e intrigandole fra loro
in modo da tener sospesa e curiosa l'attenzione. Indi quelle forme di narrare
bizzarre, interrompendo, intramettendo, ripigliando co' passaggi più bruschi, e
portando l'incoerenza fino nell'esterna orditura del racconto.
Già
cominciava a spuntare una scienza dell'uomo e della natura. L'invenzione della
stampa, la scoperta di Copernico, i viaggi di Colombo e di Amerigo Vespucci,
gli scritti del Pomponazzi, i Discorsi del Machiavelli, la Riforma, la
costruzione solida di grandi Stati, come la Spagna, la Francia, l'Inghilterra,
erano fatti colossali che rinnovavano la faccia del mondo. Ma le conseguenze
non erano ancora ben chiare, e il mondo moderno, il mondo dell'uomo e della
natura, o, per dirlo in una parola, la scienza, era ancora come un sole
inviluppato di vapori, che non danno via a' suoi raggi. E i vapori erano il
mondo popolare dell'immaginazione, che suppliva alla scienza, riempiendo la
terra di miracoli. Ogni specie di soprannaturale era accumulata e ammessa, il
miracolo de' cristiani, il prodigio de' pagani, gl'incanti de' maghi e delle
fate, le imposture degli astrologi. L'uomo stesso in mezzo a questa natura
fatata e incantata era un attore degno di quel teatro: essere ancora primitivo,
credulo, ignorante, abbandonato alle sue inclinazioni e passioni, determinato
all'azione da sùbiti movimenti, anzi che da posata riflessione, e che non si
ripiega mai in sè, non si studia, non si conosce, è tutto superficie, tutto
fuori nel tumulto e nel calore della vita. Perciò è piuttosto anch'esso una
forza naturale che un essere consapevole, una forza tirata e avvolta nel vario
gioco degli avvenimenti, povera di “carattere” e di “autonomia”.
Nondimeno
l'Italia era il paese, dove l'uomo, come intelligenza, era più adulto, più
formato dall'educazione e dalla coltura, e dove il soprannaturale sotto tutte
le sue forme non era ammesso che come macchina poetica, un gioco
d'immaginazione. Perciò, se in altre parti di Europa ci era ancora un legame
tra il mondo cavalleresco e il mondo reale, questo legame era spezzato tra noi,
e la cavalleria non era che un mondo di pura immaginazione.
Ludovico
era tutt'altro che uomo cavalleresco, anzi tirava al comico. E quando prese a
voler continuare la storia del Boiardo, era come un pittore che dipinge con la
stessa indifferenza una santa o una ninfa o una fata, pur di dipingerla bene.
Molti chiedono: - Quale fu lo scopo dell'Ariosto? - Non altro che rappresentare
e dipingere quel mondo della cavalleria. Omero canta l'ira di Achille; Virgilio
canta Enea; Dante canta la redenzione dell'anima; l'Ariosto non canta l'impresa
di Agramante o di Carlo e non le furie di Orlando e non gli amori di Ruggiero e
Bradamante: l'impresa di Agramante è per lui come un punto fisso intorno al
quale si sviluppa il mondo cavalleresco, non lo scopo, ma il tempo e il luogo
nel quale si mostra quel mondo. Egli canta le donne e i cavalieri, le cortesie
e le audaci imprese che furono “a quel tempo” che Agramante venne in Francia.
Le furie di Orlando e gli amori di Ruggiero sono non episodi, appunto perchè
non ci è un'azione unica e centrale, ma parti importanti di quell'immensa
totalità che dicesi mondo cavalleresco. L'unità è dunque non questa o quella
azione e non questo o quel personaggio, ma è tutto esso mondo nel suo spirito e
nel suo sviluppo nel tal luogo e nel tal tempo. Se l'impresa di Agramante fosse
non il semplice materiale dove si sviluppa il mondo cavalleresco, ma una vera e
seria azione, lo scopo del poema, e se Orlando e Ruggiero fossero episodi in
quest'azione, il romanzo sarebbe così difettoso, come difettosa sarebbe la Divina
Commedia, a volerla giudicare con lo stesso criterio. Belli questi episodi
che invadono l'azione e la soperchiano! Bella quest'azione che ha i suoi
accidenti più importanti fuori del poema nella storia del Boiardo, e che ispira
un interesse molto mediocre al poeta, il quale se ne ricorda solo allora che ha
bisogno di raccogliere le fila troppo sparse in un centro, e volentieri e per
lungo tempo se ne dimentica, e finita essa, continua senza di essa! Unità
d'azione ed episodi sono un linguaggio convenzionale venutoci da Aristotile e
da Orazio, e sarebbe cosa assurda a volerlo applicare al mondo cavalleresco.
Perchè l'essenza di quel mondo è appunto la libera iniziativa dell'individuo,
la mancanza di serietà, di ordine, e di persistenza in un'azione unica e
principale, sì che le azioni si chiamano avventure, e i cavalieri si dicono
erranti. Staccarsi dal centro, andare vagando, e cercare avventure, è lo
spirito di un mondo che ripugna così alla unità come alla disciplina. Volere
organizzare questo mondo co' precetti di Orazio e di Aristotile è un volerlo
falsificare. Il disordine qui è ordine, e la varietà è unità. Come l'unità del
mondo nella sua infinita varietà è nel suo spirito o nelle sue leggi, così
l'unità di questa vasta rappresentazione è nello spirito o nelle leggi del
mondo cavalleresco.
La
forza centripeta è assai fiacca in questo mondo della libertà e dell'iniziativa
individuale; e ci vuole l'angiolo Michele o il demonio per tirare i cavalieri
erranti a Parigi, dove si combatte. E non ci si trovano che un par di volte, e
appena una giornata; chè il dì appresso corrono di nuovo dietro a' fantasmi
delle loro passioni, tirati da amore, da vendetta, da gloria, e vaghi tutti di
avventure strane e maravigliose. La stessa impresa di Agramante non è un fatto
religioso o politico, ma anch'essa una grande avventura, cagionata dal
desiderio della vendetta. Parigi è un punto stabile dove stanno a offesa e
difesa con gli eserciti Carlo e Agramante; ma i loro paladini e cavalieri, la
più parte re e signori, vanno discorrendo per il mondo, e Parigi non è che un
punto di convegno dove il racconto si raccoglie alcuna volta e si riposa, e di
cui si vale il poeta per comporre e annodare le fila in certi grandi
intervalli. Perchè al di sopra di quest'anarchia cavalleresca ci è uno spirito
sereno e armonico, che tiene in mano le fila e le ordisce sapientemente, e sa
stuzzicare la curiosità e non affaticare l'attenzione, cansare in tanta varietà
e spontaneità di movimenti il cumulo e l'imbroglio, ricondurti innanzi
improvviso personaggi e avvenimenti che credevi da lui dimenticati, e nella
maggiore apparenza del disordine raccogliere le fila, egli solo tranquillo e
sorridente in mezzo al tumulto di tanti elementi cozzanti. Parigi è il
principal nodo dell'ordito, è come un faro, che di tanto in tanto brilla e illumina
tutto intorno. La scena si apre a Parigi, appunto allora che le genti cristiane
hanno avuto una gran rotta. E allora appunto, quando il bisogno è maggiore,
Rinaldo, Orlando, Brandimarte vanno via. Rinaldo corre dietro a Baiardo,
Orlando corre dietro ad Angelica, e Brandimarte corre dietro ad Orlando. Vi
trovate già in pieno mondo cavalleresco: vi si sviluppano le avventure. E
mentre essi corrono, Agramante mette il fuoco a Parigi, e Rodomonte vi entra
solo e vi sparge il terrore. Parigi è salvato, perchè una pioggia miracolosa
spenge l'incendio, e Rinaldo guidato dall'angiolo Michele giunge proprio a
tempo e disfà i pagani. Agramante che assediava, è assediato. I cavalieri
pagani sono anche erranti. Ferraù cerca Orlando, a cui ha giurato di toglier l'elmo;
Gradasso cerca Rinaldo, a cui vuol togliere Baiardo; Sacripante cerca Angelica;
Marfisa, Rodomonte, Ruggiero, Mandricardo contendono e pugnano tra loro. Riesce
al demonio di farli correre appresso al ronzino di Doralice, che li tira seco a
Parigi. Giungono e disfanno i cristiani. Ma il dì appresso si raccende la
discordia e vengono alle mani. Mandricardo è ucciso da Ruggiero; Marfisa e
Rodomonte lasciano per ira il campo; e chi rimane? Rinaldo tra' cristiani,
Ruggiero tra' pagani. Un duello tra Rinaldo e Ruggiero dee porre fine alla
guerra. Ma Agramante rompe i patti, è disfatto, la sua flotta è dispersa da'
nemici e da' venti, e vede di lungi la sua patria arsa da' cristiani. Il poema
cominciato a Parigi si termina a Parigi, con le nozze di Ruggiero e la morte di
Rodomonte. Parigi è il legame esteriore del racconto, ma non ne è l'anima o il
motivo interiore. Il motivo è lo spirito di avventura e la soddisfazione degli
appetiti, l'amore, o il punto d'onore, o il maraviglioso, che tirasi appresso
il cavaliere, quando non sia sviato e impedito da forze soprannaturali. Il
soprannaturale è qui come semplice macchina o forza, senza personalità; e forze
sono e non persone Michele e il demonio e la Discordia e Atlante e Melissa. È
un soprannaturale privo di ogni aureola e prestigio, e tali sono pure le spade
e gli scudi incantati, e gli anelli fatati, e gl'ippogrifi, e la lancia di
Argalìa, e il corno di Astolfo, e simili storie viete e note, che lasciano
fredda l'immaginazione del poeta. Si è così avvezzi a questo soprannaturale,
che ci si sta dentro come in un mondo ordinario; quel fantastico in permanenza
uccide se stesso e perde le sue punte e i suoi colori; se interesse ci è, non è
in quello, ma negli effetti tragici o comici che sa cavarne il poeta, come sono
gli effetti comici del corno di Astolfo. Tra questo mondo soprannaturale vive
una forza indisciplinata e quasi ancora primitiva, nelle varie sue gradazioni,
dal mostro e dal gigante e dal pagano sino al cavaliere cristiano, il cui
modello è nel codice di onore, e che rappresenta la civiltà e il progresso
nella comune barbarie.
I
motivi spirituali di questo mondo, l'amore, l'onore e il maraviglioso o lo
spirito di avventura, sono dal poeta portati a quell'ultimo punto che confina
col ridicolo: l'amore toglie il senno ad Orlando ed imbestia Rodomonte; il
punto d'onore degenera in puntiglio e produce i più strani effetti, la cui
immagine tragica è Mandricardo, e il cui modello comico è Rodomonte nelle sue
imprese sul ponte; il maraviglioso ti conduce sino alla soglia dell'inferno e
nel paradiso terrestre e nel regno della Luna. Il mondo cavalleresco ne' suoi
motivi interni è spinto all'ultima punta. Se l'elemento soprannaturale è
fiacco, e la stessa Alcina pare quasi più una personificazione allegorica che
una verace persona poetica, vivacissima è al contrario la pittura degli
avvenimenti determinati da forze naturali e umane, che abbracciano tutto il
circolo della vita nelle sue varie e contrarie apparenze. Vi si sviluppano
profonde combinazioni estetiche, serie e comiche; come è Angelica che finisce
moglie di un povero fante, la pazzia di Orlando, la peregrinazione di Astolfo
nella Luna, la discordia nel campo di Agramante, Agramante in vista di Biserta,
e Gradasso fatato, che, guerreggiando tutta la vita per avere Baiardo e
Durlindana, quando le ha ottenute e si crede felice, è ammazzato da Orlando.
Reminiscenza di Achille è Ruggiero, liberato dagli ozi del castello incantato e
dalle delizie di Alcina, e riuscito il più perfetto modello di cavaliere. Intorno
a queste grandi combinazioni si aggruppano fatti minori, che danno il finito e
il contorno a questo mondo nelle sue più lievi sfumature, come è la morte di
Zerbino e il lamento d'Isabella, Olimpia abbandonata, la morte e le esequie di
Brandimarte, le avventure di Grifone, Dudone, Marfisa, e le scene comiche di
Martano, di Gabrina e di Giocondo. Quantunque un mondo così fatto abbia un
aspetto fuori dell'ordinario e si discosti tanto da' costumi e dal sentire del
suo tempo, pure Ludovico ci sta così a suo agio e ne ha sì vivamente impressa
l'immaginazione, che te lo dà alla luce con tutt'i caratteri di una vita
presente e reale. E qui è il maraviglioso del genio ariostesco, rappresentare
un mondo così straordinario con semplicità e naturalezza. Le condizioni di
esistenza sono veramente fantastiche sino all'assurdo; ma una volta ammesse
quelle basi, il movimento storico diviene profondamente umano e naturale. Si
vegga con che fine gradazioni psicologiche è condotto Orlando sino a perdere il
senno, con che scala intelligente è rappresentato il dolore di Olimpia, o la
discordia de' pagani nel campo di Agramante. Perciò tutti quei personaggi ti
stanno innanzi vivi, e non puoi dimenticarli più. Alcuni anzi son divenuti
caratteri comici proverbiali, come Rodomonte, Gradasso, Sacripante, Marfisa. Il
poeta non s'intromette niente nella sua storia, e più che attore, è spettatore
che gode alla vista di quel mondo, quasi non fosse il mondo suo, il parto della
sua immaginazione. Indi quella perfetta obbiettività e perspicuità del mondo
ariostesco, che è stata detta chiarezza omerica. L'arte italiana in questa
semplicità e chiarezza ariostesca tocca la sua perfezione, ed è per queste due
qualità che l'Ariosto è il principe degli artisti italiani, dico “artisti” e
non “poeti”. Non dà valore alle cose, slegate dalla realtà e puro gioco
d'immaginazione; ma dà un immenso valore alla loro formazione, e intorno vi si
travaglia con la maggiore serietà. Non ci è così piccolo particolare, che non
tiri la sua attenzione, e non abbia le sue ultime finitezze. Appunto perchè
l'interesse è non nella cosa, ma nella sua forma, la maniera sobria e
comprensiva di Dante è abbandonata, e non hai schizzi, hai quadri finiti. Ciò
che nel Decamerone ti dà il periodo, qui te lo dà l'ottava, di una ossatura
perfetta, e congegnata a modo di un quadro col suo protagonista, i suoi
accessorii e il suo sfondo. Il Poliziano ti dà una serie, di cui lascia il
legame all'immaginazione: l'Ariosto ti dà un vero periodo, così distribuito e
proporzionato che pare una persona. E l'effetto è non solo in quella ossatura
materiale così solida e bene ordinata, ma in quell'onda musicale, in quella
superficie scorrevole e facile, che ti fa giungere all'anima insieme coi fatti
i loro motivi e i loro affetti. Nel secolo de' grandi pittori, quando
l'immaginazione italiana mirava a dare all'immagine tutta la sua finitezza,
l'Ariosto è pittore compìto, che non ti lascia l'oggetto finchè non ne abbia
fatto un quadro. E non è che cerchi effetti di luce o di armonia straordinari, o
lusso di colori e di accessorii: non ci è ombra di affettazione, o di
pretensione; ci è l'oggetto per se stesso, che si spiega naturalmente. Il poeta
fissa l'esteriorità nel punto che è viva, quando cioè è atteggiata così o così
per movimenti interni o esteriori, e non osserva, non riflette, non la scruta,
non l'interroga, non cerca al di dentro, non la palpa, non la maneggia per
volerla abbellire. Nessun movimento subbiettivo viene a turbare l'obbiettività
del suo quadro; nessun movimento intenzionale. Non ci è il poeta, ci è la cosa
che vive, e si move, e non vedi chi la move, e pare si mova da sè! Questa
sublime semplicità nella piena chiarezza della visione è ciò che il Galilei
chiamava a ragione la “divinità” dell'Ariosto. E non è solo nel minuto, ma nelle
grandi masse. La sua vista rimane tranquilla e chiara ne' più bruschi e
complicati movimenti d'insieme. Indi è che dipinge duelli, battaglie, giostre,
feste, spettacoli, paesaggi, castella, con quella purezza e semplicità di
disegno che dipinge le cose minime. Nelle ottave del Poliziano la superficie
non ha più nulla di scabro, ma ti accorgi che è stata strofinata, leccata,
lisciata e si vede l'intenzione dell'eleganza. Qui la superficie è così
naturalmente piana, che ti par nata a quel modo e che non possa essere
altrimenti. Pigliamo ad esempio la rosa:
Questa
di verdi gemme s'incappella;
quella
si mostra allo sportel vezzosa;
l'altra,
che in dolce foco ardea pur ora,
languida
cade e il bel pratello infiora.
Qui la rosa m'ha aria di una fanciulla
civettuola, che prende questa o quell'attitudine per parer vezzosa.
L'“incappellarsi”, lo “sportello”, quell'“ardere in dolce foco”, sono immagini
appiccatele da immaginazione umana. È la rosa non nella sua naturalezza
immediata, ma come pare all'uomo. Ci si vede il lavoro dello spirito, che
l'orna e la vezzeggia, la rosa passata attraverso lo spirito e uscitane
trasformata. Vedi ora nell'Ariosto, la rosa,
che
in bel giardin su la nativa spina
mentre
sola e sicura si riposa,
nè
gregge nè pastor se le avvicina;
l'aura
soave e l'alba rugiadosa,
l'acqua,
la terra al suo favor s'inchina:
gioveni
vaghi e donne innamorate
amano
averne e seni e tempie ornate.
Ma
non sì tosto dal materno stelo
rimossa
viene e dal suo ceppo verde,
che
quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor,
grazia e bellezza, tutto perde.
Questa
è la storia o il romanzo della rosa. Il poeta ha aria non di descrivere, ma di
raccontare, e ti pone innanzi la cosa nella sua verità naturale, sì che niente paia
oltrepassato, esagerato, o trasformato. L'“alba rugiadosa”, il “ceppo verde”,
la “nativa spina”, i “gioveni vaghi”, le “donne innamorate”, i “seni e le
tempie”, il “gregge e il pastore” sono tutte immagini naturali, distinte,
plastiche, obbiettive, prodotte da una immaginazione impersonale, assorbita
dallo spettacolo. E guarda alla movenza dell'ottava, con tanta semplicità che
l'ultimo verso par ti caschi per terra, come vil prosa, a quel modo che è
cascata la rosa da quella sua altezza verginale. Gli è che qui eleganza,
armonia, colorito non vengono da alcun preconcetto dello spirito, ma sono la
forma stessa delle cose, non il loro ornamento o la loro veste, ma la loro
chiarezza. Come le cose minime, così le grandi masse sono disegnate con la
stessa perspicuità e purezza. Fra tante battaglie e duelli e incanti e paesaggi
non trovi mai ripetizioni o reminiscenze, perchè ciascuna cosa è come un
individuo perfettamente distinto e caratterizzato. Quadro, piccolo o grande che
sia, prende la sua movenza e il suo colore dalla cosa rappresentata, e però
ciascun quadro è in sè distinto e compìto, condotto e disegnato negli ultimi
particolari. Lo spirito ne' suoi preconcetti è limitato, e produce la
“maniera”, che ti pone innanzi non la cosa vista, ma il modo di guardarla, la
visione: e perciò facilmente imitabili sono i poeti subbiettivi, ne' quali
prevale la maniera, come il Petrarca, il Tasso, il Marino, e simili. Al
contrario inimitabile è l'Ariosto che non ha maniera, perchè è tutto obbliato e
calato nelle cose, e non ha un guardare suo proprio e personale. Anzi egli ha
una perfetta bonomia, un'aria di raccontare alla schietta e alla buona, come le
cose gli si presentano, senza mettervi niente di suo. Ha un ingegno poroso, che
riceve e rende le cose nella evidenza e distinzione della loro personalità,
senza che esse trovino ivi intoppo o alterazione. Perciò il suo ingegno è
trasmutabile in tutte guise, non secondo il suo umore, ma secondo la varia
natura delle cose. Con la stessa facilità e sicurezza vien fuori l'eroico, il
tragico, il comico, l'idillico, il licenzioso, come qualità naturali delle
cose, anzi che del suo spirito. Di che viene l'evidenza miracolosa di questo
mondo nella sua infinita varietà e libertà, e la sua serietà artistica nel suo
insieme e nelle minime parti. L'evidenza è in quel coglier gli oggetti vivi,
cioè in azione, e metterti innanzi tutti gli accessorii essenziali, anch'essi
in azione, cioè come movimenti, attitudini o motivi, accessorii che Dante fa
indovinare, e che qui si sviluppano nelle larghe pieghe dell'ottava. E perchè
gli oggetti sono còlti in azione o in movimento, le descrizioni sono rare e
sobrie, e appena accennati i caratteri e i paesaggi, che sono l'uomo e la
natura nel loro stato d'immobilità, e abbozzate le intramesse e le commettiture
e le circostanze facilmente intelligibili, e gli antecedenti richiamati
brevemente, e l'azione colta nel momento più interessante e condotta innanzi
con le vele gonfie e con prospero vento. Mai non ti accade d'impaludare o di
deviare: come in questo mondo par che non esistano limiti di spazio o di tempo,
così nello stile non trovi intoppi o ingombri, e sei in acqua limpida e
corrente. Tutto è succo e pieno di senso. Niente ci sta in modo assoluto: tutto
è relativo e intenzionale, e concorre all'effetto, ora serio ora comico.
L'effetto è quale te lo può dare un mondo di sola immaginazione, al quale il
poeta non prende altra partecipazione che artistica, che non ha alcuna
relazione con le sue passioni e i suoi sentimenti. L'effetto è una viva curiosità
sempre nutrita e accompagnata spesso da una tranquilla soddisfazione, come chi
sa di sognare, e gli piace, e tiene gli occhi mezzo chiusi, immerso in quella
contemplazione. Il sogno gli piace, pure non dice nulla al suo cuore e alla sua
mente: è un dolce ozio dell'immaginazione. È un flutto d'immagini così vive e
limpide, così naturali e così espressive, che ti tengono a sè e non ti
concedono alcuna distrazione; e ti giungono portate da onde sonore, tra colori
e tra mormorii, che dilettano la vista e suonano deliziosamente nell'orecchio.
Quel mondo è il tuo rêve, o per dirla con linguaggio tolto a quel mondo,
è il tuo castello incantato, il tuo sogno dorato. L'impressione non è così
profonda che oltrepassi l'immaginazione e colpisca il tuo essere in ciò che di
più serio ha il pensiero o il sentimento. La più gagliarda impressione ti
suscita appena una emozione, nuvoletta nel suo formarsi già sciolta in quel
limpido cielo. Di queste nuvolette leggiere, appena disegnate, è sparso il
racconto, e sono movimenti subitanei che provocano una risata o una lacrima,
immediatamente repressi e trasformati. Eccone qualche esempio:
-
Nè men ti raccomando ancora la mia Fiordi... -
ma
dir non puote “ligi”, e qui finìo...
Stese
la mano in quella chioma d'oro,
e
strascinollo a se' con violenza;
ma
come gli occhi in quel bel volto mise,
gli
ne venne pietade e non l'uccise.
Così subitanee e così fugaci sono
le tue emozioni, quando ti balzano innanzi certe immagini tenere. Si sveglia
subito nel tuo cuore qualche cosa che si move, e che non puoi chiamare ancora
“sentimento”, quando una nuova immagine ti avverte del gioco e ricaschi nella
tranquillità della tua visione. Una delle creature più simpatiche dell'Ariosto
è Zerbino, e quando gli giunge addosso la spada di Mandricardo, ci è nel nostro
cuore un piccol movimento, che risponde ai palpiti della sua Isabella; ma il
poeta con una galanteria piena di grazia paragona la lunga e non profonda
ferita al nastro purpureo, che partisce la tela d'argento ricamata dalla sua
bella, e spenge in sul nascere quel movimento. La morte di Zerbino è una scena
molto tenera, il cui sentimento troppo straziante è rintuzzato da immagini
graziosissime. Isabella è china sul morente: il poeta la guarda, e la trova
pallidetta come rosa:
rosa
non còlta in sua stagion, sì ch'ella
impallidisca
in su la siepe ombrosa.
Zerbino, morendo, nella sua
disperazione manda un ultimo sguardo pieno di passione all'amata:
per
queste bocca e per questi occhi giuro,
per
queste chiome onde allacciato fui...
Talora è una sola circostanza ben
collocata, che dal sentimentale ti gitta nell'immagine:
e
straccia a torto l'auree crespe chiome.
A quest'ufficio adempiono
specialmente i paragoni, che nel più vivo dell'emozione te ne distraggono e ti
presentano un altro oggetto. Sacripante nel suo dolore paragona la verginella
alla rosa. Angelica incalzata da Rinaldo pare una cavriola fuggente, che abbia
veduta la madre sotto i denti del pardo:
ad
ogni sterpo che passando tocca,
esser
si crede all'empia fera in bocca.
L'“impasto leone”, l'“uscito di
tenebre serpente”, l'“orsa assalita nella petrosa tana”, il “vase a bocca
stretta e a lungo collo, onde l'acqua esce a goccia a goccia”, e simili
spettacoli, non nuovi e non originali, come presso Dante, ma di apparenze e
movenze vivacissime, sono gagliarde diversioni e distrazioni che riconducono la
vita al di fuori anche nel maggiore strazio della passione. Veggasi nel canto
quarantacinquesimo il lamento di Bradamante, che è una vera canzone elegiaca,
sparsa di amabili paragoni. Quell'occhio vagante, che cerca se stesso nella
natura, ha già rasciutte le lacrime. Onde nasce quel tono generale del
sentimento più vicino all'elegiaco e all'idillico che all'eroico e al tragico;
ciò che è conforme non pure alla natura impressionabile e tenera del poeta, ma
alla stessa tendenza dell'arte, dal Petrarca in qua. Anche la natura rimane
tutta al di fuori e non ti cerca l'anima, com'è il giardino di Alcina e il
paradiso terrestre. Ci è l'immagine, non ci è il sentimento:
Zaffir,
rubini, oro, topazi e perle
e
diamanti e crisoliti e iacinti
potriano
i fiori assimigliar che per le
liete
piagge v'avea l'aura dipinti...
Cantan
fra i rami gli augelletti vaghi
azzurri
e bianchi e verdi e rossi e gialli,
murmuranti
ruscelli e cheti laghi
di
limpidezza vincono i cristalli.
Qual è il suono che manda questa
natura? Quali impressioni? Quali ispirazioni? Astolfo fra tanta bellezza guarda
e passa, e non gli si move il core che di maraviglia alla vista di un muro che
è tutto di una gemma
più
che carbonchio lucida e vermiglia.
O
stupenda opra! O dedalo architetto!
Non hai dunque il sentimento
della natura, come non hai il sentimento della patria, della famiglia,
dell'umanità, e neppure dell'amore, dell'onore. In luogo del sentimento hai la
sentenza morale, che è la sua astrazione, il sentimento naturalizzato e
cristallizzato in bei versi, come:
il
miser suole
dar facile credenza a quel che
vuole.
Ecco magnifiche sentenze intorno
all'amore:
Quel
che l'uom vede, Amor gli fa invisibile,
e
l'invisibil fa vedere Amore.
Che
non può far di un cor che abbia suggetto
questo
crudele e traditore Amore?...
Che
lietamente in sul principio applaude,
e
tesse di nascosto inganno e fraude.
...
... Amor che sempre
d'ogni
promessa sua fu disleale,
e
sempre guarda come involva e stempre
ogni
nostro disegno razionale...
Io
dico e dissi e dirò finch'io viva
che
chi si trova in degno laccio preso
pur
che altamente abbia locato il core
pianger
non dee, se ben languisce e muore.
Chi
mette il piè sull'amorosa pania,
cerchi
ritrarlo e non v'inveschi l'ale:
chè
non è in somma amor se non insania,
a
giudizio de' savi universale.
Oh
gran contrasto in giovenil pensiero
desir
di lauda ed impeto d'amore!
Né,
chi più vaglia, ancor si trova il vero,
chè
resta or questo, or guel superiore.
Amor
sempre rio non si ritrova:
se
spesso nuoce, anche talvolta giova.
La
lunga absenzia, il veder vari luoghi,
praticare
altre femmine di fuore,
par
che sovente disacerbi e sfogli
dell'amorose
passïoni il core.
Amor
dee far gentile un cor villano,
e
non far d'un gentil contrario effetto.
Queste sentenze non sono
osservazioni profonde e originali, ma luoghi comuni assai bene versificati, che
non lasciano alcun vestigio di sè. Il sentimento, ora condensato in una
sentenza, ora tradotto in una immagine, appena nato, si dissolve. Non mancano
tratti sentimentali, come è la risposta di Dardinello a Rinaldo, o di Agramante
a Brandimarte, o i lamenti di Olimpia o di Orlando o di Cloridano così musicali
ed elegiaci; ma stanno come inviluppati in quel mare fantastico, e naufragati
sotto a quei flutti d'immagini. Sono voci d'angoscia e di passione, che prima
di giungere a noi già si confondono col rumore delle onde e diventano visibili:
sono immagini Un ultimo esempio ce lo dà Orlando, che piangendo e chiamando
Angelica la paragona ad un'agnella smarrita, e ci fa intorno de' ricami.
In
una società così poco sentimentale, così superficiale e mobile, e così ricca
d'immaginazione, come povera di coscienza, si può concepire quale viva
ammirazione dovessero destare questi quadri plastici. La nuova letteratura
iniziata in quei giri musicali del Decamerone si contemplava e si
ammirava in queste flessuose ottave, dove la vita nella sua rapida vicenda è
così palpabile e così limpida “Procul este, profani.” Nessuna ombra del
reale, nessuno spettro del presente, nessuna voce profonda del cuore o della
mente venga a turbare questa danza serena. Siamo nel regno della pura arte:
assistiamo a' miracoli dell'immaginazione. Il poeta volge le spalle all'Italia,
al secolo, al reale e al presente, e naviga come Dante in un altro mondo, e
quando dalla lunga via ritorna, si circonda, come d'una corona, di poeti e di
artisti, vera immagine di quella Italia, madre della coltura e dell'arte, a cui
egli presentava l'Orlando. Ma Dante si traeva appresso nell'altro mondo
tutta la terra: la patria lo inseguiva anche colà co' suoi fantasmi. Ludovico
naviga con la testa scarica e il cuore tranquillo, come un pittore che viaggia
e dipinge quello che vede. Ciò che gli fa tremare la mano, ciò che gli fa
battere il cuore, è questo solo pensiero: “Quello che mi sta nella testa,
quello che io vedo così bene qua dentro, uscirà così sulla tela?”. E tocca e
ritocca, sino alla morte, scontento, inquieto: perchè non è tranquillo, chi ha
qualche cosa a realizzare, sulla terra. Ciò che Ludovico ha a realizzare non è
questo o quel contenuto nella sua realtà e serietà. Il mondo cavalleresco è per
lui fuori della storia, libera creatura della sua immaginazione. Ciò che ha a
realizzare in quello è la forma, la pura forma, la pura arte, il sogno di quel
secolo e di quella società, la musa del Risorgimento. Ed ha tutte le qualità da
ciò. Ha sensibilità più che sentimento; ha impressioni ed emozioni più che
passioni; ha vista chiara più che profonda; ha l'anima tranquilla, sgombra di
ogni preoccupazione, piena di fantasie, allegra nella produzione, e tutta
versata al di fuori nei suoi fantasmi. È lo spirito non ancora consapevole, che
vive al di fuori e si espande nel mondo e s'immedesima con quello e lo riflette
puro con brio giovanile. Così è venuto fuori quasi di un getto, quasi per
generazione spontanea, questo mondo cavalleresco, sorriso dalle Grazie, di una
freschezza eterna, tolto alle ombre e a' vapori e a' misteri del medio evo, e
illuminato sotto il cielo italiano di una luce allegra e soave. Niente è uscito
dalla fantasia moderna che sia comparabile a questo limpido mondo omerico. Il
Risorgimento realizzava il suo sogno, la nuova letteratura avea trovato il suo
mondo.
E
che cosa volea questa nuova letteratura? Non volea già questo o quel contenuto.
Era scettica e cinica, e credeva solo all'arte. E l'Ariosto le dava questo mondo
dell'arte in un contenuto di pura immaginazione.
Ma
non ci accostiamo molto a questa bella esteriorità. Se ci mettiamo sopra la
mano, la ci fugge come ombra, e se guardiamo al di sotto, pare non ci sia
nulla. Quando leggi Omero, senti uscirne, non sai come, le mille voci della
natura, che trovano un'eco nelle tue fibre, e sembrano le tue voci, le voci
della tua anima. Gli è che ivi la forma è esso medesimo il contenuto, e il
contenuto sei tu, è vita della tua vita, è sangue del tuo sangue. Qui il contenuto
è un giuoco della immaginazione, e non ti ci profondi e non ti ci appassioni,
appunto perchè hai il sentimento che è un giuoco. Talora sta per spuntarti la
lacrima, quando ti svegli di un tratto e scoppi in una risata.
Pare,
ma non è vero, che al di sotto di questa bella esteriorità non ci è nulla. Al
di sotto ci è Momo, ci è lo spirito di Giovanni Boccaccio.
L'elemento
dell'arte negativo e dissolvente avea già percorso tutto il suo ciclo a
Firenze, giunto sino alla pura buffoneria. Il Boccaccio, il Sacchetti, il
Magnifico, il Pulci, il Berni hanno il proposito espresso della caricatura,
hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in rilievo il lato comico.
L'Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco la cavalleria, come fece il
Cervantes, e nel suo mondo s'incontrano episodi comici, e anche licenziosi, e
anche grotteschi, come la Gabrina, con la stessa indifferenza che s'incontrano
episodi tragici ed elegiaci. Ma, se il suo riso non è intenzionale, non è
neppure un semplice mezzo di stile per divertire i lettori buffoneggiando, come
fece poi il Berni nel suo Orlando. Il suo riso è più serio e più
profondo.
È
il riso dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di ogni qualità; è,
se non ancora la scienza, il buon senso, generato da un sentimento già
sviluppato del reale e del possibile, è il riso precursore della scienza.
Ludovico
è innanzi tutto un artista. A questo mondo cavalleresco egli non ci crede; pur
se ne innamora, ci si appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, più serio
a lui che tutto il mondo che lo circonda. Ma è un amore, un interesse
semplicemente di artista. La sua immaginazione se lo assimila, ne acquista una
piena intelligenza, fa e disfà, compone e ricompone, con assoluta padronanza,
come materia di cui conosce tutti gli elementi, e che atteggia e configura a
suo genio. La materia, in Dante così resistente e scabra, qui perde i suoi
angoli e le sue punte, e come cera, riceve tutte le impressioni. L'immaginazione
le si accosta sgombra di ogni preconcetto e di ogni intenzione, e vi si cala e
vi si obblia, e pare non sia altro che la stessa materia. Il creatore è
scomparso nella creatura. L'obbiettività è perfetta. Ma guarda bene, e vedrai
sulla faccia di quella creatura la fisonomia poco riverente di colui che l'ha
creata, e che in certi momenti pare si burli della tua emozione e ti squadri la
mano. Non sai se è di te che si burli o della sua creatura, e a ogni modo ci
mette una grazia, che gli daresti un bacio. La burla ti coglie improvviso,
nella maggiore serietà della rappresentazione. Una barzelletta, un motto ti
disfà in un istante le creazioni più interessanti, e ti avviene così spesso,
che non ti abbandoni più e prendi guardia, e ti avvezzi a poco a poco a quell'ambiente
equivoco nel quale si aggira quel mondo. Quando l'autore sembra interamente
scomparso nella sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai che un bel
momento metterà fuori il capo e ti farà una smorfia. Di sotto a quella
obbiettività omerica si sviluppa di un tratto sotto forma d'ironia l'elemento
subbiettivo e negativo.
Cosa
è dunque questo mondo? È la sintesi del Risorgimento nelle sue varie tendenze.
È il medio evo, il mondo chiamato “barbaro”, il passato, rifatto
dall'immaginazione e disfatto dallo spirito. Ci è lì dentro quel sentimento
dell'arte, quel culto della forma e della bellezza, quella obbiettività di una
immaginazione giovane, ricca, analitica, pittoresca, che caratterizza la nuova
letteratura, che genera i miracoli della pittura e dell'architettura, e che lì
giunge alla sua perfezione, congiunta con lo splendore e con l'armonia la
massima semplicità e naturalezza di disegno. E c'è insieme quell'intimo senso
dell'uomo e della natura, o del reale, che ti atteggia il labbro ad un ghigno
involontario, quando ti vedi sfilare innanzi un mondo fuori della natura e
fuori dell'uomo, generato dalla tua immaginazione. Tu ammassi le nuvole; tu le
configuri; tu formi i magnifici spettacoli; e tu te la ridi, perchè sai che
quel mondo sei tu che lo componi, e non ci vedi altra serietà se non quella che
gli dà la tua immaginazione. Tu sei a un tempo fanciullo e uomo. Come
fanciullo, senti bisogno di esercitare la tua immaginazione, e formi soldati e
castelli e ci fantastichi intorno; ma ecco sopraggiungere l'uomo, che ti fa un
ghigno, e quel ghigno vuol dire: - Sono soldati e castelli di carta. - La
cultura è nel suo fiore, l'immaginazione è nel maggior vigore della sua
espansione, ed opera i più grandi miracoli dell'arte; ma lo spirito è già adulto,
materialista e realista, incredulo, ironico, e si trastulla a spese della sua
immaginazione. Questo momento dello spirito moderno, che ricompone il passato
non come realtà, ma come arte, e, appunto perchè semplice gioco d'immaginazione
o arte pura, lo perseguita della sua ironia, è la vita interiore del mondo
ariostesco, è il suo organismo estetico. Prendi un quadro di Raffaello ed un
sonetto del Berni, ed avrai accentuati gli estremi, tra' quali erra questa
unità superiore, dove sono fusi e contemperati ciò che è troppo ideale nell'uno
e ciò che è troppo grossolano nell'altro. La quale fusione è fatta con
gradazioni così intelligenti e con passaggi così naturali, e il lettore fin dal
principio vi è così ben preparato, che non hai dissonanze o stonature, e niente
ti urta, perchè il poeta opera senza coscienza o intenzione, e concepisce a
quel modo naturalmente, ed è lui medesimo l'unità che comunica al suo mondo.
Vedi
come concepisce. Il protagonista non è il savio Orlando, ma Orlando matto e
furioso. Questo tipo della cavalleria così trasformato è già una concezione
ironica. Ma guarda ora come vien fuori questa concezione. Il momento della
pazzia è rappresentato con tale realtà di colorito, che la tua illusione è
perfetta. Ci si vede una profonda conoscenza della natura umana nelle sue più
fine gradazioni. È un “crescendo” di particolari e di colori, che ti rendono
naturalissimo un fatto così straordinario. Venuto in furore e matto, il poeta
te lo abbandona alle risate del pubblico. Ad una scena tenera succede la più
schietta allegrezza comica, la caricatura spinta sino alla buffoneria. Anche il
modo come Orlando riacquista il senno ha un profondo senso comico. Secondo le
tradizioni del medio evo, l'uomo non può trovare la pace che nell'altro mondo.
È la base della Divina Commedia. Il poeta materializza questo concetto e
lo rende comico, cavandone la bizzarra concezione che ciò che si perde in
terra, si ritrova nell'altro mondo. Di qui il viaggio di Astolfo sull'ippogrifo
nell'altro mondo, che è una vera parodia del viaggio dantesco. Il fumo e il
puzzo gl'impedisce di entrare nell'inferno; ma all'ingresso trova le prime
peccatrici, punite, come Lidia, per la soverchia crudeltà verso gli amanti. È
il concetto della Francesca da Rimini preso a rovescio, e divenuto comico. Poi
sale al paradiso terrestre, e in un bel palagio di gemme trova san Giovanni
evangelista, Enoch ed Elia, che gli danno alloggio in una stanza e provvedono
di buona biada il suo cavallo, e a lui danno frutti di tal sapore,
che
a suo giudicio sanza
scusa
non sono i due primi parenti
se
per quei fur sì poco ubbidienti.
Astolfo vi trova buon cibo, buon
riposo e “tutt'i comodi”. È il paradiso terrestre materializzato. Di là,
“uscito del letto”, con san Giovanni ascende sulla Luna. Qui la parodia prende
forma satirica, senza fiele e in aria scherzosa. In un vallone è ammassato ciò
che in terra si perde:
Le
lacrime e i sospiri degli amanti,
l'inutil
tempo che si perde a giuoco,
e
l'ozio lungo d'uomini ignoranti;
vani
disegni che non han mai loco,
i
vani desidèri sono tanti,
che
la più parte ingombran di quel loco:
ciò
che in somma qua giù perdesti mai,
là
su salendo ritrovar potrai.
Per
comprendere questa ironia, bisogna ricordare che la Luna era come un castello
di Spagna o un castello in aria nelle idee popolari, e anche oggidì uno che
vive nelle astrattezze si dice che “sta nel regno della luna”. Là si trova in
varie ampolle un liquore sottile e molle, che è il senno che si perde in terra.
Di
sofisti e di astrologhi raccolto
e
di poeti ancor ve n'era molto.
Chiama sofisti i filosofi e li
mette a un mazzo con gli astrologhi e i poeti. Dove il medio evo vedea il
maggior senno, egli vede vacuità e astrazione. La fine è di una schietta
allegria:
e
vi son tutte l'occorrenze nostre;
sol
la pazzia non v'è poca, nè assai,
chè
sta qua giù, nè se ne parte mai.
L'ironia colpisce anche Angelica,
la figliuola del maggior re del Levante, l'amata di Orlando, di Rinaldo, di
Sacripante, di Ferraù, che finisce moglie di un “povero fante”. La scena
comincia nel Boiardo con le più eroiche apparenze della cavalleria, giostre,
tornei, duelli, con Carlomagno circondato de' suoi paladini, tra il fiore de'
cavalieri di Francia, di Spagna, di Lamagna, d'Inghilterra, tra cui pompeggia
la figura di Angelica, la reina del racconto; e va a finire in un idillio,
negli amori di Angelica e Medoro. Ciò che nel Boiardo ha proporzioni epiche e
cavalleresche, soprattutto nelle battaglie di Albracca, passando nel cervello
di Ludovico, si trasforma in una concezione ironica.
Anche
nella guerra tra Carlo e Agramante, unità esteriore e meccanica del poema, la
cavalleria è guardata da un aspetto comico. Il lato eroico della cavalleria è
l'individualità, quella forza d'iniziativa che fa di ogni cavaliere l'uomo
libero, che trova il suo limite in se stesso, cioè a dire nelle leggi
dell'amore e dell'onore, a cui ubbidisce volontariamente. Togli il limite, e
l'iniziativa individuale diviene confusione e anarchia, l'eroico divien comico.
Il cavaliere non ubbidisce più che a' suoi istinti e passioni; si sviluppa in
lui la parte bestiale, nascono collisioni e attriti del più alto effetto
comico. Il concetto è già adombrato con brio nel ritratto della Discordia,
capitata da san Michele in un convento di frati, “tra santi ufficii e messe”:
avea
dietro e dinanzi e d'ambi i lati
notai,
procuratori ed avvocati.
Questa scena, dove sono attori
san Michele, il Silenzio, la Frode, la Discordia, è ammiratissima per
originalità di concezione e fusione di colori:
Dovunque
drizza Michelangel le ale,
fuggon
le nubi e torna il ciel sereno,
gli
gira intorno un aureo cerchio, quale
veggiam
di notte lampeggiar baleno.
Versi stupendamente epici, che vanno
digradando fin nel satirico con naturali mutamenti di tono. Ed è un satirico
ancora più efficace, perchè non ci è apparenza d'intenzione satirica, anzi ci
si rivela una bonomia, un'aria senza malizia, dov'è la finezza dell'ironia
ariostesca. La Discordia fa il suo mestiere, e ne viene la famosa scena nel
campo di Agramante rimasta proverbiale dov'è il vero scioglimento dell'azione,
il motivo interno della dissoluzione e della sconfitta dell'esercito pagano. I
movimenti comici in questa scena sono più nelle cose che nelle frasi, fondati
su quel subitaneo e impreveduto delle impressioni e degl'istinti che toglie
luogo alla riflessione e spinge i cavalieri gli uni contro gli altri. Rodomonte
è il più spiccato carattere di questo genere, ed è rimasto proverbiale, mistura
di forza e di coraggio e di bestialità. Le sue imprecazioni contro le donne, la
sua credulità e sciocchezza nel fatto d'Isabella, la sua comica lotta col pazzo
Orlando, la sua scurrilità e grossolanità verso Bradamante sono tratti felicissimi,
che mettono in evidenza il cavaliere errante nel suo aspetto comico, materia
gigantesca vuota di senno, grossolana e bestiale. Il contrapposto è Ruggiero,
“di virtù fonte”, nel quale il poeta ha voluto rappresentare la parte seria ed
eroica del cavaliere, leale, gentile, magnanimo. Nella sua concezione ci entra
un po' l'Achille omerico, un po' Damone e Pizia, Quinzio e Flaminio, collisioni
tra l'onore e l'amore, tra l'amore e l'amicizia, da cui escono molti effetti
drammatici. Ma chi ha studiato un po' Ludovico, come si dipinge egli medesimo,
vede che l'uomo è al di sotto del poeta nè in lui ci è la stoffa, da cui escono
le grandi figure eroiche, ne ci è nel suo tempo. Manca al suo eroe prediletto
semplicità e naturalezza: l'eroico va digradando nel fantastico e
nell'idillico. Perciò il suo Ruggiero non ha potuto togliere il posto a Orlando
e Rinaldo, gli eroi dell'antica cavalleria, e malgrado le sue simpatie pel
fondatore di casa d'Este, l'interesse è assai più per Orlando e Rodomonte,
creazioni geniali e originali.
L'ironia
è non solo nella concezione fondamentale del poema, ma negli accessorii
cavallereschi. L'amore di Orlando verso Angelica è stato perfettamente
cavalleresco, sì che, avendola per molto tempo in sua mano, non le ha tolto
l'onore, “almeno” secondo che Angelica ne assicura Sacripante, il quale dal
canto suo non vuole essere “così sciocco”. Doralice piange la morte di
Mandricardo; ma, se non fosse vergogna, andrebbe “forse” a stringer la mano a
Ruggiero:
Io
dico “forse”, non ch'io ve l'accerti,
ma
potrebbe esser stato di leggiero...
Per
lei buono era vivo Mandricardo;
ma
che ne volea far dopo la morte?
Un riso scettico aleggia sulle
virtù cavalleresche e sui grandi colpi de' cavalieri, quei gran colpi “ch'essi
soli sanno fare”. Una frase, un motto scopre l'ironia sotto le più serie
apparenze. È un riso talora a fior di labbra, appena percettibile nella serietà
della fisonomia.
Questo
risolino che quasi involontariamente erra tra le labbra e non si propaga sulla
faccia, e non degenera che assai di rado in aperta e sonora risata, questa
magnifica esposizione artistica che ti dà tutta l'apparenza e l'illusione della
realtà nelle cose più strane e assurde, tutto questo, fuso insieme senz'aria
d'intenzione e di malizia e con perfetta bonarietà, ti mostra la concezione
come un corpo in movimento e cangiante, che non puoi fissare e definire, più
simile a fantasma che a corpo. Non sai se è cosa seria o da burla; pur ti
piace, perchè, mentre la tua immaginazione è soddisfatta, il tuo buon senso non
è offeso, e contempli le vaghe fantasie egregiamente dipinte di secoli
infantili col risolino intelligente di un secolo adulto.
Questo
mondo, dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria,
non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore e non amore, questo
mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e
si trastulla a proprie spese, è in fondo una concezione umoristica profondata e
seppellita sotto la serietà di un'alta ispirazione artistica. Il poeta
considera il mondo non come un esercizio serio della vita nello scopo e ne'
mezzi, ma come una docile materia abbandonata alle combinazioni e a' trastulli
della sua immaginazione. Ci è in lui la coscienza che il suo lavoro è così serio
artisticamente, come è serio il lavoro di Omero, di Virgilio o di Dante, e ci è
insieme la coscienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò dal
punto di vista del reale uno scherzo, o come dicea il cardinale Ippolito, una
“corbelleria”. E sarebbe stato una corbelleria, se l'autore avesse voluto
dargli più serietà che non portava, e fondarvi sopra una vera epopea. Ma la
corbelleria diviene una concezione profonda di verità, perchè il poeta è il
primo a riderne dietro la tela, ed ha l'aria di beffarsi lui de' suoi uditori.
Questo stare al di sopra del mondo, e tenerne in mano le fila, e fare e disfare
a talento, considerandolo non altrimenti che un arsenale d'immaginazione, è ciò
che dicesi “capriccio” e “umore”. Se non che il poeta è zimbello spesso della
sua immaginazione, e si obblia in quel suo mondo, e gli dà l'ultima finitezza.
Di che nasce che l'umore piglia la forma contenuta dell'ironia, e tu ondeggi in
una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e falso confondono i
loro confini, e dove tutto è superficie, passioni, caratteri, mezzi e fini,
superficie maravigliosa per chiarezza, semplicità e naturalezza di esposizione,
che all'ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una frase ironica,
dispare, ma dopo di avere destata la tua ammirazione e suscitate in te molte
emozioni. In questo mondo fanciullesco dell'immaginazione, dove si rivela un
così alto sentimento dell'arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e
illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno. E perchè
questo è fatto senza espressa intenzione, anzi con la bonomia e naturalezza di
chi sente e concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra loro in
antitesi, come nel Cervantes, ma convivono, entrano l'uno nell'altro, sono la
rappresentazione artistica dell'un mondo con sópravi l'impronta dell'altro. In
questa fusione più sentita che pensata, e che fa dell'autore e della sua
creazione un solo mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la verità e la
perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per la sua eccellenza come opera di
pura arte il lavoro più finito dell'immaginazione italiana, e per il profondo
significato della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello spirito
umano.
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