XVIII
MARINO
Questo mondo lirico, che nella Gerusalemme
si trova mescolato con altri elementi, apparisce in tutta la sua purezza
idillica ed elegiaca nell'Aminta. Ivi il Tasso incontra il vero mondo
del suo spirito e lo conduce a grande perfezione.
L'Aminta
non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto
forma drammatica è un poemetto lirico, narrazione drammatizzata, anzi che vera
rappresentazione, com'erano le tragedie e le commedie e i così detti drammi
pastorali in Italia. Citerò la Virginia dell'Accolti, resa celebre
dall'imitazione di Shakespeare. Essa è in fondo una novella allargata a
commedia, di quel carattere romanzesco che dominava nell'immaginazione
italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il Ruffo, la cui volgarità fa
contrasto con la natura cavalleresca de' due protagonisti, Virginia e il
principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano con magica
rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a monologhi e capitoli,
dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione. Di tal
genere erano anche le egloghe o commedie pastorali, iniziate fin da' tempi del
Boiardo nella corte di Ferrara, e giunte allora a una certa perfezione
d'intreccio e di meccanismo nel Sacrificio del Beccari, nell'Aretusa del
Lollio e nello Sfortunato dell'Argenti. Queste ecloghe, che dalla
semplicità omerica e virgiliana erano state condotte fino ad un serio viluppo
drammatico, furono dette senza più “favole boscherecce”. E anche commedie
pastorali.
L'Aminta
è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da partecipi con le
impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è tutto nella
narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui concetto è
l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: “s'ei piace, ei lice”. Il motivo
è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di caratteri e di
avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni, sentenze,
movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale, piena di grazia e
delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima. Semplicità molta è
nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di eleganza guadagna di
naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo.
Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un'apparenza pastorale
a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la stessa
semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di perfezione,
e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.
Tentò
il Tasso anche la tragedia classica, e ad imitazione di Edipo re scrisse
il suo Torrismondo. Ma l'Italia non avea più la forza di produrre nè
l'eroico, nè il tragico, e lì non ci è di vivo se non quello solo di vivo che
era nel poeta e nel tempo, l'elemento elegiaco, massime ne' cori. I
contemporanei credettero di avere il poema eroico nella Gerusalemme, e
non molto soddisfatti del Torrismondo aspettavano ancora la tragedia
classica.
Delle
sue rime sopravvive qualche sonetto e qualche canzone, effusione di anima
tenera e idillica. Invano vi cerco i vestigi di qualche seria passione.
Repertorio vecchio di concetti e di forme con i soliti raffinamenti. Dipinge
bella donna così:
Chè
del latte la strada
ha
nel candido seno,
e
l'oro delle stelle ha nel bel crine,
ne'
lumi ha la rugiada.
Il suo dolore esprime a questo
modo:
Fonti
profonde son d'amare vene
quelle
ond'io porto sparso il seno e 'l volto;
è
'nfinito il dolor, che dentro accolto
si
sparge in caldo pianto e si mantene:
nè
scema una giammai di tante pene,
perch'il
mio core in dolorose stille
le
versi a mille a mille.
I sentimenti umani sono
petrificati nell'astrazione di mille personificazioni, come l'amore, la pietà,
la fama, il tempo, la gelosia, e nel gelo di dottrine platoniche e di forme
petrarchesche.
Quel
che sieno le sue prose, si può immaginare. Dottissime, irte di esempi e di
citazioni, in istil grave, in andamento sostenuto, ma non inceppato,
sfolgoranti di nobili sentimenti. Quando esprime direttamente i moti del suo
animo, mostra un affetto rilevato da una forma cavalleresca e di gentiluomo
anche nell'abiezione della sua sorte, com'è in alcune sue lettere. Quando
specula, come ne' Dialoghi, senti ch'è fuori della vita, e sta in
quistioni astratte, o formali. Ci è un libro che volontariamente ha chiuso, ed
è il libro della libera investigazione. Nella sua giovinezza l'autore del Rinaldo,
dedito a furtivi e disordinati amori, era anche infetto dalla peste filosofica.
La gran quistione era qual fosse superiore, la fede o la religione, la volontà
o l'intelletto. I filosofi moderni rivendicano, egli dice, la sovranità
dell'intelletto, e sostengono che l'uomo non può credere a quello che ripugna
all'intelletto. Tratto dalla corrente, il giovine Tasso non crede
all'incarnazione, nè all'immortalità dell'anima, e di quei suoi costumi e di
queste opinioni i suoi avversari gli fecero carico presso la corte, quand'egli
era già pentito e confesso e animato da zelo religioso. La sua religione è
messa d'accordo con la sua filosofia su questo bel ragionamento, che
l'intelletto non può spiegare tante cose che pure esistono, e che perciò
esistono anche le verità della fede, ancorchè l'intelletto non sia giunto a
spiegarle. Indi è che ti riesce più erudito e dotto che filosofo, e rimane
segregato da tutto quel movimento intellettuale intorno alla natura e all'uomo
che allora ferveva anche in Italia, abbandonandosi al suo naturale discorso
timidamente, e non senza aggiungere che se cosa gli vien detta non pia e non
cattolica, sia per non detta. Odia a morte i luterani, ha in sospetto i
filosofi “moderni”, e cerca un rifugio negli antichi, massime in Platone, più
affine alla sua natura contemplativa e religiosa. De' suoi dubbi, delle sue
ansietà, della sua vita intellettuale interiore non è rimasto un pensiero, non
un grido. Ci è qui l'anima di Pascal o di sant'Agostino, cristallizzata in
quell'atmosfera inquisitoriale nelle forme classiche e negli studi platonici.
Uno de' suoi più interessanti dialoghi è quello che prende il nome del
Minturno, scrittore napolitano, che fra l'altro die' fuori una Poetica.
Ivi il poeta investiga la natura del bello, confutando tutte le definizioni
volgari, e conchiude che il bello è la natura angelica, ovvero l'anima “in
quanto si purga”, che è appunto il concetto della sua Gerusalemme.
Evidentemente, confonde il bello col vero e colla perfezione morale, intravede
l'ideale, e non lo coglie, e si discosta dalla poesia quanto più si accosta a
quel concetto, come nella Conquistata e nelle Sette giornate. Il
dialogo è platonico nel concetto e nell'andamento, ma vi desideri la grazia e
la freschezza di quel divino.
Il
secolo comincia con l'Arcadia del Sannazzaro, e finisce con l'Arcadia
del Guarini, detta il Pastor fido. L'idillio, attraversato nel suo
cammino dalla moda cavalleresca, ripiglia forza e resta padrone del campo,
sviluppandosi a forma drammatica.
L'idillico
e il comico erano generi viventi insieme col romanzesco, e rappresentavano
quella parte di vita poetica rimasta all'Italia. Il tragico e l'eroico erano
pura imitazione. Perciò il comico e l'idillico si sprigionano in parte dalle
forme classiche e prendono un aspetto più franco.
Il
comico sviluppato in una moltitudine di novelle e di commedie lasciava quel
fondo convenzionale di Plauto e Terenzio, e produceva caratteri freschi e vivi,
e per piacere si accostava alle forme della vita popolare e anche a quel
linguaggio, ora mescolando con l'italiano il dialetto, ora scrivendo tutto in
dialetto. Le farse napolitane accennavano già a questo genere. Ne scrisse anche
di simili Beolco, o il Ruzzante, detto il “famosissimo”. Gli attori
cominciarono a contentarsi del canavaccio, o del semplice ordito, come si fa
ne' balli teatrali, e improvvisavano il linguaggio, a quel modo che facevano
gli antichi novellieri. Compagnie di rapsodi, o improvvisatori, si sparsero in
Italia, e anche più tardi a Parigi e a Londra, traendosi appresso un
repertorio, dove attinsero molti soggetti e pensieri e situazioni drammatiche
Shakespeare e Molière. Come ci era un fondo comune d'invenzione, così ci erano
caratteri fissi e determinati, che comparivano in maschera, e alcuni anche
senza, come Pantalone, Brighella, Arlecchino, Pulcinella, il Dottore bolognese,
il capitan Spavento, o il capitano Matamoros, il servo sciocco, come Trappola,
e simili. Rappresentazioni, che ricordavano le atellane dell'antica Roma, e si
chiamavano “commedie a soggetto”, dove non ci era altro di espresso che il
soggetto. Gli attori erano anche autori, e spesso rappresentavano prima una
commedia “erudita”, e poi per far piacere al pubblico improvvisavano una
commedia a soggetto, o “dell'arte”. Intrighi amorosi, combinazioni
straordinarie della vita e certe parti episodiche convenute, certi caratteri
tradizionali, come lo sciocco, il buffo, il discolo, il pedante, la mezzana,
l'usuraio, sono il fondo di questi repertorii popolari, a' quali si avvicinano
molto le commedie dell'Aretino. Ivi si trovano i secreti della vita e del
carattere italiano, assai più che in tutte le imitazioni classiche. Una storia
della commedia e della novella in tutte le sue forme sarebbe un lavoro assai
istruttivo, e se ne caverebbero elementi preziosi per la storia della società
italiana. Un ricco repertorio di soggetti sceneggiati ci ha lasciato nelle sue Cinquanta
giornate Flaminio Scala, autore e attore così famoso come il “famosissimo”
Ruzzante, e Andrea Calmo, “stupore e miracolo delle scene”. Flaminio
rappresentava la parte dell'innamorato, e fu il capo di quella compagnia comica
che aprì il primo teatro italiano a Parigi nel 1577, sotto Enrico terzo.
Celebre attrice fu sua moglie Orsola, e più celebre fu Isabella di Padova,
sposata a Francesco Andreini, che rappresentava la parte del capitan Spavento.
Isabella, celebrata dal Tasso, dal Castelvetro, dal Campeggi, dal Chiabrera,
morì a Lione, e nella scritta posta al suo sepolcro è detta “Musis amica et
artis scaenicae caput”. Pari a lei di fama e di genio e di virtù fu
Vincenza Armani, di Venezia, scrittrice e attrice, che ne' drammi pastorali
rappresentava la parte di Clori. La parte del Dottore fu resa celebre dal
Graziano, e Arlecchino ebbe il suo grande interprete in Giovanni Ganassa, da
Bergamo, che nel 1570 introdusse nella Spagna la commedia dell'arte, come
Flaminio aveva fatto a Parigi e a Londra. Il Roscio del secolo fu il Verato, di
Ferrara, celebrato dal Tasso e dal Guarini, che intitolò dal suo nome
un'apologia del suo dramma. La commedia dell'arte non era altro se non la
stessa commedia erudita tolta di mano agli accademici e rinfrescata nella vita
popolare, maneggiata da scrittori meno dotti, ma più pratici del teatro e più
intelligenti del gusto pubblico: perciò più svelta e vivace nel suo andamento,
e rallegrata da quello spirito che viene dall'improvviso e dall'uso del
dialetto, non senza cadere a sua volta nel vizio opposto alla pedanteria, ne'
lazzi sconci degli Arlecchini. Di essa non sono rimasti che gli scheletri:
tutto ciò che vi aggiungeva l'immaginazione improvvisatrice vive solo
nell'ammirazione de' contemporanei.
Accanto
al comico e al romanzesco si sviluppava il sentimento idillico, con tanto più
forza quanto la società era più artificiata e raffinata. L'idillio si
presentava come contrasto tra l'onore e l'amore, tra la città e la villa, tra
le leggi sociali e le leggi della natura. Naturalmente è l'amore o la natura
che vince. La felicità, posta nell'età dell'oro, cioè a dire fuori de' travagli
e delle agitazioni della vita reale, nel riposo o tranquillità dell'anima; la
vita rustica con quelle bellezze della natura, con quella vita di godimenti
semplici, con quella spontaneità e ingenuità di sentimenti, era quel naturale
contrapposto di un mondo convenzionale, che senti nell'Aminta e nel
“pastore” di Erminia. L'ideale poetico posto fuori della società in un mondo
pastorale rivelava una vita sociale prosaica, vuota di ogni idealità. La poesia
incalzata da tanta prosa si rifuggiva, come in un ultimo asilo, ne' campi, e là
gli uomini di qualche valore attingevano le loro ispirazioni, di là uscirono i
versi del Poliziano, del Pontano e del Tasso. Come la commedia a soggetto era
il pascolo della plebe, il dramma pastorale era il grato trattenimento delle
corti, che ci trovavano un linguaggio più castigato e predicatore di virtù
fuori di ogni applicazione alla vita pratica. Perciò, come la commedia divenne
sempre più licenziosa e plebea, il dramma pastorale prese aria cortigiana, e
quel mondo semplice della natura si manifestò con una raffinatezza degna delle
nobili principesse spettatrici. Questo carattere già visibile nell'Aminta
diviene spiccatissimo nel Pastor fido. Giambattista Guarini fu poeta di
occasione e cortigiano di natura, dove il Tasso fu tutto l'opposto: cortigiano
per bisogno e per istinto poeta. Il Guarini era nobile e ricco, e non lo
strinse alla vita di corte che la sua natura irrequieta e ambiziosa. Passò il
tempo errando di corte in corte, e dopo i disinganni correva dietro a nuovi
inganni. Aveva molto ingegno, non comune coltura, assai pratica della vita e
degli uomini, mente chiarissima, grande attività. Compagno negli studi col
Tasso a Padova, fu a Ferrara suo emulo, e quando il Tasso capitò in prigione,
prese il suo posto e fu battezzato poeta di corte. Disgustato a sua volta degli
Estensi, si ritirò in una sua bellissima villa, e vi concepì e vi scrisse il Pastor
fido, acclamato da tutta Italia. Anche lui ebbe le sue intenzioni critiche.
Volle fare una tragicommedia, mescolanza di elementi tragici e comici in un
ordito largo e ricco, dove fossero innestate più azioni. Questo parve eresia a'
critici, tenaci al “simplex et unum”, e che non concepivano l'arte se
non come un ideale tragico o comico. Si ravvivarono adunque quelle polemiche
letterarie, che dal Castelvetro e dal Caro in qua mettevano in moto tante
accademie. Il Guarini si difese assai bene nell'Apologia, e mostrò
coscienza chiarissima della sua opera. Forse il teatro spagnuolo non fu senza
influenza sulla sua critica, ma, come tutto si diffiniva con l'autorità de'
classici, difese quell'innesto di azioni e quella mescolanza di caratteri con
Aristotile alla mano e con l'Andria di Terenzio. Oggi gli si fa gloria
di quello che allora si reputava peccato. Si dice ch'egli abbia intraveduto il
dramma moderno, e non solo lo intravide, ma lo concepì con l'esattezza di un
critico odierno. La poesia dee rappresentare la vita così com'è, con le sue
mescolanze e i suoi sviluppi: questo è il concetto ch'esce chiaramente dal suo
discorso. Ma quello che in Shakespeare e in Calderon è sentimento dell'arte
sviluppato naturalmente in una vita nazionale, ricca e piena, in lui è visione
intellettuale e solitaria, è concetto di critico, non sentimento di artista;
concepiva il dramma quando del dramma mancavano tutte le condizioni in Italia,
principalmente una vita seria e sostanziale. La sua critica fa onore
all'intelletto italiano, allora nel fiore del suo sviluppo, e rivela insieme la
decadenza della facoltà poetica.
Il
Pastor fido, come meccanismo ed esecuzione tecnica, è ciò che di più
perfetto offriva la poesia. Due azioni entranti naturalmente l'una nell'altra e
magnificamente innestate, caratteri ben trovati e ben disegnati e perfettamente
fusi nella loro mescolanza, una superficie levigata con l'ultima eleganza, una
versificazione facile, chiara e musicale fanno di questo poemetto, per ciò che
si attiene a costruttura e ad abilità tecnica, un gioiello. Tutto ciò che
chiarezza d'intelletto e industria di stile e di verso può dare, è qui dentro.
Il concetto, come nell'Aminta, è il trionfo della natura, con la quale
il destino, in lotta apparente, si riconcilia da ultimo, mediante le solite
agnizioni. Il poema è un'apoteosi della vita pastorale e dell'età dell'oro,
contrapposta alla corruzione e alle agitazioni della città, e invocata spesso
da' personaggi con senso d'invidia nella stretta delle loro passioni. Abbondano
invocazioni, preghiere, sentenze morali e religiose; ma il fondo è
sostanzialmente pagano e profano, è il naturalismo, la natura scomunicata e
condannata come peccato, che qui, dopo lunga lotta, si scopre non essere altro
che la stessa legge del destino. La conclusione è: “Omnia vincit amor”,
riconciliato col destino e divenuto virtù, con tanto più sapore, con quanto più
dolore:
Quello
è vero gioire,
che
nasce da virtù dopo il soffrire.
Ma la virtù è nome, e la cosa è
il godimento amoroso sotto forme così voluttuose, che il Bellarmino ebbe a dire
aver fatto più male con quel suo libro il Guarini che non i luterani. Dal
concetto nasce tutto l'intrigo. Corisca e il satiro sono l'elemento comico e
plebeo: l'una è la donna corrotta della città, tornata a' campi e divenuta il
mal genio di questa favola, l'altro è l'ignoranza e la grossolanità della vita
naturale ne' suoi cattivi istinti, e tutti e due sono la macchina poetica,
l'istrumento che annoda gli avvenimenti e produce la catastrofe. I protagonisti
sono Mirtillo e Amarilli, che si amano senza speranza, essendo Amarilli
fidanzata a Silvio, il quale, come la Silvia dell'Aminta, è dedito alla
caccia, ed ha il core chiuso all'amore, invano amato da Dorinda, invano
fidanzato ad Amarilli. Mirtillo ed Amarilli per inganno di Corisca e per la
bestialità del satiro sono dannati a morte, mentre Silvio per errore ferisce
Dorinda, travestita e scambiata per lupo. All'ultimo, Silvio s'intenerisce e
sposa Dorinda, e Mirtillo, scopertosi esser egli il vero Silvio, figlio di
Montano, che dovea essere fidanzato ad Amarilli, la sposa. Così la natura,
posta d'accordo co' responsi dell'oracolo trionfa; e tutti contenti, la natura
e il destino, gli dei e gli uomini. Certo, qui ci sono tutti gli elementi di un
dramma, e “dramma” lo chiamano i critici per l'innesto delle azioni, per la
mescolanza de' caratteri, e per la parte data al destino secondo la tragedia
greca: cose non lodevoli e non biasimevoli, che possono essere e non essere in
un dramma. Il valore di una poesia bisogna cercarlo non in queste condizioni
esterne del suo contenuto, ma nella sua forma, cioè nella sua vita intima. Il Pastor
fido è così poco un dramma, come l'Aminta, ancorchè ne abbia
maggiore apparenza nel suo meccanismo. Ma la sua vita organica è quella medesima
dell'Aminta, suo specchio e sua reminiscenza, e tutti e due sono poemi
lirici, narrazioni, descrizioni, canti, non rapprese ella scena, e non te ne
giunge sul teatro che l'eco lirica. Vedi sfilare i personaggi l'uno appresso
l'altro, e non è ragione che venga l'uno prima, e l'altro poi, e ci narrano i
loro guai: parlano, non operano. Indi monologhi e narrazioni interminabili.
Hanno operato o vogliono operare, e ci raccontano quello che hanno fatto o son
disposti a fare, aggiungendovi le loro riflessioni e impressioni. L'azione è
un'occasione all'effusione lirica. Abbondano i cori, ma ciascun personaggio fa
esso medesimo ufficio di coro, perchè non opera, ma discorre, riflette, effonde
i suoi dolori e le sue gioie. Non manca al Guarini un ingegno drammatico, e lo
mostra nella scena tra il satiro e Corisca, o tra Silvio e Dorinda, o dove
Dorinda ferita s'incontra con Silvio. Ciò che gli manca è la serietà di un
mondo drammatico, non essendo questo suo mondo che un prodotto artificiale e
meccanico di combinazioni intellettuali. Manca a lui e manca all'Italia un
mondo epico e drammatico, e perciò non ci è epica, e non ci è dramma. Quel suo
mondo dell'Arcadia era per lui cosa così poco seria, come il mondo cavalleresco
era all'Ariosto, salvo che l'Ariosto se ne ride, e lui lo prende sul serio, a
quel modo che il Tasso. Cosa n'esce? Sotto pretensioni drammatiche esce un
mondo lirico, come di sotto alle pretensioni eroiche del Tasso usciva un poema
lirico. Il secolo era vuoto di passione e di azione, e vuoto di coscienza, nè
il Concilio trentino potè dargliene altro che l'apparenza ipocrita. “Questo è
un secolo di apparenza, - scrive il Guarini, - e si va in maschera tutto
l'anno”. Ma egli pure andava in maschera, e fu col secolo, non fuori e non
sopra di esso. Rimaneva l'idolatria della letteratura, considerata come un bel
discorso nella eleganza delle sue forme, condimento di una vita molle tra le
feste e le pompe e gli ozi idillici delle corti. E questa è la vita che ti dà
il Guarini, bei discorsi lirici e musicali, per entro ai quali spira un'aria
molle e voluttuosa. Questa è la vita intima del Pastor fido, come dell'Aminta,
e se vogliamo gustarlo, lasciamo lì il dramma co' suoi innesti, le sue
mescolanze e il suo destino, e mettiamoci a questo punto di vista.
Manca
al Guarini l'ispirazione, la malinconia, la concentrazione fantastica, il
profondo sentimento del Tasso, e come poeta gli è di gran lunga inferiore.
Parla sempre di amore, ma non lo sente. E non sente la vita pastorale, quella
inclinazione alla solitudine e alla pace idillica, lui che ambizione e
cupidigia tenea distratto tra le più prosaiche occupazioni della vita. La
virtù, la religione, il destino, tutto ciò che la vita ha di più elevato, è
nella sua mente, non è nella sua coscienza. O, per dir meglio, coscienza non
ha: quel focolare interno, dove convivono e si raffinano tutte le potenze
dell'anima, condizionandosi a vicenda; dove si genera il filosofo, il poeta,
l'uomo di Stato, il gran cittadino, centro di vita, da cui solo esce la vita. E
perchè questo centro di vita gli manca, il Guarini ha immaginazione e non ha
fantasia, ha spirito e non ha sentimento, ha orecchio musicale e non ha
l'armonia che nell'anima si sente. Lo diresti un gran poeta in potenza, a cui
sia fallita la formazione per la distrazione delle forze interiori. Perciò non
ha la produzione geniale del poeta, ma la mirabile costruzione di un artista
consumato: della quale si può dire quello che il coro dice della chioma finta
di Corisca, che gli è un “cadavere d'oro”. Splende e non scalda, lusinga
l'orecchio e i sensi, e non lascia alcun vestigio nell'anima: tutti quei
personaggi vestiti di oro e di porpora sono morti con esso Mirtillo e Amarilli.
Ma quali splendori! qual maraviglia di costruzione! Fra tanti costruttori il
primo posto tocca al Guarini, a cui stanno prossimi il Caro e il Monti. La sua
ricca immaginazione si spande al di fuori come iride nella pompa de' suoi più
smaglianti colori; il suo spirito chiaro e acuto profonde con brio e facilità i
concetti più ingegnosi, più delicati e più fini; il suo verso ti sembra nato
insieme con que' colori e con que' concetti: così è duttile, molle, vezzoso ed
elegante. Se ci è lì dentro un sentimento, è una sensualità raffinata, la
poesia della libidine. È lo stesso mondo del Tasso con le stesse qualità,
esagerate dall'emulo, che pretendea di far meglio: un mondo plasmato nelle
corti e ritratto della coltura. Quel mondo, che nel Tasso apparisce malinconico
e contraddittorio tra gli strazi e le confuse aspirazioni della transizione, eccolo
qui sfacciato e a bandiera spiegata. È il naturalismo del Boccaccio nella sua
ultima forma, purgato e castigato, involto in apparenze morali e religiose, un
naturalismo con licenza de' superiori, o “in maschera”, come direbbe il
Guarini. Non basta la licenza; il nudo disgusta e non alletta; la sensualità
intorpidita ha bisogno degli stimoli dell'immaginazione e dello spirito. Il
cavallo di battaglia per i poeti platonici erano gli occhi: qui è il bacio. Già
il Tasso avea fatto qualche allusione al gioco del bacio. Il Guarini ne fa una
pittura voluttuosissima, e il bacio preso per furto diviene il luogo comune
dell'Arcadia. Quanti raffinamenti sul bacio! Odasi il Guarini:
...
quello è morto bacio a cui
la
baciata beltà bacio non rende.
Ma
i colpi di due labbra innamorate,
quando
a ferir si va bocca con bocca...
son
veri baci, ove con giuste voglie
tanto
si dona altrui, quanto si toglie.
Baci
pur bocca curiosa e scaltra
o
seno, o fronte, o mano: unqua non fia
che
parte alcuna in bella donna baci,
che
baciatrice sia,
se
non la bocca, ove l'un'alma e l'altra
corre
e si bacia anch'ella, e con vivaci
spiriti
pellegrini
dà
vita al bel tesoro
de'
bacianti rubini:
sicchè
parlan tra loro
quegli
animati e spiritosi baci
gran
cose in picciol suono...
Tal
gioia amando prova, anzi tal vita
alma
con alma unita:
e
son come d'amor baci baciati
gl'incontri
di due cori amanti amati.
Poesia splendida, dove lo spirito
è così raffinato ne' suoi concetti, com'è la sensuale immaginazione ne' suoi
colori. Non è la vita in atto; è vita lirica, narrata, descritta, sentenziata.
Anche Corisca e il satiro si esprimono sentenziando, anche il coro. Uno spirito
sottile trova i più ingegnosi rapporti, che l'immaginazione condensa in versi
felicissimi. E poichè si tratta di baci, ecco una sentenza di Amarilli:
Bocca
baciata a forza,
se
'l bacio sputa, ogni vergogna ammorza.
La
soverchia facilità rompe ogni misura. Ciascuna situazione diviene un tema
astratto, sul quale l'immaginazione intesse i più preziosi ricami. I discorsi,
dialoghi o monologhi, sono vere canzoni, dove riccamente è sviluppato qualche
sentimento, divenuto un'astrazione dello spirito. La canzone spesso si sveste
la maestà e solennità petrarchesca, e divenuta elegiaca e idillica anche nella
sua esteriorità, ti si presenta innanzi spezzata in sè, intramessa di versetti
e di rime, in brevi periodetti, tutta vezzi e languori e melodie, assai vicina
al madrigale concettoso e galante, dove il Guarini era maestro. Bellissimo
esempio sono le canzonette, che cantano le ninfe intorno ad Amarilli nel giuoco
della “cieca”.
Il
secolo si chiude sotto le più belle apparenze di progresso letterario. La sua
vita interna è il naturalismo in viva opposizione con l'ascetismo. Vi si
sviluppa l'idillico, il comico, il romanzesco, portandosi appresso come parti
morte il petrarchismo e il classicismo. Questa vita nuova s'inizia nel
Boccaccio, ritratto sintetico del secolo, dove commedia, idillio e romanzo
fanno la loro prima comparsa. L'idillio, tranquillo riposo dell'anima nel seno
della natura, ideale di felicità contrapposto all'inquieto ideale ascetico,
attinge la sua perfezione estetica nelle Stanze, e fa sentire i suoi
susurri tra le fantasie ariostesche. L'idillio è il sentimento della natura
vivente e delle belle forme, che si scioglie dal soprannaturale; è un
naturalismo, non è ancora umanismo, e accosta l'arte alla natura, e nella
maggior finitezza del disegno, de' contorni e delle figure raggiunge l'idealità
della bella forma, e produce i miracoli dell'arte e della poesia italiana. Il
comico ha già nel Boccaccio il suo grande poeta. È il riso della nuova
generazione, che fa la parodia del passato ne' suoi diversi aspetti, religioso,
etico, dottrinale, in novelle, capitoli e commedie: onde si sviluppa una ricca
letteratura, buffonesca, ironica, licenziosa, umoristica. E come il comico non
chiude in sè alcuna affermazione, anzi viene da indifferenza e da scetticismo,
ha tutt'i segni di una dissoluzione morale, di cui la più sfacciata espressione
sono le commedie dell'Aretino, e riesce in ultimo superficiale e frivolo.
L'immaginazione in quella insipidezza della vita interiore, in quella poca
serietà della vita esteriore si gitta al romanzesco, e vi si trastulla colla
coscienza superiore di un intelletto adulto, con la coscienza che gli è un
giuoco e un passatempo: situazione che attinge la sua bellezza artistica nel
mondo armonico dell'Ariosto, e si scioglie nell'umorismo del Folengo. E quando,
giunta la licenza al suo ultimo segno ne' costumi e nello scrivere, vi si volle
porre un rimedio e sopravvenne la reazione ascetica e platonica, quando si
volle imporre alla coscienza italiana un'affermazione, e alla letteratura un
ideale, risorse l'idillio, l'ideale del naturalismo, e fu la sola forza viva
fra tanti ideali religiosi, morali, platonici, con visibile contrasto tra i
concetti platonici e religiosi, e la sensualità dell'idillio. La letteratura
prende un'apparenza religiosa e morale, epica e tragica; e la pompa delle
sentenze, il lusso de' colori, la grandiloquenza rettorica, la finezza de'
concetti rivelano la poca serietà di quelle tendenze. Sotto a quelle apparenze
vive ne' più seducenti colori un mondo lirico idillico; il naturalismo
condannato nelle parole è la vera vita organica, che vien fuori in una forma di
apparenze meno licenziose, ma più raffinata e voluttuosa. Il sentimento di
questa transizione nelle sue contraddizioni e nella sua sincerità si riflette
nella nobile anima del Tasso, e ne cava suoni malinconici, elegiaci,
voluttuosi, musicali, che sono l'ultimo raggio della poesia. Quel mondo
idillico fra tanta pompa di sentenze morali e d'intenzioni platoniche si
afferma nella sua nudità presso il Guarini, e diviene il motivo della nuova
generazione poetica. Il Seicento non è una premessa, è una conseguenza.
La
letteratura italiana era allora così popolare in Europa, come prima fu la
provenzale, e poi la francese. In verità, quanto alla parte tecnica, giungeva
allora all'ultima perfezione. I più mediocri scrivono con piena osservanza
delle regole grammaticali, con un nesso logico più severo, e con un fare più
spedito. Si vede una letteratura già formata, quando le altre erano allora in
uno stato di formazione. Critici, retori, grammatici, professori, accademici
pullulavano dappertutto, fra una turba di poeti e di prosatori in tutt'i
generi. L'Italia del Seicento non solo non ha coscienza della sua decadenza, ma
si tiene ed è tenuta principe nella coltura letteraria. Nessuno le contende il
primato, e le altre nazioni cercano ne' suoi novellieri, ne' suoi epici, ne'
suoi comici le loro invenzioni e le loro forme.
Dicono
che nel Seicento si sviluppò una rivoluzione letteraria, e che tutti cercavano
novità. Il che prova appunto che la letteratura avea già presa la sua forma
fissa, e compiuto il suo circolo. Le novità non si cercano, ma si offrono,
quando la letteratura comincia a svilupparsi: allora tutto è fresco, tutto è
nuovo. Cercavano novità, perchè si sentivano innanzi ad una letteratura
esaurita nel suo repertorio e nelle sue forme, divenuta tradizionale,
meccanica, e già materia comica nella Secchia rapita e nello Scherno
degli dei, poemi comici comparsi al principio del secolo, dove sono volte
in ridicolo le forme mitologiche ed epiche. Ma è comico vuoto e negativo,
perchè gli manca il rilievo nel contrasto di altre forme, e nulla di positivo è
nello spirito de' due autori, il Tassoni e il Bracciolini. Nel loro spirito
quelle forme son morte, e perciò ridicole, ma invano cerchi quali altre forme
vivessero nel loro secolo e nella loro coscienza: ond'è che quel comico cade
nel vuoto e rimane insipido. Al contrario il Don Chisciotte è opera di
eterna freschezza, perchè ivi lo spirito cavalleresco si dissolve nella immagine
di una nuova società, che gli sta dirimpetto, e con la sua presenza lo rende
comico. Il Tassoni volge in ridicolo anche le forme liriche petrarchesche, e
censura non solo il petrarchismo, ma esso il Petrarca. Parla in nome della
semplicità, del buon senso, e del verisimile: gli ripugna tutto ciò che è
raffinato e concettoso. Critica caduta nel vuoto, perchè quella semplicità di
vita, quel sentimento del reale non era nel secolo, e nella sua coscienza era
un'astrazione dell'intelletto: un buon gusto naturale, privo di un mondo
plastico, in cui si potesse esplicare. Perciò tutti quelli che scrivono con
semplicità e naturalezza, malgrado certe vivezze e certe grazie di stile,
riescono insipidi, come il Tassoni e più tardi il Redi. Mancava loro la vita
interiore, e l'esteriorità, in mezzo a cui stavano, era affatto insipida,
quando non era pretensiosa. Del Tassoni sopravvive il ritratto del conte di
Culagna:
filosofo,
poeta e bacchettone,
che
era fuor de' perigli un Sacripante,
ma
ne' perigli un pezzo di polmone.
Dico il ritratto, perchè nella
rappresentazione è così sbiadito e insipido, come gli altri personaggi. Del
Redi è rimasto il Bacco in Toscana, che ricorda le baccanti dell'Orfeo,
e per brio e calore d'immaginazione, per naturalezza di movenze, per artificio
di verso è di piacevole lettura.
Non
solo la letteratura nelle sue forme e nel suo contenuto, ma è anche esaurita la
vita religiosa, morale e politica, quantunque ce ne fosse una seria apparenza
comandata e servile, via alla fortuna. La storia ha condannato a un giusto
obblio le opere servili, frondose e adulatorie, e serba grata memoria di quelle
dove spira alcuna libertà di pensiero, perchè, quando anche non possa ammirare
lo scrittore, trova degno d'ammirazione l'uomo. Certo all'uomo è inferiore lo
scrittore, perchè la sua critica è negativa, e non move dalla chiara coscienza
di una nuova società, ma da un semplice sentimento di resistenza e di
opposizione. Anche nel Cinquecento la critica è negativa, ma è negazione
universale, col consenso e fra le risa di tutti, non è il pensiero solitario
dell'artista. Questo spiega il Berni, spiega la Mandragola, le satire
dell'Ariosto, le commedie dell'Aretino, i poemi cavallereschi ironici e
umoristici. La scienza può esser solitaria: l'arte dee avere a sua materia un
mondo plastico e vivente, di cui è la voce. In quel secolo la negazione era
libera, ammessa, desiderata, applaudita, ci era comunione simpatica fra
l'autore e i lettori; e ci era pure in fondo a quella negazione la coscienza di
un mondo nuovo, di un rinnovamento o risorgimento, di un mondo dell'arte e
della natura, che succedeva alla barbarie del medio evo. Anche nel Trecento
Dante avea con sè il secolo, e lo fuse in tutte le sue direzioni in un mondo
plastico, che era appunto il mondo del medio evo, l'altro mondo. Ora ci è un
mondo ipocrita e inquisitoriale, dove la vita religiosa e sociale fuori della
coscienza è meccanizzata e immobilizzata in forme fisse e inviolabili. L'arte
intisichisce, priva di un mondo libero intorno a se. Chi vuol comprendere la
differenza de' secoli, legga i Ragguagli di Parnaso di Traiano
Boccalini, l'ardito comentatore di Tacito, caduto sotto il pugnale spagnuolo.
Il suo Parnaso, che succede al mondo ariostesco e al dantesco, è di
nessunissima serietà, e rimane una semplice occasione, una cornice, dove
inquadra pensieri, stizze, frizzi, allusioni e allegorie, senz'altra unità o
centro che il suo ghiribizzo. È un mondo sciolto in atomi, senza vita e
coesione interna. La critica, priva di un mondo serio, in cui si possa
incorporare, si svapora in sentenze, esortazioni, sermoni, prediche,
declamazioni e generalità rettoriche, tanto più biliosa, quanto meno artistica.
Così apparisce nelle Satire di Salvator Rosa, che pure sono salvate
dall'obblio per la maschia energia di un'anima sincera e piena di vita, che
incalora la sua immaginazione e gli fa trovare novità di espressioni e di forme
pittoriche felicemente condensate.
Come
suole avvenire, nessun secolo sonò così spesso la tromba epica, quanto questo
secolo così poco eroico. Alcuni seguirono le orme del Tasso, come il Graziani
nel Conquisto di Granata. Il Chiabrera scrisse il Foresto, la Gotiade,
la Firenze, l'Amadeide, il Ruggiero, tutti poemi eroici, oltre
ventidue poemetti profani e quattordici sacri. Il Villafranchi, lo Stigliani e
altri cantarono la scoperta dell'America, e anche il Tassoni avea preso a
scrivere sullo stesso argomento il suo Oceano, quando con miglior
consiglio e con più chiara coscienza delle sue attitudini si volse a fare nella
Secchia rapita la parodia delle forme eroiche. Di tanti poemi epici non
uno solo è rimasto. Ce n'è di tutti gli argomenti, sacri e profani,
cavallereschi, eroici, mitologici, perchè erano capricci individuali, e mancava
l'argomento del secolo. Novissimo e popolarissimo argomento era la scoperta
dell'America, che ispirò al Tasso la più geniale delle sue concezioni, il
viaggio alle isole Fortunate. Ma fu trattato col solito bagaglio classico, e il
mondo nuovo apparve stanca e vieta reminiscenza di un mondo poetico già
decrepito.
Il
mondo eroico di quel secolo era stato fabbricato dal Concilio di Trento. Ed era
una ristaurazione del mondo cattolico alle prese co' turchi, e vincitore meno
per virtù propria che per la grazia di Dio. Questo argomento di tutt'i poemi
cavallereschi, sciolto nella buffoneria del Pulci e nell'ironia dell'Ariosto,
purgato e nobilitato dal Tasso, era divenuto l'accento “ufficiale” del secolo.
Il poeta di questa ristaurazione fu Gabriello Chiabrera, che compiuti i suoi
studi a Roma, educato da' gesuiti, guidato da Speron Speroni, ritiratosi nella
nativa Savona pieno il capo di testi greci e latini e d'arti poetiche,
verseggiò instancabilmente, sino alla tarda età di ottantasei anni, fra le
ammirazioni de' principi e de' letterati. In tre volumi di liriche non ti è
facile incontrare un pensiero o una immagine che ti arresti, e avendo a mano
argomenti nobilissimi o affettuosissimi, niente è che ti mova o t'innalzi. Non
ci è quasi avvenimento di qualche importanza che non sia da lui celebrato, come
le vittorie su' pirati delle galee toscane, la battaglia di Lepanto, le fazioni
de' veneziani in Grecia. Lodi di principi abbondano, ma non mancano lodi di
grandi capitani, e soprattutto di santi, come di Pietro, Paolo, Cecilia, Maria
Maddalena, Stefano, Agata, e simili, a cominciare dalla Vergine. Vi
s'inframmettono satire di eretici, come Lutero, Calvino e Beza, che sono vere
invettive personali. Naturalmente non mancano anche gli amori, temi astratti,
ne' quali spuntano già le Filli, le Amarilli e le Cloe, che più tardi invasero
l'Arcadia. Che più? Quando manca l'argomento vivo e presente, si esercita, come
i collegiali, sopra generalità astratte, come il verno, le stelle, Muzio
Scevola, il ratto di Proserpina, il diluvio, Golia, Giuditta e simili. Canzoni
e canzonette, ditirambi ed epitaffi, sonetti e poemi, trovi qui ogni varietà di
forme, come ogni varietà di contenuto. Ora fa l'eroe, ora fa il cascante, e
suona con la stessa facilità la tromba, la cetra, la lira e la zampogna, ora
scimieggiando Pindaro, ora Anacreonte. Le feste principesche gli forniscono
materia di favole boscherecce e di drammi musicali. Ma tutto è a uno stampo, e
tratta di argomenti commoventissimi e presenti con la stessa indifferenza che
scrive di Proserpina o di Chirone. In luogo di chiudersi nel suo argomento e
cercarne le latebre, divaga in fatti mitologici o in generalità rettoriche, e
riesce vuoto e freddo. Dee far le lodi di san Francesco? Ed eccoti una tirata
sulla fame dell'oro. Gli manca ogni talento pittorico, ogni movimento di
affetto o d'immaginazione, e non ha alcuna esaltazione o entusiasmo lirico. C'è
più poesia nelle Vite del Cavalca, che in queste sue insipide Maddalene
Lucie Cecilie, Stefani e Sebastiani. Dante in pochi tratti ti fissa nella
memoria santo Stefano assai meglio che non fa in sette strofe il Chiabrera,
errante tra reminiscenze sacre e profane, e affatto incapace di cogliere
l'individuo nella sua personalità. In qualche strofa di fra Iacopone senti la
Vergine; ma non la trovi nelle cento strofe che le sono qui consacrate. Il
martirio di san Sebastiano è materia pietosissima. In mano al Chiabrera diviene
ampollosa e fredda rettorica. Dove non è insipido, riesce pretensioso, come
quando, esortando le muse a cantare il santo trafitto, dice:
tendete,
arciere d'ammirabil canto,
musici
dardi al saettato Santo.
Se guardi alla materia, ci è qui
tutto il mondo eroico, morale e religioso del cristianesimo, ma non ce n'è lo
spirito, nè poteva infonderlo co' suoi decreti il Concilio di Trento. La
letteratura religiosa è una moda, anzi che un sentimento; lo spirito vi rimane
estraneo, e si conserva classico e letterario quanto alle forme,
nell'indifferenza del contenuto. Che cosa move davvero o interessa il
Chiabrera? Nulla, perchè nella sua coscienza nulla ci è, non fede, non
moralità, non patria, e non amore, e non arte, ancorchè di tutto questo tratti.
Certo, il Chiabrera è un bravissimo uomo, sinceramente pio e onesto, natura
soave e tranquilla. Ma perchè un contenuto sia poetico, non basta sia
nell'animo come un mondo abituale e tradizionale, a quel modo che era nel
Chiabrera: dee essere passione, che stimoli l'immaginazione e svegli la
meditazione Una passione l'ha il Chiabrera, e non è pel contenuto, a lui
indifferente, quale esso sia, ma per le forme. Dico “forme”, e non “forma”,
perchè a lui manca pure quel senso della bellezza e della forma, che fa grandi
i nostri artisti del Cinquecento. Perciò gli fa difetto ogni qualità di poeta e
di artista, la fede del contenuto e il senso della forma. Ha pure in grado
mediocrissimo quel senso musicale, che natura concede così facilmente a
italiani, sgraziato nell'intreccio delle rime e nella combinazione de' suoni, e
talora dà in dissonanze e stonature. La sua idea fissa è di trovare, come
Colombo, un mondo nuovo, e parve a' contemporanei ci fosse riuscito, sì che
Urbano scrisse sulla sua tomba: “novos orbes poëticos invenit”. Mondi
nuovi poetici ci erano allora, ed erano i mondi che creavano Camoens,
Cervantes, Montaigne, Shakespeare e Milton. Ma in Italia, mancata ogni vita
interiore, la novità era nelle forme, ed esausto il mondo latino, il Chiabrera
si mise a cercar novità nel mondo greco: “thebanos modos fidibus hetruscis
adaptare primus docuit”, dice Urbano. I quali modi tebani sono le strofe,
l'antistrofe e l'epodo, accozzamenti di parole fuor dell'usato, costruzioni
artificiali, una certa moralità astratta e volgare, una sobrietà e semplicità
di colori. Forme meccaniche, le quali non vengono da virtù interiore, ma sono
pura imitazione. Anzi niente è più lontano dallo spirito del Chiabrera che la
bellezza greca, quel candore, quella grazia, e quella semplicità; e spesso la
sua semplicità è aridità, il suo candore è volgarità, e la sua grazia è
cascaggine; affettato e pretensioso in quei modi e in quelle forme, che presso
i greci sono vezzi natii: veggasi il suo ditirambo. Del resto, più che
nell'eroico, riesce nel grazioso, e se oggi alcuna cosa si legge pure di lui,
sono alcune sue canzonette. Ma chi ricordi l'Aminta, giudicherà queste
canzonette assai povera cosa. Anche il Gravina studiò alla greca semplicità,
come medicina al secolo tronfio e manierato, e sforzandosi di esser semplice,
riuscì insipido, freddo e volgare. Gli è che l'imitazione greca, dopo tanto
latineggiare, era il naturale sviluppo di un fatto puramente letterario e
meccanico, non animato da alcuna vita interiore di poeta o di secolo.
Un
altro poeta eroico fu il senatore Vincenzo Filicaia, di cui rimangono le canzoni
per la liberazione di Vienna. Prende volentieri accento di profeta, e si dà
tutta l'apparenza di un sacro furore. Sembra non parli, ma canti, anzi urli,
col pugno teso, gli occhi stralunati, gli atti convulsi. Ammassa esclamazioni,
interrogazioni ripetizioni, con un grande rimbombo di suoni e di frasi. Pomposa
rettorica, nella quale si scopre la simulazione della vita. Non è in lui alcun
sentimento del reale, ma un calore d'immaginazione, un orecchio musicale, ed
una non mediocre abilità nella fattura del verso, che gli assegna un posto tra'
poeti di second'ordine.
Il
Chiabrera e il Filicaia furono anche poeti nazionali. L'uno lamenta la vita
molle de' guerrieri italiani, o, com'egli dice, la leggiadria dell'italica
gente:
...
... E dove
calzar
potrassi una gentil scarpetta,
un
calcagnetto sì polito? ...
Lungo
fora a narrar come son gai
per
trapunto i calzoni, e come ornate
per
entro la casacca in varie guise
serpeggiando
sen van bottonature.
Splendono
soppannati i ferraiuoli
bizzarramente;
e sulla coscia manca
tutti
d'argento arabescati e d'oro
ridono
gli elsi della bella spada.
Dell'altro è il verso celebre:
O
fossi tu men bella, o almen più forte!
Ma l'Italia era per loro un
sentimento così superficiale come la religione, un tema a sonetti e canzoni,
come le Vendemmie o le Lodi di Cristina. Quando il Filicaia
domanda all'Italia dov'è il suo braccio, e perchè si serve dell'altrui, e
ricorda che gli stranieri sono tutti nemici nostri, e furono nostri servi,
senti ch'è a mille miglia lontano dalla realtà, che vagheggia un'Italia di
tradizione e di reminiscenza, di cui non è più vestigio neppure nella sua
coscienza, ch'egli medesimo non prende sul serio le sue maraviglie e i suoi
furori, e che le sue parole sono ebollizioni e ciance rettoriche. I
contemporanei erano pure fatti così; e ammiravano quel bel sonetto tirato giù
con un solo impeto tra mille splendori di una calda immaginazione, come
ammiravano una bella predica, salvo a far tutto il contrario di quello che
diceva il Vangelo e il predicatore.
Questa
è la vita morale, religiosa e nazionale italiana a quel tempo: un mondo
tradizionale tornato in moda, favorito dagl'interessi, mantenuto nelle sue
apparenze, rimbombante nelle frasi, non sentito, non meditato, non ventilato e
rinnovato, non contrastato e non difeso, non realtà e non idealità, cioè a dire
non praticato nella vita, e non scopo o tendenza della vita. Il tarlo della
società era l'ozio dello spirito, un'assoluta indifferenza sotto quelle forme
abituali religiose ed etiche, le quali, appunto perchè mere forme o apparenze,
erano pompose e teatrali. La passività dello spirito, naturale conseguenza di
una teocrazia autoritaria, sospettosa di ogni discussione, e di una vita
interiore esaurita e impaludata, teneva l'Italia estranea a tutto quel gran
movimento d'idee e di cose da cui uscivano le giovani nazioni di Europa; e fin
d'allora ella era tagliata fuori del mondo moderno, e più simile a museo che a
società di uomini vivi.
La
letteratura era a quell'immagine, vuota d'idee e di sentimenti, un gioco di
forme, una semplice esteriorità. Si frugava nel vecchio arsenale classico, si
giravano e rigiravano quei pensieri e quelle forme. Il mondo greco appena
libato era corso in tutte le direzioni, e dava un certo aspetto di novità alle
forme letterarie. La poesia italiana nella sua lunga durata avea messo in
circolazione un repertorio oramai fatto abituale e vuoto di affetto; e non ci
essendo la forza di rinnovare il contenuto, tutti eran dietro ad aguzzare,
assottigliare, ricamare, manierare, colorire un mondo invecchiato che non dicea
più niente allo spirito. Meno il contenuto era vivo, e più le forme erano
sottili, pretensiose, sonore. Nacque una vita da scena, con grande esagerazione
e abbondanza di frasi un eroismo religioso, patriottico, morale a buon mercato,
perchè dietro alle parole non ci era altro. Di questo eroismo rettorico il più
bel saggio è la Fortuna del Guidi, il quale trovò modo di rendere
ridicola e millantatrice la Fortuna di Dante: tanto si era perduto il senso del
vero e del semplice. E ne uscì quella maniera preziosa e fiorita, della quale
dava già esempio l'Aretino, quando la sua mente non era abbastanza solleticata
dall'argomento. Uno degl'ingegni meno guasti fu il Chiabrera: pur sentasi
questo suo epitaffio a Raffaello:
Per
abbellir le immagini dipinte,
alle
vive imitar pose tal cura,
che
a belle far le vere sue Natura
oggi
vuole imitar le costui finte.
E il prezioso non è solo ne' concetti,
ma nelle forme, cercandosi i modi più disusati in dir cose le più semplici.
Ecco un esempio di queste forme preziose nella Fortuna del Guidi:
Questa
è la man che fabbricò sul Gange
i
regni agl'Indi, e sull'Oronte avvolse
le
regie bende dell'Assiria a' crini;
pose
le gemme a Babilonia in fronte,
recò
sul Tigri le corone al Perso,
espose
al piè di Macedonia i troni.
Tra' verseggiatori più preziosi e
affettati è da porre il Lemene, e tra' più civettuoli e fioriti Giovambattista
Zappi. La degenerazione del genere si vede nel Frugoni, il più vuoto e il più
pretensioso.
Spettacolo
assai istruttivo è questo di un popolo che per parecchie generazioni spende
tutta la sua attività intorno a quistioni di forme, ed erge a suo obbiettivo la
parola in se stessa, staccata da ogni contenuto. Che è divenuta Firenze, la
madre di Dante, di Michelangiolo e di Machiavelli? Eccola, quale è vantata dal
Filicaia:
Qui
del puro natio dolce idioma
l'oro
s'affina; e se non è a' dì nostri
spenta
la gloria de' toscani inchiostri,
forse
invidia ne avranno Atene e Roma...
Qui
d'ogni voce il peso, il senso, il suono
a
rigoroso esame ognor si chiama,
e
il reo si purga e si trasceglie il buono.
Onde
l'alto lavor fregia e ricama
la
gran maestra del parlar, che trono
erge
a se stessa, ed a se stessa è fama.
Firenze è la gran maestra della
parola. Là è il suo trono e la sua fama. E qual maraviglia che gli uomini di
qualche ingegno, trovando insipida e invecchiata la parola, l'ornano,
l'aguzzano, l'imbellettano, e, come dice il Filicaia, vi fanno intorno fregi e
ricami? Nè ci è coscienza che tanto liscio al di fuori, con tanta insipidezza e
vacuità nel fondo, è un'ultima forma della decadenza; anzi abbondano i Pindari
e gli Anacreonti, moltiplicano i poeti in tutt'i canti d'Italia, e co' poeti le
accademie, e si tengono primi in tutta Europa, della quale ignorano la coltura.
Possiamo
ora spiegarci come l'Arcadia acquistò l'importanza di un grande avvenimento, sì
che per parecchie decine di anni occupò l'attenzione pubblica. Si videro uomini
dottissimi e gravissimi fanciulleggiare tra quei pastori e pastorelle, e dettar
le leggi dell'accademia con una solennità, come fossero le leggi delle dodici
tavole. Parea che a restaurare la poesia e il buon gusto bastasse l'osservanza
di alcune regole, e moltiplicarono i medici, quando il malato era morto. Gli
arcadi, rimasti proverbiali, come di gente dotta e insieme frivola, per
correggere l'eroico si gettarono nel pastorale, come se trasportando la vita
ne' campi e tra' pastori, trovassero quella naturalezza e semplicità che non è
nella materia, ma nell'anima dello scrittore. Furono aridi, insipidi, leziosi,
affettati, falsi.
Il
re del secolo, il gran maestro della parola, fu il cavalier Marino, onorato,
festeggiato, pensionato, tenuto principe de' poeti antichi e moderni, e non da
plebe, ma da' più chiari uomini di quel tempo. Dicesi che fu il corruttore del
suo secolo. Piuttosto è lecito di dire che il secolo corruppe lui, o, per dire
con più esattezza, non ci fu corrotti, nè corruttori. Il secolo era quello, e
non potea esser altro, era una conseguenza necessaria di non meno necessarie
premesse. E Marino fu l'ingegno del secolo, il secolo stesso nella maggior
forza e chiarezza della sua espressione. Aveva immaginazione copiosa e veloce,
molta facilità di concezione, orecchio musicale, ricchezza inesauribile di modi
e di forme, nessuna profondità e serietà di concetto e di sentimento, nessuna
fede in un contenuto qualsiasi. Il problema per lui, come pe' contemporanei,
non era il che, ma il come. Trovava un repertorio esausto, già lisciato e
profumato dal Tasso e dal Guarini, i due grandi poeti della sua giovanezza. Ed
egli lisciò e profumò ancora più, adoperandovi la fecondità della sua
immaginazione e la facilità della sua vena. La moda era alle idee religiose e
morali, e il Murtola scriveva il Mondo creato, il Campeggi le Lagrime
della Vergine, e il Marino la Strage degl'innocenti, e le sue stesse
poesie erotiche inviluppava in veli allegorici. Ma la vita era in fondo
materialista, gaudente, volgare, pettegola, licenziosa; il naturalismo viveva
nella sua forma più grossolana sotto a quelle pretensioni religiose. Le prime
poesie del Marino furono sfacciatamente lubriche, come la prima sua giovinezza;
e quando venne a età più matura, cercò non la correzione, ma la decenza
esteriore, decorando i suoi furori erotici di un ammanto allegorico.
Nelle
tradizioni della poesia ci è un concetto, che mette capo in Circe ed Ulisse, ed
è l'imbestiamento dell'uomo per opera dell'amore, e la sua liberazione per
opera della ragione. Questo concetto diviene un episodio importante in tutte le
nostre poesie romanzesche ed eroiche, ed è anche la Musa che ispira Dante e il
Petrarca. Angelica, Alcina, Armida sono le Circi italiane, co' loro giardini,
co' loro palagi e castelli incantati, co' loro viaggi attraverso lo spazio.
Questo è l'episodio più interessante, anzi è il concetto fondamentale della Gerusalemme
Liberata. L'episodio del Tasso incastrato fra elementi religiosi ed eroici
diviene ora esso solo il poema, diviene l'Adone.
La
storia del naturalismo poetico incomincia nell'Amorosa visione, e
finisce nell'Adone. I due poemi sono assai simili di concetto. L'amore,
principio della generazione, è anima del mondo, è la corona della natura e
dell'arte, in esso s'inizia, in esso si termina il circolo della vita. Venere e
Adone è la congiunzione non solo spirituale, ma corporale del divino e
dell'umano; è l'amore sensuale che investe tutta la natura, cielo e terra. Nel
paradiso teologico di Dante il corpo si solve nello spirito; ma in questo
paradiso mitologico lo spirito ha la sua perfezione e la sua vita nell'amore
sensuale. Un senso tragico si aggiunge a questa commedia terrena. L'uomo è
mortale, e i suoi piaceri sono lievi e fugaci; e la conclusione è la morte di
Adone fra il compianto degl'immortali.
La
base è l'amore sensuale rappresentato in tutt'i suoi gradi nel giardino del
Piacere, uno di quei giardini d'amore già celebri nelle rime del Poliziano, dell'Ariosto
e del Tasso, qui diviso in cinque giardini corrispondenti a' cinque sensi, sì
che questa sola descrizione prende già buona parte del poema. Nel giardino del
Tatto Adone gode gli ultimi diletti, e s'indìa, è rapito in cielo, attinge la
felicità. Il cielo o il paradiso del Marino non comprende che la Luna, Mercurio
e Venere, tutto l'universo dell'amore. La Luna è la sede della natura, Mercurio
è la sede dell'arte, e sede dell'amore è Venere. È tutto il cielo della vita,
simile a' diversi gradi dell'Amorosa visione. Ma l'apoteosi e il trionfo
dell'amore è di breve durata, e Venere non ha il tempo di rendere immortale il
suo amato. Adone muore, vittima della gelosia di Marte, e gli ultimi canti
narrano la morte di Adone, il compianto di Venere e degli dei, e le sue
esequie.
È
inutile dire che tutte queste combinazioni non hanno pel Marino alcun valore
effettivo ed intrinseco, e che esse sono una materia qualunque arricchita di
moltissime favole mitologiche, buona a sviluppare le sue forze poetiche, il
solito macchinismo fantastico dell'amore ne' poemi italiani. I concetti e le
passioni sono insulse personificazioni, come l'amore, l'arte, la natura, la
filosofia, la gelosia, la ricchezza ed altre figure allegoriche. Dico insulse,
perchè a quelle personificazioni manca e la profondità del significato e la
serietà della vita. È lo scheletro de' poemi italiani, aggiuntivi anche certi
episodi ingegnosi per far la corte alle famiglie principesche d'Italia e alla
casa di Francia. Ma è un puro scheletro, dove non penetra per alcuno spiraglio
la vita. E poichè quello solo c'interessa che vive, questo poema non c'ispira
nessuno interesse. Non c'è un solo personaggio che attiri l'attenzione e lasci
di sè un vestigio nella memoria; non una sola situazione drammatica o lirica di
qualche valore. La vita è materializzata e allegorizzata, tutta al di fuori,
ne' suoi accidenti, contrasti e simiglianze esteriori; e come le simiglianze o
i contrasti esterni sono infiniti, nascono rapporti capricciosi, arbitrari tra
le cose, che sono veri, quanto a questa o a quella apparenza, ma ridicoli e
falsi per rispetto alla totalità della vita. Abbiamo veduto in che modo la rosa
è rappresentata nel Poliziano, nell'Ariosto e nel Tasso. Sono pochi particolari
che lumeggiano la rosa nella sua individualità, e non alterano la sua natura.
Sentite ora la rosa del Marino:
Rosa,
riso d'amor, del ciel fattura,
rosa
del sangue mio fatta vermiglia,
pregio
del mondo e fregio di natura,
della
Terra e del Sol vergine figlia,
d'ogni
ninfa e pastor delizia e cura,
onor
dell'odorifera famiglia;
tu
tien d'ogni beltà le palme prime,
sopra
il vulgo de' fior donna sublime.
Quasi
in bel trono imperatrice altera
siedi
colà su la nativa sponda;
turba
d'aure vezzosa e lusinghiera
ti
corteggia d'intorno e ti seconda;
e
di guardie pungenti armata schiera
ti
difende per tutto e ti circonda.
E
tu fastosa del tuo regio vanto,
porti
d'or la corona e d'ostro il manto.
Porpora
de' giardin, pompa de' prati,
gemma
di primavera, occhio d'aprile,
di
te le grazie e gli amoretti alati
son
ghirlanda a la chioma, al sen monile.
Tu
qualor torna agli alimenti usati
ape
leggiadra, o zeffiro gentile,
dài
lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi
licori e cristallini.
Non
superbisca ambizioso il sole
di
trionfar fra le minori stelle,
chè
ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri
le pompe tue superbe e belle.
Tu
sei con tue bellezze uniche e sole
splendor
di queste piagge, egli di quelle;
egli
nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu
sole in terra ed egli rosa in cielo.
E
ben saran tra voi conformi voglie:
di
te fia 'l sole, e tu del sole amante.
Ei
delle insegne tue, de le tue spoglie
l'aurora
vestirà nel suo levante.
Tu
spiegherai ne' crini e nelle foglie
la
sua livrea dorata e fiammeggiante;
e
per ritrarlo ed imitarlo a pieno,
porterai
sempre un picciol sole in seno.
Evidentemente, qui non ci è il
sentimento della natura, e non la schietta impressione della rosa. Hai
combinazioni astratte e arbitrarie dello spirito, cavate da somiglianze
accidentali ed esterne, che adulterano e falsificano le forme naturali, e
creano enti mostruosi che hanno esistenza solo nello spirito. La vita pastorale
già nel Tasso ha i suoi ricami, che però fregiano forse un po' troppo, ma non
adulterano gli oggetti e i sentimenti. Ed anche l'Adone ha il suo pastore, che
vuole imitare, anzi oltrepassare il pastore di Erminia, e conchiude così:
Lunge
da' fasti ambiziosi e vani,
mi
è scettro il mio baston, porpora il vello,
ambrosia
il latte, a cui le proprie mani
servon
di coppa, e nèttare il ruscello.
Son
ministri i bifolci, amici i cani,
sergente
il toro e cortigian l'agnello,
musici
gli augelletti e l'aure e l'onde,
piume
l'erbette, e padiglion le fronde.
Queste lambiccature e finezze di
spirito egli le chiama in una sua lettera a Claudio Achillini “ricchezze di
concetti preziosi”, e ivi pone l'eccellenza della poesia:
È
del poeta il fin la maraviglia:
parlo
dell'eccellente e non del goffo;
chi
non sa far stupir, vada alla striglia.
La novità e la maraviglia non è
nel repertorio, che è vecchissimo, un rimpasto di elementi e motivi per lungo
uso divenuti ottusi; ciò che è ripulito e messo a nuovo è lo scenario, o lo
spettacolo, vecchio anch'esso, ma lustrato e inverniciato. Il qual lustro gli
viene non dalla sua intima personalità più profondamente esplorata o sentita,
ma da combinazioni puramente soggettive, ispirate da simiglianze o dissonanze
accidentali, e perciò tendenti al paradosso e all'assurdo: di che nasce quello
stupore in che il Marino pone il principale effetto della poesia. Nè queste
combinazioni artificiali sono solo intorno alle cose, come giardini, campi,
fiori, ma anche intorno alle persone allegoriche, come la gelosia, l'amore, e intorno
agli atti, come il riso, il bacio. Il Marino confessa di avere innanzi un
zibaldone, dove avea scritto per ordine di materia quello che di più piccante e
maraviglioso avea trovato ne' poeti greci, latini e italiani e anche spagnuoli;
e ammassa e concentra tutti quei tesori di concetti preziosi in un punto solo.
Ma non è un freddo imitatore e raccoglitore. La sua immaginazione si avviva tra
quelle ricchezze, e diviene attiva, si fa alleata dello spirito, trasforma
quelle combinazioni e quei rapporti in immagini, e le immagini hanno il loro
finimento nella facile e briosa vocalità de' suoni. Talora i concetti stessi
spariscono; ma rimane sempre un'onda melodiosa, la cantilena:
Adone,
Adone, o bell'Adon, tu giaci,
nè
senti i miei sospir, nè miri il pianto;
o
bell' Adone, o caro Adon, tu taci,
nè
rispondi a colei che amasti tanto!
Lasciami,
lascia imporporare i baci,
anima
cara, in questo sangue alquanto;
arresta
il volo, aspetta tanto almeno
che
il mio spirto immortal ti mora in seno.
La poesia italiana in
quest'ultimo momento della sua vita non è azione, e neppure narrazione, è
spettacolo vocalizzato, descrizione a tendenze liriche, tra lo scoppiettio de'
concetti, il lustro delle immagini, e la sonorità delle frasi e delle cadenze,
e i vezzi delle variazioni. Il suo ideale è l'idillio, una vita convenzionale,
mitologica, amorosa, allegrata dal riso del cielo e della terra. L'Adone
è esso medesimo un idillio inviluppato in un macchinismo mitologico, come l'Euridice,
la Proserpina. Un idillio del Marino, di colorito freschissimo e
moderno, tutto impregnato di ardente sensualità, è la sua Pastorella.
Chi ricordi la pastorella di Guido Cavalcanti, così sobria e semplice nella sua
maniera, può misurare fino a qual grado di ricercatezza nello sviluppo e nelle
determinazioni di queste situazioni liriche era giunta la poesia. Pure la
sensualità era ancora quello che rimaneva di vivo in questi poeti
seicentistici, esalata in tenerezze, languori, voluttà, galanterie e
dolcitudini.
Un
ideale frivolo e convenzionale, nessun senso della vita reale, un macchinismo
vuoto, un repertorio logoro, in nessuna relazione con la società, un assoluto
ozio interno, un'esaltazione lirica a freddo, un naturalismo grossolano sotto
velo di sagrestia, il luogo comune sotto ostentazione di originalità, la
frivolezza sotto forme pompose e solenni, l'inezia collegata con l'assurdo e il
paradosso, la vista delle cose superficiale e leggiera, la superficie isolata
dal fondo e alterata con relazioni artificiali, la parola isolata dall'idea e
divenuta vacua sonorità, questi sono i caratteri comuni a tutt'i poeti della
decadenza, messa la differenza degl'ingegni.
Questi
caratteri sono più o meno comuni a tutte le forme dello scrivere, tragedie,
commedie, poemi, idilli, canzoni, discorsi, prefazioni, descrizioni,
narrazioni, orazioni, panegirici, quaresimali, epistole, verso e prosa.
Il
Marino della prosa fu Daniello Bartoli, fabbro artificiosissimo e insuperabile
di periodi e di frasi, di uno stile insieme prezioso e fiorito. È stato in ogni
angolo quasi della terra; ha fatto migliaia di descrizioni e narrazioni: non si
vede mai che la vista di tante cose nuove gli abbia rinfrescate le impressioni.
Retore e moralista astratto, pieno il capo di mitologia e di sacra Scrittura copiosissimo
di parole e di frasi in tutto lo scibile, colorista brillante, credè di poter
dir tutto, perchè tutto sapeva ben dire. La natura e l'uomo non è per lui altro
che stimolo e occasione a cavargli fuori tutta la sua erudizione e frasario.
Altro scopo più serio non ha. Estraneo al movimento della coltura europea e a
tutte le lotte del pensiero, stagnato in un classicismo e in un cattolicismo di
seconda mano, venutogli dalla scuola, e non frugato dalla sua intelligenza, il
suo cervello rimane ozioso non meno che il suo cuore; e la sua attenzione è
tutta intorno alla parte tecnica e meccanica dell'espressione. Tratta la lingua
italiana, come greco o latino, come lingua morta, già fissata, e da lui
pienamente posseduta. Sferza i pedanti col suo Torto e Dritto del non si può.
Fugge le smancene toscane, e ricorda la risposta fatta a certi messi
toscaneggianti, che domandavano qualche sussidio per rifare il ponte della loro
città:
Qualor,
talor, e quinci e quindi, e guari,
rifate
il ponte co' vostri danari.
La sua lingua spedita, colorita,
elegante, copiosa ha quel carattere di lingua classica italiana già così
spiccato nel Tasso, nel Guarini e nel Marino e in quasi tutt'i seicentisti. Il toscano
parlato ha poca presa anche su moltissimi uomini colti della Toscana, e rimane
stazionario in bocca al volgo. La lingua classica nella sua fattura esterna e
grammaticale tocca in lui un alto grado di perfezione per copia e scelta di
vocaboli, per regolarità di costruzione, per speditezza di giunture e movimenti
musicali. Ama starsi nel minuto, notomizzare, descrivere, e vi spiega tutte le
ricchezze del dizionario. Descrive lungamente e con infiniti particolari le
chiocciole, e conchiude:
“Eccovene
in prima vestite di uno schietto drappo: argentine, bianche lattate, grigie,
nericate, morate, purpuree, gialle, bronzine, dorate, scarlattine, vermiglie.
Poi, le addogate con lunghe strisce e liste di più colori a divisa, e quali se
ne vergano per lo lungo, quali per lo traverso, alcune diritto, altre più
vagamente a onda. Ma certe in vero maravigliose, lavorate a modo
d'intarsiatura, con minuzzoli di più colori bizzarramente ordinati, o d'un
musaico di scacchi, l'un bianco e l'altro nero, quanto alla figura
formatissimi, e alle giunture non isfumati punto, ma con una division
tagliente, come appunto fossero alabastro e paragone, strettamente commessi. Le
più sono dipinte a capriccio, o granite, gocciolate, moscate, altre qua e là
tócche con certe leggerissime leccature di minio, di cinabro, d'oro, di
verdazzurro, di lacca; altre pezzate con macchie più risentite e grandi; altre
o grandinate di piastrelli o sparse di rotelle, o minutissimo punteggiate;
altre corse di vene come i marmi, con un artificio senz'arte, o spruzzate di
sangue in mezzo ad altri colori, che le fan parere diaspri.”
E segue ancora per un pezzo su
questo andare. L'immaginazione rimane smarrita fra tante ricchezze, e perchè
tutto è rilievo, manca il rilievo. Non ci è senso di arte, nè di natura, e chi
vuol sentire la differenza, ricordi la descrizione che fa l'Aretino del cielo
di Venezia, così trepida d'impressioni e movimenti interni. E non ha neppur
senso d'uomo, nè di tante sue situazioni affettuose, nè di tanti suoi ritratti
di personaggi ideali o storici alcuna cosa è rimasta viva. Eccolo in Terra
Santa. Che impressioni e che affetti non dee destare quella vista in un buon
cristiano, com'era il Bartoli! Ma se ne sbriga così:
“Lagrime
di dolore e baci di pietoso affetto unitamente si debbono a questo venerabile
terreno, che col piè scalzo e in atto non di curioso geografo, ma di pellegrino
divoto, calchiamo.”
E attendiamo gli ardori estatici
del pellegrino. Ma è un cominciare con Plinio e un finire con Lucano, con
intramessa di fredde amplificazioni rettoriche.
Stessa
coltura e stesso contenuto nel padre Segneri. Non ha altra serietà che
letteraria, ornare e abbellire il luogo comune con citazioni, esempli, paragoni
e figure rettoriche: perciò stemperato superficiale, volgare e ciarliero. Si
loda il suo esordio alla predica del paradiso: “Al cielo, al cielo!”. Il
concetto è questo: - La terra non offre un bene perfetto; miriamo dunque al
cielo. E noi abbiamo conosciuto già questo mondo, già l'abbiamo sperimentato,
ed ancora tolleriam di rimanerci. Eh! Al cielo, al cielo! - Ora la prima parte
non ha bisogno di dimostrazione, perchè ammessa da tutti. Ma qui si accaneggia
il Segneri, e intorno a questo luogo comune intesse tutt'i suoi ricami. E se
avesse veramente il sentimento della terrena infelicità e delle gioie celesti,
non mancherebbe ai suoi colori novità, freschezza, profondità. Ma non è che uno
spasso letterario, un esercizio rettorico. Luogo comune il concetto; luoghi
comuni gli accessorii. Non mira efficacemente a convertire, a persuadere
l'uditorio; non ha fede, nè ardore apostolico, nè unzione; non ama gli uomini,
non lavora alla loro salute e al loro bene. Ha nel cervello una dottrina
religiosa e morale di accatto, ed ereditaria, non conquistata col sudore della
sua fronte, una grande erudizione sacra e profana: ivi niente si move, tutto è
fissato e a posto. La sua attività è al di fuori, intorno al condurre il
discorso e distribuire le gradazioni, le ombre e la luce e i colori. Gli si può
dar questa lode negativa, che se spesso stanca, non annoia l'uditorio, che tien
sospeso e maravigliato con un “crescendo” di gradazioni e sorprese rettoriche;
e talora piacevoleggia e bambineggia per compiacere a quello. Ancora è a sua
lode, che si mostra scrittore corretto, e non capita nelle stramberie del
Panigarola, o nelle sdolcinature e affettazioni de' suoi successori.
Si
può ora scorgere il cammino della letteratura, iniziata nel Boccaccio, reazione
all'ascetismo, negativa e idillica. La negazione percorse tutta la scala delle
forme comiche dalla caricatura del Boccaccio all'umorismo del Folengo, e si
sciolse nello sfacciato cinismo di Pietro Aretino: fu essa vita e anima delle
novelle, delle commedie, de' capitoli, de' poemi romanzeschi. Semplice
negazione, finì nella sensualità, nella licenza delle idee e delle forme, in un
pretto materialismo. Accanto a questo elemento negativo ci era l'idillio, un
ritiro dell'anima dalle astrazioni teologiche e dalle agitazioni politiche
nella semplicità e nella quiete della natura, un naturalismo spiritualizzato
dal sentimento della forma o della bellezza, che produsse i miracoli della
poesia e della pittura. La grazia, l'eleganza, la finitezza delle forme, la
misura e l'armonia nell'insieme e nelle parti sono l'impronta di quest'aurea
età. Ma questa letteratura portava in sè il germe della dissoluzione, ed era la
sua tendenza accademica, letteraria e classica, per la poca serietà del suo
contenuto e la sua separazione da tutt'i grandi interessi morali, politici e
sociali che allora commovevano e ringiovanivano molta parte di Europa. Giunta
l'arte a quella perfezione, aveva bisogno di un nuovo contenuto per
trasformarsi e rinsanguarsi. E se la reazione tridentina ci avesse dato questo
nuovo contenuto, sarebbe stata la benvenuta. Avremmo avuto una seria
ristaurazione religiosa e letteraria. Ma fu ristaurazione delle forme, non
della coscienza. Agli stessi riformatori mancava nella loro opera la serietà
della coscienza, come vedrà chi studi bene la storia del Concilio di Trento non
dico nel Sarpi, ma nello stesso Pallavicino, voce leziosa e affettata di quei
padri riformatori. Di che nacque l'ultimo pervertimento del carattere
nazionale. L'idea che a salvare l'anima bastasse andare a messa e portare
addosso uno scapolare, e che l'assoluzione del confessore fosse sufficiente a
lavare tutte le macchie, salvo a tornar da capo, diede alle plebi italiane
quell'impronta grottesca di bassezza, immoralità e divozione, che anche oggi in
molti luoghi non si è cancellata. Quanto alle classi colte, la vita era menzogna,
una vita ostentatrice di sentimenti religiosi e morali senza alcuna radice
nella coscienza. Tale la vita, tale la letteratura. Quella sua tendenza
accademica e letteraria divenne la sua forma definitiva. Fu rettorica, cioè a
dire menzogna, espressione pomposa di sentimenti convenzionali. Il pio Torquato
prese sul serio quel nuovo contenuto, e vagheggiò un mondo eroico e religioso,
che naufragò tra gli elementi che lo accompagnavano idillici e fantastici. Come
sotto lo scapolare batteva il core del brigante, sotto a quelle forme pompose
viveva invitto il naturalismo lirico, fantastico, idillico del vecchio
contenuto. L'Armida divenne l'Adone, e l'Aminta il Pastorfido.
Fra tante vite di santi e rappresentazioni sacre, fra tante liriche eroiche,
morali e patriottiche, ciò che ancor vive è il naturalismo, una certa ebbrezza
musicale de' sensi, che fa cantare a' marinai napolitani le stanze di Armida e
i lubrici versi del Marino. Tutti si sentivano innanzi a un mondo poetico
invecchiato, e volevano rinnovarlo, e non vedevano che bisognava innanzi tutto
rinnovare la coscienza. Aguzzarono l'intelletto, gonfiarono le frasi, e non
potendo esser nuovi, furono strani L'attività si concentrò intorno alla frase,
e il mondo letterario segregato dalla vita, e vuoto di ogni scopo serio,
divenne un esercizio accademico e rettorico.
La
parola come parola, fine a se stessa, è il carattere della forma letteraria o
accademica. Nel secolo scorso aveva un aspetto ciceroniano e boccaccevole; ora,
divenuta l'essenza stessa della letteratura, vi si aggiunge un'aria preziosa,
cioè a dire una ostentazione di peregrinità nella sottigliezza del concetto o
nel giro della frase. Citammo già alcuni esempi di Pietro Aretino. Ora ci è in
tutti anche ne' più semplici, un po' di Pietro Aretino. E quando questo sforzo
dello spirito pareva soverchia fatica, gli scrittori rimanevano senza più
semplici parolai o frasaiuoli: ciò che si diceva “stile fiorito”. Queste sono
le due forme della decadenza, di cui si vedono già i vestigi in Pietro Aretino,
e che ora tengono il campo nelle accademie letterarie. Gli accademici
s'incensano, si batton le mani, si decretano l'immortalità. Abbiamo gli
Ardenti, i Solleciti, gl'Intrepidi, gli Olimpici, i Galeotti, gli Storditi,
gl'Insipidi, gli Ottusi, gli Smarriti. Acquistano un'importanza artificiale,
molti vi pigliano il battesimo di grandi uomini, come fu del Salvini, dotto
uomo ma d'ingegno assai inferiore alla fama. Corona di questa letteratura
frivola sono gli acrostici, gl'indovinelli, gli anagrammi, e simili giuochi di
spiriti oziosi.
La
parola, come parola, può per qualche tempo avere un'esistenza artificiale nelle
accademie, ma non potrà mai formare una letteratura popolare, perchè la parola,
se come espressione è potentissima, come semplice sensibile è inferiore a tutti
gli altr'istrumenti dell'arte. La parola è potentissima, quando viene
dall'anima, e mette in moto tutte le facoltà dell'anima ne' suoi lettori; ma
quando il di dentro è vuoto, e la parola non esprime che se stessa, riesce
insipida e noiosa. Allora la vista materiale, il colore, il suono, il gesto
sono ben più efficaci alla rappresentazione che quella morta parola. Si
comprende adunque come i parolai con tutto il loro spirito e la loro eleganza
mantennero la loro influenza in un circolo sempre più ristretto di lettori, e
come al contrario presero il sopravvento gli attori, i musici e i cantanti,
divenuti popolarissimi in Italia e fuori. Le accademiche commedie del Fagiuoli
doveano piacer meno che le commedie a soggetto, venute sempre più in voga, dove
il fondo monotono e tradizionale era ringiovanito dagli accessorii improvvisati
e dall'abile mimica. D'altra parte nella parola si sviluppava sempre più
l'elemento cantabile e musicale, già spiccatissimo nel Tasso, nel Guarini, nel
Marino. La sonorità o la melodia era divenuta principal legge del verso o della
prosa, e si fabbricavano i periodi a suon di musica: ciascuno aveva
nell'orecchio un'onda melodiosa. Parte di rettorica era la declamazione, cioè a
dire un modo di recitare solenne e armonioso. La parola non era più una idea,
era un suono; e spesso recitavasi a controsenso, per non guastare il suono.
Questo movimento musicale della nuova letteratura già visibile nel Petrarca e
nel Boccaccio, pure armonizzato con le idee e le immagini, ora in quella
insipidezza di ogni vita interiore diviene esso il principale regolatore di
tutti gli elementi della composizione: tutto il solletico è nell'orecchio. E si
capisce come, giunte le cose a questo punto, la letteratura muore d'inanizione,
per difetto di sangue e di calore interno, e divenuta parola che suona, si
trasforma nella musica e nel canto, che più direttamente ed energicamente
conseguono lo scopo. Perciò fra tanta letteratura accademica il melodramma o il
dramma musicale è il genere popolare, dove lo scenario, la mimica, il canto e
la musica opera sull'immaginazione ben più potentemente che la parola insipida,
vacua sonorità, rimasta semplice accessorio.
La letteratura moriva, e nasceva
la musica.
Già
la musica non fu mai scompagnata dalla poesia. Liriche sacre e profane erano
cantate e musicate, e ancora tutta la varietà delle canzoni popolari. Nel
teatro i cori e gl'intermezzi erano cantati. Ma quando il dramma divenne
insulso, e la parola perdette ogni efficacia, si cercò l'interesse nella
musica, e tutto il dramma fu cantato. E come la musica non bastasse, si ricorse
a tutt'i mezzi più efficaci su' sensi e sull'immaginativa, magnificenza e
varietà di apparati scenici, combinazioni fantastiche di avvenimenti, allegorie
e macchine mitologiche. Fu da questa corruzione e dissoluzione letteraria che
uscì il melodramma, o l'“opera”, serbata a sì grandi destini.
Il
primo tipo del melodramma è l'Orfeo. Il Tasso, il Guarini, il Marino
sono scrittori melodrammatici. La lirica seicentistica è in gran parte
melodrammatica. E quelle canzonette, tutti quei languori di Filli e Amarilli
sono i preludi del Metastasio. I trilli, le cadenze, le variazioni, i
parallelismi, le simmetrie, le ripigliate, tutt'i congegni della melodia
musicale, appariscono già nella poesia. La parola, non essendo altro più che
musica, avea perduta la sua ragion d'essere, e cesse il campo alla musica e al
canto.
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