XVI
PIETRO
ARETINO
Il mondo teologico-etico del
medio evo tocca l'estremo della sua contraddizione in questo mondo positivo del
Guicciardini, un mondo puramente umano e naturale, chiuso nell'egoismo
individuale, superiore a tutt'i vincoli morali che tengono insieme gli uomini.
Il ritratto vivente di questo mondo nella sua forma più cinica e più depravata
è Pietro Aretino. L'immagine del secolo ha in lui l'ultima pennellata.
Pietro
nacque nel 1492 in uno spedale di Arezzo da Tita, la bella cortigiana, la
modella scolpita e dipinta da parecchi artisti. Senza nome, senza famiglia,
senza amici e protettori, senza istruzione. “Andai alla scuola, quanto intesi
la santa croce, componendo ladramente merito scusa, e non quegli che lambiccano
l'arte de' greci e de' latini.” A tredici anni rubò la madre e fuggì a Perugia,
e si allogò presso un legatore di libri. A diciannove anni attirato dalla fama
della corte di Roma e che tutti vi si facevano ricchi, vi giunse che non aveva
un quattrino, e fu ricevuto domestico presso un ricco negoziante, Agostino
Chigi, e poco poi presso il cardinale di San Giovanni. Cercò fortuna presso
papa Giulio, e non riuscitogli, vagando e libertineggiando per la Lombardia, da
ultimo si fe' cappuccino in Ravenna. Salito al pontificato Leone decimo, e
concorrendo a quella corte letterati, buffoni, istrioni, cantori, ogni specie
di avventurieri, gli parve lì il suo posto, smise l'abito e corse a Roma, e
vestì la livrea del papa, divenne suo valletto. Spiritoso, allegro, libertino,
sfacciato, mezzano, in quella scuola compì la sua educazione e la sua
istruzione. Imparò a chiudere in quattordici versi le sue libidini e le sue
adulazioni e le sue buffonerie, e ne fe' traffico e ne cavò di bei quattrini.
Ma era sempre un valletto, e poco gli era a sperare in una corte, dove
s'improvvisava in latino. Armato di lettere di raccomandazione, va a Milano, a
Pisa, a Bologna, a Ferrara, a Mantova, e si presenta a principi e monsignori
sfacciatamente, con aria e prosunzione di letterato. Studia come una donna
l'arte di piacere, e aiuta la ciarlataneria con la compiacenza. “A Bologna mi
fu cominciato a essere donato; il vescovo di Pisa mi fe' fare una casacca di
raso nero ricamata in oro, che non fu mai la più superba; presso il signor
Marchese di Mantova sono in tanta grazia, che il dormir e il mangiar lascia per
ragionar meco, e dice non avere altro piacere, ed ha scritto al cardinale cose
di me che veramente onorevolmente mi gioveranno, e son io regalato di trecento
scudi. Tutta la corte mi adora, e par beato chi può avere uno de' miei versi, e
quanti mai feci, il signore li ha fatti copiare, e ho fatto qualcuno in sua
lode. E sto qui, e tutto il giorno mi dona, e gran cose, che le vedrete ad
Arezzo.” Gli dànno del messere e del signore; il valletto è un gentiluomo, e
torna a Roma “tra paggi di taverna, e vestito come un duca”, compagno e mezzano
de' piaceri signorili, e con a lato gli Estensi e i Gonzaga che gli hanno
familiarmente la mano sulla spalla. Continua il mestiere così bene
incominciato. Una sua “laude” di Clemente settimo gli frutta la prima
pensione; sono versacci:
Or
queste sì che saran lodi, queste
lodi
chiare saranno, e sole e vere,
appunto
come il vero e come il sole.
Il suo spirito, il suo umore
gioviale, l'estro libidinoso gli acquistarono tanta riputazione, che fuggito di
Roma per i suoi sedici sonetti illustrativi de' disegni osceni di Giulio
Romano, fu cercato come un buon compagnone da Giovanni de' Medici, capo delle
Bande Nere, detto il gran diavolo. Aveva poco più che trent'anni. Giovanni e
Francesco primo se lo disputano. Giovanni voleva fare signore di Arezzo il suo
compagno di orgie e di libidini, quando una palla tedesca gli troncò il disegno
e la vita. Pietro avea coscienza oramai della sua forza. E lasciando le corti,
riparò in Venezia come in una rocca sicura, e di lì padroneggiò l'Italia con la
penna. Udiamo lui stesso, come si dipinge nelle sue lettere: “Dopo ch'io mi
rifugiai sotto l'egida della grandezza e delle libertà veneziane, non ho più
nulla da invidiare. Nè il soffio dell'invidia, nè l'ombra della malizia non
potranno offuscare la mia fama, nè togliere la possanza della mia casa. - Io
sono un uomo libero per la grazia di Dio. - Non mi rendo schiavo de' pedanti. -
Non mi si vede percorrere le tracce nè del Petrarca nè di Boccaccio. Bastami il
genio mio indipendente. Ad altri lascio folleggiar la purezza dello stile, la
profondità del pensiero; ad altri la pazzia di torturarsi, di trasformarsi,
mutando sè stessi. Senza maestro, senz'arte, senza modello, senza guida, senza
luce, io avanzo, e il sudore de' miei inchiostri mi fruttano la felicità e la
rinomanza. Che avrei di più a desiderare? - Con una penna e qualche foglio di
carta me ne burlo dell'universo. Mi dicono ch'io sia figlio di cortigiana; ciò
non mi torna male; ma tuttavia ho l'anima di un re. Io vivo libero, mi diverto,
e perciò posso chiamarmi felice. - Le mie medaglie sono composte d'ogni metallo
e di ogni composizione. La mia effigie è posta in fronte a' palagi. Si
scolpisce la mia testa sopra i pettini, sopra i tondi, sulle cornici degli
specchi, come quella di Alessandro, di Cesare, di Scipione. Alcuni vetri di
cristallo si chiamano vasi aretini. Una razza di cavalli ha preso questo nome,
perchè papa Clemente me ne ha donato uno di quella specie. Il ruscello che
bagna una parte della mia casa è denominato l'Aretino. Le mie donne vogliono
esser chiamate Aretine. Infine si dice stile aretino. I pedanti possono morir
di rabbia prima di giungere a tanto onore.” E non erano ciarle. L'Ariosto dice
di lui: “il flagello de' principi, il divin Pietro Aretino”. Un pedante,
parlando delle lettere dell'Aretino e del Bembo, diceva al Bembo: “Chiameremo
voi il nostro Cicerone, e lui il nostro Plinio.” “Purchè Pietro se ne
contenti”, rispose il Bembo. E non se ne contentava. A Bernardo Tasso, che
vantava le sue lettere, scrive: “Stimando di troppo le proprie vostre opere, e
non abbastanza le altrui, voi avete messo in compromesso il vostro giudizio.
Nello stile epistolare voi siete l'imitator mio, e voi camminate dietro di me a
piè nudi. Voi non potete imitare nè la facilità delle mie frasi, nè lo
splendore delle mie metafore. Son cose che si veggono languire nelle vostre
carte, e che nascono vigorose nelle mie. Convengo che voi avete qualche merito,
una certa grazia di stile angelico e di armonia celeste, che risuona
gradevolmente negl'inni, nelle odi e negli epitalami. Ma tutte queste
dolcitudini non convengono alle Epistole, che hanno d'uopo di espressione e di
rilievo, non di miniatura e di artifizio. È colpa del vostro gusto che
preferisce il profumo de' fiori al sapore de' frutti. Ma non sapete chi son io?
Non sapete quante lettere ho pubblicate, che sonosi trovate maravigliose? Io
non mi starò qui a fare il mio elogio, il quale finalmente non sarebbe che
verità. Non vi dirò che gli uomini di merito dovrebbero riguardare siccome un
giorno memorabile il dì della mia nascita: io che, senza seguire e senza servir
le corti, ho costretto tutto quanto vi ha di grande sulla terra, duchi,
principi e monarchi, a diventar tributarii del mio ingegno! Per quanto è lungo
e largo il mondo, la fama non si occupa che di me. Nella Persia e nell'India
trovasi il mio ritratto e vi è stimato il mio nome. Finalmente io vi saluto, e
statevi ben certo, che se molte persone biasimano il vostro modo di scrivere,
ciò non è per invidia - e se qualche altre lo lodano, egli e per compassione.”
Tale si teneva e tale lo teneva il mondo. Fu creduto un grand'uomo sulla sua
fede. Non mirava alla gloria; dell'avvenire se ne infischiava; voleva il presente.
E l'ebbe, più che nessun mortale. Medaglie, corone, titoli, pensioni,
gratificazioni, stoffe d'oro e d'argento, catene e anella d'oro, statue e
dipinti, vasi e gemme preziose, tutto ebbe che la cupidità di un uomo potesse
ottenere. Giulio III lo nominò cavaliere di San Pietro. E per poco non fu fatto
cardinale. Avea di sole pensioni ottocentoventi scudi. Di gratificazioni ebbe
in diciotto anni venticinquemila scudi. Spese durante la sua vita più di un
milione di franchi. Gli vennero regali fino dal corsaro Barbarossa e dal
sultano Solimano. La sua casa principesca è affollata di artisti, donne, preti,
musici, monaci, valletti, paggi, e molti gli portano i loro presenti, chi un
vaso d'oro, chi un quadro, chi una borsa piena di ducati, e chi abiti e stoffe.
Sull'ingresso vedi un busto di marmo bianco coronato di alloro: è Pietro
Aretino. Aretino a dritta, Aretino a manca; guardate nelle medaglie d'ogni
grandezza e d'ogni metallo sospese alla tappezzeria di velluto rosso: sempre
l'immagine di Pietro Aretino. Morì a sessantacinque anni, il 1557, e di tanto
nome non rimase nulla. Le sue opere poco poi furono dimenticate, la sua memoria
è infame; un uomo ben educato non pronunzierebbe il suo nome innanzi a una
donna.
Chi
fu dunque questo Pietro, corteggiato dalle donne, temuto dagli emuli, esaltato
dagli scrittori, così popolare, baciato dal papa, e che cavalcava a fianco di
Carlo quinto? Fu la coscienza e l'immagine del suo secolo. E il suo secolo lo
fece grande.
Machiavelli
e Guicciardini dicono che l'appetito è la leva del mondo. Quello che essi
pensarono, Pietro fu.
Ebbe
da natura grandi appetiti e forze proporzionate. Vedi il suo ritratto, fatto da
Tiziano. Figura di lupo che cerca la preda. L'incisore gli formò la cornice di
pelle e zampe di lupo; e la testa del lupo assai simile di struttura sta sopra
alla testa dell'uomo. Occhi scintillanti, narici aperte, denti in evidenza per
il labbro inferiore abbassato, grossissima la parte posteriore del capo, sede
degli appetiti sensuali, verso la quale pare che si gitti la testa, calva nella
parte anteriore. “Figlio di cortigiana, anima di re”, dice lui. Legatore di
libri, valletto del papa, miserie! I suoi bisogni sono infiniti. Non gli basta
mangiare; vuole gustare; non gli basta il piacere; vuole la voluttà; non gli
basta il vestire; vuole lo sfarzo; non gli basta arricchire; vuole arricchire
gli altri, spendere e spandere. E a chi se ne maraviglia risponde: “Ebbene, che
farci a questo? Se io son nato per vivere così, chi m'impedirà di vivere così?”
I suoi sogni dorati sono vini squisiti, cibi delicati, ricchi palagi, belle
fanciulle, belli abiti. Di ciò che appetisce, ha il gusto. E nessuno è giudice
più competente in fatto di buoni bocconi e di godimenti leciti e illeciti. È in
lui non solo il senso del piacere, ma il senso dell'arte. Cerca ne' suoi
godimenti il magnifico, lo sfarzoso, il bello, il buon gusto, l'eleganza.
Ed
ha forze proporzionate a' suoi appetiti, un corpo di ferro, una energia di
volontà, la conoscenza e il disprezzo degli uomini, e quella maravigliosa
facoltà che il Guicciardini chiama discrezione, il fiuto, il da fare caso per
caso. Sa quello che vuole. La sua vita non è scissa in varie direzioni: uno è
lo scopo, la soddisfazione de' suoi appetiti, o, come dice il Guicciardini, il
suo particolare. Tutti i mezzi sono eccellenti, e li adopera secondo i casi.
Ora è ipocrita, ora è sfacciato. Ora è strisciante, ora è insolente. Ora adula,
ora calunnia. La credulità, la paura, la vanità, la generosità dell'uomo sono
in mano sua un ariete per batterlo in breccia ed espugnarlo. Ha tutte le chiavi
per tutte le porte. Oggi un uomo simile sarebbe detto un camorrista, e molte
sue lettere sarebbero chiamate ricatti. Il maestro del genere è lui. Specula
soprattutto sulla paura. Il linguaggio del secolo è officioso, adulatorio; il
suo tono è sprezzante e sfrontato. Le calunnie stampate erano peggio che
pugnali; cosa stampata voleva dir cosa vera; e lui mette a prezzo la calunnia,
il silenzio e l'elogio. Non gli spiacea aver nome di mala lingua, anzi era parte
della sua forza. Francesco primo gl'inviò una catena d'oro composta di lingue
incatenate e con le punte vermiglie, come intinte nel veleno, con sopravi
questo esergo: “Lingua eius loquetur mendacium”. Aretino gli fa mille
ringraziamenti. Quando non gli conviene dir male delle persone, dice male delle
cose, tanto per conservarsi la reputazione, come sono le sue intemerate contro
gli ecclesiastici, i nobili, i principi. Così l'uomo abbietto fu tenuto un
apostolo, e fu detto flagello de' principi. Talora trovò chi non aveva paura.
Achille della Volta gli die' una pugnalata. Nicolò Franco, suo segretario, gli
scrisse carte di vitupèri. Pietro Strozzi lo minaccia di ucciderlo, se si
attenta a pronunziare il suo nome. È bastonato, sputacchiato. È lui allora che
ha paura, perchè era vile e poltrone. Sir Howel lo bastona, ed egli loda il
Signore che gli accorda la facoltà di perdonare le ingiurie. Giovanni, il gran
diavolo, morendo gli disse: “Ciò che più mi fa soffrire è vedere un poltrone.”
Ma in generale amavano meglio trattarlo come Cerbero, e chiudergli i latrati,
gittandogli un'offa. Le sue lettere sono capilavori di malizia e di
sfrontatezza. Prende tutte le forme e tutti gli abiti, dal buffone e dal
millantatore sino al sant'uomo calunniato e disconosciuto. Come saggio, ecco
una sua lettera alla piissima e petrarchesca marchesa di Pescara, che lo aveva
esortato a cangiar vita e a scrivere opere pie:
“Confesso
che non sono meno utile al mondo e meno gradevole a Gesù, spendendo le mie
veglie per cose futili, che se le impiegassi in opere di pietà. Ma quale ne è
la causa? La sensualità altrui e la mia povertà. Se i principi fossero così
divoti, come io sono bisognoso, la mia penna non traccerebbe che miserere.
Illustrissima madonna, tutti al mondo non possedono l'ispirazione della grazia
divina. Il fuoco della concupiscenza divora la maggior parte; ma Voi, voi non
ardete che di fiamma angelica. Per noi musiche e commedie sono quel che è per
voi la preghiera e la predica. Voi non rivolgereste gli occhi per vedere Ercole
nelle fiamme o Marsia scorticato; noi altrettanto per non riguardare san
Lorenzo sulla graticola o san Bartolomeo spoglio della sua pelle. Vedete un
po': io ho un amico, per nome Brucioli, il quale dedicò la sua Bibbia al Re
Cristianissimo. Dopo cinque anni non ne ebbe tampoco risposta. La mia commedia,
invece, la Cortigiana, acquistossi dal medesimo re una ricca collana. Di
guisa che la mia cortigiana si sentirebbe tentata a beffarsi del Vecchio
Testamento, se non fosse cosa troppo indecorosa. Accordatemi mille scuse,
Signora, per le baie che vi ho scritte, non per malizia, ma per vivere. Che
Gesù v'ispiri di farmi tenere da Sebastiano da Pesaro il resto della somma,
sulla quale ho già ricevuto trenta scudi, e di cui vi sono anticipatamente debitore.”
All'ultimo
una stoccata, come si direbbe oggi. È una lettera tirata giù di un fiato da un
genio infernale. Con che bonomia si beffa della pia donna, avendo aria di farne
l'elogio! Con che cinismo proclama le sue speculazioni sulla libidine e sulla oscenità
umana, come fossero la cosa più naturale di questo mondo! Specula pure sulla
divozione, e con pari indifferenza scrive libri osceni e vite di santi, il Ragionamento
della Nanna e la Vita di santa Caterina da Siena, la Cortigiana
errante e la Vita di Cristo. E perchè no? Posto che traeva guadagno
di qua e di là. Scrisse di ogni materia, e in ogni forma, dialoghi, romanzi,
epopee, capitoli, commedie, e anche una tragedia, l'Orazia. Immagina
quali eroi possono essere gli Orazii, quale eroina l'Orazia, e che specie di
popolo romano può uscire dall'immaginazione di Pietro. Pure è il solo lavoro
che abbia intenzioni artistiche, fatto ch'era già vecchio e sazio e cupido più
di gloria che di danari. Gli riuscì una freddura, un mondo astratto e pedestre,
di cui non comprese la semplicità e la grandezza. Negli altri suoi lavori senti
lui nella verità della sua natura, dedito a piacere al suo pubblico, a
interessarlo, a guadagnarselo, a fare effetto. Ci è innanzi a lui una specie di
mercato morale: conosce qual è la merce più richiesta, più facile a spacciare e
a più caro prezzo. Si fa una coscienza e un'arte posticcia, variabile secondo i
gusti del suo padrone, il pubblico. Perciò fu lo scrittore più alla moda, più
popolare e meglio ricompensato. I suoi libri osceni sono il modello di un
genere di letteratura, che sotto nome di racconti galanti invase l'Europa.
L'oscenità era una salsa molto ricercata in Italia dal Boccaccio in poi; qui è
essa l'intingolo. Le vite di santi sono veri romanzi, dove ne sballa di ogni
sorta, solleticando la natura fantastica e sentimentale delle pinzochere.
Fabbro di versi assai grossolano, senti ne' suoi sonetti e capitoli la bile e
la malignità congiunta con la servilità. Così, alludendo alla munificenza di
Francesco primo, dice a Pier Luigi Farnese:
Impara
tu, Pier Luigi ammorbato,
impara,
ducarel da tre quattrini,
il
costume da un Re tanto onorato.
Ogni
signor di trenta contadini
e
d'una bicoccazza usurpar vuole
le
cerimonie de' culti divini.
Pietro non è un malvagio per
natura. È malvagio per calcolo e per bisogno. Educato fra tristi esempi, senza
religione, senza patria, senza famiglia, privo di ogni senso morale, con i più
sfrenati appetiti e con molti mezzi intellettuali per soddisfarli, il centro
dell'universo è lui, il mondo pare fatto a suo servizio. Su questa base, la sua
logica e uguale alla sua tempra. Ha una chiara percezione de' mezzi, e nessuna
esitazione o scrupolo a metterli in atto. E non lo dissimula, anzi se ne fa
gloria, è lì la sua forza, e vuole che tutti ne sieno persuasi. Il mondo era un
po' a sua immagine, molti erano che avrebbero voluto imitarlo, ma non avevano
il suo ingegno, la sua operosità, la sua penetrazione, la sua versatilità, il
suo spirito. Perciò l'ammiravano. Fra tanti avventurieri e condottieri, di cui
l'Italia era ammorbata, gente vagabonda senza princìpi, senza professione e in
cerca di una fortuna a qualunque costo, il principe, il modello era lui.
Tiziano lo chiama il condottiero della letteratura. E lui non se ne offende, se
ne pavoneggia. Lasciato alla sua spontaneità, quando non lo preme il bisogno, e
non opera per calcolo, scopre buone qualità. È allegro, conversevole, liberale,
anzi magnifico, amico a tutta prova, riconoscente, ammiratore de' grandi
artisti, come di Michelangiolo e di Tiziano. Aveva la logica del male e la
vanità del bene.
Pietro
come uomo è un personaggio importante, il cui studio ci tira bene addentro ne'
misteri della società italiana, della quale era immagine in quella sua
mescolanza di depravazione morale, di forza intellettuale e di sentimento
artistico. Ma non è meno importante come scrittore.
La
coltura tendeva a fissarsi e a meccanizzarsi. Non si discuteva più se si aveva a
scrivere in volgare o in latino. Il volgare aveva conquistato oramai il suo
dritto di cittadinanza. Ma si discuteva se il volgare si avesse a chiamare
toscano o italiano. E non era contesa di parole, ma di cose. Perchè molti
scrittori pretendevano di scrivere come si parlava dall'un capo all'altro
d'Italia, e non erano disposti di andare a prender lezione in Firenze. Amavano
meglio latinizzare che toscaneggiare Riconoscevano come modelli il Boccaccio e
il Petrarca, ma non davano alcuna autorità alla lingua viva. Lingua viva era
per loro il linguaggio comune, che atteggiavano alla latina e alla
boccaccevole. Questo meccanismo era accettato generalmente; se non che in
Firenze il fondo della lingua non era il linguaggio comune, mescolato di
elementi locali, siculi, lombardi, veneti, ma l'idioma toscano, così com'era
stato maneggiato dagli scrittori. E Firenze, esaurita la produzione
intellettuale, alzò le colonne di Ercole nel suo vocabolario della Crusca, e
disse: non si va più oltre. Il Bembo e più tardi il Salviati fissarono le forme
grammaticali. E le regole dello scrivere in tutt'i generi furono fissate nelle
rettoriche, traduzioni o raffazzonamenti di Aristotile, Cicerone e Quintiliano.
Si giunse a questo, che Giulio Camillo pretendea d'insegnare tutto il sapere
mediante un suo meccanismo. Tendenza al meccanizzare: che è fenomeno costante
in tutte le età che la produzione si esaurisce, e la coltura si arresta, e si
raccoglie nelle sue forme e si cristallizza.
Pietro,
di mediocrissima coltura, considera tutte queste regole come pedanteria. La sua
vita interiore così spontanea e piena di forza produttiva mal vi si può
adagiare. Il pedantismo è il suo nemico e lo combatte corpo a corpo. E chiama
pedantismo quel veder le cose non in sè stesse e per visione diretta, ma a
traverso di preconcetti, di libri e di regole. Quegl'inviluppi di parole e di
forme gli sono così odiosi, come l'ipocrisia, quel “covrirsi della larva di
un'affettata modestia, invilupparsi nella pelle della volpe e predicar l'umiltà
e la decenza senza valer meglio degli altri.” Non ascoltate quest'ipocriti,”
scrive al cardinale di Ravenna “pedanti comentatori di Seneca, i quali, dopo di
aver passata la lor vita nell'assassinare i morti, non sono contenti se non
quando crocifiggono i vivi. Sì, monsignore, egli è il pedantismo, che ha
avvelenato i Medici; è il pedantismo che ha ucciso il duca Alessandro; è il
pedantismo che ha prodotto tutt'i mali di questo mondo; è desso che per la
bocca del pedante Lutero ha provocata l'eresia e l'ha armata contro la nostra
santa fede. Lorenzino si fe' assassino per pedanteria, e per pedanteria si fe'
eretico Lutero, cioè a dire operarono per preconcetti, secondo i libri, e senza
nessuna intelligenza de' tempi loro.” Non è meno implacabile verso il
pedantismo letterario. Al Dolce scrive: “Andate pur per le vie che al vostro
studio mostra la natura. Il Petrarca e il Boccaccio sono imitati da chi esprime
i concetti suoi con la dolcezza e con la leggiadria con cui dolcemente e
leggiadramente essi andarono esprimendo i loro, e non da chi gli saccheggia,
non pur de' “quinci”, de' “quindi”, de' “soventi” e degli “snelli”, ma de'
versi interi. Il pedante che voglia imitare, “rimoreggia” dell'imitazione, e
mentre ne schiamazza negli scartabelli, la trasfigura in locuzione, ricamandola
con parole tisiche in regola. O turba errante, io ti dico e ridico che la
poesia è un ghiribizzo della natura nelle sue allegrezze, il qual si sta nel
furor proprio, e mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli
e un campanile senza campane, per la qual cosa chi vuol comporre e non trae
cotal grazia dalle fasce è un zugo infreddato. Imparate ciò ch'io favello da
quel savio pittore, il quale, nel mostrare a colui che il dimandò, chi egli
imitava, una brigata d'uomini col dito, volle inferire che dal vivo e dal vero
toglieva gli esempi, come gli tolgo io parlando e scrivendo. La natura di cui
son secretario mi detta ciò ch'io compongo. È certo ch'io imito me stesso,
perchè la natura è una compagnona badiale, e l'arte una piattola che bisogna
che si appicchi; sicchè attendete a esser scultore di sensi e non miniator di
vocaboli.” Parecchi scrivevano allora così alla naturale, e basta citare fra
tutti il Cellini, tutto vita e tutto cose. Ma il Cellini si teneva un
ignorante, e voleva che il Varchi riducesse la sua Vita nella forma de'
dotti, dove l'Aretino si teneva superiore a tutti gli altri, e dava facilmente
del pedante a quelli che lambiccavano le parole. Ci è in lui una coscienza
critica così diritta e decisa, che in quel tempo ci dee parere straordinaria.
La stessa libertà e altezza di giudizio portò nelle arti, di cui aveva il
sentimento. A Michelangiolo scrive: “Ho sospirato di sentirmi sì piccolo e di
saper voi così grande”. Il suo favorito è il suo amico e compare Tiziano, il
cui realismo così pieno e quasi sensuale si affà alla sua natura. Preso di
febbre, si appoggia alla finestra, e guarda le gondole e il Canal grande di
Venezia, e rimane pensoso e contemplativo, lui, Pietro Aretino! La vista della
bella natura lo purifica, lo trasforma. E scrive al Tiziano: “Quasi uomo che
fatto noioso a se stesso non sa che farsi della mente, non che de' pensieri,
rivolgo gli occhi al cielo, il quale, da che Dio lo creò, non fu mai abbellito
da così vaga pittura di ombre e di lumi, onde l'aria era tale, quale vorrebbono
esprimerla coloro che hanno invidia a voi, per non esser voi. I casamenti,
benchè sien pietre vere, parevano di materia artificiata. E di poi scorgete
l'aria, ch'io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e
smorta. Considerate anche la maraviglia ch'io ebbi de' nuvoli, i quali nella
principal veduta mezzi si stavano vicini a' tetti degli edificii, e mezzi nella
penultima, perocchè la diritta era tutta di uno sfumato pendente in bigio nero.
Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano: i più vicini
ardevano con le fiamme del foco solare, e i più lontani rosseggiavano d'un
ardore di minio non così bene acceso. O con che belle tratteggiature i pennelli
naturali spingevano l'aria in là, discostandola da' palazzi con il modo che la
discosta il Vecellio nel far de' paesi! Appariva in certi lati un verde
azzurro, e in alcuni altri un azzurro veramente composto dalle bizzarrie della
natura maestra de' maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e
rilevava in maniera, che io, che so come il vostro pennello è spirito dei suoi
spiriti, e tre e quattro volte esclamai: - O Tiziano, dove sete mo? - Per mia
fe' che, se voi aveste ritratto ciò ch'io vi conto, indurreste gli uomini nello
stupore che confuse me.” È notabile che questo sentimento della natura vivente,
de' suoi colori e de' suoi chiaroscuri, non produce nella sua anima alcuna
impressione o elevatezza morale, ma solo una ammirazione o stupore artistico,
come in un italiano di quel tempo. Vede la natura a traverso il pennello di
Tiziano e del paesista Vecellio, ma la vede viva, immediata, e con un
sentimento dell'arte che cerchi invano nel Vasari. Fra tante opere pedantesche
di quel tempo intorno all'arte e allo scrivere, le sue lettere artistiche e
letterarie segnano i primi splendori di una critica indipendente, che
oltrepassa i libri e le tradizioni, e trova la sua base nella natura.
Quale
il critico, tale lo scrittore. Delle parole non si dà un pensiero al mondo. Le
accoglie tutte, onde che vengano e quali che sieno, toscane, locali e
forestiere, nobili e plebee, poetiche o prosaiche, aspre e dolci, umili e
sonore. E n'esce uno scrivere, che è il linguaggio parlato anche oggi
comunemente in Italia dalle classi colte. Abolisce il periodo, spezza le
giunture, dissolve le perifrasi, disfà ripieni ed ellissi, rompe ogni artificio
di quel meccanismo che dicevasi forma letteraria, s'accosta al parlar naturale.
Nel Lasca, nel Cellini, nel Cecchi, nel Machiavelli ci è la stessa naturalezza,
ma ci senti l'impronta toscana, tutta grazia. Questi è un toscano ineducato,
figlio della natura, vivuto fuori del suo paese, e che parla tutte le lingue
fra le quali esercita le sue speculazioni. Fugge il toscaneggiare, come una
pedanteria; non cerca la grazia, cerca l'espressione e il rilievo. La parola è
buona, quando gli renda la cosa atteggiata come è nel suo cervello, e non la
cerca, gli viene innanzi cosa e parola, tanta e la sua facilità. Non sempre la
parola è propria, e non sempre adatta, perchè spesso scarabocchia, e non
scrive, abusando della sua facilità. Il suo motto è: “Come viene, viene”, e
nascono grandi ineguaglianze. Di Cicerone e del Boccaccio non si dà fastidio,
anzi fa proprio l'opposto, cercando non magnificenza e larghezza di forme, nelle
quali si dondola un cervello indolente, ma la forma più rapida e più
conveniente alla velocità delle sue percezioni. E neppure affetta brevità, come
il Davanzati, cervello ozioso, tutto alle prese con le parole e gl'incisi,
perchè la sua attenzione non è al di fuori, è tutta al di dentro. Abbandona i
procedimenti meccanici, non cura le finezze e le lascivie della forma. Ha tanta
forza e facilità di produzione, e tanta ricchezza di concetti e d'immagini, che
tutto esce fuori con impeto e per la via più diritta. Non ci è intoppo, non ci
è digressione o distrazione: pronto e deciso nello stile, come nella vita. Mai
non fu così vero il detto, che lo stile è l'uomo. Come il suo io è il
centro dell'universo, è il centro del suo stile. Il mondo che rappresenta non
esiste per sè, ma per lui, e lo tratta e lo maneggia come cosa sua, con quel
capriccio e con quella libertà che il Folengo tratta il mondo della sua
immaginazione. Se non che nel Folengo si sviluppa l'umore, perchè il suo mondo
è immaginario, e lo tratta senz'alcuna serietà, solo per riderne; dove il mondo
di Pietro è cosa reale, e ne ha una perfetta conoscenza, e lo tratta per
sfruttarlo, per cavarne il suo utile. Perciò non rispetta il suo argomento, non
si cala e non si obblia in esso; ma ne fa il suo istrumento, i suoi mezzi,
anche a costo di profanarlo indegnamente. Tratta Gesù Cristo come un cavaliere
errante, e “che importa” dice “la menzogna che io mescolo a queste opere?
Dacchè io parlo de' Santi, che sono il nostro rifugio celeste, le mie parole diventano
parole di evangelio”. Di santa Caterina scrive che “Io non avrei fatto sei
pagine di tutto, se avessi voluto attenermi alla tradizione e alla storia. Le
mie spalle hanno assunto tutto il peso dell'invenzione; perchè infine queste
cose tornano alla più gran gloria di Dio”. Talora si secca per via, il cervello
è vuoto, e ammassa aggettivi con uno sfoggio di pompa oratoria, che rivela il
ciarlatano: “Come lodare il religioso, il chiaro, il grazioso, il nobile,
l'ardente, il fedele, il veridico, il soave, il buono, il salutare, il santo e
il sacro linguaggio della giovane Caterina, vergine, sacra, santa, salutare,
nobile, graziosa, chiara, religiosa e facile?” Sembra una campana che ti
assorda, e ti turi le orecchie. Questo dicevasi stile fiorito, e l'Aretino te
ne regala, quando non ha di meglio. Talora vuol pur dire, ma non ha vena, e non
sentimento, ed esce nelle più sbardellate metafore e nelle sottigliezze più
assurde, massime ne' suoi elogi, che gli erano così ben pagati. “Essendo i
meriti vostri” scrive al duca d'Urbino “le stelle del Ciel della Gloria, una di
loro, quasi pianeta dell'ingegno mio, lo inclina a ritràrvi con lo stil delle
parole la imagine dell'anima, acciocchè la vera faccia delle sue virtù,
desiderata dal mondo, possa vedersi in ogni parte; ma il poter suo, avanzato
dall'altezza del subbietto, non ostante che sia mosso da cotale influsso, non
può esprimere in qual modo la bontà, la clemenza e la fortezza di pari
concordia vi abbiano concesso, per fatal decreto, il vero nome di Principe.” È
un periodo alla boccaccevole, stiracchiato ne' concetti e nella forma. Qui non
ci è il “come viene, viene”; ma ci è il non voler venire e il farlo venire per
forza. I suoi panegirici sono tutti rettorici, metaforici, miniati, falsamente
pomposi, gonfiati sino all'assurdo, e sembrano quasi caricature ironiche sotto
forma di omaggi. Il dir bene non era per lui cosa tanto facile, quanto il dir
male, dove spiega tutto il vigore della sua natura cinica e sarcastica. Assume
un tuono enfatico, e cerca peregrinità di concetti e di modi, un linguaggio
prezioso, composto tutto di perle, ma di perle false: preziosità passata in
Francia con Voiture e Balzac e castigata da Molière, e che in Italia dovea
divenire la fisonomia della nostra letteratura. Ecco alcune di queste perle
false, messe in circolazione dall'Aretino: “Io pesco nel lago della mia memoria
con l'amo del pensiero. - Il mio merito risplende della vernice della vostra
grazia. - Il chiodo della riconoscenza conficca il nome de' miei amici nel mio
cuore. - Non seppellite le mie speranze nella tomba delle vostre false
promesse. - La vostra grandezza ascende le scale del cielo con istupor delle
genti. - La vostra eloquenza si move dal natural dell'intelletto con tanta
facondia, che si riman confusa nella maraviglia la lingua che le proferisce i
concetti e l'orecchie che l'ascoltano. - Tòrre a Solimano, in servigio della
Cristianità, l'animo dall'anima, l'anima dal corpo, e il corpo dalle armi. -
Raccogliete l'affezione mia in un lembo della vostra pietà. - Mi dono a voi,
padri de' vostri popoli, fratelli de' vostri servi, erarii della caritade e
subbietti della clemenza. - La faccia della liberalità ha per ispecchio il
cuore di coloro a cui si porge. - La vostra Eccellenza ricerca da me qualche
ciancia per farne ventaglio del caldo grande che arde questi dì.” Questo stile
fiorito o prezioso è traversato a quando a quando da lampi di genio: paragoni
originali, immagini splendide, concetti nuovi e arditi, pennellate incisive, e
trovi pure, quando è abbandonato a sè e non cerca l'effetto, verità di
sentimento e di colorito, come in questa lettera così commovente nella sua
semplicità: “Le scarpe azzurro-turchine, ricamate in oro, che ho ricevute
insieme con la vostra lettera, m'han fatto tanto piangere, quanto m'hanno
arrecato di piacere. La giovinetta che doveva adornarsene, questa mattina ha
ricevuto gli olii santi, ed io non posso scrivervene di più, tanto sono
commosso.” La dissoluzione del meccanismo letterario è una forma di scrivere
più vicina al parlare, libera da ogni preconcetto e immediata espressione di
quel di dentro, uno stile ora fiorito, ora prezioso, che sono le due forme
della declinazione dell'arte e delle lettere, ecco ciò che significa Pietro
Aretino, come scrittore. La sua influenza non fu piccola. Aveva attorno
secretari, allievi e imitatori della sua maniera, come il Franco, il Dolce, il
Landi, il Doni, e altri mestieranti. “Io vivo di Kirieleison” scrive il
Doni. “I miei libri sono scritti prima di esser composti, e letti prima di
esser stampati”. La sua Libreria si legge ancora oggi per un certo brio
e per curiose notizie.
Ma
Pietro ha ancora una certa importanza, come scrittor di commedie. C'era un
mondo comico convenzionale, la cui base era Plauto e Terenzio, con accessorii
cavati dalla vita plebea e volgare di quel tempo. La base erano equivoci,
riconoscimenti, viluppi di accidenti, che tenessero viva la curiosità. Intorno
vi si schieravano caratteri divenuti convenzionali, il parassito, il servo
ghiottone, la cortigiana, la serva furba e mezzana, il figliuolo prodigo, il
padre avaro e burlato, il poltrone che fa il bravo, il sensale, l'usuraio. Lo
studio de' nostri comici è interessante, chi voglia conoscer bene addentro i
misteri di quella corruttela italiana. Vedrà i legami di famiglia sciolti, e
figli scioperati accoccarla a' padri, zimbello essi medesimi di usurai,
cortigiani e mezzani, tra le risa del rispettabile pubblico. Codesto mondo era
la commedia, con sue forme fisse alla latina, sparsa di lazzi e di lubricità.
Il più fecondo scrittor comico fu il Cecchi, morto il 1587, che in meno di
dieci giorni improvvisava commedie, farse, storie e rappresentazioni sacre. Ha
il brio e la grazia fiorentina comune col Lasca, ma ha meno spirito e
movimento, anzi talora ti par di stare in una morta gora. Il suo mondo e i suoi
caratteri sono come un repertorio già noto e fissato, e la furia gl'impedisce
di darvi il colore e la carne. Ti riesce non di rado scarno e paludoso. Pietro
dà dentro in tutto questo meccanismo, e lo disfà. Non riconosce regole e non
tradizioni e non usi teatrali. “Non vi maravigliate”, dice nel prologo della Cortigiana
“se lo stil comico non si osserva con l'ordine che si richiede, perchè si vive
d'un'altra maniera a Roma, che non si vivea in Atene”. Fra le regole c'era questa,
che i personaggi non potevano comparire più di cinque volte in iscena. Pietro
se ne burla con molto spirito: “Se voi vedessi uscire i personaggi più di
cinque volte in iscena, non ve ne ridete, perchè le catene, che tengono i
molini sul fiume, non terrebbono i pazzi di oggidì”. Mira all'effetto; tronca
gl'indugi, sgombra gl'intoppi; evita le preparazioni, gli episodi, le
descrizioni, le concioni, i soliloqui spessi; cerca in tutto l'azione e il
movimento, e ti gitta fin dal principio nel bel mezzo di quel suo mondo
furfantesco vivamente particolareggiato. Non ha la sintesi del Machiavelli,
quell'abbracciare con sicuro occhio un vasto insieme, e legarlo e svilupparlo
con fatalità logica, come fosse un'argomentazione. Non è ingegno speculativo, è
uomo d'azione, e lui stesso personaggio da commedia. Perciò non ti dà un'azione
bene studiata e ordita come è la Mandragola; gli fugge l'insieme, il
mondo gli si presenta a pezzi e a bocconi. Ma come il Machiavelli, egli ha una
profonda esperienza del cuore umano e grande conoscenza de' caratteri, i quali
si sviluppano ben rilevati e sporgenti tra la varietà degli accidenti, e
dominano la scena, e generano invenzioni e situazioni piccanti. Come ci gode
questo furfante fra tante bricconate che mette in iscena! Perchè infine quel
mondo comico è il suo mondo, quello dove ha fatto tante prove di malizia e di
ciarlataneria. Il concetto fondamentale è che il mondo è di chi se lo piglia, e
perciò è de' furbi e degli sfacciati, e guai agli sciocchi! Tocca ad essi il
danno e le beffe, perchè sono loro abbandonati alle risa del pubblico, sono
loro la materia comica. L'Ipocrita è l'apoteosi di un furfante, che a
furia d'intrighi e di malizia diviene ricco, proprio come l'Aretino. La Talanta
è una cortigiana che l'accocca a tutt'i suoi amanti, e finisce ricca, stimata e
maritata a un suo antico e fedele amante, alla barba degli altri. Il Filosofo,
mentre studia Platone e Aristotile, se la fa fare dalla moglie, e poi il buon
uomo si riconcilia con essa. Nella Cortigiana messer Maco, che vuol
divenire cardinale, e Parabolano che in grazia delle sue ricchezze crede di
avere a' suoi piedi tutte le donne, sono per tutta la commedia zimbello di
cortigiane, di mezzani e di furfanti. Il Marescalco o grande scudiere,
per non far dispiacere al duca di Mantova, suo signore, consente a sposarsi con
una donna, che non ha mai visto, lui nemico delle donne e del matrimonio. Nè
questo è un mondo immaginario e subbiettivo, anzi è proprio quella società lì,
co' suoi costumi egregiamente rappresentati nel più fino e nel più minuto.
Pietro vi gavazza entro, come nel suo elemento, lanciando satire, elogi,
epigrammi, bricconerie e laidezze, con un brio e un ardore di movenze, come
fossero fuochi artificiali. Alcuni caratteri sono rimasti celebri, e tutti son
vivi e veri. Il suo Marescalco ha ispirato Rabelais e Shakespeare, ed è uno
scherzo originalissimo. Il suo Parabolano è rimasto l'appellativo degli uomini
fatui e vani. Messer Maco è il tipo, da cui usciva il Pourceaugnac. Il suo
ipocrita è un Tartufo innocuo e messo in buona luce. Il suo filosofo, che egli
chiama Plataristotile, è una caricatura de' Platonici di quel tempo. A sentirlo
sentenziare è savissimo, ma non ha pratica del mondo, e il servo la sa più
lunga di lui, e più lunga del servo la sa Tessa, la moglie. Questo filosofo, a
cui la moglie gliela fa sul naso, pronunzia sentenze bellissime sulle donne,
mentre il servo, che sa tutto, gli fa la boccaccia:
“Plataristotile - La
femmina è guida del male e maestra della scelleratezza.
Servo - Chi lo sa, nol
dica.
Plataristotile - Il petto
della femmina è corroborato d'inganni.
Servo - Tristo per chi non
la intende.
Plataristotile - Solo
quella è casta che da nessuno è pregata.
Servo - Questo sì ch'io
stracredo.
Plataristotile - Chi
sopporta la perfidia della moglie, impara a perdonare le ingiurie.
Servo - Bella ricetta per
chi è polmone.”
E il servo conchiude: “Vostra
Saviezza pigli quello che vi potria intervenire in buona parte, e non si lasci
tanto andar dietro agli speculamenti dottrineschi, che il diavolo non vi
lasciasse poi andare per i canneti”.
“Tu
parli da eloquente, ” risponde il filosofo; “ma non ci son per considerar
sopra, per lo appetito della gloria che conseguisco filosofando”.
Il
suo Boccaccio è uno di quei merli capitati nelle unghie di una cortigiana e
scorticati vivi. La sua serva tende l'imboscata:
“Boccaccio - Che cosa move
la tua madonna a voler parlare a me, che son forestiere?
Lisa - Forse la grazia
ch'è in voi; maffe sì ch'ella c'è, or via.
Boccaccio - Tu ti diletti
da ben dire.
Lisa - Mi venga la morte,
se non ispasima di favellarvi.
Boccaccio - Chi è gentile,
il dimostra.
Lisa - Nel vederla
manderete a monte le bellezze d'ogni altra... State saldo, fermatevi, e mirate il
sole, la luna e le stelle, che si levano là su quell'uscio.
Boccaccio - Che brava
appariscenzia!
Lisa - Il vostro giudizio
ha garbo.
Boccaccio - Purch'io sia
l'uom ch'ella cerca. I nomi alle volte si strantendono.
Lisa - Il vostro è sì
dolce che si appicca alle labbra. Eccola corrervi incontro a braccia aperte.”
Le
cortigiane sono il suo tema favorito. La sua Angelica è il tipo di tutte le
altre. E la sua Nanna è la maestra del genere.
Questa
è la commedia che poteva produrre quel secolo, l'ultimo atto del Decamerone,
un mondo sfacciato e cinico, i cui protagonisti sono cortigiani e cortigiane, e
il cui centro è la corte di Roma, segno a' flagelli dell'uomo, che nella sua
rocca di Venezia erasi assicurata l'impunità.
Secondo
una tradizione popolare molto espressiva Pietro morì di soverchio ridere, come
morì Margutte, e come moriva l'Italia.
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