XV
MACHIAVELLI
Dicesi che Machiavelli fosse in
Roma, quando il 1515 uscì in luce l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma
non celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista
ch'egli stese nell'ultimo canto di poeti italiani. Questi due grandi uomini,
che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, ancorchè
contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro.
Niccolò
Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisonomia essenzialmente
fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un piacevolone,
che si spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate,
verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vedi nel
Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulci e in Lorenzo e nel Berni. Poco agiato de'
beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un
letterato fra' tanti stipendiati a Roma, o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma
caduti i Medici, ristaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte
principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e
fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla
repubblica, per la quale non gli parve assai di sostenere la tortura, poi che
tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò la sua
tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio
di San Casciano meditò su' fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi
d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mantenere la
sua indipendenza, se non fosse unita tutta o gran parte sotto un solo principe.
E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare
l'impresa. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi, e trarlo di ozio e
di miseria. All'ultimo, poco e male adoperato da' Medici, finì la vita
tristamente, lasciando non altra eredità a' figliuoli che il nome. Di lui fu
scritto: “Tanto nomini nullum par elogium”.
I
suoi Decennali, arida cronaca delle “fatiche d'Italia di dieci anni”, scritta
in quindici dì, i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di
bestie satira de' degeneri fiorentini, gli altri suoi capitoli dell'Occasione,
della Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione, i suoi
canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni,
sono lavori letterari su' quali è impressa la fisonomia di quel tempo, alcuni
tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi.
Il verso rasenta la prosa; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni
sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato appariscono i vestigi
di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di osservazione.
Manca l'immaginativa: soprabbonda lo spirito. Ci è il critico, non ci è il
poeta. Non ci è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica,
come era Ludovico Ariosto. Ci è l'uomo che si osserva anche soffrendo, e
sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo
poetare è un discorrere:
Io
spero, e lo sperar cresce il tormento,
io
piango, e 'l pianger ciba il lasso core;
io
rido, e il rider mio non passa drento;
io
ardo, e l'arsion non par di fuore;
io
temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento,
ogni
cosa mi dà nuovo dolore;
così
sperando piango, rido e ardo,
e
paura ho di ciò che io odo o guardo.
Tali sono pure le sue
osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna.
Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come ne' Decennali:
la
voce d'un Cappon tra cento Galli,
e qualche sentenza o concetto
profondo, come nel canto De diavoli o de' romiti. Il suo capolavoro è il
capitolo dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso
e ti fa pensoso. Nel poeta si sente lo scrittore del Principe e de' Discorsi.
Anche
in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano
in quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue
prediche alle confraternite, nella descrizione della peste, e ne' discorsi che
mette in bocca a' suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con
una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della
rettorica e gli artifici dello stile: ciò che si chiamava eleganza.
Ma
nel Principe, ne' Discorsi, nelle Lettere, nelle Relazioni,
ne' Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come
gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria di chi reputi indegno della sua
gravità correre appresso alle parole e a' periodi. Dove non pensò alla forma
riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana.
È
visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo,
impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel tempo. E avea pure quel
senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese Lorenzo
eminente fra' principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a
Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli, quando vivea Ferdinando
d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il Moro, e gli ambasciatori veneziani
scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti, presso le quali dimoravano.
Ci era l'arte, mancava la scienza. Lorenzo era l'artista. Machiavelli doveva
essere il critico.
Firenze
era ancora il cuore d'Italia: lì ci erano ancora i lineamenti di un popolo, ci
era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea
ghibellina e guelfa era spenta, ma ci era invece l'idea repubblicana alla
romana, effetto della coltura classica, che fortificata dall'amore tradizionale
del viver libero e dalle memorie gloriose del passato, resisteva a' Medici.
L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra
dell'animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi, Michelangiolo,
Ferruccio, e l'immortale resistenza agli eserciti papali imperiali.
L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore della libertà erano forze
morali fra quella corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal
contrasto.
Machiavelli
per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa, per lo spirito beffardo
e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova
letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò le accetta tutte, e
magnificando la morale in astratto vi passa sopra nella pratica della vita. Ma
ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte
politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza non è
vuota. Ci è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria. Il suo ingegno
superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del
possibile. E quando vide perduta la libertà, pensò all'indipendenza, e cercò
negli stessi Medici l'istrumento della salvezza. Certo, anche questa era
un'utopia o una illusione, un'ultima tavola alla quale si afferra il misero
nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia, che rivelava la forza e la giovinezza
della sua anima e la vivacità della sua fede. Se Francesco Guicciardini vide
più giusto e con più esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua
coscienza era già vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta a'
posteri simpatica e circondata di un'aureola poetica per la forte tempra, e la
sincerità del patriottismo e l'elevatezza del linguaggio e per quella sua aria
di virilità e di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua
influenza non fu pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino,
come si direbbe oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita
scorretta, le abitudini plebee e “fuori della regola”, come gli rimproverava il
correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano riputazione. Consapevole di sua
grandezza, spregiava quella esteriorità delle forme e que' mezzi artificiali di
farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili a' mediocri. Ma la sua
influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre
ingrandendo fra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome
è rimasto la bandiera, intorno alla quale hanno battagliato le nuove
generazioni nel loro contraddittorio movimento ora indietro, ora innanzi.
Ci
è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue il Principe,
che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da
questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e
scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un
codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i
mezzi, e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machiavellismo questa
dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo libro ingegnosissime,
attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così
n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito.
Questa
critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza
di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire
tutta intera l'immagine, e cercare ivi i fondamenti della sua grandezza.
Niccolò
Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel
movimento, che nella sua spontaneità dal Petrarca e dal Boccaccio si stende
sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa,
cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a
quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato
il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio
e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società, e interrogarla: - Cosa
sei? Dove vai? -
L'Italia
aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con l'occhio di
Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo
modello era il mondo greco e romano, che si studiava di assimilarsi. Soprastava
per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva
senza contrasto il primato intellettivo in Europa. Grave fu lo sgomento
negl'italiani, quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si ausarono, e
trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superiorità
dell'ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere tra lanzi, svizzeri,
tedeschi e francesi e spagnuoli l'alto e spensierato riso di letterati,
artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fino
ne' campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra'
lazzi di Pietro Aretino. Gli stranieri guardavano attoniti le maraviglie di
Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi
regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza
celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia era inchinata e studiata
da' suoi devastatori, come la Grecia fu da' romani.
Fra
tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo
sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia, dove altri vedevano la
più prospera salute. Quello che oggi diciamo decadenza egli disse “corruttela”,
e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto, la corruttela della razza
italiana, anzi latina, e la sanità della germanica.
La
forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del
linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina,
ed ora messa in mostra ne' dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le
classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una
salsa piccante che dava sapore alla vita. La licenza accompagnata con l'empietà
e l'incredulità avea a suo principal centro la corte romana, protagonisti
Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le
ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.
Nondimeno
il clero per abito tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il
Vangelo rimaneva sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun
conto nella vita pratica: il pensiero non era più la parola e la parola non era
più l'azione, non ci era armonia nella vita. In questa disarmonia era il
principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di
novelle e di capitoli.
Nessun
italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, a' cui
allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E
nessuno poteva non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione della
coscienza. Sentimenti e desidèri vani, affogati nel rumore di quei baccanali.
Non ci era il tempo di piegarsi in sè, di considerare la vita seriamente. Pure
erano sentimenti e desidèri che più tardi fruttificarono e agevolarono l'opera
del Concilio di Trento e la reazione cattolica.
Rifare
il medio evo, e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una
ristaurazione religiosa e morale era stato già il concetto di Geronimo
Savonarola, ripreso poi e purgato nel Concilio di Trento. Era il concetto più
accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la
medicina a' loro mali nel passato.
Machiavelli,
pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano, giudicava quella
corruttela da un punto di vista più alto. Essa era non altro che lo stesso
medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza, vivo ancora nelle forme e
nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse di ricondurre indietro l'Italia e
di ristaurare il medio evo, concorse alla sua demolizione.
L'altro
mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre concetti fondamentali,
intorno a' quali si aggira la letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura
è la parodia più o meno consapevole. Anche nella faccia del Machiavelli
sorprendi un movimento ironico, quando parla del medio evo, soprattutto allora
che affetta maggior serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i
suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col
Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa razza, dalla
quale era uscito Astarotte.
Ma
la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da
coscienza vuota. In quella negazione ci è un'affermazione, un altro mondo sorto
nella sua coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente.
Papato
e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste
istituzioni sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo
spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.
Le
idee che generarono quelle istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di
sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della
corruttela italiana. Questo popolo non si può rinnovare, se non rifacendosi una
coscienza. Ed è a questo che attende Machiavelli. Con l'una mano distrugge, con
l'altra edifica. Da lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota,
la ricostruzione.
Non
è possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la
idea fondamentale.
Il
medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è attaccarsi a questa vita,
come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della vita terrena e
contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la verità, ma
ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che dee
essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo. L'inferno. Il Purgatorio.
Il Paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia. Da questo
concetto della vita teologico-etico uscì la Divina Commedia e tutta la
letteratura del Dugento e del Trecento.
Il
simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La
realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo: l'amore è un simbolo. E
l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o
negli universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo,
l'universale da cui esce il particolare.
Tutto
questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato, caricato,
parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma
cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del
peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo. Andavano insieme
teologi e astrologi e poeti, tutti visionari: conclusione geniale della Maccaronea,
ispirata al Folengo dal mondo della Luna ariostesco. In teoria ci era una piena
indifferenza, e in pratica una piena licenza.
Machiavelli
vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita, e la stessa
indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel
tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni
filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche.
E a ogni modo non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.
Nelle
scienze naturali non sembra sia molto innanzi, quando vediamo che in alcuni
casi accenna all'influsso delle stelle. Battista Alberti avea certo una coltura
più vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo della natura, è filosofo
dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e prepara Galileo.
L'uomo,
come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del
medio evo, e non la faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia
moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno scopo.
Ciascun
uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue attitudini. La vita non
è un giuoco d'immaginazione, e non è contemplazione Non è teologia, e non è
neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi.
Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le
forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua attività:
questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli.
È
negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento. La
contemplazione divina lo soddisfa così poco, come la contemplazione artistica.
La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e possano
costituire lo scopo della vita. Combatte l'immaginazione, come il nemico più
pericoloso, e quel veder le cose in immaginazione e non in realtà gli par
proprio esser la malattia che si ha a curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna
giudicar le cose come sono, e non come debbono essere.
Quel
“dover essere”, a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel
Risorgimento, dee far luogo all'“essere”, o com'egli dice, alla verità “effettuale”.
Subordinare
il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale
ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione, questa è la base del
Machiavelli.
Risecati
tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la
patria. La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il
patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria.
Nel
medio evo non ci era il concetto di patria: ci era il concetto di fedeltà e di
sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore,
rappresentanti di Dio; l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società.
Intorno a questi due “Soli” stavano gli astri minori, re, principi, duchi,
baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la
libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per
la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano
legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re
di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il dritto di rappresentarlo e
interpretarlo. È un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo.
Ci
era ancora il papa e ci era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava
la loro potenza, non ci era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e
l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio, il papa, ingrandito di
territorio, diminuito di autorità, l'imperatore debole e impacciato a casa.
Di
papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per
riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di
quel mondo rimanevano avanzi in Italia il papa, i gentiluomini e gli
avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un
sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia.
Democratico, combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai
aspramente i gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o
avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero,
e propone e svolge largamente il concetto di una milizia nazionale Nel papato
temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del
medio evo.
La
“patria” del Machiavelli è naturalmente il comune libero, libero per sua virtù
e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di
tutti.
Ma,
osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de' grandi Stati
che si erano formati in Europa, e come il comune era destinato anch'esso a
sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo comune gli par
cosa troppo piccola e non possibile a durare dirimpetto a quelle potenti
agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano “Stati” o “Nazioni”. Già
Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che
assicurasse l'“equilibrio” tra' vari Stati e la mutua difesa, e che pure non
riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone addirittura la
costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo
straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo
comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca è il “giardino
dell'impero”; nell'utopia del Machiavelli è la “patria”, nazione autonoma e
indipendente.
La
“patria” del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla
legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sè l'individuo, e in
nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era
lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime
nella vita pubblica. “Ragion di Stato” e “salute pubblica” erano le formole
volgari, nelle quali si esprimeva questo dritto della patria, superiore ad ogni
dritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la “patria”, ed
era non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era “suprema lex”.
Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere
collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi
la servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla
cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della
libertà. L'uomo non era un essere autonomo, e di fine a se stesso: era
l'istrumento della patria, o ciò che è peggio, dello Stato: parola generica,
sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico,
fondato sull'arbitrio di un solo. Patria era dove tutti concorrevano più o meno
al governo, e se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò che dicevasi
“repubblica”. E dicevasi “principato”, dove uno comandava e tutti ubbidivano.
Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo
assorbito nella società, o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.
Queste
idee sono enunciate dal Machiavelli, non come da lui trovate e analizzate, ma
come già per lunga tradizione ammesse, e fortificate dalla coltura classica. Ci
è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di
libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non
solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato.
La
patria assorbisce anche la religione. Uno Stato non può vivere senza religione.
E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè a difesa del
suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perchè co'
suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della
religione. Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del principe
un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed era arte
presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la moralità gli
piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede, la sincerità
e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le incontra
sulla sua via non istrumenti, ma ostacoli, gli spezza. Leggi spesso lodi
magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni principi; ma ci odori
un po' di rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo della sua prosa. Non è
in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e
morale schietto e semplice.
Noi
che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che
si emancipa dalla teocrazia, e diviene a sua volta invadente. Ma allora la
lotta era ancor viva, e l'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le
esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del
potere civile, che ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di
vassallaggio e di subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non ci è alcun
vestigio di diritto divino. Il fondamento delle repubbliche è “vox populi”,
il consenso di tutti. E il fondamento de' principati è la forza, o la conquista
legittimata e assicurata dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa ci
entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e
nell'osservanza delle leggi.
Stabilito
il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono
piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno “disarmato il
cielo e effeminato il mondo” e che rendono l'uomo più atto a “sopportare le
ingiurie che a vendicarle”. “Agere et pati fortia romanum est”. Il
cattolicismo male interpretato rende l'uomo più atto a patire che a fare. Il
Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la
fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani inetti a cacciar via
gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della patria. La virtù è
da lui intesa nel senso romano, e significa “forza”, “energia”, che renda gli
uomini atti a' grandi sacrifici e alle grandi imprese. Non è che agl'italiani manchi
il valore; anzi ne' singolari incontri riescono spesso vittoriosi: manca
l'educazione o la disciplina o, come egli dice, “i buoni ordini e le buone
armi”, che fanno gagliardi e liberi i popoli.
Alla
virtù premio è la gloria. “Patria”, “virtù”, “gloria”, sono le tre parole
sacre, la triplice base di questo mondo.
Come
gl'individui hanno la loro missione in terra, così anche le nazioni.
Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono atomi perduti, “numerus
fruges consumere nati”. E parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non
lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno
adempiuto un ufficio nell'umanità, o, come dicevasi allora, nel genere umano,
come Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù
o la tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la
forza morale. Ma come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza,
quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la
tempra si fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e passa ad
altre nazioni.
Il
mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano,
che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non
è la provvidenza, e non la fortuna, ma la “forza delle cose”, determinata dalle
leggi dello spirito e della natura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà
ed immortale nella sua produzione.
Perciò
la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma
concatenazione necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe
in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli uomini.
La
politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo etico,
determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si trova
nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che
muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste
forze e volgerle a' suoi fini.
La
grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma
sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che
le movono. E quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono.
E
a governare, quelli che stanno solo in sul lione, non se ne intendono. Ci vuole
anche la volpe, o la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio
delle forze che muovono gli Stati.
Come
gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro, dritti e doveri. E come ci
è un dritto privato, così ci è un dritto pubblico, o dritto delle genti, o,
come dicesi oggi, dritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi.
Le
nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane, passa
di una nazione in un'altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia
del genere umano. C'è dunque non solo la storia di questa o quella nazione, ma
la storia del mondo, anch'essa fatale e logica, determinata nel suo corso dalle
leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia
dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto “filosofia della
storia”.
Di
questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non ci è nel
Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con
chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la
storia.
Questi
concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una
lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel
grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo
l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la
conoscenza e il possesso di se stesso. E a' contemporanei non parvero nuovi, nè
audaci, veggendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago.
L'influenza
del mondo pagano è visibile anche nel medio evo, anche in Dante Roma è presente
allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare, e qui
è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le
gloriose imprese della repubblica “miracoli della provvidenza”, come
preparazione all'impero: dove pel Machiavelli non ci sono miracoli, o i
miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalissima
alla virtù. Di lui è questo motto profondo: “I buoni ordini fanno buona
fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese”. Il
classicismo adunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due età
inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante ci è il
misticismo e il ghibellinismo; la corteccia è classica, il nocciolo è
medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli ci è lo spirito moderno che
ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quanto biasima i tempi suoi, dove
“non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia e
vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia,
ma sono maculati di ogni ragione bruttura”. Crede con gli ordini e i costumi di
Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in
molte proposte e in molte sentenze senti i vestigi di quell'antica sapienza. Da
Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale.
Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo
bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino
equivoco. Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a
modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno,
sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla
naturale. È in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto
precisi de' tempi moderni.
Il
medio evo qui crolla in tutte le sue basi, religiosa, morale, politica,
intellettuale. E non è solo negazione vuota. È affermazione, è il verbo. Di
contro a ciascuna negazione sorge un'affermazione. Non è la caduta del mondo, è
il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza
dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche del
medio evo, sorge un nuovo ente, la Nazione, alla quale il Machiavelli assegna i
suoi caratteri distintivi, la razza, la lingua, la storia, i confini. Tra le
repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto, che
riunisca i vantaggi delle une e degli altri, e assicuri a un tempo la libertà e
la stabilità, governo che è un presentimento de' nostri ordini costituzionali,
e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma
degli ordini politici in Firenze. È tutto un nuovo mondo politico che appare.
Si vegga, fra l'altro, dove il Machiavelli tocca della formazione de' grandi
Stati, e soprattutto della Francia.
Anche
la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni
temporalità, e, come Dante, combatte la confusione de' due reggimenti, e fa una
descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la profondità
dell'ironia. La religione ricondotta nella sua sfera spirituale è da lui
considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione, come istrumento di
grandezza nazionale. È in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente
dallo Stato, e accomodata a' fini e agl'interessi della nazione.
Altra
è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la santificazione
dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se
biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso
l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia, non è la vita
contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la vita attiva,
vita di azione, e in servigio della patria. I suoi santi sono più simili agli
eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O per dir meglio,
il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota.
E
si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il
Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne
occupa, e quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto.
Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a
base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore
della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. È il famoso “cogito”,
nel quale s'inizia la scienza moderna. È l'uomo emancipato dal mondo
soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la
sua indipendenza, e prende possesso del mondo.
E
si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità a priori e
princìpi astratti, e non riconosce autorità di nessuno, come criterio del vero.
Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale, mondi d'immaginazione,
fuori della realtà. La verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla
è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente de'
fatti. Tutto il formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato
sulle combinazioni astratte dell'intelletto incardinate nella pretesa esistenza
degli universali sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale.
Le proposizioni generali, le “maggiori” del sillogismo, sono capovolte e
compariscono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla
riflessione. In luogo del sillogismo hai la “serie”, cioè a dire concatenazione
di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio:
“Avendo la
città di Firenze ... perduta parte dell'imperio suo, fu necessitata a fare
guerra a coloro che lo occupavano, e perchè chi l'occupava era potente, ne
seguiva che si spendeva assai nella guerra senza alcun frutto: dallo spendere
assai ne risultava assai gravezze, dalle gravezze infinite querele del popolo;
e perchè questa guerra era amministrata da un magistrato di dieci cittadini, ...
l'universale cominciò a recarselo in dispetto, come quello che fosse cagione e
della guerra e delle spese di essa.”
Qui
i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una
doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo
intelligente; l'altra semplicissima che ti dà la causa apparente e
superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte
l'universale, con una serietà ed una sicurezza, che rende profondamente ironica
la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella
natura e nell'uomo, non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi sono
legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il suo
posto, ha il suo valore di causa o di effetto, ha il suo ufficio in tutta la
catena: il fatto non è solo fatto, o accidente, ma è ragione, considerazione:
sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche
pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo
alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anch'essi fatti
intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra. Sono
fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione,
e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti
intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti, com'è quel
“ritirare le cose a' loro princìpi”, o quell'ironia de' “profeti disarmati”, o
“gli uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono”, o “gli uomini
bisogna carezzarli o spegnerli”. Di queste sentenze o pensieri ce ne sono
raccolte. E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti
delle sue spoglie. Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una
mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi.
Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne'
lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una
proposizione corteggiata dalla sua maggiore e dalle sue idee medie, ciò che
dicevasi dimostrazione, se la materia era intellettuale, o descrizione, se la
materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato
ogni corteggio; non descrive e non dimostra, narra o enuncia, e perciò non ha
artificio di periodo. Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma
stessa come forma, e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità
riconosciuta. Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per
lui il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma
è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza
intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia
ragionevole, o morale, o bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si
vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti.
La base della vita, e perciò del sapere, è il “Nosce te ipsum”, la conoscenza
del mondo nella sua realtà. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il
moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati
all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento
astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo
motto è: “Nil admirari”. Non si maraviglia e non si appassiona, perchè
comprende, come non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la
cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni,
le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come
ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la diritta:
non si distrae e non distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni
e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti, e tutti gli
episodi. Ha l'aria del pretore, che “non curat de minimis”, di un uomo
occupato in cose gravi, che non ha tempo, nè voglia di guardarsi attorno.
Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in
Tacito e sempre è nel Davanzati, ma è naturale chiarezza di visione, che gli
rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno
bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di
cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con
belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli oziosi. La sua
semplicità talora è negligenza; la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle
sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le
gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi,
slegature, scorrezioni e simili negligenze.
La
prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna
coesione: vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto.
Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura,
la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel
lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la
dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza,
indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori,
frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà
degli argomenti gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di
argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò
rettorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa
scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul
forno, salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della
sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le
due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita
ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il
Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne' costumi e ne'
modi. Anche l'intelletto, in quella sua virilità ozioso, poneva la principale
importanza della composizione ne' costumi e ne' modi, ovvero nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale,
un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo.
I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche, i poeti
petrarcheggiavano, i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e rettorico,
con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o
indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di
tutta l'anima. Ci era lo scrittore, non ci era l'uomo. E fin d'allora fu
considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che
dicevasi “forma letteraria”, nella piena indifferenza dell'animo: divorzio
compiuto tra l'uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose rettoriche e
poetiche comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna.
Qui l'uomo è tutto, e non ci è lo
scrittore, o ci è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che
ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o
convenzione. Talora ci si prova, e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il
letterato anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è una produzione
immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro, cose e impressioni
spesso condensate in una parola. Perchè è un uomo che pensa e sente, distrugge
e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la
cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni
fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di
malinconia, d'indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella sua
chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo
qua e là venato. È la grande maniera di Dante che vive là dentro. Parlando dei
mutamenti introdotti al medio evo ne' nomi delle cose e degli uomini, finisce
così: “e i Cesari e i Pompei Pietri, Mattei e Giovanni diventarono”. Qui non ci
è che il marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte
le impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei
Cesari e Pompei, il disprezzo per quei Pietri e Mattei, lo sdegno di quel
mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica de' nomi, al loro collocamento
in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico “diventarono”, che
accenna a mutamenti non solo di nomi, ma di animi. Questa prosa asciutta,
precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già
adulto emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo
regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno. Questo
è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo concepisce.
Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è, un attrito di forze
umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi “fato”, non è altro
che la logica, il risultato necessario di queste forze, appetiti, istinti,
passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da una forza
superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di Dante è
l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza.
Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze
mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare -, dice Dante. - Bisogna
intendere -, dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore: l'anima
del mondo machiavellico e il cervello. Quel mondo è essenzialmente mistico ed
etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo
significato. Non è sentimento morale, ma è semplicemente forza o energia, la
tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso, perchè avea la forza di operare
secondo logica, cioè di accettare i mezzi, quando aveva accettato lo scopo. Se
l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello.
Ora
possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di
Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col
cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende
il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato,
in tutt'i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de'
fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di
filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti
nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia drammatica.
L'autore non è sulla scena, nè dietro la scena; ma è nella sua camera, e mentre
i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è che
preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro
intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. È l'apatia dell'ingegno
superiore, che guarda con compassione a' moti convulsi e nervosi delle
passioni.
Ne'
Discorsi ci è maggior vita intellettuale. L'intelletto si stacca da'
fatti, e vi torna, per attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto
fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno,
ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto, comincia il discorso.
L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno
d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti lì il piacere di
quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che a'
volgari sembrano paradossi. Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove
non penetra niente dal di fuori, a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata
nel calore della produzione tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che
ti annunzia la fermentazione come avviene talora anche a' più grandi pensatori.
È l'intelletto pieno di gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza, e
in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti
paragoni, giri viziosi, perplessità di posizioni, tutto è sbandito in queste
serie disciplinate d'idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor
d'analisi insolito e legate da una logica inflessibile. Tutto è profondo, ed è
così chiaro e semplice, che ti par superficiale.
Il
fondamento de' Discorsi è questo, che gli uomini “non sanno essere nè in
tutto buoni, nè in tutto tristi”, e perciò non hanno tempra logica, non hanno
virtù. Hanno velleità, non hanno volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane
cogitazioni, superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò “stanno”
volentieri “in sull'ambiguo”, e scelgono le “vie di mezzo”, e “seguono le
apparenze”. Ci è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile che lo
tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini
non sono tranquilli, e salgono di un'ambizione in un'altra, e prima si difendono,
e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono
infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti.
Quello
che degl'individui, si può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia, o
classe. Nelle società non ci è in fondo che due sole classi, degli “abbienti” e
de' “non abbienti”, de' ricchi e de' poveri. E la storia non è se non l'eterna
lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra
le classi. E sono liberi, quando hanno a fondamento l'“equalità”. Perciò
libertà non può essere, dove sono “gentiluomini” o classi previlegiate.
È
chiaro che una scienza o arte politica non è possibile, quando non abbia per
base la conoscenza della materia su che si ha a esercitare, cioè dell'uomo come
individuo e come classe. Perciò una gran parte di questi Discorsi sono
ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli ottimati o
gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli spagnuoli,
d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di
osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il “carattere”,
cioè quelle forze che movono individui e popoli o classi ad operare così o
così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata; e
perciò freschissime e vive anche oggi.
Poichè
il carattere umano ha questa base comune, che i desidèri o appetiti sono
infiniti, e debole ed esitante è la virtù del conseguirli, hai disproporzione
tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le oscillazioni e i disordini della
storia. Perciò la scienza politica o l'arte di condurre e governare gli uomini
ha per base la precisione dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa
consonanza è quella energia intellettuale, che fa grandi gli uomini e le
nazioni. La logica governa il mondo.
Questo
punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una
calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole.
Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa, e più osa. Quando la
tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa
quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue
passioni: com'è proprio del volgo.
Un'applicazione
di questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i
principi che per fraude o per forza tolgono la libertà a' popoli. Ma, avuto lo
Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la
difesa della patria, ma la conservazione del principe: se non che il principe
provvede a se stesso, provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo
interesse. Libertà non può dare, ma può dare buone leggi che assicurino
l'onore, la vita, la sostanza de' cittadini. Dee mirare a procacciarsi il
favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini
turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma studiandoli e
comprendendoli, “non ingannato da loro, ma ingannando loro”. Come stanno alle
apparenze, il principe dee darsi tutte le buone apparenze, e non volendo
essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e
degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente
semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il
principe miri a farsi temere più che amare. Soprattutto eviti di rendersi
odioso o spregevole.
Chi
legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna vi troverà un
magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge
questo Principe del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico,
fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è come natura,
sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma
secondo criteri logici. Ciò che gli si dee domandare non è se quello che egli
fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra'
mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla
forza come intelligenza. L'Italia non ti potea dare più un mondo divino ed
etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era
l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle
passioni e dalle immaginazioni.
Machiavelli
bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà
intellettuale, cioè la precisione dello scopo e la virtù di andarvi diritto
senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi
accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto non intorbidato da elementi
soprannaturali o fantastici o sentimentali è il suo ideale. E il suo eroe è il
domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze
naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o
biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e
protestare in nome del genere umano. Veggasi il capitolo decimo, una delle
proteste più eloquenti che sieno uscite da un gran cuore. Ma, posto lo scopo,
la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo.
La responsabilità morale è nello scopo, non è ne' mezzi. Quanto ai mezzi, la
responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella
fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza
scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.
Quando
Machiavelli scrivea queste cose, l'Italia si trastullava ne' romanzi e nelle
novelle, con lo straniero a casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno
disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciar lo straniero, a tutti
“puzzava il barbaro dominio”; ma erano velleità. E si comprende come il
Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra attaccando il male nella
sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al
contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli
glorifica la tempra anche nel male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia,
intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che
il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma “anima sciocca”, che per la sua
incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica.
Ma,
se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte
Machiavelli poneva a base della vita l'essere “uomo”, iniziando l'età virile
della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello
spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza
incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco,
com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo, che si presentava
all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca senza
serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza ne' fini più
seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgante, Mandricardo, Fracasso.
Ci
erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli
oppressi, ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non
altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire di
quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano quello che Doralice dicea a
Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello
avea fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse, “fu naturale
ferita di core” - Lo spirito italiano adunque da una parte metteva in
caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra gittava
la base di una nuova età su questo principio virile, che la forza è
intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò
che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un
secolo.
Ma
in Italia c'era l'intelligenza e non ci era la forza. E si credeva con la
superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza
adulta, svegliatissima, ma astratta, una logica formale nella piena
indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per
l'arte. Nella coscienza non ci era più uno scopo, nè un contenuto. E quando la
coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca anche nella maggiore
virilità dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo
e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze indisciplinate che
disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via. Il frizzo
era l'attestato della loro superiorità intellettuale e della loro decadenza
morale. Mancava non la forza fisica, e non il coraggio che ne è la conseguenza,
ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea, e risoluti a
vivere e a morire per quella.
Machiavelli
ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza, o, com'egli diceva, “corruttela”:
“Qui,
- scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse ne' capi.
Specchiatevi ne' duelli e ne' congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano
superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno.”
Pure
l'Italia era corrotta, perchè difettiva di forze morali, e perciò di un degno
scopo, che riempisse di sè la coscienza nazionale Di lui è questo grande
concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari, nè le fortezze, nè i
soldati, ma le forze morali, o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina.
Di quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento
religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero era il
comento:
“La
... religione, se ne' princìpi della repubblica cristiana si fosse mantenuta
secondo che dal fondatore di essa fu ordinato, sarebbero gli Stati e le
repubbliche più felici e più unite ch'elle non sono. Nè si può fare altra
maggiore coniettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli
popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra,
hanno meno religione. Chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso
presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo o la rovina
o il flagello.”
Certo,
non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma è un dovere, di
cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza:
“Chi
nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia oltramontano e in
Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi.”
Per lui è questo
una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la
storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia,
in Italia e Roma. Celebra il regno de' Franchi, il regno de' Turchi, quello del
soldano, e le geste della “setta saracina”, e le virtù “de' popoli della Magna”
al tempo suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente
e vi mostra la sua virtù. E quando gitta l'occhio sull'Italia, il paragone lo
strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di
Genova, di Venezia, di altre città italiane in tanto fiorire degli Stati
europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria
decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare
i rimedi, gli pare ufficio d'uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle
sue parole una grande elevatezza morale:
“Se
la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fossero più chiari del
sole, andrei nel parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa sì manifesta che
ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di
quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de' giovani che questi miei
scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli...
Perchè gli è ufficio di uomo buono, quel bene, che per la malignità dei tempi e
della fortuna non ha potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, sendone
molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo.”
Queste parole sono un monumento.
Ci si sente dentro lo spirito di Dante.
Machiavelli
tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del papato tutti
sanno quello che ha scritto. Nè è più indulgente verso i principi:
“Questi
nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo
dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai
ne' tempi quieti pensato che possono mutarsi, ... quando poi vennero i tempi
avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi.”
Degli avventurieri scrive:
“Il
fine delle loro virtù è stato che [Italia] è stata corsa da Carlo, predata da
Luigi, forzata da Ferrando e vituperata da' svizzeri; ... tanto che essi han
condotto Italia schiava e vituperata.”
Nè è meno severo verso i
gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa
pittura:
“Gentiluomini
sono chiamati quelli che oziosi vivono de' proventi delle loro possessioni
abbondantemente, senz'avere alcuna cura o di coltivare o di alcuna altra necessaria
fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni provincia: ma più
perniciosi sono quelli che oltre alle predette fortune comandano a castella ed
hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorte di uomini ne sono
pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui
nasce che in quelle provincie non è stato mai alcuno vivere politico, perchè
tali generazioni di uomini sono nemici di ogni civiltà.”
Degna di nota è qui l'idea, tutta
moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro, e che il maggior nemico della
civiltà è l'ozio: principio che ha gittato giù i conventi, ed ha rovinato dalla
radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema
feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio de' pochi vivea del lavoro de'
molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause
della decadenza italiana, potea ben dire, accennando a Savonarola:
“Ond'è
che a Carlo, re di Francia, fu lecito a pigliare Italia col gesso; e chi diceva
come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano
già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati.”
Gli oziosi sono fatalisti.
Spiegano tutto con la fortuna. Anche allora de' mali d'Italia accagionavano la
mala sorte. Machiavelli scrive:
“La
fortuna dimostra la sua potenza, dove non è ordinata virtù a resisterle, e
quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini e i ripari
a tenerla. E se voi considererete l'Italia che è la sede di queste variazioni e
quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e
senza alcun riparo.”
Essendo
l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un redentore, un principe
italiano, che come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare
uno Stato si richieda l'opera di un solo, a governarlo l'opera di tutti. Ne'
grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell'estremo della corruzione
Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura:
“Cercando
un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città
corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come
Romolo.”
Di Cesare scrive un giudizio
originale rimasto celebre:
“Nè
sia è alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendolo massime
celebrare dagli scrittori; perchè questi che lo lodano sono corrotti dalla
fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale, reggendosi sotto
quel nome, non permetteva che gli scrittori pèarlassero liberamente di lui. Ma
chi vuol conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, vegga quello
che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da
biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un male. Vegga
pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè non potendo biasimare quello per
la sua potenza, e' celebrano il nimico suo... E conoscerà allora benissimo
quanti obblighi Roma, Italia, il mondo abbia con Cesare.”
Machiavelli
promette, a chi prende lo Stato con la forza, non solo l'amnistia, ma la
gloria, quando sappia ordinarlo:
“Considerino
quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte due vie:
l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte gli rende gloriosi; l'altra li
fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di se una sempiterna
infamia.”
Invoca
egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia dalle sue ferite, “e
ponga fine ... a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di
Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite”. È
l'idea tradizionale del Redentore o del Messia. Anche Dante invocava un messia
politico, il veltro. Se non che il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di
Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero; dove il
salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua
Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di lei era straniero,
barbaro, “oltramontano”. Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da
Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno
col Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma. L'idea
del Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è
facile assegnarne le cagioni. “Patria”, “libertà”, “Italia”, “buoni ordini”,
“buone armi”, erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun
raggio d'istruzione e di educazione. Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo
nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate
dagl'interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno patria.
Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza,
e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con
la ferocia degli atti e de' modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e
celebrando la sua sapienza. E per lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e
indipendenza, continuarono a vantarsi per bocca de' loro poeti signori del
mondo, e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli stranieri ce ne era, ed
anche buona volontà di liberarsene. Ma ci era così poca fibra, che di una
redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu
una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio per giungere alla sua
attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e
poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile
cuore che la calma persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva
l'Italia un po' a traverso de' suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, e
di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere
stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e
della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno
lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la
verità del futuro.
Non
è maraviglia che il Machiavelli con tanta esperienza del mondo, con tanta
sagacia d'osservazione abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura ci
entrava molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un
mugnaio, con due fornaciari a “picca” e a “tric trac”:
“E
... nascono molte contese e molti dispetti di parole ingiuriose, e il più delle
volte si combatte per un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San
Casciano.”
Questo non è che plebeo, ma
diviene profondamente poetico nel comento appostovi:
“Rinvolto
in quella viltà, traggo il cervello di muffa, e sfogo la malignità di questa
mia sorte, sendo contento che mi calpesti per quella via, per vedere se la se
ne vergognasse.”
Vedilo
tutto solo pel bosco con un Petrarca o con un Dante “libertineggiare” con lo
spirito, fantasticare, abbandonato alle onde dell'immaginazione.
“Venuta la
sera, mi ritorno a casa ed entro nello scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio
quella veste contadina piena di fango e di loto, e mi metto abiti regali e
curiali, e vestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini;
da' quali ricevuto amorevolmente, mi pasco del cibo che solum è mio; e
non mi vergogno di parlar con loro e domandarli delle loro azioni, ed essi per
loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia,
sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte,
tutto mi trasferisco in loro.”
Quel
“trasferirsi in loro”, quel “libertineggiare” sono frasi energiche di uno
spirito contemplativo, estatico, entusiastico. Ci è una parentela tra Dante e
Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito
del Boccaccio, che si beffa della “divina Commedia”, e cerca la commedia in
questo mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito,
poetica e divinatrice. Ecco: il principe leva la bandiera, grida: - Fuori i
barbari! - A modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua
immaginazione:
“Quali
porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale
invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio?”
E finisce co' versi del Petrarca:
Virtù
contra al furore
prenderà
l'armi, e fia il combatter corto:
chè
l'antico valore
negl'italici
cor non è ancor morto.
Ma furono brevi illusioni. C'era
nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile, e di un popolo
virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne'
suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla
realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte
parti a' suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo, è
l'ironia. La sua aria beffarda congiunta con la sagacia dell'osservazione lo
chiariscono uomo del Risorgimento De' principi ecclesiastici scrive:
“Costoro
soli hanno Stati e non gli difendono, hanno sudditi e non gli governano, e gli
Stati per essere indifesi non sono lor tolti, ed i sudditi per non essere
governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro. ...
Essendo quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non
aggiunge, lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio,
sarebbe ufficio d'uomo temerario e presuntuoso il discorrerne.”
In
tanta riverenza di parole non è difficile sorprendere sulle labbra di chi
scrive quel piglio ironico che trovi ne' contemporanei. Famosi sono i suoi
ritratti per l'originalità e vivacità dell'osservazione. De' francesi e
spagnuoli scrive:
“Il
francese ruberia con l'alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo
con colui a chi ha rubato: natura contraria dello spagnuolo, che di quello che
ti ruba, mai ne vedi nulla.”
Da
questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito ironico
uscì la Mandragola, l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i
suoi disinganni.
Dopo
i primi tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e
di Terenzio. L'Ariosto scrivea per la corte di Ferrara; il cardinale di
Bibbiena scrivea per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche
con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano
fanciulli.
“Fu
pur troppo nuova cosa, - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un
palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parasiti e
ciò che fece mai Menandro.”
Accompagnamento alla commedia era
la musica, e intermezzi o intromesse erano le “moresche”, balli mimici. Le
decorazioni magnifiche. Nella rappresentazione della Calandria in Urbino
vedevi
“un tempio,
... tanto ben finito, - dice il Castiglione - che non saria possibile a credere
che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie
bellissime: finte le finestre di alabastro, tutti gli architravi e le cornici
d'oro fino e azzurro oltramarino, ... figure intorno tonde finte di marmo,
colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di
marmo, ma era pittura, la storia delli tre Orazi, bellissima... In cima
dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello
atto, che ferìa con un'asta un nudo, che gli era a' piedi.”
L'Italia si vagheggiava colà in
tutta la pompa delle sue arti, architettura, scultura, pittura. Musiche
bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse, una “moresca
di Iasón” o Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno, un carro di
Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione:
“La
prima fu una moresca di Iasón, il quale comparse nella scena da un capo
ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima
dall'altro furon visti in un tratto due tori tanto simili al vero, che alcuni
pensàrno che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca. A questi si accostò
il buon Iasón, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro, e poi seminò i
denti del dracone: e nacquero appoco appoco dal palco uomini armati all'antica,
tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una fiera moresca,
per ammazzare Iasón; e poi quando furono all'entrare, si ammazzavano ad uno ad
uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn, e subito uscì
col vello d'oro alle spalle, ballando eccellentissimamente, e questo era il
Moro, e questa fu la prima intromessa.”
Finita la commedia nacque sul palco
all'improvviso un Amorino, che dichiarò con alcune stanze il significato delle
intromesse. Poi
“si udì una
musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono
una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore: e così fu
finita la festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide.”
dice sempre il Castiglione,
l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad ordinarla.
Cosa
era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi Roma
sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un facsimile
di Calandrino, il marito sciocco, motivo comico del Decamerone, rimasto
proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante o
l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e una
sorella similissimi di figura, che vestiti or da uomo, or da donna generano
equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco ci è anche il furbo, e il furbo è
Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui
pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e
Fessenio, il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come si
vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica,
lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche
novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo
e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di
Lorenzo de' Medici. È uno sguardo allegro e superficiale gittato sul mondo. I
caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti
più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili
a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che
quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la
loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta
nelle gole de' cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie
dette “d'intreccio”, sullo stesso stampo delle novelle.
A
prima vista ti pare alcuna cosa di simile la Mandragola. Anche ivi è
grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente
è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia, come ha concepito la
storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità
proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è
perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito
marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istrutto e
che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina di
lui, ma più pratica del mondo. Ci è già qui un concetto assai più profondo che
non è in Calandro: si sente il gran pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica
è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di
vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a
quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua
bellezza, e lascia Parigi, e torna in Firenze sua patria, risoluto di farla
sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è
mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia.
Come Machiavelli ha potuto
esercitare il suo ingegno a scriver commedie?
Scusatelo
con questo, che s'ingegna
con
questi van pensieri
fare
il suo tristo tempo più soave;
perchè
altrove non ave
dove
voltare il viso;
chè
gli è stato interciso
mostrar
con altre imprese altre virtue,
non
sendo premio alle fatiche sue.
Cattivi versi, ma strazianti. Il
suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de'
Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore, il cardinale
da Bibbiena, “assassinato di amore”, e il Bembo esalavano in lettere i loro
sospiri, e l'uno scrivea gli Asolani e l'altro la Calandria, e
Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando, e non udito e non
curato, fece come gli altri, scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere
molto il papa e i cardinali.
Callimaco,
l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parasito che usava
in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia, il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si
direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa movere tutti gli attori a suo
gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li move.
Ligurio
è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe
Cristo. Non ha bisogno di essere Iago, perchè Nicia non è Otello. E un volgare
mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e
spregevole, il peggior tipo d'uomo che abbia nel Principe concepito
Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile.
Ciò che move Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste
in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti
riesce volgare e fredda.
Un
altro associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è
assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce tutto, ed ha aria di non
udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo a' suoni. Ma questo lato
comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo. Ciò che non guasta
nulla, essendo una parte secondaria.
Colui
che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini è Ligurio. E sembra che
l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè, e mettere in vista tutto
il suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera, e perdi
lui di vista.
Callimaco
è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è
riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i delirii. Non è amore
petrarchesco, e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi,
rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico.
“...
Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte m'assalta tanto
desio d'essere una volta con costei, ch'io mi sento dalle piante de' piè al capo
tutto alterare: le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si
sbarba dal petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi
abbarbagliano, il cervello mi gira.”
Ma
queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il
marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato
e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle
figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa
ne' modi più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con
tanta prosunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto
comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli
tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle
ultime scene ci è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel
teatro antico e moderno.
Il
difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione, così comica
per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate
profondità. Gl'istrumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il confessore e la
madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa dell'altra. E
Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente ignudo, scopre senza
pietà quel putridume Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente
dipinta. È una brava donna, ma di poco criterio, e avvezza a pensare col
cervello del suo confessore. Alle ragioni della figliuola risponde: - Io non ti
so dire tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti
dirà, e farai quello che tu di poi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti
vuol bene -. E non si parte mai di là, è la sua idea fissa, la sua sola idea: -
T'ho detto e ridicoti che se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di
coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi -. Il confessore sa perfettamente
che madre è questa. “... È ... una bestia, - dice - e sarammi un grande aiuto a
condurre Lucrezia alle mie voglie”. -
Il
carattere più interessante è fra Timoteo, il precursore di Tartufo, meno
artificiato, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del
purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega rende poco. E lui
aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la
riputazione dell'immagine miracolosa della Madonna:
“Io
dissi mattutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed
accesi una lampada ch'era spenta, mutai il velo a una Madonna che fa miracoli.
Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si
maravigliano poi che la divozione manca. Oh quanto poco cervello e in questi
mia frati!”
Il suo primo ingresso sulla scena
è pieno di significato: còlto sul fatto in un dialogo con una sua penitente,
pittura di costumi profonda nella sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perchè
“in chiesa vale più la sua mercanzia”. È di mediocre levatura, buono a uccellar
donne:
“...
Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte le
donne hanno poco cervello, e come n'e una che sappia dire due parole, e' se ne
predica; perchè in terra di ciechi chi ha un occhio è signore.”
Conosce bene i suoi polli:
“Le
più caritative persone che sieno son le donne, e le più fastidiose. Chi le
scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i fastidi
insieme. Ed è vero che non è il mele senza le mosche.”
Biascica paternostri e avemarie,
e usa i modi e il linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica
dell'abitudine. A Ligurio che, promettendo larga limosina, lo richiede che
procuri un aborto, risponde: - Sia col nome di Dio, facciasi ciò che volete, e
per Dio e per carità sia fatta ogni cosa. ... Datemi ... cotesti danari, da
poter cominciare a far qualche bene -. Parla spesso solo, e si fa il suo esame,
e si dà l'assoluzione, sempre che glie ne venga utile:
“Messer
Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per
trarre assai. La cosa conviene che stia segreta, perché l'importa così a loro
dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento.”
Se mostra inquietudine, è per
paura che si sappia:
“Dio
sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il
mio ufficio, intratteneva i miei divoti. Capitommi innanzi questo diavolo di
Ligurio, che mi fece intignere il dito in un errore, donde io vi ho messo il
braccio e tutta la persona, e non so ancora dov'io m'abbia a capitare. Pure mi
conforto che quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura.”
Questo è l'uomo, a cui la madre
conduce la figliuola. Il frate spiega tutta la sua industria a persuaderla, e
non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della storia
sacra.
“Io son
contenta, - conchiude Lucrezia - ma non credo mai esser viva domattina”.
E il frate risponde:
“Non dubitare,
figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiolo
Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio,
che si fa sera. - Rimanete in pace, padre -”
dice la madre, e la povera
Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira:
“Dio m'aiuti e
la nostra Donna che non càpiti male”.
Quel fatto il frate lo chiama un
“misterio”, e il mezzano è l'angiol Raffaello!
Queste
cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia
facevano ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così
sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena, e non ha
rimedio.
Tutti
ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso di
Machiavelli ci è alcun che di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura,
e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo,
non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia
ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza
spirito, non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo
stile nudo e naturale ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il
poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista.
Appunto
perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. È troppo
incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare.
Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più.
La depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla
famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue: non possiamo farne una
commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui
perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assimiglia piuttosto un
anatomico, che nuda le carni e mostra i nervi e i tendini. Nella sua
immaginazione non ci è il riso e non ci è l'indignazione al cospetto di Timoteo:
c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe, o
l'avventuriere o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso
osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle
emozioni e alle impressioni.
La
Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. È un mondo mobile e
vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso.
Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni
della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da forze spirituali,
inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi, per indovinare la fine.
Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello
spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle,
colui vince. Il soprannaturale, il maraviglioso, il caso sono detronizzati.
Succede il carattere. Quello che Machiavelli è nella storia e nella politica, è
ancora nell'arte.
Si
distinsero due specie di commedie, “d'intreccio” e “di carattere”. “Commedia
d'intreccio” fu detta, dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione, come
erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si cercava
l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. Commedia di
carattere fu detta, dove l'azione è mezzo a mettere in mostra un carattere. E
sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie sbardellate per troppo
cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa povertà d'azione.
Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una vera e propria
azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da forze interiori,
che ci stanno come forze o istrumenti, e non come fini o risultati. Il
carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come qualità
astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più
allegre e più corpulente fino della più volgare e cinica buffoneria, come è il
“Don Cuccù”, e la “palla di aloè”. Ci è lì tutto Machiavelli, l'uomo che
giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio.
Di
ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta,
quella per la quale e venuto a trista celebrità. È la sua parte più grossolana,
è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, così
vitale che è stata detta il “machiavellismo” Anche oggi, quando uno straniero
vuol dire un complimento all'Italia, la chiama patria di Dante e di Savonarola
e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci “figli di Machiavelli”.
Tra il grande uomo e noi ci è il machiavellismo. È una parola, ma una parola
consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse
l'orco.
Del
Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato “petrarchismo”
quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è
chiamato “machiavellismo” quello che nella sua dottrina è accessorio e
relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così
è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno
interessante. È tempo di rintegrare l'immagine.
Ci è nel
Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto.
La
sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama “virtù”.
Proporti uno scopo, quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina.
Essere uomo significa “marciare allo scopo”. Ma nella loro marcia gli uomini
errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e
da sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli
quelli che stimano le cose, come le paiono e non come le sono: a quel modo che
fa la plebe. Cacciar via dunque tutte le vane apparenze, e andare allo scopo
con lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa
d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un
tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò a che
guarda Machiavelli è di vedere se è un uomo ciò a che mira è rifare le radici
alla pianta “uomo” in declinazione. In questa sua logica la virtù è il
carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione.
Si
comprende che in questa generalità ci è lezioni per tutti, pe' buoni e pe'
birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice de' tiranni, e agli
altri il codice degli uomini liberi. Ciò che vi s'impara è di essere un uomo,
come base di tutto il resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è
regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza
dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non
è degno di questo nome, se non sia anch'esso una forza intelligente, coerenza
di scopo e di mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta
possibilmente all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo
chiaro e serio, e con mezzi precisi.
Questo
è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio
astratto e ozioso: ci è un contenuto, che abbiamo già delineato ne' tratti
essenziali.
La
serietà della vita terrestre, col suo istrumento, il lavoro; col suo
obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo
vincolo morale, la nazione, col suo fattore, lo spirito o il pensiero umano,
immutabile ed immortale, col suo organismo, lo Stato, autonomo e indipendente,
con la disciplina delle forze, con l'equilibrio degl'interessi, ecco ciò che vi
è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la
gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la virtù o il
carattere, “agere et pati fortia”.
Il fondamento
scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza
e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così perniciosi
nella scienza, come nella vita. Muore la scolastica, nasce la scienza.
Questo
è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. È il programma del mondo
moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno realizzato. E sono grandi
le nazioni che più vi si avvicinano. Siamo dunque alteri del nostro
Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla alcuna parte dell'antico edificio. E
gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che
scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l'entrata degl'Italiani a
Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il “viva” all'unità d'Italia. Sia
gloria al Machiavelli.
Scrittore,
non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni politiche
discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antimperiale,
antifeudale, civile, moderno e democratico. E quando, stretto dal suo scopo,
propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di
chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi
son questi, e il mondo è fatto così, la colpa non è mia. -
Ciò
che è morto del Machiavelli non è il sistema, è la sua esagerazione. La sua
“patria” mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e assorbe in sè religione,
moralità, individualità. Il suo “Stato” non è contento di essere autonomo esso,
ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato:
mancano i dritti dell'uomo. La “ragione di Stato” ebbe le sue forche, come
l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la “salute pubblica” le sue mannaie. Fu
stato di guerra e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua
culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle
lotte uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e più
tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei mezzi,
vogliate chiamare anche machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si
trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni. Gloria del
Machiavelli è il suo programma, e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia
indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica
del mondo. Fu più facile il biasimarli, che sceglierne altri. Dura lex, sed ita
lex.
Certo,
oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più
tollerati, e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva
Machiavelli, allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il
tradimento, la frode, le sette, le congiure sono mezzi che tendono a
scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sieno più
possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato
e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e
non ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi.
È
un bel programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò che lo
spirito concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e
nell'avvenire.
Ma
siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche da' nostri tempi. E non è co'
criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo
giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: -
Crudele è la logica della storia; ma quella è. -
Nel
machiavellismo ci è una parte variabile nella qualità e nella quantità,
relativa al tempo, al luogo, allo stato della coltura, alle condizioni morali
de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in
tutto, quando la società sia radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è
assoluta ed eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana.
Il principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo, che i mezzi
debbono avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze che movono gli
uomini. È chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il relativo, e il torto
del Machiavelli, comunissimo a tutt'i grandi pensatori, è di avere espresso in
modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.
Il
machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo
considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua
natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua
grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base
sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gl'inizi della
scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica
unisca esperienza grande, e un intelletto chiaro e libero. Questo è il
machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la
sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo su' rottami del
medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i
vacillamenti dell'uomo politico, un mondo fondato sulla patria, sulla
nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e
serietà dell'uomo.
In
letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la storia e la politica
emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma
razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo e della natura,
messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio
purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella
forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. È l'ultimo e più
maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco
Guicciardini con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e veneta,
poi Galileo Galilei con la sua illustre coorte di naturalisti.
Francesco
Guicciardini, ancorche di pochi anni più giovane di Machiavelli e di
Michelangiolo, già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il
precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha
scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del
Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche
la libertà, concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e
temperato, che si avvicina a' presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono
semplici desidèri, e non metterebbe un dito a realizzarli.
“Tre
cose, - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte, ma dubito, ancora che
vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinato
nella città nostra, Italia liberata da tutt'i barbari, e liberato il mondo
della tirannide di questi scelerati preti.”
Una
libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento
del laicato, ecco il programma del Machiavelli, divenuto il testamento del
Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte liberale e
civile europea.
Si
può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte. Ma erano
amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il ritratto di quella
società è il Guicciardini, che scrive: “Conoscere non è mettere in atto”. Altro
è desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fa
come ti torna. La regola della vita è “l'interesse proprio”, “il tuo
particolare”.
Il
Guicciardini biasima “l'ambizione, l'avarizia e la mollizie de' preti” e il
dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, “per vedere ridurre questa
caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare o senza vizi o senza
autorità”; ma “per il suo particolare” è necessitato “amare la grandezza de'
pontefici” e servire a' preti e al dominio temporale. Vuole emendata la
religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui, “non combatte con la
religione, nè con le cose, che pare che dependono da Dio; perchè questo
obbietto ha troppa forza nella mente delli sciocchi”. Ama la gloria e desidera
di fare “cose grandi ed eccelse”, ma a patto che non sia “con suo danno o
incomodità”. Ama la patria, e, se perisce, glie ne duole, non per lei, perchè
“così ha a essere”, ma per sè, “nato in tempi di tanta infelicità”. È zelante
del ben pubblico, ma “non s'ingolfa tanto nello Stato” da mettere in quello
tutta la sua fortuna. Vuole la libertà, ma quando la sia perduta, non è bene
fare mutazioni, perchè “mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi
fare fondamento sul populo”, e quando la vada male, ti tocca “la vita spregiata
del fuoruscita”. Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che “governano
non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti”. Quelli che
altrimenti fanno, sono uomini “leggieri”. Molti, è vero, gridano libertà, ma
“in quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo”. Essendo il mondo fatto
così, hai a pigliare il mondo com'è, e condurti di guisa che non te ne venga
danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini “savi”.
La
corruttela italiana era appunto in questo, che la coscienza era vuota, e
mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino
della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non ci è più il cielo
per lui, ma ci è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi
fini, come cose belle e buone e desiderabili, ma li ammette sub conditione,
a patto che sieno conciliabili col tuo “particulare”, come dice, cioè col tuo
interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al
sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette se
francamente tra questi più, che sono i savi: gli altri li chiama “pazzi”, come
furono i fiorentini, che “vollero contro ogni ragione opporsi”, quando “i savi
di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta”, e intende dell'assedio di Firenze,
illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano Michelangelo
e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana, e non dispera del suo
paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella generazione di
patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e non si
rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini
comparisce una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perchè non vede
rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure, e ne fa la sua saviezza e
la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e
innalzata a regola della vita.
Il
dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un dio non meno assorbente che
il Dio degli ascetici, o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali
scompariscono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un
popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo. Ciascuno
per sè, verso e contro tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi:
è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita.
Il
Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perchè non ha le sue
illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe
in questo motto sanguinoso:
“Quanto
s'ingannano coloro che ad ogni parola allegano i romani! Bisognerebbe avere una
città condizionata com'era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: il
quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto
sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo.”
In
questo concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede, che non sente
rimorso, e non mostra la menoma esitazione, e guarda con un'aria di superiorità
sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non
per virtù o altezza d'animo, ma “per debolezza di cervello”, avendo offuscato
lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle
passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, già
adulto e progredito, che caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è
tutto e solo cervello, o, come dice il Guicciardini, “ingegno positivo”.
Perchè
l'ingegno sia positivo si richiede la “prudenza naturale”, la “dottrina” che dà
le regole, l'“esperienza” che dà gli esempli, e il “naturale buono”, tale cioè
che stia al reale, e non abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la
“discrezione” o il discernimento, perchè è “grande errore parlare delle cose
del mondo indistintamente e assolutamente e per dire così per regola, perchè
quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non
si trovano scritte in su' libri, ma bisogna lo insegni la discrezione”. Il vero
libro della vita è dunque “il libro della discrezione”, a leggere il quale si
richiede da natura “buono e perspicace occhio”. La dottrina sola non basta, e
non è bene stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa “volere
vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in
speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in
modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di dotti”.
L'uomo
positivo vede il mondo altro da quello che “a' volgari” pare. Non crede agli
astrologi, ai teologi, a' filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra
natura, o che non si veggono, “e dicono mille pazzie: perchè in effetti gli
uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha servito e serve più a
esercitare gl'ingegni che a trovare la verità”.
Questa
base intellettuale è quella medesima del Machiavelli, l'esperienza e
l'osservazione, il fatto e lo “speculare” o l'osservare. Nè altro è il sistema.
Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più
recisa, e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico e più
conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un'illusione a volerlo
riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di asino, e
lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento.
Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua
coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e
voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè “gli uomini si
riscontrano”. Stai con chi vince, perchè “te ne viene parte di lode e di
premio”. “Abbi appetito della roba”, perchè la ti dà riputazione, e la povertà
è spregiata. Sii schietto, perchè, “quando sia il caso di simulare, più
facilmente acquisti fede”. Sii stretto nello spendere, perchè “più onore ti fa
uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi”. Studia di
“parere buono”, perchè “il buon nome vale più che molte ricchezze”. Non
meritarti nome di sospettoso, ma, perchè più sono i cattivi che i buoni, “credi
poco e fidati poco”, Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più,
ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne
fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza, e sull'interesse
individuale. È il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica,
intelligente e positiva, succeduta a' codici d'amore e alle regole della
cavalleria.
Ma
il Guicciardini con tutta la sua saviezza trovò un altro più savio di lui, e
volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo.
Così finì la vita, come il Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe
anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della
posterità, perchè si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa
d'Arcetri, usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia.
Se guardiamo
alla potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da mente
italiana. Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica,
sulla quale facevano i loro esercizii rettorici il Giovio, il Varchi, il
Giambullari e gli altri storici. I fatti più maravigliosi o commoventi sono da
lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e
non si maraviglia e non si commove più di nulla. Non ha simpatie e antipatie,
non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi e preconcetti intorno
a' risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto
chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo
turbi o lo svii. È l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo
notate, e che in lui sono egregie, la prudenza naturale, la dottrina,
l'esperienza, il naturale buono e la discrezione. Maravigliosa è soprattutto la
sua discrezione nel non riconoscere princìpi, nè regole assolute, e giudicare
caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel complesso
di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro: dov'è la vera
distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste disposizioni è
naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra con
sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo
della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere, e lo studio
dell'essere, di ciò che è al di sotto, e che non si vede. Hai innanzi non la
sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione, li vedi
nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la
stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è il
carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione su' fatti. Il motivo
determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagazione non meno
degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di
re e di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono sotto
il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà,
l'indipendenza, fini che escono in mezzo, quando si vuol cattivare i popoli o
gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica,
ad usum delphini, voglio dire ad uso de' volgari, che non guardano nel
fondo, e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno
come istrumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li movono
con la violenza e con l'astuzia, e li usano a' fini loro.
Lo
storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa, massime ne' Ricordi,
ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e
perfetta evidenza, che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese,
senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori
giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più
avanzato. Ma il Guicciardini, di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti
umani, avea de' preconcetti in letteratura, opinioni ammesse senza esame, solo
perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo,
la traduzione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto
complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue
prove. Molti uomini mediocri, quali il Casa, o il Castiglione, o il Salviati, o
lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed educati a
quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in
visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo. Li
diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi
concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta
sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono
rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue
sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa
solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo
di una ossatura solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed
esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e
d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore.
La
Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal 1494 al 1532 Comincia con la
calata di Carlo ottavo, finisce con la caduta di Firenze. Apparisce in ultimo,
come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il papa della
Inquisizione e del Concilio di Trento. Questo periodo storico si può chiamare
la “tragedia italiana”, perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano
dibattersi cesse in potestà dello straniero. Ma lo storico non ha pur sentore
dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è
l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità
che colpiscono gl'individui, le arsioni, le prede, gli stupri, tutt'i mali
della guerra. Avvolto fra tanti “atrocissimi accidenti”, sagacissimo a
indagarne i più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze,
l'insieme gli fugge. La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto
e Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e
l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e
soggetta, questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di
Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che
studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura
interna e la loro fisiologia, che li fa essere così o così. L'uomo vi apparisce
come un essere naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato
all'azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con
la stessa necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque
essere vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando l'uomo a questo modo,
lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza
che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e
Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante,
perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua attenzione
intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia, che l'uomo,
ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi interni, o
dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come riuscirà quasi con
quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi perde, ha sempre
torto, dovendo recarne la cagione a se stesso, che ha mal calcolato le sue
forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica non oltrepassa
gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di macchinette,
maravigliose, anzi miracolose alla plebe, a noi poco interessanti, perchè
sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto
il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno.
Il
Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si
direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gl'individui, ma la
società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi
sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gl'interessi,
le opinioni, le forze che movono gl'individui. E se vogliamo trovare lo spirito
o il significato di questa epoca, molto abbiamo ad imparare nelle sue opere.
Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino ispira anche oggi
vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno mirare al di là della
scorza nel fondo delle sue dottrine, e come forza intellettuale, unisce alla
profonda analisi del Guicciardini una virtù sintetica, una larghezza di vista,
che manca in quello. Lui, è un punto di partenza nella storia, destinato a
svilupparsi; l'altro è un bel quadro, finito e chiuso in sè.
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