XX
LA NUOVA
LETTERATURA
L' uomo che rappresenta lo stato
di transizione tra la vecchia e la nuova letteratura è Metastasio. L'antica
letteratura, non essendo oramai più che forma cantabile e musicabile, ha come
ultima espressione il dramma in musica, dove non è più fine, ma mezzo: è
melodia, e serve alla musica. Ma non vi si rassegna, e vuol conservare la sua
importanza, rimanere letteratura. Quest'ultima forma della vecchia letteratura
è Metastasio.
La
sua vita si stende dal 1698 al 1782. Vincenzo Gravina che l'educò, a quel modo
che richiamava lo studio delle leggi alle fonti romane illustrandole, e
tentando una prima filosofia del dritto, voleva ritirare l'arte alla greca
semplicità, purgandola della corruzione seicentistica, e scrisse tragedie a
modo di Sofocle, e tentò una teoria dell'arte che chiamò Ragion poetica.
Il buon uomo vedea il male, ma non le sue cause e non i suoi rimedi. La
semplicità è la forma della vera grandezza, di una grandezza inconscia e
divenuta natura. Niente era più contrario al secolo, manierato e pretensioso al
di fuori, vacuo al di dentro. Per combattere il manierismo, Gravina soppresse
il colorito e vi supplì con la copia delle sentenze morali e filosofiche.
L'intenzione era buona; parea volesse dire: - Cose e non parole -. Nè altra è
la tendenza della sua Ragion poetica, dove il vero è rappresentato come
sostanza dell'arte, e il vero ignudo, non “condito in molli versi”. Così,
volendo esser semplice, riuscì arido. La teoria non era nuova, anzi era la
vecchia teoria di Dante ringiovanita dal Tasso; ma parve nuova in un tempo che
lo sforzo dell'ingegno era tutto intorno alla frase. Metastasio fu educato
secondo queste idee. Il severo pedagogo gli proibì la lettura del Tasso e de'
poeti posteriori, lo ammaestrò di buon'ora nel greco e nel latino, e lo volse
allo studio delle leggi, vagheggiando se stesso redivivo in un Metastasio
giureconsulto e letterato. Ma il giovine era poeta nato. E morto il Gravina, si
gettò avidamente sul frutto proibito, e la Gerusalemme Liberata, l'Aminta,
il Pastorfido, soprattutto l'Adone, furono il suo cibo. Quella
prima educazione classica non gli fu inutile, perchè lo avvezzò alla
naturalezza e alla semplicità, e lo nutrì di buoni esempi e di solida dottrina.
Ma, lasciato a sè medesimo, si sviluppò in lui, come in tutti quelli che hanno
ingegno, il senso della vita contemporanea. Il maestro volea farne un tragico a
uso greco, o piuttosto a uso suo. Ma la tragedia non era la sua vocazione, e
l'autore del Giustino preferì Ovidio a Sofocle, e, come era moda, fece la sua
comparsa trionfale in Arcadia con sonetti, canzonette, idilli, i cui eroi
d'obbligo erano Cloe, Nice, Fille, Tirsi, Irene e Titiro. Il Sogno della
gloria è l'ultimo lavoro a uso Gravina, ammassato di sentenze che sono
luoghi comuni, e pieno di reminiscenze classiche e dantesche. Il Ritorno
della primavera, scritto l'anno appresso, 1719, ti mostra già i vestigi
dell'Aminta e dell'Adone, facilmente impressi in quell'anima
ricca di armonie e d'immagini. L'ideale del tempo era l'idillio, il riposo e
l'innocenza della vita campestre, in antitesi alla vita sociale, così come
l'avevano sviluppato il Tasso, il Guarini e il Marino. L'idillio era un certo
equilibrio interiore, uno stato di pace e di soddisfazione a cui il dolore
serviva come di salsa. L'Arcadia, volendo riformare il gusto, avea tolto
all'idillio quella tensione intellettuale che si chiamava il “seicentismo”, sì
che la forma era rimasta una pura effusione musicale dell'anima beatamente
oziosa, cullata da molli cadenze tra l'elegiaco e il voluttuoso: ciò che
dicevasi “melodia”. La musica penetrava già in questa forma così apparecchiata
a riceverla, e la canzone diveniva la canzonetta la cantata e l'arietta, e il
dramma pastorale diveniva il dramma in musica. Le canzonette del Rolli erano in
molta voga, ma già si disputava quale ne facesse di migliori, o il Metastasio o
il Rolli. Sciupata l'eredità del Gravina, il nostro Metastasio, visto che
l'Arcadia non gli dava pane, ricordò i consigli del maestro, e andò a Napoli
col proposito di far l'avvocato. Ma Napoli era già il paese della musica e del
canto. E le sue arringhe furono cantate ed epitalami. In occasione di nozze
prima si scrivevano sonetti e canzoni:
allora erano in voga epitalami, cantate e feste teatrali. Il Metastasio
fu poeta di nozze, e restano di lui tre epitalami, storie mitologiche e
idilliche, dove è visibile l'imitazione del Tasso e del Marino. Canta le nozze
di Antonio Pignatelli e Anna de' Sangro, evocando gli amori di Venere e Marte,
a' quali intreccia gli amori degli sposi, e naturalmente Anna è Venere, e
Antonio è Marte. Vi trovi il monte dell'Amore, che ricorda il giardino di
Armida, e tutto il vecchio repertorio mitologico, immagini e concetti. Ecco
come descrive Anna:
Se
in giro in liete danze il passo mena,
se
tace o ride, o se favella o canta,
porta
in ogni suo moto Amore accolto,
Pallade
in seno e Citerea nel volto.
Vicino
al lato suo siedono al paro
con
la dolce consorte il genitore,
coppia
gentil d'illustre sangue e chiaro,
vivi
esempli di senno e di valore:
alme
che prima in ciel si vagheggiaro,
e
poi quaggiù le ricongiunse Amore:
e
dier tal frutto, che non vede il sole
più
nobil pianta e più leggiadra prole.
Sono ottave mediocrissime e poco
limate, ma dove già trovi facilità di verso e di rima e molta chiarezza.
Un'ottava, dove descrive Anna che canta, rivela nell'evidenza e nel brio del
colorito una certa genialità:
La
voce pria nel molle petto accolta,
con
maestra ragion spigne o sospende;
ora
in rapide fughe e in groppi avvolta,
velocissimamente
in alto ascende;
ora
in placido corso e più disciolta,
soavissimamente
in giù discende;
i
momenti misura, annoda e parte,
e
talor sembra fallo, ed è tutt'arte.
Qui lascia le solite generalità,
entra nel vivo de' particolari, e vi mostra la forza di chi sa già tutto dire e
nel modo più felice. Gli epitalami non sono in fondo che idilli, col solito
macchinismo, Amore, Venere, Marte, Diana, Minerva, Vulcano. Nè altro sono le
prime sue azioni teatrali, rappresentate in Napoli, come la Galatea, l'Endimione,
gli Orti Esperidi, l'Angelica. Diamo un'occhiata all'Angelica. Di
rincontro a' protagonisti, Angelica e Orlando, stanno Licori e Tirsi. C'è il
solito antagonismo tra la città e la campagna, la scaltrezza di Angelica e
l'ingenuità di Licori: onde nasce un intrighetto che riesce nel più schietto
comico. Le furie di Orlando non possono turbare la pace idillica diffusa su
tutto il quadro, e lo stesso Orlando finisce idillicamente:
Torna,
torna ad amarmi e ti perdono.
Aurette
leggiere
che
intorno volate,
tacete,
fermate,
chè
torna il mio ben.
Angelica lascia per sempre quegli
ameni soggiorni con quest'arietta:
Io
dico all'antro - Addio! -
ma
quello al pianto mio
sento
che, mormorando:
-
Addio! - risponde.
Sospiro,
e i miei sospiri
ne'
replicati giri
Zeffiro
rende a me
da
quelle fronde.
La canzonetta di Licori,
penetrata di una malinconia dolce e molle, è già canto e musica, una pura
esalazione melodica, una espressione sentimentale rigirata in se stessa, come
un ritornello:
Ombre
amene,
amiche
piante,
il
mio bene,
il
caro amante
chi
mi dice ove ne andò?
Zeffiretto
lusinghiero
a
lui vola messaggiero.
di'
che torni e che mi renda
quella
pace che non ho.
Concetti e immagini oramai
comunissime, senza più alcun valore letterario, e rimaste interessanti solo
come combinazioni melodiche. L'effetto non è nelle idee, ma in quel canto di
due amanti a una certa lontananza e nascosti tra le fronde; perchè, mentre
Licori cerca Tirsi, Tirsi cerca Licori con la stessa melodia:
La
mia bella
pastorella,
chi
mi dice ove ne andò?
È notabile che in questa cheta
atmosfera idillica penetra una cert'aria di buffo, un certo movimento vivace e
allegro, come è la dichiarazione amorosa di Licori a Orlando, ascoltatore non
visto Tirsi.
La
Bulgarelli, celebre cantante, che negli Orti Esperidi rappresentava la
parte di Venere, prese interesse al giovane autore, e lo addestrò in tutt'i
misteri del teatro. Il maestro Porpora gl'insegnò la musica. Questa fu la
seconda educazione di Metastasio, corrispondente alla sua vocazione. Roma ne
avea fatto un arcade. Napoli ne fece un poeta. La Didone abbandonata,
scritta sotto l'ispirazione e la guida della Bulgarelli, fissò l'opinione, e
Metastasio prese posto d'un tratto accanto ad Apostolo Zeno, che tenea il
primato, poeta cesareo alla corte di Vienna. Più tardi, a proposta dello stesso
Zeno, occupò egli quell'ufficio, e menò a Vienna vita pacifica e agiata, universalmente
stimato, e tenuto senza contrasto principe della poesia melodrammatica. La sua
vita fu un idillio, e se questo è felicità, visse felicissimo sino alla tarda
età di ottantaquattro anni. Vivo ancora, fu divinizzato. Lo chiamarono il
“divino Metastasio”.
Se
guardiamo al meccanismo, il suo dramma è congegnato a quel modo che avea già
mostrato Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice ossatura.
Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e le veneri di una vita lieta e
armoniosa. E fu il poeta del melodramma, di cui lo Zeno era stato l'architetto.
La
sua idea fissa fu di costruire il melodramma come una tragedia, tale cioè che
anche senz'accompagnamento musicale avesse il suo effetto. E la sua ambizione
fu di lasciare le basse regioni dell'idillio e del buffo, e tentare i più alti
e nobili argomenti del “genere tragico”, come se la nobiltà fosse
nell'argomento. Questo si vede già nella Didone e nel Catone in Utica.
Più tardi volle gareggiare co' grandi poeti francesi, e il Cinna di
Corneille ebbe il suo riscontro nella Clemenza di Tito, e l'Atalia
di Racine nel Gioas. Su questa via porse il fianco alla critica, e
sorsero dispute se e fino a qual punto i suoi drammi fossero tragedie. Ed ecco
in mezzo l'inevitabile Aristotele e le famose quistioni delle unità
drammatiche. Metastasio si mescolò nella contesa, e nell'Estratto dell'“Arte
poetica” di Aristotile addusse indirettamente argomenti in suo favore. La
critica era ancora così impastoiata nell'esterno meccanismo, che molti
seriamente domandarono come potesse esser tragedia un dramma, che aveva soli
tre atti. A Metastasio pareva quasi una degradazione scendere dall'alto seggio
di poeta tragico, ed essere rilegato fra' melodrammatici. Pregiudizio
instillatogli dal Gravina, che non vedea di là dalla tragedia classica. La Merope
del Maffei, che allora levava molto rumore, l'offuscava, e nol lasciava dormire
la gloria di Corneille e di Racine. Ranieri de' Calsabigi, celebre per la
polemica ch'ebbe poi con Alfieri intorno al Filippo, sosteneva che quei drammi
fossero proprie e vere tragedie. E nella medaglia, che dopo la sua morte i
Martinez fecero incidere in suo onore, si leggeva questo motto: “Sophocli
Italo”. Ma il pubblico, che lo idolatrava, si ostinò a chiamare le sue
opere teatrali non tragedie, e neppur melodrammi, ma drammi, come quelli che
avevano un valore in sè, anche fuori della musica. E il pubblico avea ragione.
Sono una poesia già penetrata e trasformata dalla musica, ma che si fa ancora
valere come poesia. Stato di transizione, che dà una fisonomia al nostro
“Sofocle”. Più tardi, quei drammi, come letteratura paiono troppo musicali, e
ne nasce la reazione di Alfieri; come musica paiono troppo letterari, e ne
nasce la reazione del melodramma in due atti. Si potrebbe conchiudere che perciò
appunto quei drammi sono cosa imperfetta, troppo musicali come poesia, e troppo
poetici come musica: perciò abbandonati dalla musica, e offuscati dalla nuova
letteratura. Il che avviene facilmente a chi sta tra due e non ha chiara
coscienza di quello che vuol fare.
Pure
è certo che quei drammi ebbero al lor tempo un successo maraviglioso, e che
anche oggi, in una società così profondamente mutata, producono il loro
effetto. È noto l'entusiasmo di Rousseau e l'ammirazione di Voltaire per questo
poeta. In Italia i critici, dopo un breve armeggiare, gli s'inchinarono, tratti
dall'onda popolare. Certi luoghi, che fanno sorridere il critico, movono oggi
ancora il popolo, gli tirano applausi. Nessun poeta è stato così popolare, come
il Metastasio, nessuno è penetrato così intimamente nello spirito delle
moltitudini. Ci è dunque ne' suoi drammi un valore assoluto, superiore alle
occasioni, resistente alla stessa critica dissolvente del secolo decimonono.
Gli
è che quella sua oscura coscienza, quel distacco tra quello che vuol fare e
quello che fa, quella poesia che non è ancora musica e non è più poesia, è non
capriccio, pregiudizio o pedanteria individuale, ma la forma stessa del suo
genio e del suo tempo. Perciò non è costruzione artificiosa, come la tragedia
del Gravina o il poema del Trissino, ma è composizione piena di vita, che nella
sua spontaneità produce risultati superiori alle intenzioni del compositore.
Ciò ch'egli vi mette con intenzione e con coscienza, non è il pregio, ma il
difetto del lavoro. E intorno a questo difetto arzigogolavano lui e i critici.
Se
vogliamo gustarlo, facciamo come il popolo. Non domandiamo cosa ha voluto fare,
ma cosa ha fatto, e abbandoniamoci alla schiettezza delle nostre impressioni.
Anche il critico, se vuol ben giudicare, dee abbandonarsi alla sua spontaneità,
come l'artista.
Prendiamo
il primo suo dramma, la Didone. Volea fare una tragedia. Studiò
l'argomento in Virgilio, e più in Ovidio. Ma andate a fare una tragedia con
quell'uomo e con quella società. Non capiva che a quella società e a lui stesso
mancava la stoffa da cui può uscire una tragedia. Fare una tragedia con la
Bulgarelli consigliera, con maestro Porpora direttore, con quel Sarro
compositore, e col pubblico dell'Angelica e degli Orti Esperidi,
e in presenza della sua anima elegiaca, idillica, melodica, impressionabile e
superficiale, come il suo pubblico! Ne uscì non una tragedia, che sarebbe stata
una pedanteria nata morta, ma un capolavoro, tutto caldo della vita che era in
lui e intorno a lui, e che anche oggi si legge con avidità da un capo
all'altro. La Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono
soverchiate da impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome di “Didone” qui
vedi l'Armida del Tasso, messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca cede
il posto alla donna terrena, come l'ha abbozzata il Tasso in questa tra le sue
creature la più popolare, dalla quale scappan fuori i più vari e concitati moti
della passione femminile, le sue smanie e le sue furie. Ma è un'Armida col comento
della Bulgarelli, alla cui ispirazione appartengono i movimenti comici
penetrati in questa natura appassionata, com'è nella scena della gelosia,
applauditissima alla rappresentazione. Una Didone così fatta non ha niente di
classico, qui non ci è Virgilio, e non Sofocle: tutto è vivo, tutto è
contemporaneo. La passione non ha semplicità e non ha misura, e nella sua
violenza rompe ogni freno, perde ogni decoro. Se in Didone fosse eminente il
patriottismo, il pudore, la dignità di regina, l'amore de' suoi, la pietà verso
gl'iddii, se in lei fosse più accentuata l'eroina, il contrasto sarebbe
drammatico, altamente tragico. Ma l'eroina c'è a parole, e la donna è tutto: la
passione, unica dominatrice, diviene come una pazzia del cuore, cinica e
sfrontata sino al grottesco, e scende dritta la scala della vita sino alle più
basse regioni della commedia. Al buon Pindemonte danno fastidio alcuni tratti
comici, e non vede che sotto forme tragiche la situazione è sostanzialmente
comica sicchè, se in ultimo Enea si potesse rappattumare con l'amata, sarebbe
il dramma, con lievi mutazioni, una vera commedia. E non già una commedia
costruita artificialmente, ma colta dal vero, perchè è la donna come poteva
essere concepita in quel tempo, ispirata dalla Bulgarelli e da quel pubblico
nell'anima conforme del poeta, e contro le sue intenzioni, e senza sua
coscienza.
A Metastasio, che voleva fare una
tragedia, dire che aveva partorito una commedia in forma tragica, sarebbe stato
come dire una bestemmia. Il comico è in quei sì e no della passione, in quei
movimenti subitanei, irrefrenabili, che scoppiano improvvisi e contro
l'aspettazione, nell'irragionevole, spinto sino all'assurdo, negl'intrighi e
nelle scaltrezze, di bassa lega, più da donnetta che da regina, e tutto così a proposito,
così naturale, con tanta vivacità, che il pubblico ride e applaude, come
volesse dire: - È vero. - Fu per il poeta un trionfo. Alcuni motti rimasero
proverbiali, come:
Temerario!
Ch'ei venga!
Quando allora allora avea detto:
mai
più non mi vedrà quell'alma rea.
O come:
Passato
è il tempo, Enea,
che
Dido a te pensò.
La sua sortita contro Arbace,
quasi nello stesso punto che gli aveva promessa la sua mano, quel cacciar via
da sè Osmida e Selene nella cecità del suo furore, le sue credulità, le sue
dissimulazioni, le sue astuzie, tutto ciò è tanto più comico, quanto è meno
intenzionale, contemperato co' moti più variati di un'anima impressionabile e
subitanea: sdegni che son tenerezze, e minacce che sono carezze. C'è della Lisetta
e della Colombina sotto quel regio manto. E tutto il quadro è conforme. Iarba
con le sue vanterie e le sue pose rasenta il bravo della commedia popolare;
Selene, ch'è l'“Anna, soror mea”, rappresenta la parte della “patita”,
con molta insipidezza; e il pio Enea nella sua parte di amoroso attinge il più
alto comico, massime quando Didone lo costringe a tenerle la candela. Il nodo
stesso dell'azione ha l'aria di un intrigo di bassa commedia, co' suoi equivoci
e i suoi incontri fortuiti.
La
Didone fece il giro de' teatri italiani. E dappertutto piacque.
Metastasio indovinava il suo pubblico, e trovava se stesso. Quel suo dramma, a
superficie tragica, a fondo comico, coglieva la vita italiana nel più intimo,
quel suo contrasto tra il grandioso del di fuori e la vacuità del di dentro. Il
tragico non era elevazione dell'anima, ma una semplice fonte del maraviglioso,
così piacevole alla plebe, come incendii, duelli, suicidii. Il comico
riconduceva quelle magnifiche apparenze di una vita fantastica nella prosaica e
volgare realtà, piccoli intrighi, amori pettegoli, stizze, braverie. Concordare
elementi così disparati, fondere insieme fantastico e reale, tragico e comico,
sembra poco meno che impossibile: pure qui è fatto con una facilità piena di
brio e senz'alcuna coscienza, com'è la vita nella sua spontaneità. L'illusione
è perfetta. Una vita così fatta pare un'assurdità: pure è là, fresca, giovane,
vivace, armonica, e t'investe e ti trascina. Il povero Metastasio, inconscio
del grande miracolo, si difendeva con Aristotile e con Orazio; alle vecchie
critiche si aggiunsero le nuove. Oggi la ragione e l'estetica condannano quella
vita, come convenzionale e incoerente. Ma essa è là, nella sua giovanezza
immortale, e le basta rispondere: - Io vivo. - E, se l'estetica non l'intende,
tanto peggio per l'estetica.
Metastasio
aveva tutte le qualità per produrre quella vita. Brav'uomo, buon cristiano, nel
suo mondo interiore ci erano tutte le virtù, ma in quel modo tradizionale e
abituale ch'era possibile allora, senza fede, senza energia, senza elevatezza
d'animo, perciò senza musica e senza poesia. Così erano Vico e Muratori,
bonissima gente, ma senza quella fiamma interiore, dove si scalda il genio del
filosofo e del poeta. Erano personaggi idillici, veneranda immagine di una
società tranquilla e prosaica. Vico agitava i più grandi problemi sociali con
la calma di un erudito. E si comprende come la poesia si cercasse in quel tempo
fuori della società, nell'età dell'oro e nella vita pastorale. Ma nessuno può
fuggire alla vita che lo circonda. Patria, religione, onore, amore, libertà
operavano in quella vita posticcia, come in quella pacifica società, con
perfetto riposo ed equilibrio dell'anima. Metastasio, che cercava la tragedia
con la testa, era per il carattere un arcade, tutto Nice e Tirsi, tutto sospiri
e tenerezze. Da questa natura idillica poteva uscire l'elegia, non la tragedia.
Aveva, come il Tasso, grande sensibilità, molta facilità di lacrime, ma
superficiale sensibilità, che poteva increspare, non turbare il suo mondo
sereno. Non si può dir che la sua sensibilità fosse malinconia, la quale
richiede una certa durata e consistenza: era emozione nata da subitanei moti
interni, e che passava con quella stessa facilità che veniva. Questo difetto di
analisi e di profondità nel sentimento manteneva al suo mondo il carattere
idillico, non lo trasformava, ma lo accentuava e lo coloriva nel suo movimento;
perchè l'idillio senza elegia è insipido. Una immaginazione non penetrata dalla
serietà di un mondo interiore, appena ventilata dal sentimento, scorre leggiera
su questo mondo idillico, e vi annoda e snoda una folla di accidenti, che gli
danno varietà e vivacità. Sembrano sogni che svaniscono appena formati, ma con
tale chiarezza plastica ne' sentimenti e nelle immagini, che vi prendi la più
viva partecipazione. Il poeta vi s'intenerisce, vi si trastulla, vi si
dimentica:
Sogni
e favole io fingo; e pure in carte
mentre
favole e sogni orno e disegno,
in
lor, folle ch'io son, prendo tal parte,
che
del mal che inventai piango e mi sdegno.
Di
sogni e favole ce n'era tutto un arsenale nelle nostre infinite commedie e
novelle, dove attingevano anche i forestieri, e dove attinge Metastasio. Ciò a
cui mira è sorprendere, fare un colpo di scena, guidato dalla sua grand'esperienza
del teatro e del pubblico. Ingegno svegliato e rapido, non perde mai di vista
lo scopo, non s'indugia per via, divora lo spazio, sopprime, aggruppa, combina,
producendo effetti subitanei e perciò irresistibili. Combinazioni drammatiche,
che appunto perchè mirano a uno scopo meramente teatrale, mancano di serietà
interiore, e spesso hanno aria d'intrighi comici, con que' viluppi, con quegli
equivoci, con quei parallelismi. Nè solo il comico è nella logica stessa di
quelle combinazioni, ma nella natura de' fatti, che spesso sono episodi della
vita comune nella sua forma più pettegola e civettuola. Così un eroico
puramente idillico andava a finire ne' bassi fondi della commedia. Cesare
sonava il violino e faceva all'amore. Tale era Metastasio, e tale era il suo
tempo, idillico, elegiaco e comico, vita volgare in abito eroico, vellicata
dalle emozioni dell'elegia e idealizzata nell'idillio.
Si
può ora comprendere il meccanismo del dramma metastasiano. Sta in cima l'eroe o
l'eroina, Zenobia o Issipile, Temistocle o Tito. L'eroe ha tutte le perfezioni
che la poesia ha collocate nell'età dell'oro, e sveglia l'eroismo intorno a sè,
rende eroici anche i personaggi secondari. Più l'età è prosaica, più esagerato
è l'eroismo, abbandonato a una immaginazione libera, che ingrandisce le
proporzioni a arbitrio, con non altro scopo che di eccitare la maraviglia. Il
maraviglioso è in questo, che l'eroe è un'antitesi accentuata e romorosa alla
vita comune, offrendo in olocausto alla virtù tutt'i sentimenti umani, come Abramo
pronto a uccidere il figlio. Così Enea abbandona Didone per seguire la gloria,
Temistocle e Regolo vanno incontro a morte per amor della patria, Catone si
uccide per la libertà, Megacle offre la vita per l'amico, e Argene per l'amato.
Questa forza di soffocare i sentimenti umani e naturali, che regolano la vita
comune, era detta “generosità” o “magnanimità”, “forza” o “grandezza di animo”,
com'è il perdono delle offese, il sacrificio dell'amore, o della vita.
Situazione tragica se mai ce ne fu, anzi il fondamento della tragedia. Ma qui
rimane per lo più elegiaca, feconda di emozioni superficiali, momentanee e
variate, che in ultimo sgombrano a un tratto e lasciano il cielo sereno. La
generosità degli uni provoca la generosità degli altri, l'eroismo opera come
corrente elettrica, guadagna tutt'i personaggi, e tutto si accomoda come nel
migliore de' mondi, tutti eroi e tutti contenti. Di questa superficialità che
resta ne' confini dell'idillio e dell'elegia, e di rado si alza alla commozione
tragica, la ragione è questa, che la virtù vi è rappresentata non come il
sentimento di un dovere preciso e obbligatorio per tutti, corrispondente alla
vita pratica, ma come un fatto maraviglioso, che per la sua straordinarietà
tolga il pubblico alla contemplazione della vita comune. Perciò è una virtù da
teatro, un eroismo da scena. Più le combinazioni sono straordinarie, più le
proporzioni sono ingrandite, e più cresce l'effetto. I personaggi posano, si
mettono in vista, sentenziano, si atteggiano, come volessero dire: - Attenti!
Ora viene il miracolo. - Temistocle dice:
...
... Sentimi, o Serse;
Lisimaco,
m'ascolta; udite, o voi,
popoli
spettatori,
di
Temistocle i sensi; e ognun ne sia
testimonio
e custode.
In questo meccanismo trovi sempre
la collisione, il contrasto tra l'eroismo e la natura. L'eroismo ha la sua
sublimità nello splendore delle sentenze. La natura ha il suo patetico nelle
tenere effusioni dei sentimenti. Ne nasce un urto vivace di sentimenti e di
sentenze, con alterna vittoria e con crescente sospensione, come nel soliloquio
di Tito; insino a che natura ed eroismo fanno la loro riconciliazione in un
modo così inaspettato e straordinario, com'è tutto l'intrigo. Tito fa condurre
Sesto all'arena, deliberato già di perdonargli: non basta la virtù, vuole lo
spettacolo e la sorpresa. Questa, che a noi pare una moralità da scena, era a
quel tempo una moralità convenuta, ammessa in teoria, ammirata, applaudita, a
quel modo che le romane battevano le mani ai gladiatori che morivano per i loro
begli occhi. Si direbbe che Tito facesse il possibile per meritarsi gli
applausi del pubblico. Appunto perchè questo eroismo non aveva una vera serietà
di motivi interni e non veniva dalla coscienza, quel mondo atteggiato
all'eroica aveva del comico, ed era possibile che vi penetrasse senza stonatura
la società contemporanea nelle sue parti anche buffe e volgari. Prendiamo l'Adriano.
Vincitore de' Parti, proclamato imperatore, Adriano si trova in una delle
situazioni più strazianti, promesso sposo di Sabina, amante di Emirena figlia
del suo nemico, e rivale di Farnaspe, l'amato di Emirena. Situazione molto
avviluppata, e che diviene intricatissima per opera di un quarto personaggio,
Aquilio, confidente di Adriano, amante secreto di Sabina, e che perciò fomenta
la passione del suo padrone. Emirena per salvare il padre offre la mano ad
Adriano. La generosità di Emirena eccita la generosità di Sabina, che scioglie
Adriano dalla data fede. La generosità di Sabina eccita la generosità di
Adriano, che libera il padre di Emirena, rende costei al suo amato, e sposa
Sabina. E tutti felici, e il coro intuona le lodi di Adriano. Ma guardiamo in
fondo a questi personaggi eroici. Adriano è una buona natura d'uomo, tutt'altro
che eroica, voltato in qua e in là dalle impressioni, mobile, superficiale,
credulo, in somma un buon uomo che rasenta l'imbecille. Non è lui che opera:
egli è il paziente, anzi che l'agente del melodramma, e come colui che dà
ragione a chi ultimo parla, dà sempre ragione all'ultima impressione. Si trova
eroe per occasione, un eroe così equivoco, che impedisce ad Emirena di
baciargli la mano, tremando di una nuova impressione. Maggiori pretensioni
all'eroismo ha Osroa, il re de' Parti, reminiscenza di Iarba. Un patriota, che
appicca l'incendio alla reggia, che uccide un creduto Adriano, che è condannato
a morte, che supplica la figlia di ucciderlo, sarebbe un carattere
interessantissimo, se nel pubblico e nel poeta ci fosse il senso del
patriottismo. Ma Osroa ha più dell'avventuriere che dell'eroe, e di un
avventuriere sciocco e avventato, che non sa proporzionare i mezzi allo scopo,
e nelle situazioni più appassionate della vita discute, sentenzia. A Emirena,
la sua figlia, che ricusa di ucciderlo, risponde:
Non
è ver che sia la morte
il
peggior di tutt'i mali:
è
il sollievo de' mortali
che
son stanchi di soffrir.
È una caricatura di Iago, un
basso e sciocco intrigante da commedia. Sabina, Emirena, Farnaspe sono nature
superficialissime, incalzate dagli avvenimenti, senza intima energia negli
affetti, e tratte ad atti generosi per impeti subitanei. Se dunque ci
approfondiamo in questo mondo eroico, vediamo con quanta facilità si sdrucciola
nel comico e come, sotto un contrasto apparente, in verità questa vita eroica è
in se stessa di quella mezzanità, che può accogliere nel suo seno il volgare e
il buffo della società contemporanea. Di tal natura è la scena in cui Emirena
finge di non riconoscere il suo innamorato, che rimane lì stupido e col naso
allungato; o l'altra in cui Aquilio insegna ad Emirena l'arte della cortigiana,
ed Emirena, botta e risposta, gli fa il ritratto del cortigiano; o quando
Adriano si fa menare pel naso da Osroa, o l'arrivo improvviso di Sabina da
Roma, e l'imbarazzo di Adriano, o quando Adriano giura di non vedere più
Emirena, e gli si annunzia: - Vieni Emirena. - Tutto questo, che in fondo è
comico, non è sviluppato comicamente, nè c'è l'intenzione comica; perciò non
c'è stonatura: è la società contemporanea nel suo spirito, nella sua volgarità
e mezzanità, vestita di apparenze eroiche. Se Metastasio avesse il senso
dell'eroico, e lo rappresentasse seriamente e profondamente, la mescolanza
sarebbe insopportabile, anzi mescolanza non ci sarebbe; ma concepisce l'eroico
come era concepito e sentito in quella volgarità contemporanea. Il poeta è in
perfetta buona fede; non sente ciò che di basso e di triviale è sotto
quell'apparato eroico, uno di spirito e di carattere col suo pubblico. Ben ne
ha una coscienza confusa, e non è proprio contento, e tenta talora alcun che di
più elevato, come nel Regolo e nel Gioas, senza riuscirvi: si
scopre l'antico Adamo. E fu ventura, perchè così non ci die' costruzioni
artificiose e imitazioni aliene dalla sua natura, ma riuscì artista originale e
geniale, l'artista indimenticabile di quella società.
Questa
vita così assurda nella sua profondità ha tutta l'illusione del vero nella sua
superficie. Approfondire i sentimenti, sviluppare i caratteri, graduare le
situazioni sarebbe una falsificazione. La superficialità è la sua condizione di
esistenza. È una vita, di cui vedi le punte e ignori tutto il processo di
formazione, una specie di vita a vapore, che nella rapida corsa divora spazi
infiniti e non ti mostra che i punti di arrivo. Sbucciano sentimenti e
situazioni così di un tratto, e spesso ti trovi di un balzo da un estremo
all'altro. Sei in un continuo flutto d'impressioni variatissime, di poca durata
e consistenza, libate appena, con sentimenti vivacissimi, penetranti gli uni
negli altri, come onde tempestose. Scusano questa superficialità con la musica,
quasi che la musica potesse o compiere, o sviluppare, o approfondire i
sentimenti; ma la musica metastasiana non era se non il prolungamento e l'eco
del sentimento, il semplice trillo della poesia, il suo accompagnamento, perchè
quella poesia è già in sè musica e canto. Una vita così superficiale non può
essere che esteriore. È vita per lo più descritta, come già si vede nel Guarini
e nel Marino. I personaggi nella maggior violenza de' loro sentimenti si
descrivono, si analizzano, com'è proprio di una società adulta, in cui la
riflessione e la critica ti segue nel momento stesso dell'azione. Ti trovi nel
più acuto della concitazione; e quando alla fine ti aspetti quasi un delirio,
ti sopraggiunge un'analisi, una sentenza, un paragone, una descrizione
psicologica. Licida snuda il brando; vuole uccidere il suo offensore; poi lo
volge in sè, e si arresta, e fa la sua analisi:
Rabbia,
vendetta,
tenerezza,
amicizia,
pentimento,
pietà, vergogna, amore
mi
trafiggono a gara. Ah chi mai vide
anima
lacerata
da
tanti affetti e sì contrari. Io stesso
non
so come si possa
minacciando
tremare, arder gelando,
piangere
in mezzo all'ire,
bramar
la morte e non saper morire.
Il drammatico va a riuscire in un
sonetto petrarchesco. Aristea così si descrive a Megacle:
Caro,
son tua così,
che
per virtù d'amor
i
moti del tuo cor
risento
anch'io.
Mi
dolgo al tuo dolor,
gioisco
al tuo gioir,
ed
ogni tuo desir
diventa
il mio.
E Megacle, seguendo l'amico Licida
nella sua sventura, esce in questo bel paragone:
Come
dell'oro il fuoco
scopre
le masse impure,
scoprono
le sventure
de'
falsi amici il cor.
Questi riposi musicali sono come
l'arpa di David, che calmava le furie di Saul: rinfrescano l'anima e la tengono
in equilibrio fra passioni così concitate. E sono sopportabili, appunto perchè
mescolati co' moti più vivaci, con la più impetuosa spontaneità del sentimento,
offrendoti lo spettacolo della vita nelle sue più varie apparenze. Argene che sfida
la morte per salvare l'amato, e si sente alzare su di sè, come invasata da un
iddio, è sublime:
Fiamma
ignota nell'alma mi scende;
sento
il nume; m'inspira, mi accende,
di
me stessa mi rende maggior.
Ferri,
bende, bipenni, ritorte,
pallid
'ombre, compagne di morte,
già
vi guardo, ma senza terror.
Commovente è la gioia quasi
delirante di Aristea nel rivedere l'amato. Di un elegiaco ineffabile è il cànto
di Timante, quando la madre gli presenta il suo bambino:
Misero
pargoletto,
il
tuo destin non sai.
Ah!
Non gli dite mai
qual
era il genitor.
Come
in un punto, o Dio,
tutto
cambiò d'aspetto!
Voi
foste il mio diletto,
voi
siete il mio terror.
Alcuni motti tenerissimi sono
rimasti proverbiali, come:
Ne'
giorni tuoi felici ricordati di me.
Questa vita nei suoi moti alterni
di spontaneità e di riflessione così equilibrata, essendo superficiale ed
esteriore, ha per suo carattere la chiarezza, è visibile e plastica. Le
gradazioni più fine, i concetti più difficili sono resi con una estrema
precisione di contorni, e perciò non hanno riverbero: appagano e saziano lo
sguardo, lo tengono sulla superficie, non lo gittano nel profondo. Questa
chiarezza metastasiana, tanto vantata e così popolare perchè il popolo è tutto
superficie, è la forma nell'ultimo stadio della sua vita, quando a forza di
precisione diviene massiccia e densa come il marmo. La vecchia letteratura vi
raggiunge l'ultima perfezione; l'espressione perde ogni trasparenza, e non è
che se stessa e sola, e vi si appaga, come un infinito. Stato di
petrificazione, che oggi dicesi “letteratura popolare”, come se la letteratura
debba scendere al popolo, e non il popolo debba salire a lei. Metastasio vi
spiega un talento miracoloso. Quella vecchia forma prima di morire manda gli
ultimi splendori. La chiarezza non è in lui superficie morta, ma è la vita
nella sua superficie, paga e contenta della sua esteriorità, con una facilità e
una rapidità, con un giuoco pieno di grazia e di brio. Il periodo perde i suoi
giri, la parola perde le sue sinuosità, liscia, scorrevole, misurata come una
danza, accentuata come un canto, melodiosa come una musica. Le impressioni che
te ne vengono, sono vivaci, ma labili, e ti lasciano contento, ma vuoto, come
dopo una festa brillante che ti ha divertito, e a cui non pensi più.
Il
mondo metastasiano può parere assurdo innanzi alla filosofia, come innanzi alla
filosofia pareva assurda la società ch'esso rappresentava. Come arte, niente è
più vero per coerenza, per armonia, per interna vivacità. È il ritratto più
finito di una società vicina a sciogliersi, le cui istituzioni erano ancora
eroiche e feudali, materia vuota dello spirito che un tempo l'animò, e che
sotto quelle apparenze eroiche era assonnata, spensierata, infemminita, idillica,
elegiaca e plebea. Guardatela. Essa è tutta profumata, incipriata, col suo
codino, col suo spadino, cascante, vezzosa, sensitiva come una donna, tutta
“idolo mio”, “mio bene”, e “vita mia”. La poesia di Metastasio l'accompagna con
la sua declamazione, con la sua cantilena; la parola non ha più niente a dirle;
essa è il luogo comune, che acquista valore trasformata in trillo, con le sue
fughe e le sue volate, co' suoi bassi e i suoi acuti; non è più un'idea, è un
suono raddolcito dagli accenti, dondolato dalle rime, attenuato in quei
versetti, ridotto un sospiro. Una poesia che cerca i suoi mezzi fuori di sè,
che cerca i motivi e i suoi pensieri nella musica, abdica già, pronunzia la sua
morte. Ben presto Metastasio sembra troppo poeta al maestro di musica, nè il
pubblico sa più che farsi della parola, e non domanda cosa dice, ma come suona.
La parola, dopo di avere tanto abusato di sè, non val più nulla, e la stessa
parola metastasiana, così leggiera, così rapida, non può essere sopportata. La
parola è la nota, e i nuovi poeti si chiamano Pergolese, Cimarosa, Paisiello.
Così terminava il periodo musicale della vecchia letteratura, iniziato nel
Tasso, sviluppato nel Guarini e nel Marino, giunto alla sua crisi in Pietro
Metastasio. Oramai si viene a questo, che prima si fa la musica, e poi Giuseppe
secondo dice al suo nuovo poeta cesareo, all'abate Casti: - Ora fatemi le
parole. -
In
seno a questa società in dissoluzione si formava laboriosamente la nuova
società. E che ce ne fosse la forza, si vedeva da questo: che non teneva più
gran conto della forma letteraria, stata suo idolo, e che cercava nuove
impressioni nel canto e nella musica. Il letterato, che aveva rappresentata una
parte così importante, cade in discredito. I nuovi astri sono Farinello e
Caffarello, Piccinni, Leo, Iommelli. La musica ha un'azione benefica sulla
forma letteraria, costringendola ad abbreviare i suoi periodi, a sopprimere il
suo cerimoniale e la sua solennità, i suoi aggettivi, i suoi ripieni, le sue
perifrasi, i suoi sinonimi, i suoi parallelismi, le sue trasposizioni, tutte le
sue dotte inutilità, e a prendere un'aria più spedita e andante. Gli orecchi,
avvezzi alla rapidità musicale non possono più sopportare i periodi accademici
e le tirate rettoriche. E se Metastasio è chiamato “divino”, è per la
musicalità della sua poesia, per la chiarezza, il brio e la rapidità
dell'espressione. Il pubblico abbandonando la letteratura, la letteratura è
costretta a seguire il pubblico. E il pubblico non è più l'accademia, ancorchè
di accademie fosse ancora grande il numero, prima l'Arcadia. E non è più la
corte, ancorchè i principi avessero ancora intorno istrioni e giullari sotto
nome di “poeti”. La coltura si è distesa, i godimenti dello spirito sono più
variati: i periodi e le frasi non bastano più. Compariscono sulla scena
filosofi e filantropi, giureconsulti, avvocati e scienziati, musici e cantanti.
La parola acquista valore nell'ugola e nella nota, ed è più interessante nelle
pagine di Beccaria, o di Galiani, che ne' libri letterari. Oramai non si dice
più “letterato”, si dice “bell'ingegno” o “bello spirito”. Il “letterato”
diviene sinonimo di parolaio, e la parola come parola è merce scadente. La
parola non può ricuperare la sua importanza, se non rifacendosi il sangue,
ricostituendo in sè l'idea, la serietà di un contenuto. E questo volea dire il
motto che era già in tutte le labbra: “Cose e non parole”.
Già
nella critica vedi i segni di questa grande rigenerazione. Rimasta fino allora
nel vuoto meccanismo e tra regole convenzionali, la critica si mette in istato
di ribellione, spezza audacemente i suoi idoli. Mentre ferveva la lotta
giurisdizionale tra papa e principi, e i filosofi combattevano il passato nelle
sue idee e nelle sue istituzioni, essa apre il fuoco contro la vecchia
letteratura, battezzandola senz'altro “pedanteria”. L'obbiettivo de' filosofi e
de' critici era comune. Combattevano entrambi la forma vacua, gli uni nelle
istituzioni, gli altri nell'espressione letteraria, ancorchè senza intesa.
E
come i filosofi, così i critici erano avvalorati e riscaldati nella loro lotta
dagli esempi francesi e inglesi. Il Baretti veniva da Londra tutto Shakespeare;
l'Algarotti, il Bettinelli, il Cesarotti, il Beccaria, il Verri erano in
comunione intima con Voltaire e con gli enciclopedisti. Locke, Condillac,
Dumarsais avevano allargate le idee, e introdotto il gusto delle grammatiche
ragionate e delle rettoriche filosofiche. Si vede la loro influenza nella Filosofia
delle lingue del Cesarotti e nello Stile del Beccaria. Cosa dovea
parere il Crescimbeni, o il Mazzuchelli, o il Quadrio, cosa lo stesso
Tiraboschi, il Muratori della nostra letteratura, dirimpetto a questi uomini,
che pretendevano ridurre a scienza ciò che fino allora era sembrato non altro
che uso e regola? E non si contentarono i critici de' trattati e de'
ragionamenti, ma vollero accostarsi un po' più al pubblico, usando forme
spigliate e correnti, che preludevano ai nostri giornali. Tali erano le Lettere
virgiliane del Bettinelli, la Difesa del Gozzi, la Frusta letteraria,
il Caffè, l'Osservatore. Così la nuova critica dava a un tempo
l'esempio di una nuova letteratura, gittando in circolazione molte idee nuove
in una forma rapida, nutrita, spiritosa, vicina alla conversazione, in una
forma che prendea dalla logica il suo organismo e dal popolo il suo tuono.
Certo questi critici non si accordavano fra loro, anzi si combattevano, come
facevano anche i filosofi; ma erano tutti animati dalla stessa tendenza, uno
era lo spirito. E lo spirito era l'emancipazione dalle regole o dall'autorità,
la reazione contro il grammaticale, il rettorico, l'arcadico e l'accademico, e,
come in tutte le altre cose, così anche qui non ammettere altro giudice che la
logica e la natura. Secondo il solito la critica passò il segno, e nella sua foga
contro le superstizioni letterarie toccò anche il sacro Dante: onde venne la
bella Difesa che ne scrisse Gaspare Gozzi. Ma la critica veniva dalla
testa, e non aveva radice nell'educazione letteraria ch'era stata anzi tutto
l'opposto. Il che spiega come i critici, giudici ingegnosi de' vivi e de'
morti, volendo essere scrittori, facevano mala prova, dando un po' di ragione
a' retori e a' grammatici, i quali, chiamati da loro “pedanti”, chiamavano loro
“barbari”. Posti tra il vecchio, che censuravano, ed un nuovo modo di scrivere,
chiaro nella loro testa, ma affatto personale, estraneo allo spirito nazionale,
e non preparato, anzi contraddetto nella loro istruzione, si gittarono alla
maniera francese, sconvolsero frasi, costrutti, vocaboli, e, come fu detto poi,
“imbarbarirono la lingua”. Gaspare Gozzi tenne una via mezzana, e facendo buona
accoglienza in gran parte alle nuove idee, non accettò sotto nome di libertà la
licenza, e si studiò di tenersi in bilico tra quella pedanteria e quella
barbarie, usando un modo di scrivere corretto, puro, classico, e insieme
disinvolto. Ma il buon Gozzi, misurato, elegante, savio, rimase solo, come
avviene a' troppo savi nel fervore della lotta, quando la via di mezzo non è
ancora possibile, standosi di fronte avversari appassionati, confidenti nella
loro forza e disposti a nessuna concessione. Stavano nell'un campo i puristi,
che non potendo invocare l'uso toscano, intorbidato anch'esso dall'imitazione
straniera, invocavano la Crusca e i classici, e, come non era potuta più
tollerare la prolissità vacua del Cinquecento, rimettevano in moda il Trecento,
quale esempio di scrivere semplice, conciso e succoso; onde venne quel motto
felice: “Il Trecento diceva, il Cinquecento chiacchierava”. Costoro erano, il
maggior numero, cruscanti, arcadi, accademici, puri letterati, tutti brava
gente, che avevano in sospetto ogni novità, e non volevano essere turbati nelle
loro abitudini. Nell'altro campo erano i filosofi, che non riconoscevano
autorità di sorta e tanto meno quella della Crusca; che invocavano la loro
ragione, e vagheggiavano una nuova Italia così in letteratura, come nelle
istituzioni e in tutti gli ordini sociali. I critici rappresentavano la parte
della filosofia nelle lettere, senza occuparsi di politica; anzi spesso la loro
insolenza letteraria era mantello alla loro servilità politica, come fu del
gesuita Bettinelli e del Cesarotti. In prima fila tra' contendenti erano
l'abate Cesari e l'abate Cesarotti. Il Cesari nella sua superstizione verso i
classici cancellò in sè ogni vestigio dell'uomo moderno. Il Cesarotti, di molto
più spirito e coltura, nella sua irreligione verso gli antichi andò così oltre,
che volle fare il pedagogo a Omero e Demostene, e andò in cerca di una nuova
mitologia nelle selve calidonie. Quando comparve l'Ossian, girò la testa
a tutti: tanto eran sazii di classicismo. Il bardo scozzese fu per qualche
tempo in moda, e Omero stesso si vide minacciato nel suo trono. Si sentiva che
il vecchio contenuto se ne andava insieme con la vecchia società, e in quel
vuoto ogni novità era la benvenuta. Quei versi armoniosi e liquidi in tanto
cozzo di spade scintillanti tra le nebbie fecero dimenticare i Frugoni, gli
Algarotti e i Bettinelli. Cominciava una reazione contro l'idillio, espressione
di una società sonnolenta e annoiata in grembo a Galatea e a Clori, e piacevano
quei figli della spada, quelle nebbie e quelle selve, e quei signori de'
brandi, e quelle vergini della neve. Gli arcadi si scandalizzavano; ma il
pubblico applaudiva. Per vincere Cesarotti non bastava gridargli la croce:
bisognava fare e piacere al pubblico. Ora l'attività intellettuale era tutta
dal canto de' novatori: chi aveva un po' d'ingegno, “si gittava al moderno”,
come si diceva, nelle dottrine e nel modo di scrivere, e si acquistava nome di
“bello spirito”, dispregiando i classici, come di “spirito forte”, dispregiando
le credenze. La vecchia letteratura, come la vecchia credenza, era detta
pregiudizio, e combattere il pregiudizio era la divisa del secolo illuminato,
del secolo della filosofia e della coltura. Chi ricorda l'entusiasmo letterario
del Rinascimento, può avere un giusto concetto di questo entusiasmo filosofico
del secolo decimottavo. I fenomeni erano i medesimi. Allora si chiamava
“barbarie” il medio evo; ora si chiama “barbarie” medio evo e Rinascimento. Lo
stesso impeto negativo e polemico è ne' due movimenti, foriero di guerre e di
rivoluzioni. E ci erano le stesse idee, maturate e sviluppate oltralpe,
strozzate presso di noi e rivenuteci dal di fuori. Anzi il movimento non è che
un solo, prolungatosi per due secoli con diverse vicissitudini nelle varie
nazioni, procedente sempre attraverso alle più sanguinose resistenze, e ora
accentrato e condensato sotto nome di “filosofia”, fatto della letteratura suo
istrumento. Questo volea dire il motto: “Cose e non parole”. Volea dire che la
letteratura, stata trastullo d'immaginazione, senza alcuna serietà di
contenuto, e divenuta perfino un semplice giuoco di frasi, dovea acquistare un
contenuto, essere l'espressione diretta e naturale del pensiero e del
sentimento, della mente e del cuore: onde nacque più tardi il barbaro vocabolo
“cormentalismo”. Messa la sostanza nel contenuto, quell'ideale della forma
perfetta, gloria del Rinascimento, e rimasto visibile nelle stesse opere della decadenza,
come nel Pastor fido, nell'Adone, nel dramma di Metastasio, cesse
il posto alla forma naturale, non convenzionale, non manifatturata, non
tradizionale, non classica, ma nata col pensiero e sua espressione immediata.
Perciò il Cesarotti, rispondendo al libro del conte Napione Sull'uso e su'
pregi della lingua italiana, sostenea nel suo Saggio sulla filosofia
delle lingue che la lingua non è un fatto arbitrario, e regolato unicamente
dall'uso e dall'autorità, ma che ha in sè la sua ragion d'essere; che la sua
ragion d'essere è nel pensiero, e quella parola è migliore che meglio renda il
pensiero, ancorchè non sia toscana e non classica, e sia del dialetto, o
addirittura forestiera con inflessione italiana. Cosa era quel Saggio? Era
l'emancipazione della lingua dall'autorità e dall'uso in nome della filosofia e
della ragione, come si volea in tutte le istituzioni sociali; era la ragione,
il senso logico, che penetrava nella grammatica e nel vocabolario; era lo
spirito moderno, che violava quelle forme consacrate e fossili, logore per
lungo uso, e dava loro un'aria cosmopolitica, l'aria filosofica, a scapito del
colore locale e nazionale. Aggiungendo l'esempio al precetto, il Cesarotti
pigliò tutte le parole che gli venivano innanzi, senza domandar loro onde
venivano, e, come era uomo d'ingegno, e avea mente chiara e spirito vivace,
formò di tutti gli elementi stranieri e indigeni della conversazione italiana
una lingua animata, armonica, vicina al linguaggio parlato, intelligibile dall'un
capo all'altro d'Italia. Gli scrittori, intenti più alle cose che alle parole,
e stufi di quella forma in gran parte latina che si chiamava “letteraria”,
screditata per la sua vacuità e insipidezza, si attennero senza più
all'italiano corrente e locale, così com'era, mescolato di dialetto e avvivato
da vocaboli e frasi e costruzioni francesi: lingua corrispondente allo stato
della coltura. Così si scriveva nelle parti settentrionali e meridionali
d'Italia, a Venezia, a Padova, a Milano, a Torino, a Napoli: così scrivevano
Baretti, Beccaria, Verri, Gioia, Galiani, Galanti, Filangieri, Delfico, Mario
Pagano. Resistenza ci era, massime a Firenze, patria della Crusca, e a Roma,
patria dell'Arcadia: schiamazzi di letterati e di accademici abbandonati dal pubblico.
Lo stesso era per lo stile. Si cercavano le qualità opposte a quelle che
costituivano la forma letteraria. Si voleva rapidità, naturalezza e brio. Tutto
ciò che era finimento, ornamento, riempitura, eleganza, fu tagliato via come un
ingombro. Non si mirò più ad una perfezione ideale della forma, ma all'effetto,
a produrre impressioni sul lettore, tenendo deste e in moto le sue facoltà
intellettive. I secreti dello stile furono chiesti alla psicologia, a uno
studio de' sentimenti e delle impressioni, base del Trattato dello stile
del Beccaria. Al vuoto meccanismo, dottamente artificioso, solletico
dell'orecchio, detto “stile classico”, e ridotto oramai un frasario pesante e
noioso, succedeva un modo di scrivere alla buona e al naturale, vispo, rotto,
ineguale, pieno di movimenti, imitazione del linguaggio parlato. Tipo dell'uno
era il trattato; tipo dell'altro era la gazzetta. Il principio da cui derivava
quella rivoluzione letteraria, era l'imitazione della natura, o, come si
direbbe, il realismo nella sua verità e nella sua semplicità, reazione alla
declamazione e alla rettorica, a quella maniera convenzionale, che si decorava
col nome d'“ideale” o di “forma perfetta”. La vecchia letteratura era assalita
non solo nella sua lingua e nel suo stile, ma ancora nel suo contenuto.
L'eroico, l'idillico, l'elegiaco, che ancora animava quelle liriche, quelle
prediche, quelle orazioni, quelle tragedie, non attecchiva più, se n'era sazii
sino al disgusto. L'eroico era esagerazione; l'idillio era noia; l'elegia era
insipidezza; pastori e pastorelle, eroi romani e greci, erano giudicati un
mondo convenzionale, già consumato come letteratura, buono al più a esser messo
in musica, come facea Metastasio. Si volea rinnovare l'aria, rinfrescare le
impressioni, si cercava un nuovo contenuto, un'altra società, un altro uomo,
altri costumi. Vennero in moda i turchi, i cinesi, i persiani. Si divoravano le
Lettere persiane di Montesquieu. L'Ossian era preferito all'Iliade.
Comparve l'uomo naturale, l'uomo selvaggio, l'uomo di Hobbes e di Grozio,
l'uomo che fa da sè, Robinson Crusoè. Il cavaliere errante divenne il borghese
avventuriere, tipo Gil Blas. E ci fu anche la donna errante, la filosofessa, la
“lionne” di oggi, che stimava pregiudizio ogni costume e decoro
femminile. Ci fu l'uomo collocato in società, in lotta con essa in nome delle
leggi naturali, e spesso sua vittima, come donne maritate o monacate a forza o
sedotte, figli naturali calpestati da' legittimi, poveri oppressi dai ricchi,
scienza soverchiata da ciarlatani, le Clarisse, le Pamele, gli Emilii, i
Chatterton. Questo nuovo contenuto, conforme al pensiero filosofico che allora
investiva la vecchia società in tutte le sue direzioni, veniva fuori in
romanzi, novelle, lettere, tragedie, commedie, una specie di repertorio
francese, che faceva il giro d'Italia. Il concetto fondamentale era la legge di
natura in contrasto con la legge scritta, la proclamazione sotto tutte le forme
de' dritti dell'uomo dirimpetto la società che li violava. I capiscuola erano
Rousseau, Voltaire, Diderot. Seguiva la turba. Tra questi Mercier ebbe molto
séguito in Italia, e vi furono rappresentati i suoi drammi: il Disertore,
l'Amor Familiare, il Jevenal, l'Indigente. Nel Disertore
hai un giovine virtuoso e amabile, che per soccorrere il padre e per amore
lascia il suo reggimento, ed è dannato a morte: è il grido della natura contro
la legge scritta. Nell'Amor familiare è descritta con vivi colori l'oppressione
degli eretici ne' paesi cattolici. Jeneval è il contrario della Clarissa:
è un don Giovanni femmina, una Rosalia, che seduce il giovine e inesperto
Jeneval fino al delitto. Nell'Indigente è vivo il contrasto tra il ricco
ozioso, libidinoso, corteggiato e potente, che fa mercato di tutto, anche del
matrimonio; e il povero operoso e virtuoso, disprezzato e oppresso. A contenuto
nuovo nomi nuovi. Commedia e tragedia parve l'uomo mutilato e
ingrandito, veduto da un punto solo ed oltre il naturale. La critica da' bassi
fondi della lingua e dello stile si alzava al concetto dell'arte, alla sua
materia e alla sua forma, al suo scopo e a' suoi mezzi. Iniziatore di
quest'alta critica, che fu detta “estetica”, era Diderot. Da lui usciva
l'affermazione dell'ideale nella piena realtà della natura, che è il concetto
fondamentale della filosofia dell'arte. L'ideale scendeva dal suo piedistallo
olimpico, e non era più un di là, si mescolava tra gli uomini, partecipava alle
grandezze e alle miserie della vita; non era un iddio sotto nome di uomo, era
l'uomo; non era tragedia e non commedia, era il dramma. La poesia era storia,
come la storia era poesia. L'ideale era la stessa realtà, non mutilata, non
ingrandita, non trasformata, non scelta; ma piena, concreta, naturale, in tutte
le sue varietà, la realtà vivente. La tragedia ammetteva il riso, e la commedia
ammetteva la lacrima; s'inventò la “commedia lacrimosa”, e la “tragedia
borghese”. Il nuovo ideale non era l'idillio o l'eroe de' tempi feudali: era il
semplice borghese in lotta con la vita e con la società, e che sente della
lotta tutt'i dolori e le passioni. Come il bambino entra nel mondo tra le
lacrime, così l'ideale uscendo dalla sua astrazione serena entrava nella vita
lacrimoso, era patetico e sentimentale. Le Notti di Young ispiravano ad
Alessandro Verri le Notti romane. Rousseau col suo sentimentalismo
rettorico faceva una impressione così profonda, come col suo naturalismo
filosofico. Questi concetti e questi lavori, frutto di una lunga elaborazione
presso i francesi, giungevano a noi tutt'in una volta, come una inondazione,
destando l'entusiasmo degli uni, le collere degli altri. Le quistioni di lingua
e di stile si elevavano, divenivano quistioni intorno allo stesso contenuto
dell'arte: in breve tempo la critica meccanica diveniva psicologica, e la
critica psicologica si alzava all'estetica. La vecchia letteratura, combattuta
ne' suoi mezzi tecnici, era ancora contraddetta nella sua sostanza, nel suo
contenuto. Ritrarre dal vero era la demolizione dell'eroico, com'era concepito
e praticato fra noi: cosa divenivano gli eroi di Metastasio? Il patetico e il
sentimentale era la condanna di quegl'ideali oziosi, sereni, noiosi, che
costituivano l'idillio: cosa diveniva l'Arcadia? Il teatro, si diceva, non è un
passatempo, è una scuola di nobili sentimenti e di forti passioni: cosa
divenivano le commedie a soggetto? Tutto era riforma. L'abate Genovesi, Verri,
Galiani davano addosso al vecchio sistema economico; la vecchia legislazione
era combattuta da Beccaria; tutti gli ordini sociali erano in quistione;
Filangieri, andando alla base, proponeva la riforma dell'istruzione e
dell'educazione nazionale; principi e ministri, sospinti dalla opinione,
iniziavano riforme in tutt'i rami dell'azienda pubblica. La vecchia letteratura
non poteva durare così: ci voleva anche per lei la riforma. Già non produceva più,
non destava più l'attenzione: tutto era canto e musica, tutto era filosofia. Si
concepisce in questo stato degli spiriti il maraviglioso successo de' romanzi e
delle commedie dell'abate Chiari, che per sostentare la vita adulava il
pubblico e gli offriva quell'imbandigione che più desiderava. Sarebbe
interessante un'analisi delle infinite opere, già tutte dimenticate, del
Chiari, perchè mostrerebbe qual era il genio del tempo. Donne erranti,
filosofesse, gigantesse, figli naturali, ratti di monache, scontri notturni,
finestre scalate, avvenimenti mostruosi, caratteri impossibili, un eroico
patetico e un patetico sdolcinato, una filosofia messa in rettorica, un impasto
di vecchio e di nuovo, di ciò che il nuovo avea di più stravagante, e di ciò
che il vecchio avea di più volgare: questo era il cibo imbandito dal Chiari. Il
Martelli aveva inventato il verso alla francese, come prima si era inventato il
verso alla latina. Parve cosa stupenda al Chiari, e ne fece molto uso, e fino
la Genesi voltò in versi martelliani. Questo impiastricciatore del
Chiari è l'immagine di un tempo, che la vecchia letteratura se ne andava, e la
nuova fermentava appena in quella prima confusione delle menti; sicchè egli ha
tutt'i difetti del vecchio e tutte le stranezze del nuovo. Ben presto si trovò
fra' piedi Carlo Goldoni, costretto dalle stesse necessità della vita a servire
e compiacere al pubblico. Per qualche tempo si accapigliarono i partigiani del
Chiari e del Goldoni. E tra' due contendenti sorse un terzo, che die' addosso
all'uno e all'altro: dico Carlo Gozzi, fratello di Gaspare. Uscì a Parigi la Tartana
degl'influssi, caricatura di due comici:
Il
primo si chiamava “Originale”,
ed
il secondo “Saccheggio” s'appella...
I
partigiani ogni giorno crescevano,
chi
vuole Originale e chi Saccheggio;
tutto
il paese a romore mettevano...
Il
parlar mozzo e lo stare intra due
niente
vale per trarsi di tedio:...
dir
bisognava: - Saccheggio è migliore, -
ovvero:
- Originale è più dottore. -
Gozzi avea maggior coltura del
Chiari e del Goldoni, era d'ingegno svegliatissimo, avea fatto buoni studi,
come il fratello, apparteneva all'accademia de' Granelleschi, che si proponeva
di ristaurare la buona lingua, della quale quei due si mostravano
ignorantissimi. Tutto quel mondo nuovo letterario, predicato con tanta iattanza
e venuto fuori con tanta stravaganza, non gli parea una riforma, gli parea una
corruzione, e non solo letteraria, ma religiosa, politica e civile:
Usciti
son certi autorevol dotti,
con
un tremuoto di nuova scienza,
che
han tutti gli scrittori mal condotti.
Tratto
il lor, di saper non ci è semenza,
dicono
che gli autor morti fur cotti,
e
condannano i vivi all'astinenza...
Leggonsi
certe nuove “Marianne”,
certi
“baron”, certe “marchese” impresse,
certe
fraschette buse come canne,
e
le battezzan poi “filosofesse”,
che
il mal costume introducono a spanne:
credo
il dimonio al torchio le mettesse.
Chi
dice: - Egli è un comporre alla francese. -
Certo
è peggior del mal di quel paese.
La sua Marfisa è una
caricatura de' nuovi romanzi, alla maniera del Chiari. Carlo magno e i paladini
diventano oziosi e vagabondi; Bradamante una spigolistra casalinga; Marfisa,
l'eroina, guasta da' libri nuovi, vaporosa, sentimentale, isterica, bizzarra, e
finisce tisica e pinzochera. La mira era alle donne del Chiari e de' romanzi in
voga. Gli parea che quel predicar continuo “dritti naturali”, “leggi naturali”,
“religione naturale”, “uguaglianza”, “fratellanza”, dovesse render gli uomini cattivi
sudditi, ammaestrandoli di troppe cose, e avvezzandoli a guardare con invidia
al di sopra della loro condizione. Questo pericolo era più grave, quando
massime tali fossero predicate in teatro, che non era una scola, ma un
passatempo; e invocava contro i predicatori di così nuova morale la severità
dei governi. Il povero Chiari non ci capiva nulla. Goldoni, che era un puro
artista, come il Metastasio, buon uomo e pacifico, e che di tutto quel
movimento del secolo non vedeva che la parte letteraria, dovea trasecolare a
sentirsi dipingere poco meno che un ribelle, un nemico della società. Vi si
mescolarono gl'interessi delle compagnie comiche, che si disputavano
furiosamente gli scarsi guadagni. Gozzi difendeva la compagnia Sacchi, tornata
di Vienna, e trovato il suo posto preso dalle compagnie Chiari e Goldoni. Il
Sacchi era l'ultimo di quei valenti improvvisatori comici, che giravano
l'Europa e mantenevano la riputazione della commedia italiana a Vienna, a
Parigi, a Londra. Musici, cantanti e improvvisatori erano la merce italiana che
ancora avea corso di là dalle Alpi. La commedia a soggetto, alzatasi sulle
rovine delle commedie letterarie, accademiche e noiose, era padrona del campo a
Roma, a Napoli, a Bologna, a Milano, a Venezia. Era della vecchia letteratura
il solo genere vivo ancora, considerato gloria speciale d'Italia, e solo che
ricordasse ancora in Europa l'arte italiana. Gli attori venuti in qualche fama
andavano a Parigi, dov'erano meglio retribuiti. Ma, come a Parigi Molière
fondava la commedia francese, combattendo le commedie a soggetto italiane; così
a Venezia Goldoni, vagheggiando a sua volta una riforma della commedia, l'avea
forte con le maschere e con le commedie a soggetto. Questo pareva al Gozzi
quasi un delitto di lesa-nazione, un attentato ad una gloria italiana. La
contesa oggi sembra ridicola, e pare che potevano vivere in buon'amicizia l'uno
e l'altro genere. Ma ci era la passione, e ci era l'interesse, e i sangui si
scaldarono, e molte furono le dispute, insino a che Goldoni, cedendo il campo,
andò a Parigi. La sua fama s'ingrandì, e impose silenzio al Baretti e rispetto
al Gozzi, soprattutto quando Voltaire lo ebbe messo accanto a Molière. Da tutto
quell'arruffio non uscì alcun progresso notabile di critica, essendo i Ragionamenti
del Gozzi pieni più di bile che di giudizio, e vuote e confuse generalità, come
di uomo che non conosca con precisione il valore de' vocaboli e delle
quistioni. Ma ne uscirono i primi tentativi della nuova letteratura, le
commedie del Goldoni e le fiabe del Gozzi, la commedia borghese e la commedia
popolana.
Carlo
Goldoni era, come Metastasio, artista nato. Di tutti e due se ne volea fare
degli avvocati. Anzi Goldoni fece l'avvocato con qualche successo. Ma alla
prima occasione correva appresso agli attori, insino a che il natural genio
vinse. Tentò parecchi generi, prima di trovare se stesso. Zeno e Metastasio
erano le due celebrità del tempo; il dramma in musica era alla moda. Scrisse l'Amalasunta,
il Gustavo, l'Oronte, più tardi il Festino e qualche altro
melodramma buffo; scrisse anche tragedie, la Rosmonda, la Griselda,
l'Enrico, e tragicommedie, come il Rinaldo. Poeta stipendiato di
compagnie comiche, costretto in ciascuna stagione teatrale di dare parecchie
opere nuove, e in una stagione ne die' sedici, saccheggiò, raffazzonò, tolse di
qua e di là ne' repertori italiani e francesi, e anche ne' romanzi. Non ci era
ancora il poeta, ci era il mestierante; ci era Chiari, non ci era ancora
Goldoni. Trattava ogni maniera di argomento secondo il gusto pubblico, commedie
sentimentali, commedie romanzesche, come la Pamela, Zelinda e Lindoro,
la Peruviana, la Bella selvaggia, la Bella georgiana, la Dalmatina,
la Scozzese, l'Incognita, l'Ircana, raffazzonamenti la più
parte e imitazioni francesi. Scrisse anche commedie a soggetto, come il
Figlio di Arlecchino perduto e ritrovato, le Trentadue disgrazie di
Arlecchino. Si rivelò a se stesso e al pubblico nella Vedova scaltra.
Cominciarono le critiche, e cominciò lui ad avere una coscienza d'artista. La
vecchia letteratura ondeggiava tra il seicentismo e l'arcadico, il gonfio e il
volgare. Goldoni nelle sue Memorie dice:
“I
miei compatriotti erano accostumati da lungo tempo alle farse triviali e agli
spettacoli giganteschi. La mia versificazione non è mai stata di stil sublime;
ma ecco appunto quel che bisognava per ridurre a poco a poco nella ragione un
pubblico accostumato alle iperboli, alle antitesi, ed al ridicolo del
gigantesco e romanzesco.”
Per
sua ventura gli capitò una buona compagnia.
“-
Ora, - diceva io a me medesimo - ora sto bene, e posso lasciare il campo libero
alla mia fantasia. Ho lavorato quanto basta sopra vecchi soggetti. Avendo
presentemente attori che promettono molto, convien creare, conviene inventare.
Ecco forse il momento di tentare quella riforma, che ho in vista da così lungo
tempo. Convien trattare soggetti di carattere: essi sono la sorgente della
buona commedia; ed è appunto con questi che il gran Molière diede principio
alla sua carriera, e pervenne a quel grado di perfezione, che gli antichi ci
avevano soltanto indicato, e che i moderni non hanno ancor potuto eguagliare.
-”
Goldoni
conosceva pochissimo Plauto e Terenzio; faceva di cappello a Orazio e
Aristotile; rispettava per tradizione le regole; ma dice: “Non ho mai sacrificata
una commedia che poteva esser buona ad un pregiudizio che la poteva render
cattiva”. Ciò che chiama “pregiudizio” è l'unità di luogo. La sua scarsa
coltura classica avea questo di buono: che tenea il suo spirito sgombro da ogni
elemento che non fosse moderno e contemporaneo. Ciò ch'egli vagheggia non è la
commedia dotta, regolata, letteraria, alla latina o alla toscana, di cui ultimo
esempio dava il Fagiuoli; ma la buona commedia, com'egli la concepiva: “La
commedia essendo stata la mia tendenza, la buona commedia dee esser la mia
meta.” E il suo concetto della buona commedia è questo: “Tutta l'applicazione
che ho messa nella costruzione delle mie commedie, è stata quella di non
guastar la natura”. Carattere idillico, superiore a' pettegolezzi e alle invidiuzze
provinciali del letterato italiano, pigliandosi la buona e la cattiva fortuna
con eguaglianza d'animo, quest'uomo che visse i suoi bravi ottantasei anni e
morì a Parigi pochi anni dopo il Metastasio, morto a Vienna, dice di sè:
“Il
morale da me è analogo al fisico; non temo nè il freddo nè il caldo e non mi
lascio infiammar dalla collera, nè ubbriacar dalla gioia.”
Con
questo temperamento più di spettatore che di attore, mentre gli altri
operavano, Goldoni osservava e li coglieva sul fatto. La natura bene osservata
gli pareva più ricca che tutte le combinazioni della fantasia. L'arte per lui
era natura, era ritrarre dal vero. E riuscì il Galileo della nuova letteratura.
Il suo telescopio fu l'intuizione netta e pronta del reale, guidata dal buon
senso. Come Galileo proscrisse dalla scienza le forze occulte, l'ipotetico, il
congetturale, il soprannaturale, così egli volea proscrivere dall'arte il
fantastico, il gigantesco, il declamatorio e il rettorico. Ciò che Molière avea
fatto in Francia, lui voleva tentare in Italia, la terra classica
dell'accademia e della rettorica. La riforma era più importante che non
apparisse; perchè, riguardando specialmente la commedia, avea a base un
principio universale dell'arte, cioè il naturale nell'arte, in opposizione alla
maniera e al convenzionale. Goldoni avea da natura tutte le qualità che si
richiedevano al difficile assunto: finezza di osservazione e spirito inventivo,
misura e giustezza nella concezione, calore e brio nella esecuzione. La Mandragola,
capitatagli ch'era giovanissimo, gli avea fatta molta impressione. Il Misantropo,
l'Avaro, il Tartufo, le Preziose, e simili commedie di
Molière compirono la sua educazione. Il fondamento della commedia italiana era
l'intreccio; la buona commedia, come la concepiva lui, dovea avere a fondamento
il carattere. - Voi avete la commedia d'intreccio; io voglio darvi la commedia
di carattere - diceva Goldoni. E commedia di carattere era tirare l'effetto non
dalla moltiplicità di avvenimenti straordinari, ma dallo svolgimento di un
carattere nelle situazioni anche più ordinarie della vita. Era tutt'un altro
sistema, e non solo nella commedia, ma nello scopo e ne' mezzi dell'arte. Il
protagonista nel primo sistema è il caso o l'accidente, le cui bizzarre combinazioni
generano il maraviglioso. Gli uomini ci stanno come figure o comparse, appena
schizzati, avvolti nel turbine degli avvenimenti. La vita è nella superficie:
l'interno è occulto. In questa superficialità ottusa si era consunta la vecchia
letteratura, ed, esaurite tutte le forme del maraviglioso, non bastava più a
conseguire l'effetto con mezzi propri, senza il sussidio del canto, della
musica, del ballo, della mimica, della declamazione. La parola non era più il
principale: era l'accessorio, il semplice tema, l'occasione. Anche la commedia
si credea inetta a conseguire il suo effetto senza il sussidio delle maschere,
senza quell'improvviso de' lazzi degli Arlecchini, de' Truffaldini, de'
Brighella e de' Pantaloni. Ora l'idea fissa di Goldoni era che la commedia
potea per sè sola interessare il pubblico, e che non le era necessario a ciò lo
spettacoloso, il gigantesco, il maraviglioso in maschera e senza maschera. La
sua riforma era in fondo la restaurazione della parola, la restituzione della
letteratura nel suo posto e nella sua importanza, la nuova letteratura. E vide
chiaramente che a ristaurare la parola bisognava non lavorare intorno alla
parola, ma intorno al suo contenuto, rifare il mondo organico o interiore
dell'espressione. Questo vide nella commedia, e mirò a instaurarvi non gli
elementi formali e meccanici, ma l'interno organismo, sopra questo concetto,
che la vita non è il gioco del caso o di un potere occulto, ma è quale ce la
facciamo noi, l'opera della nostra mente e della nostra volontà. Concetto del
Machiavelli, dal quale usciva la Mandragola. Perciò il protagonista è
l'uomo, con le sue virtù e le sue debolezze, che crea o regola gli avvenimenti,
o cede in balìa di quelli. Manca a Goldoni non la chiarezza, ma l'audacia della
riforma, obbligato spesso a concessioni e a mezzi termini per contentare il
pubblico, la compagnia e gli avversari. E, come era il suo carattere, vinse
talora più con la pazienza o la destrezza, che con la risoluta tenacità de'
propositi. Di queste concessioni trovi i vestigi nelle sue migliori commedie,
dove non rifiuta certi mezzi volgari e grossolani di ottenere gli applausi
della platea. E mi spiego come insino all'ultimo continuò nel romanzesco, nel
sentimentale e nell'arlecchinesco: le necessità del mestiere contrastavano alle
aspirazioni dell'artista. D'altra parte, intento all'interno organismo della
commedia, neglesse troppo l'espressione, e per volerla naturale la fece
volgare, sì che le sue concezioni si staccano vigorose da una forma più simile
a pietra grezza che a marmo. Ciò che in lui rimane è quel mondo interno della
commedia, tolto dal vero e perfettamente sviluppato nelle situazioni e nel
dialogo. Il centro del suo mondo comico è il carattere. E questo non è
concepito da lui come un aggregato di qualità astratte, ma è còlto nella
pienezza della vita reale, con tutti gli accessorii. Base è la società
veneziana nella sua mezzanità, più vicina al popolo che alle classi elevate:
ciò che dà più presa al comico per quei moti improvvisi, ineducati,
indisciplinati, che son propri della classe popolana, alla quale si accostava
molto la borghesia veneta, non giunta ancora a quel raffinamento e delicatezza
di forme, che sono come l'aria della civiltà. I caratteri, come il maldicente,
il bugiardo, l'avaro, l'adulatore, il cavalier servente, inviluppati in
quest'atmosfera, escono fuori vivi, coloriti, originali, nuovi, vi contraggono
la forma della loro esistenza. Ci è nel loro impasto del grossolano e
dell'improvviso; anzi qui è la fonte del comico. Cadendo in nature di uomini
non disciplinate dall'educazione, paion fuori in modo subitaneo, e senza freno
o ritegno o riguardo, in tutta la loro forza primigenia, e producono con quella
loro improvvisa grossolanità la più schietta allegria, tipo il Burbero
benefico. Non essendo concezioni subbiettive e astratte, ma studiate dal
vero e colte nel movimento della vita, il comico non si sviluppa per via di
motti, riflessioni e descrizioni (ciò che dicesi propriamente “spirito”, e
appartiene a una società più colta e raffinata) ma erompe nella brusca vivacità
delle situazioni e dei contrasti. Il Goldoni è felicissimo a trovare situazioni
tali che il carattere vi possa sviluppare tutte le sue forze. La situazione è
per lo più unica, semplice, naturalissima, sobriamente variata, messa in
rilievo da qualche contrasto, di rado complicata o inviluppata, graduata con un
crescendo di movimenti drammatici, e ti porta rapidamente alla fine tra la più
viva allegria. Indi viene la superiorità del suo dialogo, che è azione parlata,
di rado interrotta o raffreddata per soverchio uso di riflessioni e di
sentenze. La situazione non è mai perduta di vista, non digressioni, non
deviazioni, rari intermezzi o episodi; nessuna parte troppo accarezzata o
rilevata; onde è che l'interesse è nell'insieme, e di rado se ne stacca un
personaggio, una scena, un motto. Tutto è collegato saldamente con tutto: la
situazione è il carattere stesso in posizione, nelle sue determinazioni;
l'azione è la stessa situazione nel suo sviluppo; il dialogo è la stessa azione
ne' suoi movimenti. Questo mondo poetico ha il difetto delle sue qualità: nella
sua grossolanità è superficiale, e nella sua naturalezza è volgare. In quel suo
correre diritto e rapido il poeta non medita, non si raccoglie, non
approfondisce; sta tutto al di fuori, gioioso e spensierato, indifferente al
suo contenuto, e intento a caricarlo quasi per suo passatempo, e con l'aria più
ingenua, senza ombra di malizia e di mordacità: onde la forma del suo comico è
caricatura allegra e smaliziata, che di rado giunge all'ironia. Nel suo studio
del naturale e del vero trascura troppo il rilievo, e, se ha il brio del
linguaggio parlato, ne ha pure la negligenza; per fuggire la rettorica, casca
nel volgare. Gli manca quella divina malinconia, che è l'idealità del poeta
comico e lo tiene al di sopra del suo mondo, come fosse la sua creatura che
accarezza con lo sguardo e non la lascia che non le abbia data l'ultima
finitezza. Attribuiscono il difetto alla sua ignoranza della lingua ed alla soverchia
fretta; il che, se vale a scusare le sue scorrezioni, non è bastante a spiegare
il crudo e lo sciacquo del suo colorito.
La
nuova letteratura fa la sua prima apparizione nella commedia del Goldoni,
annunziandosi come una ristaurazione del vero e del naturale nell'arte. Se la
vecchia letteratura cercava ottenere i suoi effetti, scostandosi possibilmente
dal reale, e correndo appresso allo straordinario o al maraviglioso nel
contenuto e nella forma, la nuova cerca nel reale la sua base, e studia dal
vero la natura e l'uomo. La maniera, il convenzionale, il rettorico,
l'accademico, l'arcadico, il meccanismo mitologico, il meccanismo classico,
l'imitazione, la reminiscenza, la citazione, tutto ciò che costituiva la forma
letteraria, è sbandito da questo mondo poetico, il cui centro è l'uomo,
studiato come un fenomeno psicologico, ridotto alle sue proporzioni naturali, e
calato in tutte le particolarità della vita reale. Vero è che la realtà è
appena lambita, e le sue profondità rimangono occulte. Ma la via era quella, e
in capo alla via trovi Goldoni.
A
Carlo Gozzi parea che quel vero e quel naturale fosse la tomba della poesia; e
quando il successo del Goldoni gl'impose rispetto, parlando pure con riguardo
dell'avversario, non potè risolversi ad accettare per buona la sua riforma. Il
romanzesco, il gigantesco, l'arlecchinesco, o, in altri termini, il mirabile e
il fantastico, gli parevano elementi essenziali della poesia; quel ritrarre dal
reale gli pareva una volgarità. D'altra parte non vedea senza rincrescimento
assalita da ogni parte la commedia a soggetto, che gli sembrava una gloria
italiana. Dicevano che l'era oramai un vecchio repertorio, che l'era ridotta a
mero meccanismo, che l'era una scuola d'immoralità, di scurrilità, roba da
trivio, “goffe buffonate, fracidumi indecenti in un secolo illuminato”. C'era
esagerazione nelle accuse, ma un fondamento di verità c'era. La commedia
improvvisa, dell'arte o a soggetto, era isterilita, come tutt'i generi della
vecchia letteratura, e tutti quei lazzi che tanto divertivano erano con poca
varietà un vecchiume trasmesso da una generazione all'altra: si viveva sul
passato, i nuovi attori riproducevano gli antichi; la parte improvvisata era
così poco nuova e improvvisa, come la parte scritta. Piaceva più che la
commedia letteraria, perchè ci era sempre maggior comunione col pubblico; ma
oramai quel Dottor bolognese e Truffaldino stancavano, come un professore che
ripeta ogni anno lo stesso corso. I letterati e i fautori delle commedie
regolate ne pigliavano argomento per dichiarar guerra alle maschere e volevano
proscrivere addirittura quel genere di commedia, “indecente in un secolo
illuminato”. Gozzi che l'avea contro quei lumi, e vedea di mal occhio tutte
quelle novità che ci venivano d'oltralpe, se ne fece paladino, e scese in campo
co' ragionamenti e coll'esempio, scrivendo sotto nome di “fiabe” commedie con
le maschere, e perciò con una parte improvvisata, le quali ebbero successo
grandissimo, e oggi sono quasi dimenticate. Gozzi parea a quel tempo un retrivo,
e Goldoni era il riformatore; pure avrei desiderato a Goldoni un po' di quella
fibra rivoluzionaria ch'era in quel retrivo: chè così sarebbe proceduto più
ardito e conseguente nella sua riforma. Il “taciturno solitario” Gozzi, come lo
chiamavano, era uomo d'ingegno; e perciò penetrato della vita contemporanea, e
trasformato senza saperlo da quelle stesse idee nuove, che gli movevano la
bile. Volendo ristaurare il vecchio, si chiarì novatore e riformatore, e
correndo dietro alla commedia a soggetto, s'incontrò nella commedia popolana, e
ne fissò la base. Grande confusione era nella sua testa, come si vede da' suoi
ragionamenti; indi la sua debolezza. Goldoni sa quello che vuole, ha la
chiarezza dello scopo e dei mezzi, e va diritto e sicuro: perciò la sua
influenza rimase grandissima. Ma Gozzi non ha chiaro lo scopo, e vuole una cosa
e fa un'altra, e procede a balzi, tirato da varie correnti. Vuole favorire le
maschere; vuole parodiare gli avversari; vuole rifare Pulci e Ariosto,
ristaurando il fantastico; vuole toscaneggiare, e vuole insieme essere popolare
e corrente; vuol ricostruire il vecchio e comparir nuovo. Fini transitorii, i
quali poterono interessare i contemporanei, dargli vinta la causa nella
polemica e nel teatro, e che oggi sono la parte morta del suo lavoro. Queste
intenzioni penetrano in tutta la composizione, come elementi perturbatori, e
rimasti inconciliati. Ciò che resta di lui è il concetto della commedia
popolana, in opposizione alla commedia borghese. Le maschere, cioè certi caratteri
o caricature tipiche del popolo, come Tartaglia, Pantalone, Truffaldino,
Brighella, Smeraldina, rimangono nella sua composizione come elementi di
obbligo e convenzionali, accessorii spesso grotteschi e insipidi per rispetto
al contenuto, innestati e soprapposti. Il contenuto è il mondo poetico com'è
concepito dal popolo, avido del maraviglioso e del misterioso, impressionabile,
facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale, nelle sue forme,
miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immaginazione tanto più vivo,
quanto meno l'intelletto è sviluppato, è la base naturale della poesia popolana
sotto le sue diverse forme, conti, novelle, romanzi, storie, commedie, farse.
La vecchia letteratura se n'era impadronita; ma per demolirlo, per gittarvi
entro il sorriso incredulo della colta borghesia. Rifare questo mondo nella sua
ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovine e
nuovo della commedia a soggetto, questo osò Gozzi in presenza di una borghesia
scettica e nel secolo de' lumi, nel secolo degli “spiriti forti” e de' “belli
spiriti”. E riuscì a interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore
assoluto, e risponde a certe corde che, maneggiate da abile mano d'artista,
suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e
del popolo. E poichè il pubblico s'interessava ancora alla commedia del
Goldoni, se ne doveva conchiudere, se le conclusioni ragionevoli fossero
possibili in mezzo alla disputa, che tutti e due i generi erano conformi al
vero, l'uno rappresentando la società borghese nella sua mezza coltura, e
l'altro il popolo nelle sue credulità e ne' suoi stupori. E tutti e due erano
una riforma della commedia ne' due suoi aspetti, la commedia dotta e la
commedia improvvisa: era l'apparizione della nuova letteratura. Ma questo che
fece Gozzi non era precisamente quello che credeva di fare. Ci si messe per
picca e per occasione, disprezzava il pubblico che l'applaudiva, non prendeva
sul serio la sua opera, e perchè Goldoni imitava dal vero, s'innamorò lui del
romanzesco e del fantastico. Ora l'arte non è un capriccio individuale, e
perchè Shakespeare ti piace, non ne viene che tu possa rifare Shakespeare,
quando anche avessi forza da ciò. L'arte, come religione e filosofia, come istituzioni
politiche ed amministrative, è un fatto sociale, un risultato della coltura e
della vita nazionale. Gozzi volea rifare un mondo dell'immaginazione, quando
egli medesimo segnava la dissoluzione di quel mondo nella Marfisa,
quando la parte colta e intelligente della nazione era mossa da impulsi affatto
contrari, e quando il popolo, ebete nella sua miseria, stava come una massa
inerte, e non dava segno di vita letteraria. Se Gozzi fosse sceso in mezzo al
popolo, e vi avesse attinte le sue ispirazioni, potea forse fare opera viva. Ma
Gozzi era aristocratico, odiava tutte quelle novità, che sentivano troppo di
democrazia, e viveva co' suoi Granelleschi in un ambiente puramente letterario.
Rimase perciò un letterato, non divenne un poeta. Oltre a ciò, un fatto
letterario in quel tempo non potea sorgere di mezzo al popolo, divenuto acqua
stagnante; un movimento c'era, e veniva dalla borghesia, e con quelle tendenze
si sviluppava la vita nazionale in tutt'i suoi indirizzi. Creare un mondo
d'immaginazione, quando la guerra era appunto contro l'immaginazione in nome
della scienza e della filosofia, era un andare a ritroso. Gozzi nacque troppo
presto. Venne il tempo che la borghesia, spaventata da quelle esagerazioni che
stomacavano Gozzi, si riafferrò a quel mondo soprannaturale, come a tavola di
salute. Quello era il tempo di Gozzi; e Gozzi ci fu, e si chiamò Manzoni. Al
suo tempo Gozzi fu un elemento contraddittorio e perciò inconcludente; e la sua
idea, altamente estetica in astratto, riuscì un fatto letterario e artificiale.
Volea ristorare l'antico, odiava le novità, e senza saperlo le portava nel suo
seno: ond'è che tratta quel suo mondo dell'immaginazione a quello stesso modo
che il forense Goldoni rappresenta la sua società borghese. Gli manca il
chiaroscuro, gli manca l'impressione e il sentimento del soprannaturale, anzi
il suo studio è di rappresentarlo con tutte le apparenze della naturalezza,
come fosse un fatto vulgare e ordinario, a quel modo che andava predicando
Goldoni. Perciò il suo stile non ha rilievo, il suo colorito non ha
trasparenza, le sue tinte non sono fuse, e volendo esser naturale spesso ti
casca nell'insipido e nel volgare. La naturalezza di questo mondo è nella
ingenuità delle sue impressioni, curiosità, maraviglia, sospensione, terrore,
collera, pianti, riso, com'è ne' racconti delle società primitive. Questa
ingenuità è perduta, la naturalezza di Gozzi è negligenza e volgarità.
Quelle
apparizioni non hanno per lui serietà, sono giochi e passatempi; perciò scherzi
abborracciati, e senza alcun valore proprio, che, aiutati dalla mimica, da'
lazzi, dallo scenario, potevano produrre effetto nella rappresentazione, e alla
lettura piacciono, senza che ti lascino nell'animo alcun vestigio. Il Baretti
predicava in lui un nuovo Shakespeare, e quando gli fallì alla prova, se la
prese con lui furiosamente, come l'avesse tradito, e dovea prendersela con sè
medesimo, che andava sognando un Shakespeare nel secolo decimottavo. Che
avvenne? La commedia popolana ritornò nel suo pantano, con le sue maschere, le
sue indecenze e le sue volgarità, e di Gozzi rimase una bella idea, presto
dimenticata. La società prendeva altra via, e seguiva Goldoni.
Il movimento a Venezia rimase
puramente letterario. C'era un centro toscaneggiante nell'accademia de' Granelleschi,
divenuta presto ridicola, della quale erano anima i fratelli Gozzi; e c'era
dall'altra parte Goldoni con intenzioni più alte, che attingevano l'organismo
dell'arte. Il solo Carlo Gozzi presentì il significato politico del movimento,
e sonò la campana a stormo; ma nessuno rispose, perchè il nemico non si trovò.
Goldoni anche a Parigi non ci capiva nulla in quel vertiginoso rimescolio
d'idee, e Rousseau non era per lui che un fenomeno curioso, un magnifico
carattere da commedia, qualche cosa come il “burbero benefico”. Questa sua
concentrazione in un punto solo e la sua perfetta innocenza in tutto l'altro fu
la sua forza e la sua debolezza. La sua idea fissa, ch'era rappresentare dal
vivo e dal vero e non guastar la natura, era il principio rinnovatore della
letteratura, negazione dell'Arcadia, ricostituzione del contenuto e della
forma, incarnato in alcune commedie di esecuzione più o meno perfetta, ma tutte
indimenticabili per la chiarezza e la verità della concezione, delle situazioni
e de' caratteri: qui fu la sua forza. E la sua debolezza fu il carattere
meramente letterario della sua riforma, che lo tiene nella superficie e gli fa
produrre un mondo locale e particolare, a cui la sua indifferenza religiosa,
filosofica, politica, morale, sociale, la sua poca coltura, la scarsezza de'
suoi motivi interni toglie rilievo e vigore, toglie quella idealità, che viene
da un significato generale e permanente. Cosa manca a Goldoni? Non lo spirito,
non la forza comica, non l'abilità tecnica: era nato artista. Mancò a lui
quello che a Metastasio: gli mancò un mondo interiore della coscienza, operoso,
espansivo, appassionato, animato dalla fede e dal sentimento. Mancò a lui
quello che mancava da più secoli a tutti gl'italiani, e che rendeva insanabile
la loro decadenza: la sincerità e la forza delle convinzioni. Ciò che attestava
una possibile rigenerazione, era la riapparizione di quel mondo interiore negli
spiriti più eletti, che rimetteva in moto il cervello, e svegliava il
sentimento. Il maggiore impulso veniva dal di fuori. Ma l'entusiasmo pubblico
mostrava che ci era la materia atta a riceverlo, e che l'Italia dopo lungo
riposo si rimetteva in via. Nel mezzodì l'attività speculativa da Telesio a
Coco non mancò mai, e vi si era formata una scuola liberale, che avea per
materia la quistione giurisdizionale, e si andava allargando a tutte le utili
riforme nell'assetto dello Stato: quando le nuove idee vi si affacciarono,
trovarono gli spiriti educati e pronti a riceverle, e se ne fecero interpreti
eloquenti ed efficaci Filangieri, Pagano e Galiani. Vi si andava così
elaborando un nuovo contenuto in una forma piena di spirito e di movimento,
spesso ingegnosa e appassionata, filosofia volgarizzata, col linguaggio vivo e
spiritoso della gazzetta. Farse, tragedie, commedie, orazioni, dissertazioni,
prediche, trattati, sonetti, tutt'i generi della vecchia letteratura
continuavano la loro vita solita e meccanica, senza alcun segno di movimento
nel loro interno organismo, imitazioni, raffazzonamenti, contraffazioni, un mondo
di convenzione accolto con applausi di convenzione. Già Salvator Rosa aveva a
suon di tromba mosso guerra alla declamazione e alla rettorica, senz'accorgersi
che faceva della rettorica anche lui. Un po' di rettorica c'era pure in alcuno
di quegli scrittori, massime in Filangieri, ma vivificata dalla novità e
importanza delle cose, e da quello spirito moderno e contemporaneo che desta
sempre la più viva partecipazione. Il sentimento puramente letterario, errante
in quelle provincie tra il voluttuoso, l'ingegnoso e il sentimentale, ciò che
vi rendea così popolari il Tasso e il Marino, stagnato il movimento letterario,
s'era trasformato nel sentimento musicale, e vi educava Metastasio, e vi
apparecchiava quella scuola immortale di maestri di musica, che furono i veri
padri di un'arte serbata a così grandi destini. La musica sorgeva animata da
quegli stessi impulsi che non trovavano più soddisfazione nella imputridita
forma letteraria, sorgeva tutta melodia, piena di voluttà, di spirito e di
sentimento. Mentre l'attività speculativa e il sentimento musicale si andava
sviluppando nel mezzogiorno d'Italia, e Goldoni tentava a Venezia la sua
riforma della commedia, Milano diveniva il centro intellettuale e politico
della vita nuova, principali motori Pietro Verri e Cesare Beccaria. A Venezia
c'era l'accademia de' Granelleschi, a Milano c'era l'accademia de' Trasformati.
Lì si concepiva la riforma, come una restaurazione degli studi classici, e si
combatteva il Goldoni, ch'era il vero riformatore. Qui dominava sotto tutti gli
aspetti lo spirito nuovo, l'Enciclopedia vi era penetrata con tutto il
corteggio degli scrittori francesi, vi si elaboravano non frasi, ma idee, e per
maggior libertà si usava non di rado il dialetto e non la lingua. Ci erano i
due Verri, il Beccaria, il Baretti, il Balestrieri, il Passeroni; ci era il
fiore dell'intelligenza milanese. Si chiamavano i Trasformati, e si può dire
che filosofia, legislazione, economia, politica, morale, tutto lo scibile era
già trasformato nelle loro menti, con più o meno di chiarezza e di coscienza.
La letteratura non potea sfuggire a questa trasformazione, e alla solennità
classica succedeva una forma svelta e naturale, e ne' più briosa e sentimentale
alla francese. Si rideva a spese di Alessandro Bandiera, che voleva insegnar
lingua e stile al padre Segneri, da lui tenuto non abbastanza boccaccevole, e
di padre Branda, che levava a cielo l'idioma toscano e scriveva vitupèri del
dialetto. Il Passeroni metteva in canzone quella vecchia società nella Vita
di Cicerone e nelle Favole esopiane, e alla vuota turgidezza del
Frugoni, ai lambicchi dell'Algarotti, a' lezii del Bettinelli, che erano i tre
poeti alla moda, opponeva quel suo scrivere andante, alla buona, tutto buon
senso e naturalezza. Bravissimo uomo, senza fiele, senza iniziativa, rideva
saporitamente della società, in mezzo alla quale viveva povero e contento.
Metastasio, Goldoni e Passeroni erano della stessa pasta, idillici e puri
letterati. Sono i tre poeti della transizione. Vedi in loro già i segni di una
nuova letteratura, una forma popolare, disinvolta, rapida, liquida, chiara,
disposta più alla negligenza che all'artificio. Ma è sempre un giuoco di forma,
alla quale manca altezza e serietà di motivi; ci è il letterato, manca l'uomo.
Senti in questi riformatori il vecchio uomo italiano, di cui era espressione
letteraria l'arcade e l'accademico. Combattevano l'Arcadia, ed erano più o meno
arcadi.
In
questi tempi di nuove idee e di vecchi uomini nacque Giuseppe Parini, il 22
maggio del 1729. Venuto dal contado in Milano, cominciò i soliti studi classici
sotto i barnabiti, e il padre Branda fu suo maestro di rettorica. Il babbo
volle farne un prete per nobilitare il casato; ma sul più bello fu costretto
per le strettezze domestiche a troncare i suoi studi e a ingegnarsi per trarre
innanzi la vita. Fece il copista e il pedagogo, e ne' dispregi e nella miseria
si temprò il suo carattere. Come Metastasio e come tutt'i poeti di quel tempo
cominciò arcade, e le sue prime rime le leggi in una raccolta di poesie a cura
di quegli accademici. Rivelò la sua personalità, combattendo il padre Bandiera
e il padre Branda, di cui era stato un cattivo scolare. Pare che nella scuola
facesse poco profitto, impaziente soprattutto di quei giuochi di memoria, che
erano allora la sostanza degli studi. Padrone di sè, ne' ritagli di tempo
obbliava la sua miseria, conversando con Virgilio, Orazio, Dante, Ariosto e
Berni. E che cosa dovea parergli il padre Branda col suo toscano, o il padre
Bandiera co' suoi periodi? Ma, se aveva a dispetto quella pedanteria, non gli
rincresceva meno quel francesizzare de' più, divenuto moda nelle alte e basse
classi. Usando per il suo mestiere in case signorili, potè studiare dappresso
questa strana mescolanza di vecchio e di nuovo, che costituiva allora la
società italiana. Già questo pigliar subito posizione, questo soprastare alla
lotta e schivarne tutte le esagerazioni mostra una spiccata personalità. Hai
innanzi un carattere.
Parini
era uomo più di meditazione che di azione. Non aveva il gusto de' piaceri,
aveva pochi bisogni, e nessuna cupidigia di onori e di ricchezze. La società
non avea presa su di lui: rimase indipendente e solitario, inaccessibile alle
tentazioni e a' compromessi, e, come Dante, fece parte da sè. Quel mondo nuovo,
che fermentava negli spiriti, fondato sulla natura e sulla ragione, e in
opposizione al fattizio e al convenzionale del secolo, giuntogli attraverso
Plutarco e Dante più che per influssi francesi, rimase in lui inalterato, puro
di quelle macchie e ombre che vi sovrappongono le vanità e le passioni e
gl'interessi mondani, perciò puro di esagerazioni e ostentazioni. Era in lui
una interna misura, quell'equilibrio delle facoltà, che è la sanità dell'anima,
quella compiuta possessione di se stesso, che è l'ideale del savio, quella
mente rettrice, che sta sopra alle passioni e alle immaginazioni, e le tiene
nel giusto limite. La sua forza è più morale che intellettuale; perchè la sua
intelligenza si alza poco più su del luogo comune, ed è notabile più per
giustezza e misura che per novità e profondità di concetti. Lo alza su'
contemporanei la sincerità e vivacità del suo senso morale, che gli dà un
carattere quasi religioso, ed è la sua fede e la sua ispirazione. Rinasce in
lui quella concordia dell'intendere e dell'atto mediante l'amore, che Dante
chiamava sapienza: rinasce l'uomo.
E
l'uomo educa l'artista. Perchè Parini concepisce l'arte allo stesso modo. Non è
il puro letterato, chiuso nella forma, indifferente al contenuto; anzi la
sostanza dell'arte è il contenuto, e l'artista è per lui l'uomo nella sua
integrità, che esprime tutto se stesso, il patriota, il credente, il filosofo,
l'amante, l'amico. La poesia ripiglia il suo antico significato, ed è voce del
mondo interiore, chè non è poesia dove non è coscienza, la fede in un mondo
religioso, politico, morale, sociale. Perciò base del poeta è l'uomo.
La
poesia riacquista la serietà di un contenuto vivente nella coscienza. E la
forma si rimpolpa, si realizza, diviene essa medesima l'idea, armonia tra
l'idea e l'espressione.
La
base del contenuto è morale e politica, è la libertà, l'uguaglianza, la patria,
la dignità, cioè la corrispondenza tra il pensiero e l'azione. È il vecchio
programma di Machiavelli, divenuto europeo e tornato in Italia. La base della
forma è la verità dell'espressione, la sua comunione diretta col contenuto,
risecata ogni mediazione. È la forma di Dante e di Machiavelli riverginata con
esso il contenuto.Il contenuto è lirico e satirico. È l'uomo nuovo in vecchia
società.
L'uomo
nuovo non è un concetto o un tipo d'immaginazione; ha tutte le condizioni della
realtà, è esso medesimo il poeta. Protagonista di questo mondo lirico è
Giuseppe Parini, che canta se stesso, esprime le sue impressioni, si effonde,
così com'è, nella ingenuità della sua natura. Spariscono i temi astratti e
fattizi di religione, di amore, di moralità. Tutto è contemporaneo e vivo e
concreto, prodotto in mezzo al movimento de' fatti e delle impressioni. Il
poeta, ritirato nella pace della natura e nella calma della mente, sta al di sopra
del suo mondo, e sente le sue agitazioni, i suoi piaceri e le sue punture, ma
non sì che giungano a turbare l'eguaglianza e la serenità del suo animo. Ci è
in questo uomo nuovo una vena d'idillio e di filosofia, come di uomo solitario,
più spettatore che attore, avvezzo a vivere tranquillo con sè, a conservare
l'occhio puro e spassionato nel giudizio delle cose. Ci è nel poeta un po' del
pedagogo, ammaestrando, librando con giusta misura i fatti umani. Ma il
pedagogo è trasfigurato nel poeta, e vi perde ogni lato pedantesco e
pretensioso. Il suo amore per la vita campestre non è misantropia, anzi è
accompagnato con la più tenera sollecitudine per l'umanità. La sua rigidità pel
decoro e l'onestà femminile è raddolcita da un vivo sentimento della bellezza.
La sua dignità è scevra di orgoglio, la sua severità è amabile, la sua virtù è
pudica, piena di grazia e di modestia. Ne' suoi concetti e ne' suoi sentimenti
ci è sempre il limite, un'armonica temperanza, dov'è la sua perfezione
intellettuale e morale di uomo e di poeta. Quando leggi la Vita rustica,
la Salubrità dell'aria, il Pericolo, la Musa, la Caduta
e la sua Nice e la sua Silvia, provi una soddisfazione più che
estetica, senti in te appagate tutte le tue facoltà.
La
vecchia società è colta non nelle sue generalità rettoriche, come nel Rosa, nel
Menzini e in altri satirici, ma nella forma sostanziale della sua vecchiezza,
che è la pompa delle forme nella insipidezza del contenuto. Quelle forme così
magnifiche, alle quali si dà una importanza così capitale, sono un'ironia,
messe allato al contenuto. La Batracomiomachia è l'ironia dell'lliade,
la Moscheide è l'ironia dell'Orlando: sono forme epiche applicate a un
mondo plebeo. L'ironia è la forma delle vecchie società, non ancora conscie
della loro dissoluzione. È il vecchio che vuol farla da giovine, con tanta più
ostentazione nelle apparenze quanto più meschina è la sostanza. Questo è il
concetto fondamentale del Giorno, fondato su di un'ironia che è nelle
cose stesse, perciò profonda e trista. Parini non vi aggiunge di suo che il
rilievo, una solennità di esposizione che fa più vivo il contrasto. E perchè
sente in quelle mentite forme negato se stesso, la sua semplicità, la sua
serietà, il suo senso morale, non ha forza di riderne e non gli esce dalla
penna uno scherzo o un capriccio. Ride di mala grazia, e sotto ci senti il
disgusto e il disprezzo. L'Italia avea riso abbastanza, e rideva ancora ne'
versi di Passeroni e di Goldoni. Qui il riso è alla superficie, sotto alla
quale giace repressa e contenuta l'indignazione dell'uomo offeso. La sua
interna misura e pacatezza, la sua mente rettrice gli dà la forza della
repressione, sì che il sentimento di rado erompe sulla superficie, e l'ironia
di rado piglia la forma del sarcasmo. L'ironia de' nostri padri del
Risorgimento era allegra e scettica, come nel Boccaccio e nell'Ariosto, perchè
era rivendicazione intellettuale dirimpetto alle assurdità teologiche e
feudali, rivendicazione accompagnata con la dissoluzione morale: era l'ironia
della scienza a spese dell'ignoranza, e l'ignoranza fa ridere. Ma qui l'ironia
è il risveglio della coscienza dirimpetto a una società destituita di ogni vita
interiore; lì era l'ironia del buon senso, qui è l'ironia del senso morale.
Senti che rinasce l'uomo, e con esso la vita interiore.
La
parola di quella vecchia società era a sua immagine, cascante, leziosa, vuota
sonorità, travolta e seppellita sotto la musica. Qui risuscita la parola. E
vien fuori faticosa, martellata, ardua, pregna di sensi e di sottintesi. La
parola scopre l'ironia, perchè è in antitesi con quella società molle ed
evirata che il poeta finge di celebrare.
Togliete
ora l'ironia, fate salire sulla superficie in modo scoperto e provocante l'ira,
il disgusto, il disprezzo, tutti quei sentimenti che Parini con tanto sforzo
dissimula sotto il suo riso, e avete Vittorio Alfieri. È l'uomo nuovo che si
pone in atto di sfida in mezzo a' contemporanei, statua gigantesca e solitaria
col dito minaccioso.
Alfieri
si rivelò tardi a se stesso, e per proprio impulso, e in opposizione alla
società. Fino a ventisei anni avea menata la vita solita di un signorotto
italiano, tra dissipazioni, viaggi, amori, cavalli, che non gli empivano però
la vita. De' primi studi non gli era rimasto che l'odio allo studio. Ricco, nobile,
non ambiva nè onori, nè ricchezze, nè uffici: viveva senz'altro scopo che di
vivere. Vita vuota de' ricchi signori, che se ne contentano, e a cui guardano
con invidia i men favoriti dalla fortuna. Ma non se ne contentava Alfieri, e
spesso era tristo, e fra tanto inutile affaccendarsi sentiva la noia. Era
malattia italiana, propria di tutt'i popoli in decadenza, l'ozio interno, la
vacuità di ogni mondo interiore. Alfieri aveva il sentimento di quel vuoto, e
quella sua vita puramente esteriore era per lui noia mal dissimulata sotto il
mondano rumore. Coloro che questa vita esteriore debbono conquistarsela col
sudore della fronte possono nel loro travaglio trovare un certo lenitivo di
quella noia. Ma natura e fortuna aveano data ad Alfieri tutta fatta quella
vita; i suoi padri aveano lavorato per lui. Nato non a lavorare, ma a godere,
le sue forze interne poderosissime, soprattutto quella tenace energia di
carattere, atta a vincere ogni resistenza, rimanevano inoperose, perchè tutto
piegava innanzi a lui, tutto gli era facile. Corse parecchie volte tutta
Europa; e non vi trovò altro piacere che il correre, simulacro dell'interna
irrequietezza non soddisfatta. Questo è ciò che dicesi “dissipazione”, una vita
senza scopo e a caso, dove fra tanto moto rimangono immobili le due forze
proprie dell'uomo, il pensiero e l'affetto. Se Alfieri fosse stato un cavallo,
quel suo correre l'avrebbe contentato, come contenta moltissimi, che pur si
chiamano uomini. Ma si sentiva uomo, e stava tristo e annoiato, e non sapeva perchè.
Il perchè era questo, che, nato gagliardissimo di pensiero e di affetto, non
aveva trovato ancora un centro, intorno a cui raccogliere ed esercitare quelle
sue facoltà. Una passione si piglia facilmente in quell'ozio, e Alfieri ebbe i
suoi amori e i suoi disinganni, e gli parve allora di vivere. Ne' momenti più
feroci della noia si gittò a' libri. Di latino non intendeva più nulla, e
pochissimo d'italiano; parlava francese da dieci anni. Leggendo per passatempo,
tutto natura e niente educazione, lo stile classico lo annoiava; Racine lo
faceva dormire, e gittò per la finestra un Galateo del Casa, intoppato
in quel primo “conciossiachè”. Si die' a' romanzi come i giovanetti alle Mille
e una notte. Tutto il suo piacere era di seguire il racconto e vederne la
fine, e gli dispiacque l'Ariosto per le sue interruzioni, e lesse Metastasio
saltando le ariette, e non potè leggere l'Henriade e l'Emilio per
quel rettoricume, che gli toglieva la vista del racconto. Aspettando i cavalli
in Savona, gli capitò un Plutarco. Qui sentì qualche cosa di più che il
racconto, gli battè il cuore, quelle immagini colossali non lo sbigottivano,
anzi suscitarono la sua emulazione: - Non potrei essere anch'io come loro? - E
il potere c'era, perchè le sue forze non erano da meno. Una notte, assistendo
l'amata nella sua infermità, sceneggiò una tragedia, la quale rappresentata poi
a Torino ebbe grandi applausi. - Perchè non potrei io essere scrittore tragico?
- Venutogli questo pensiero, ci si fermò. Secondo le opinioni di quel tempo, l'Italia
era innanzi a tutte le nazioni in ogni genere di scrivere; ma le mancava la
tragedia. Quest'era l'idea fissa di Gravina, e l'ambizione di Metastasio; a
questo lavorarono il Trissino, il Tasso, il Maffei. Ma la tragedia non c'era
ancora, per sentenza di tutti. E dare all'Italia la tragedia gli pareva il più
alto scopo a cui un italiano potesse tendere. Da' suoi viaggi avea portata
ingrandita l'immagine dell'Italia, non trovato nulla comparabile a Roma, a
Firenze, a Venezia, a Genova. Aggiungi la maestà dell'antica Roma, le memorie
di una grandezza non superata mai. E quantunque l'Italia a quei dì fosse tanto
degenere, avea fermissima fede in una Italia futura, che vagheggiava nel
pensiero simile all'antica. Di questa nuova Italia fondamento era il rifarvi la
pianta “uomo”, e gli parea che la tragedia, rappresentazione dell'eroico, fosse
acconcia a ritrarvi questo nuovo uomo, che gli ferveva nella mente, ed era lui
stesso. Questi concetti erano del secolo, penetrati qua e là nelle menti, e da
lui bevuti insieme con gli altri. Ma divennero in lui passione, scopo unico e
ultimo della vita, e vi pose tutte le sue forze. Volle essere redentore
d'Italia, il grande precursore di una nuova era, e, non potendo con l'opera,
co' versi. Così trovò alla vita un degno scopo, che gli prometteva gloria, lo
ingrandiva nella stima degli uomini e di se stesso. Lo scopo era
difficilissimo, perchè tutto gli mancava ad ottenerlo. E la difficoltà gli fu
sprone, e glielo rese più caro. Vi spiegò quella sua energia indomabile, esercitata
fino allora ne' cavalli e ne' viaggi. Per “disfrancesizzarsi” e “intoscanirsi”
visse il più in Toscana, ristudiò il latino, si pose in capo i trecentisti,
contento di “spensare per pensare”, fece suoi compagni indivisibili Dante,
Petrarca, Ariosto e Tasso. Copiò, postillò, tradusse, “s'inabissò nel vortice
grammaticale”, e, non guasto dalla scuola, e tutto lui, si fece uno stile suo.
Scrisse come viaggiava, correndo e in linea retta: stava al principio e l'animo
era già alla fine, divorando tutto lo spazio di mezzo. La parola gli sembra non
via, ma impedimento alla corsa, e sopprime, scorcia, traspone, abbrevia; una
parola di più gli è una scottatura. Fugge le frasi, le circonlocuzioni, le
descrizioni, gli ornamenti, i trilli e le cantilene: fa antitesi a Metastasio.
Tratta la parola come non fosse suono, e si diletta di lacerare i ben costrutti
orecchi italiani, e a quelli che strillano dà la baia:
Mi
trovan duro?
Anch'io
lo so:
pensar
li fo.
Taccia
ho d'oscuro?
Mi
schiarirà poi libertà.
All'Italia del Frugoni e del
Metastasio dice ironicamente:
Io
canterò d'amor soavemente:
molle
udirete il flauticello mio
l'aure
agitare armoniosamente
per
lusingare il vostro eterno oblio.
Ciò che parevano i suoi versi e ciò
che ne pare a lui, si vede da questo epigramma contro i pedanti:
Vi
paion strani?
“Saran
toscani.”
Son
duri duri,
disaccentati...
“Non
son cantati.”
Stentati,
oscuri,
irti,
intralciati.. .
“Saran
pensati.”
Pure Alfieri, discepolo di sè,
non era ben sicuro del fatto suo, e consultò Cesarotti, Parini, tutti quelli
che andavano per la maggiore. Voleva un modello di verso tragico, e un barlume
ne vedeva nell'Ossian. Ma voleva l'impossibile, e in ultimo prese il
miglior partito, fece da sè. “Osa, contendi”, gli diceva in un bel sonetto
Parini. E lui a sudare intorno a' suoi versi, tormentandoli in mille guise; ma
“Gira, volta, ei son francesi”
Gira, volta,
ei son versi di Alfieri, energicamente individuali, “carme più aguzzo assai,
che tondo”. Questo ei chiamava “stile tragico”. La forma letteraria era vuota e
sonora cantilena. Lui, vi oppone questo stile, “pensato e non cantato”,
energico sino alla durezza e pieno di senso. E non gli venne già da un
preconcetto filosofico intorno all'arte, gli venne dalla sua natura: perciò in
quelle sue asprezze è vivo e originale.
I
critici biasimavano lo stile e lodavano tutto il resto, quasi lo stile fosse un
fenomeno arbitrario e isolato. Non vedevano l'intima connessione che è tra
quello stile e tutto il congegno della composizione. Perchè Alfieri, come
sopprime periodi, ornamenti e frasi, con lo stesso impeto sopprime confidenti,
personaggi, episodi. Nasce una forma nervosa, tesa, spesso convulsa, che
risponde al suo modo di concepire e di sentire: perciò non pedantesca, anzi
viva, interessante, sincera e calda espressione dell'anima. Se vogliamo
conoscere il segreto di questa forma, vediamo non com'è fatta, ma come è nata.
Alfieri
cercò la tragedia non nel mondo vivo, ma nelle tragedie apparse. Trovò
definizioni e regole, e le accettò per buone senza esame. Questo fu non il suo
problema, ma il dato o l'antecedente. Poste quelle definizioni e quelle regole,
il suo problema fu di recare a perfezione la tragedia. Conosceva poco la
tragedia greca; avea letto Seneca; gli erano familiari le tragedie italiane e
francesi. Ma di queste appunto facea poca stima, come prolisse e rettoriche, e
confidava di far meglio. Posto che la tragedia sia rappresentazione
dell'eroico, la concepì come un conflitto di forze individuali, dove l'eroe
soggiace alla forza maggiore. In Metastasio la forza maggiore è essa eroica,
essa clemente e benefattrice: il mondo prodotto dalla sua immaginazione
musicale è un riso, un canto, un inno, il mondo della misura e dell'armonia glorificato
e divinizzato. Qui la forza maggiore è la tirannide, o l'oppressione, e la sua
vittima è l'eroismo o la libertà; è il mondo della violenza e della barbarie
condannato e marchiato a fuoco. Metastasio compiva un ciclo, Alfieri ne
cominciava un altro. I contemporanei disputavano sullo stile dell'uno e
dell'altro, e volevano somiglianza di stile in tanta opposizione di concetto.
Ponendo
la tragedia come conflitto di forze individuali, Alfieri rimaneva nel quadro
delle tragedie francesi. Il secolo decimosettimo e decimottavo, come reazione
al soprannaturale, cercavano di spiegare la storia con mezzi umani e naturali,
e rappresentavano come azione de' caratteri e delle passioni individuali quello
che gli antichi chiamavano il “destino”, e Dante con tutto il mondo cristiano
chiamava “ordine provvidenziale”. Un concetto scientifico della storia era nato
in Italia, dove il destino e l'“ordine provvidenziale” si era trasformato nella
“natura delle cose” di Machiavelli, nello “spirito” di Bruno, nella “ragione”
di Campanella, nel “fato” di Vico. Ma il concetto era rimasto nelle alte sfere
dell'intelligenza, e appena avvertito, e fuori dell'arte. Shakespeare con la
profonda genialità del suo spirito avea colto queste forze collettive e
superiori che sono il fato della storia. Ma lo spirito di Alfieri era
superficiale, più operativo che meditativo, più inteso alla rapidità e al
calore del racconto, che a scrutarne le profondità. Rimase dunque ne' cancelli
del secolo decimottavo. La tragedia fu per lui lotta d'individui, e il fato
storico fu la forza maggiore o la tirannide, e la chiave della storia fu il
tiranno. Più tardi, ispirato dalla Bibbia, gli lampeggiò innanzi il Saul e
intravvide un ordine di cose superiore. Ma il suo Dio inesorabile ci sta per
figura rettorica ed esiste più nell'opinione e nelle parole degli attori, che
nel nesso degli avvenimenti, tutti spiegati naturalmente. E come un tiranno ci
ha da essere, Dio è il tiranno, e tutto l'interesse è per Saul, i cui moti sono
inconsci, e determinati più dalla malizia di Abner, che da malizia sua propria.
Il suo Saul è la Bibbia al rovescio, la riabilitazione di Saul, e i
sacerdoti tinti di colore oscuro.
Or
questo concetto era la negazione dell'Arcadia, anzi la sua aperta ed esagerata
contraddizione. Al mondo di Tasso, di Guarini, di Marino, di Metastasio
succedeva la tragedia, non accademica e letteraria, com'erano le tragedie
francesi e italiane, ma politica e sociale, fondata su di una idea maneggiata
allora in tutti gli aspetti dagli scrittori; ed era questa, che la società
apparteneva al più forte, e che giustizia, virtù, verità, libertà giacevano
sotto l'oppressione di un doppio potere assoluto e irresponsabile, la tirannide
regia e la tirannide papale, il trono e l'altare. Più tardi Alfieri vi aggiunse
la tirannide popolare. Or questa era tragedia viva, la tragedia del secolo
sotto nomi antichi, la lotta di un pensiero adulto e civile contro un assetto
sociale ancor barbaro, fondato sulla forza. Ma è tragedia di puro pensiero,
rimasta in regioni meramente speculative, non divenuta storia. Anzi la società
tra quelle agitazioni speculative era ancora idillica e rettorica, confidente
in un progresso pacifico, concordi principi e popoli. A quello stato sociale
corrispondea la tragedia filosofica e accademica, com'era quella di Voltaire.
Alfieri vi aggiunse di suo se stesso. La tragedia è lo sfogo lirico de' suoi
furori, de' suoi odii, della tempesta che gli ruggìa dentro. In mezzo alla
società imparruccata e incipriata, che gioiosamente declamava tirannide e
libertà, egli prende sul serio la vita e non si rassegna a vivere senza scopo,
prende sul serio la morale, e vi conforma rigidamente i suoi atti, prende sul
serio la tirannide, e freme e si dibatte sotto alle sue strette, imprecando e
minacciando, prende sul serio l'arte e vagheggia la perfezione. Le sue idee
sono i suoi sentimenti; i suoi princìpi sono le sue azioni. L'uomo nuovo che
sente in sè ha la coscienza orgogliosa della sua solitaria grandezza, e della
solitudine si fa piedistallo, e vi si drizza sopra col petto e colla fronte
come statua ideale del futuro italiano, come di “liber uomo esempio”.
Giorno
verrà, tornerà il giorno, in cui
redivivi
omai gl'Itali staranno
in
campo audaci...
Al
forte fianco sproni ardenti dui,
lor
virtù prisca ed i miei carmi, avranno;
Onde
in membrar ch'essi già fur, ch'io fui,
d
'irresistibil fiamma avvamperanno.
Gli
odo già dirmi: - O vate nostro, in pravi
secoli
nato, eppur create hai queste
sublimi
età che profetando andavi.
Ci è dunque nella tragedia
alfieriana uno spirito di vita, che scolpisce le situazioni, infoca i
sentimenti, fonde le idee, empie del suo calore tutto il mondo circostante. Ci
è lì dentro l'uomo nuovo, solitario, sdegnoso verso i contemporanei, e che pure
s'impone a' contemporanei, sveglia l'attenzione e la simpatia. Gli è che, se
quest'uomo nuovo non era ancora entrato ne' costumi e ne' caratteri, informava
di sè tutta la cultura, era vivo negl'intelletti: una parentela c'era fra lo
spirito di Alfieri e lo spirito del secolo. Perchè dunque Alfieri si sente
solo? Perchè guarda con occhio di nemico il suo secolo? Gli è per questo, che
il nuovo uomo era in lui un modello puro, concretato nella sua potente
individualità, divenuto non solo la sua idea, ma la sua anima, tutta la vita, e
che lo vede nella pratica manomesso e contraddetto da quelli stessi, che pur
con le parole lo glorificavano. Perciò sente uno sdegno più vivo forse verso i
democratici “facitori di libertà”, che verso re e papi e preti, e fugge la loro
compagnia, “vergine di lingua, di orecchi e di occhi persino”:
Non
l'opra lor, ma il dir consuona al mio.
E muore tristo, maledicendo il
secolo, e confidando nella posterità:
Ma
non inulta l'ombra mia, nè muta
starassi,
no: fia de' tiranni scempio
la
sempre viva mia voce temuta.
Nè
lunge molto al mio cessar, d'ogni empio
veggio
la vil possanza al suol caduta,
me
forse altrui di liber uomo esempio.
Tutta la sua compassione è per
Luigi XVI, e tutta la sua indegnazione è per l'Assemblea nazionale, per quei
“profumati barbari”, balbettanti “una qualche non lor libera idea”, per quei
ribaldi fortunati, contro i quali gitta l'ultimo strale nel Misogallo:
Tiene
'l Ciel dai ribaldi, Alfier dai buoni.
Eccolo dunque quest'Alfieri
solitario, che serba in sè inviolato e indiviso il suo modello, e se il cielo
gli dà torto, lui dà torto al cielo. Taciturno e malinconico per natura,
risospinto dalla società ancora più in se stesso, solo col suo modello, rimane
nel mondo vago e illimitato de' sentimenti e de' fantasmi, dove non ci è di
concreto e di compiuto che il suo individuo. Perciò i suoi fantasmi sono più
simili a concetti logici che a cose effettuali, più a generi e specie che ad
individui. Non sono astrazioni, come le chiamano. Potrebbero vuote astrazioni
destare un interesse così vivo? Anzi sono fantasmi appassionati, ribollenti,
sanguigni: non ci è vacuità, ci è congestione di un sangue non ingenito e
proprio, ma trasfuso e comunicato. Senti nella tragedia la solitudine
dell'uomo, che armeggia con se stesso e produce la sua propria sostanza. Non
ama ciò che gli è estrinseco, la natura, la località, la personalità, e non
l'intende e non la tollera, e la stupra, lasciandovi le sue orme impresse. Il
calore di una potentissima individualità non gli basta a infonder la vita, e
resta impotente alla generazione, perchè gli manca l'amore, quel sentirsi due e
cercar l'altro e obbliarsi in quello. Impotenza per soverchio di attività, che
gli toglie la facoltà di ricevere le impressioni e riprodurle. L'occhio torbido
della passione non guarda intorno, non si assimila gli oggetti esterni. Alfieri
è tutto passione, diresti quasi che voglia con un solo impeto mandar fuori il
vulcano che gli arde nel petto, non ha la pazienza e il riposo dell'artista,
quel divino riso, col quale segue in tutti i suoi movimenti la sua creatura.
Quel suo furore, del quale si vanta, è il furore di Oreste, che gl'intorbida
l'occhio, sì che investendo il drudo uccide la madre; e gli fa scambiare i
colori, abbozzare le immagini, appuntare i sentimenti, dare al tutto un aspetto
teso e nervoso. Indi quella sceneggiatura e quello stile, quel sopprimere
gradazioni, chiaroscuri, quel soverchio rilievo, quel dir molto in poco, come
si vanta, quella mutilazione e congestione, quell'abbreviazione tumultuosa
della vita, quel fondo oscuro e incolore della natura, quelle situazioni
strozzate, que' personaggi in abbozzo, che più fremono, e meno li comprendi. Di
che aveva Alfieri un sentore confuso, quando scriveva:
Nulla
di quanto l'uom scienza chiama
per
gli orecchi mai giunto erami al core:
ira,
vendetta, libertade, amore
sonava
io sol, come chi freme ed ama.
E così è. La sua tragedia freme
ira, vendetta, libertà, amore. Ma non basta fremere, o sonare, e l'attica dea,
che gli dice: - O dormi o crea -, ha torto: non chi dorme, ma chi studia e
medita, è buono a creare. Non vale cuore pieno, e “mente ignuda”. Manca a lui
la scienza della vita, quello sguardo pacato e profondo, che t'inizia nelle sue
ombre e ne' suoi misteri, e te ne porge tutte le armonie. Perciò dalla
concitata immaginazione escon fuori punte arditissime, un certo addensamento di
cose e d'immagini, che par folgore, ma in cielo scarno e povero, com'è il
“Pace” di Nerone, il celebre - Scegliesti? - Ho scelto -, e il “Vivi, Emon, tel
comando”, e il “Fui padre”, e il “Ribelli tutti. - E ubbidiran pur tutti”: uno
stile a fazione di Tacito e di Machiavelli, con una ostentazione che scopre
l'artificio, una vita a lampi e salti, più dialogo che azione, e sotto forme
brevi spesso prolissa e stagnante. Si succedono sentimenti crudi, aguzzi, senza
riposi o passaggi, e accumulati con una tensione intellettuale di poca durata e
che finisce nello scarno e nell'insipido. E si comprende perchè fra tanto
calore la composizione riesce nel suo insieme fredda e monotona, perchè in
quell'esaltazione fittizia del discorso ti senti nel vuoto, e perchè fra tanti
motti e sentenze memorabili non ricordi un solo personaggio, uomo o donna che
sia. Non uno è rimasto vivo. E il difetto è maggiore negli eroi, soprattutto
ne' rari casi che la forza è con loro e sono essi i vincitori. Le loro qualità
eroiche, religione, patria, libertà, amore, si esalano in frasi generiche, e
non puoi mai coglierli nella loro intimità e nella loro attività. Ci è il
patriottismo, e non la patria; ci è l'amore, e non l'amante; ci è la libertà, e
manca l'uomo: sembrano personificazioni più che persone ne' contrasti, nelle
gradazioni, nella ricchezza della loro natura. Tali sono Carlo e Isabella,
Davide e Gionata, Icilio e Virginio, e i Bruti, gli Agidi, i Timoleoni. Manca
alla virtù ogni semplicità e modestia, e nella concitata espressione senti la
povertà del contenuto. Maggior vita è ne' personaggi tirannici o colpevoli,
dove Alfieri ha condensata tutta la sua bile, e l'odio lo rende profondo. Uno
de' personaggi da lui meno stimati e più interessanti per ricchezza e
profondità di esecuzione è il suo Egisto nell'Agamennone; e la scena
dove l'iniquo con tanta abilità fa sorgere nella mente di Clitennestra l'idea
dell'assassinio, è degna di Shakespeare.
Alfieri
è l'uomo nuovo in veste classica. Il patriottismo, la libertà, la dignità,
l'inflessibilità, la morale, la coscienza del dritto, il sentimento del dovere,
tutto questo mondo interiore oscurato nella vita e nell'arte italiana gli viene
non da una viva coscienza del mondo moderno, ma dallo studio dell'antico,
congiunto col suo ferreo carattere personale. La sua Italia futura è l'antica
Italia, nella sua potenza e nella sua gloria, o, com'egli dice, “il 'sarà' è
l''è stato'”. Risvegliare negl'italiani la “virtù prisca”, rendere i suoi carmi
“sproni acuti” alle nuove generazioni, sì che ritornino degne di Roma, è il suo
motivo lirico, che ha comune con Dante e col Petrarca. L'alto motivo che ispirò
il patriottismo de' due antichi toscani, divenuto a poco a poco un vecchiume
rettorico e messo in musica da Metastasio, ripiglia la sua serietà nell'uomo
nuovo che si andava formando in Italia, e di cui Alfieri era l'espressione
esagerata, a proporzioni epiche. Perchè Alfieri, realizzando in sè il tipo di
Machiavelli, si avea formata un'anima politica: la patria era la sua legge, la
nazione il suo dio, la libertà la sua virtù; ed erano idee povere di contenuto,
forme libere e illimitate, colossali come sono tutte le aspirazioni non ancora
determinate e concretate nel loro urto con la vita pratica. Se avesse
rappresentato il cozzo fatalmente tragico delle aspirazioni con la realtà, ne
sarebbe uscito un alto pathos, il vero motivo della tragedia moderna. Ma
un concetto così elevato del mondo era prematuro, e d'accordo col suo secolo
Alfieri non vede di tutta quella realtà che il fenomeno più grossolano, la
forza maggiore o il tiranno; e non lo studia e non lo comprende, ma l'odia,
come la vittima il carnefice; l'odia di quell'odio feroce da giacobino, che non
potendo spiegarsi e assimilarsi l'ostacolo taglia il nodo con la spada. Alfieri
odiava i giacobini; ma egli era un Robespierre poetico, e se i giacobini
avessero lette le sue tragedie, potevano dirgli: - Maestro, da voi abbiamo
imparato l'arte. - L'uomo che glorificava il primo Bruto, uccisore de' figli, e
l'altro Bruto, uccisore di Cesare padre suo, l'uomo che non avea che parole di
dispregio per Carlo primo, vittima de' repubblicani inglesi, non aveva nulla a
dire a coloro che tagliarono la testa al decimosesto Luigi. Ridotte le forze
collettive e sociali a forza e arbitrio di un solo individuo, era naturale che
l'individuo prendesse grandezza epica e colossale sotto il nome di tiranno, e
che l'odio contro di quello fosse proporzionato a quella grandezza. Ma in
questo caso, divenuta la tragedia un gioco di forze individuali, eliminato ogni
elemento collettivo e superiore, essa non può avere per base che la formazione
artistica dell'individuo. Se non che il nostro tragico è più preoccupato delle
idee che mette in bocca a' suoi eroi, che della loro anima e della loro
personalità. Il contenuto politico e morale non è qui semplice stimolo e
occasione alla formazione artistica, ma è la sostanza, e invade e guasta il
lavoro dell'arte. Il qual fenomeno ho già notato come caratteristico della
nuova letteratura. Il contenuto esce dalla sua secolare indifferenza, e si pone
come esteriore e superiore all'arte, maneggiandola quasi suo istrumento, un
mezzo di divulgarlo e infiammarne la coscienza, per modo che i carmi sieno
“sproni acuti”. Il sentimento politico è troppo violento e impedisce l'ingenua
e serena contemplazione. Più è vivo in Alfieri, e meno gli concede il godimento
estetico. Perciò le sue concezioni, i suoi sentimenti, i suoi colori sono crudi
e disarmonici, e per dar troppo al contenuto toglie troppo alla forma. Egli è
la nuova letteratura nella più alta esagerazione delle sue qualità, più simile
a violenta reazione contro il passato, che a quella tranquilla affermazione di
sè, paga di un'ironia senza fiele, così nobile in Parini. Nell'ironia pariniana
senti un nuovo mondo affacciarsi nel sicuro possesso di se stesso. Nel sarcasmo
alfieriano senti il ruggito di non lontane rivoluzioni. Nè ci volea meno che
quella esagerazione e quella violenza per colpire le torpide e vuote
immaginazioni.
Gli
effetti della tragedia alfieriana furono corrispondenti alle sue intenzioni.
Essa infiammò il sentimento politico e patriottico, accelerò la formazione di
una coscienza nazionale, ristabilì la serietà di un mondo interiore nella vita
e nell'arte. I suoi epigrammi, le sue sentenze, i suoi motti, le sue tirate
divennero proverbiali, fecero parte della pubblica educazione. Declamare
tirannide e libertà venne in moda, spasso innocente allora, e più tardi, quando
i tempi ingrossarono, dimostrazione politica piena di allusione a' casi
presenti. I contemporanei, applaudendo in teatro alle sue tirate, non credevano
che quelle massime dovessero impegnar la coscienza, e trovavano lui che ci credeva
selvatico ed eccentrico. Nè si maravigliavano della esagerazione; perchè
l'esagerazione era da un pezzo la malattia dello spirito italiano, smarrito il
senso della realtà e della misura. Ma nelle nuove generazioni, travagliate da'
disinganni e impedite nella loro espansione, quegl'ideali tragici così vaghi e
insieme così appassionati rispondevano allo stato della coscienza, e quei versi
aguzzi e vibrati come un pugnale, quei motti condensati come un catechismo,
ebbero non poca parte a formare la mente ed il carattere. La sua fama andò
crescendo con la sua influenza, e ben presto parve all'Italia di avere infine
il suo gran tragico pari a' sommi. Ci era la tragedia, ma non c'era ancora il
verso tragico, a sentenza de' letterati. Chiedevano qualche cosa di mezzo tra
la durezza di Alfieri e la cantilena di Metastasio. E quando fu rappresentato
l'Aristodemo, il problema parve sciolto. Vedevano in quella tragedia la
fierezza dantesca e la dolcezza virgiliana, “di Dante il core e del suo duca il
canto”. E in verità di Dante e di Virgilio qualche cosa era in Vincenzo Monti.
Avea Dante nell'immaginazione e Virgilio nell'orecchio.
L'abate
Monti, nato fra tanto fermento d'idee, ne ricevè l'impressione, come tutti gli
uomini colti. Ma furono in lui più il portato della moda, che il frutto di
ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non esser liberale a quel
tempo, quando anche i retrivi gridavano “libertà”, bene inteso la “vera
libertà”, come la chiamavano? E in nome della libertà glorificò tutt'i governi.
Quando era moda innocente declamare contro il tiranno, gittò sul teatro l'Aristodemo,
che fece furore sotto gli occhi del papa. Quando la rivoluzione francese
s'insanguinò, in nome della libertà combattè la licenza, e scrisse la Basvilliana.
Ma il canto gli fu troncato nella gola dalle vittorie di Napoleone, e allora in
nome della libertà cantò Napoleone, e in nome anche della libertà cantò poi il
governo austriaco. Le massime eran sempre quelle, applicate a tutt'i casi dal
duttile ingegno. Il poeta faceva quello che i diplomatici. Erano le idee del
tempo e si torcevano a tutti gli avvenimenti. I suoi versi suonano sempre
“libertà”, “giustizia”, “patria”, “virtù”, “Italia”. E non è tutto ipocrisia.
Dotato di una ricca immaginazione, ivi le idee pigliano calore e forma, sì che
facciano illusione a lui stesso e simulino realtà. Non aveva l'indipendenza
sociale di Alfieri, e non la virile moralità di Parini: era un buon uomo che
avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni, e
dovendo pur scegliere, si tenea stretto alla maggioranza, e non gli piacea di
fare il martire. Fu dunque il segretario dell'opinione dominante, il poeta del
buon successo. Benefico, tollerante, sincero, buono amico, cortigiano più per
bisogno e per fiacchezza d'animo, che per malignità o perversità d'indole, se
si fosse ritratto nella verità della sua natura, potea da lui uscire un poeta.
Orazio è interessante perchè si dipinge qual è, scettico, cinico, poltrone,
patriota senza pericolo, epicureo. Monti raffredda perchè sotto la magnificenza
di Achille senti la meschinità di Tersite, e più alza la voce, e più piglia
aria dantesca, più ti lascia freddo. Ci è quel falso eroico, tutto di frase e
d'immagine, qualità tradizionale della letteratura, e caro ad un popolo fiacco
e immaginoso, che aveva grandi le idee e piccolo il carattere. Monti era la sua
personificazione, e nessuno fu più applaudito. La natura gli aveva largito le
più alte qualità dell'artista, forza, grazia, affetto, armonia, facilità e brio
di produzione. Aggiungi la più consumata abilità tecnica, un'assoluta
padronanza della lingua e dell'elocuzione poetica. Ma erano forze vuote,
macchine potenti prive d'impulso. Mancava la serietà di un contenuto
profondamente meditato e sentito, mancava il carattere, che è l'impulso morale.
Pure i suoi lavori, massime l'Iliade, saranno sempre utili a studiarvi i
misteri dell'arte e le finezze dell'elocuzione. E la conclusione dello studio
sarà, che non basta l'artista quando manchi il poeta.
Monti,
come Metastasio, fu divinizzato in vita. Ebbe onori, titoli, forza, molto
seguito. Un popolo così artistico, come l'italiano, ammirava quel suo magistero
a freddo, quella facilità e quella felicità di armonie. Dopo la sua morte ebbe
gli elogi di Alessandro Manzoni e di Pietro Giordani. E l'esagerazione delle
accuse rese cari quegli elogi, quasi pio ufficio alla memoria di un uomo, in
cui era più da compatire che da biasimare.
Fondata
la repubblica cisalpina, in quel primo fervore di libertà Monti fu censurato
per la sua Basvilliana con lo stesso furore che l'avevano applaudito.Un
giovane scrisse la sua apologia. L'atto ardito piacque. E il giovane entrava
nella vita tra la stima e la benevolenza pubblica. Parlo di Ugo Foscolo,
formatosi alla scuola di Plutarco, di Dante e di Alfieri.
L'Italia,
secondo il solito, se la contendevano francesi e tedeschi. Ritornava la storia,
ma con altri impulsi. Non si trattava più di dritti territoriali. La sete del
dominio e dell'influenza era dissimulata da motivi più nobili. Venivano in nome
delle idee moderne. Gli uni gridavano “libertà e indipendenza nazionale”:
dietro alle loro baionette ci era Voltaire e Rousseau. Gli altri, proclamatisi
prima difensori del papa e ristoratori del vecchio, finivano promettitori di
vera libertà e di vera indipendenza. Le idee marciavano appresso a' soldati e
penetravano ne' più umili strati della società. Propaganda a suon di cannoni,
che compì in pochi anni quello che avrebbe chiesto un secolo. Il popolo
italiano ne fu agitato ne' suoi più intimi recessi: sorsero nuovi interessi,
nuovi bisogni, altri costumi. E quando dopo il 1815 parve tutto ritornato nel
primo assetto, sotto a quella vecchia superficie fermentava un popolo
profondamente trasformato da uno spirito nuovo, che ebbe, come il vulcano, le sue
periodiche eruzioni, finchè non fu soddisfatto.
Quei
grandi avvenimenti colsero l'Italia immatura e impreparata. Non ancora vi si
era formato uno spirito nazionale, non aveva ancora una nuova personalità, un
consapevole possesso di se stessa. Il sole irradiava appena gli alti monti.
Nella stessa borghesia, ch'era la classe colta, trovavi una confusione d'idee
vecchie e nuove, niente di chiaro e ben definito, audacie ed utopie mescolate
con pregiudizi e barbarie. Non erano sorti avvenimenti atti a stimolare le
passioni, a formare i caratteri. Privi d'iniziativa propria, aspettavano prima
tutto da' principi, poi tutto da' forestieri. Fatti liberi e repubblicani senza
merito loro, rimasero al sèguito de' loro liberatori, come clientela messa lì
per batter le mani e far la corte al padrone magnanimo. E quando, passata la
luna di miele, il padrone ebbe i suoi capricci e prese aria di conquistatore e
d'invasore, gittarono le alte grida, e cominciò il disinganno.
I
centri più attivi di questi avvenimenti furono Napoli e Milano, colà dove le
idee nuove si erano mostrate più vive. Napoli, fatta repubblica e abbandonata
poco poi a se stessa, ebbe in pochi mesi la sua epopea. Felici voi, Pagano,
Cirillo, Conforti, Manthoné, cui il patibolo cinse d'immortale aureola! La loro
morte valse più che i libri, e lasciò nel regno memorie e desidèri non potuti
più sradicare. Sfuggirono alla strage alcuni patrioti, che ripararono a Milano,
e tra gli altri il Cuoco, che narrò gli errori e le glorie della breve
repubblica con una sagacia aguzzata dall'esperienza politica. Milano divenne il
convegno de' più illustri patrioti. Metastasio e Goldoni, Filangieri e Beccaria
erano morti da pochi anni. Bettinelli, il Nestore, sopravviveva a se stesso.
Alfieri, che ne' primi entusiasmi avea cantata la liberazione dell'America e la
presa della Bastiglia, vedute le esorbitanze della rivoluzione, sdegnoso e
vendicativo sfogava nel Misogallo, nelle Satire l'acre umore, e
contraddetto dagli avvenimenti, si seppelliva, come Parini, nel mondo antico, e
studiando il greco, finiva la vita nel riso sarcastico di commedie triste.
Cesarotti, addormentato sugli allori, recitava dalla cattedra lodi ufficiali e
scriveva in verso panegirici insipidi. Pietro Verri, salito in ufficio,
maturava con poca speranza progetti e riforme. La vecchia generazione se ne
andava al suono dei poemi lirici di Vincenzo Monti, professore, cavaliere,
poeta di corte. I repubblicani a Napoli e a Milano venivano gallonati nelle
anticamere regie. E non si sentì più una voce fiera, che ricordasse i dolori e
gli sdegni e le vergogne fra tanta pompa di feste e tanto strepito di armi.
Comparve
Iacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno, uscito dal fondo della
laguna veneta, come funebre preludio di più vasta tragedia. Il giovane autore
aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato al lirismo di una insperata
libertà. Ma quasi nel tempo stesso lui cantava l'eroe liberatore di Venezia, e
l'eroe mutatosi in traditore vendeva Venezia all'Austria. Da un dì all'altro
Ugo Foscolo si trovò senza patria, senza famiglia, senza le sue illusioni,
ramingo. Sfogò il pieno dell'anima nel suo Iacopo Ortis. La sostanza del
libro è il grido di Bruto: “O virtù, tu non sei che un nome vano”. Le sue
illusioni, come foglie di autunno, cadono ad una ad una, e la loro morte è la
sua morte, è il suicidio. A breve distanza hai l'ideale illimitato di Alfieri
con tanta fede, e l'ideale morto di Foscolo con tanta disperazione. Siamo
ancora nella gioventù, non ci è il limite. Illimitate le speranze, illimitate
le disperazioni. Patria, libertà, Italia, virtù, giustizia, gloria, scienza,
amore, tutto questo mondo interiore dopo sì lunga e dolorosa gestazione appena
è fiorito, e già appassisce. La verità è illusione, il progresso è menzogna. Al
primo riso della fortuna ci era la follia delle speranze, al primo disinganno
ci è la follia delle disperazioni. Questo subitaneo trapasso di sentimenti
illimitati al primo urto della realtà rivela quella agitazione d'idee astratte
ch'era in Italia, venuta da' libri e rimasta nel cervello, scompagnata
dall'esperienza, e non giunta ancora a temprare i caratteri. Trovi in questo
Iacopo un sentimento morboso, una esplosione giovanile e superficiale, più che
l'espressione matura di un mondo lungamente covato e meditato, una tendenza più
alla riflessione astratta, che alla formazione artistica, una immaginazione
povera e monotona in tanta esagerazione de' sentimenti.
Il
grido di Iacopo rimase sperduto fra il rumore degli avvenimenti. Sorsero nuove
speranze, si fabbricarono nuove illusioni. Il romanzo, uscito anonimo, mutilato
e interpolato, pura speculazione libraria, destò curiosità, fu il libro delle
donne e de' giovani, che vi pescavano un frasario amoroso. Ma non vi si die'
importanza politica nè letteraria, anzi molti, tratti da somiglianze
superficiali, lo dissero imitazione del Werther. Il fatto è che non
rispondeva allo stato della pubblica opinione distratta da così rapida vicenda
di cose e di uomini, e quelle disperazioni erano contraddette dalle nuove
speranze.
Foscolo
si mescolò alla vita italiana e si sentì fiero della sua nuova patria, della
patria di Dante e di Alfieri. Le necessità della vita lo incalzavano. E ancora
più, uno spirito guerriero che gli ruggìa dentro e non trovava espansione, una
forza inquieta in ozio. Giovane, pieno d'illusioni, appassionato, con tanto
“furore di gloria”, con tanto orgoglio al di dentro, con un grande desiderio di
fare, e di fare grandi cose, lui, educato da Plutarco, stimolato da Alfieri,
quell'ozio forzato lo gitta violentemente in sè, gli rode l'anima. È la
malattia ch'egli chiama nel suo Ortis con una energia piena di verità
“consunzione dell'anima”. Lo vedi a Milano vagante, scontento, fremente, ora
rinselvarsi, fantasticare, scrivere se stesso in verso, ora giocare, donneare,
contendere, far baccano. Gli balena innanzi il suicidio, ed ha appena venti
anni:
Non
son chi fui, perì di noi gran parte:
questo
che avanza è sol languore e pianto.
In questa malattia di languore
s'intenerisce, pensa alla madre, al fratello, alla sua lontana Zacinto, non
senza certi ribollimenti, che annunziano la vigoria di una forza ròsa, non
doma. Alfieri a venti anni si sfogava correndo Europa, Foscolo si sfogava
verseggiando. Le sue effusioni liriche sono la sua storia da' sedici a' venti anni.
Ricomparisce in quei versi una intimità dolce e malinconica, di cui l'Italia
avea perduta la memoria. E gli veniva non solo dal Petrarca, ma dalla terra
materna, dal suo sentire greco, dalle “corde eolie maritate alla grave itala
cetra”. Ecco versi, preludio di Giacomo Leopardi:
Tu
non altro che il canto avrai del figlio,
o
materna mia terra: a noi prescrisse
il
fato illacrimata sepoltura.
L'esercizio della vita guarì
Foscolo. Soldato della repubblica, combattè a Cento, alla Trebbia, a Novi, a
Genova. La vita militare gli ritornò il sapore della vita. Nelle odi A
Luigia Pallavicini e All 'amica risanata trovi un mondo musicale e
voluttuoso, dove l'anima guarita e gioiosa si espande nella varietà della vita.
La sua fama gli dà il gusto delle lettere e della poesia; traduce la Chioma
di Berenice e vi appone un comento, dove fa sfoggio di una erudizione
peregrina; tenta una traduzione dell'Iliade, emulo di Monti; scrive
un'orazione pei comizi di Lione, con pomposo artificio di stile e con gravità e
arditezza d'idee.
I
Sepolcri stabilirono la sua riputazione e lo alzarono accanto a' sommi.
Fu chiamato per antonomasia “l'autore de' Sepolcri”. E in verità, questo
carme è la prima voce lirica della nuova letteratura, l'affermazione della
coscienza rifatta, dell'uomo nuovo.
Una
legge della repubblica prescriveva l'uguaglianza de' sepolcri, l'uguaglianza
degli uomini innanzi alla morte. Quel fasto de' sepolcri sembrava privilegio
de' nobili e de' ricchi, e combattevano il privilegio, la distinzione delle
classi, anche in quella forma. - Parini dunque giacerà nella fossa comune
accanto al ladro, - pensava Foscolo. Questa logica rivoluzionaria spinta fino
agli ultimi corollari gli offuscava la poesia della vita, lo riconduceva nel
mondo naturale e ferino, non ancora abitato dall'uomo. Nè gli entrava quel
trattar l'uomo come un puro animale. Sentiva in sè offeso il poeta e l'uomo.
Mancava l'idea religiosa che abbellisce la morte e mostra il paradiso sotto le
oscure volte dell'obblio. Ma vivo era il senso dell'umanità nel suo progresso e
ne' suoi fini, collegata con la famiglia, con la patria, con la libertà, con la
gloria Di là cava Foscolo le sue armonie, una nuova religione de' sepolcri: il
sublime di un mondo naturale e ferino della morte è trasformato da' sentimenti
più delicati dell'umanità in un pantheon vivente, perchè opera ancora su' vivi,
desta ricordanze e illusioni, accende a nobili fatti. Sono illusioni, senza
dubbio; ma sono le illusioni dell'umanità, eterne quanto essa, parte della sua
storia. Il carme è una storia dell'umanità da un punto di vista nuovo, una
storia de' vivi costruita da' morti. Senti un'ispirazione vichiana in questo
mondo, che dagli oscuri formidabili inizi naturali e ferini la religione de'
sepolcri alza a stato umano e civile, educatrice di Grecia e d'Italia; il
doppio mondo caro a Foscolo, che unisce in una sola contemplazione Ilio e Santa
Croce. La storia è antica, ma il prospetto è nuovo, e ne nasce originalità di
forme e di colori. Ci è qui fuso inferno e paradiso, la vasta ombra gotica del
nulla e dell'infinito, e i sentimenti teneri e delicati di un cuore d'uomo, il
tutto in una forma solenne e quasi religiosa come di un inno alla divinità.
La
Rivoluzione sotto l'orrore de' suoi eccessi rifaceva già la sua via. Sopravvenivano
idee più temperate; si sentiva il bisogno di una restaurazione religiosa e
morale. Il carme di Foscolo facea vibrare queste nuove corde. La Musa non è più
Alfieri. Si accostavano i tempi di Vico.
Declamare
contro i preti e contro la superstizione era il tono del secolo. Aggiungi i
tiranni, i nobili, i privilegi, i monopoli. Si combatteva in nome della
filosofia, della libertà, dell'economia pubblica. Qui il tono è altro.
Non
può credere il poeta all'immortalità dell'anima; pure vorrebbe crederci. Sarà
una illusione, ma è crudeltà togliere illusioni che ci rendono felici, che ci
abbelliscono la vita. Così la via è aperta ad un ritorno delle idee religiose,
non in nome della verità, ma in nome dell'umanità e della poesia. Senti già
Châteaubriand.
Ma
se “purtroppo” è vero che il tempo traveste ogni cosa, che la materia solo è
immortale, e le forme periscono, non è vero che la morte dell'uomo sia il
nulla. Il poeta gli fabbrica una nuova immortalità. Restano di lui gli scritti,
le idee, le geste, la memoria; la Musa anima il silenzio delle urne, e i
viventi vi cercano ispirazioni e conforti. La pietà de' defunti è la religione
dell'umanità, ove non si voglia che ricaschi nello stato ferino. Non vogliamo
credere a un essere superiore, dispensatore del premio e della pena: sia pure,
anzi pur troppo è così: “vero è ben, Pindemonte!”. Ma, uomini, possiamo noi
rifiutar fede all'umanità? e vogliamo proprio togliere alla vita tutte le sue
illusioni, tutta la sua poesia? Foscolo protesta come uomo e come poeta. È in
lui sempre il secolo decimottavo, ma il secolo andato troppo innanzi nel suo
lavoro di demolizione, e che si arretra, cercando un punto di fermata ne'
sentimenti umani, via a' sentimenti religiosi.
Queste
cose Foscolo non le pensa solo, le sente. Ci era già il patriota, il liber
uomo: qui apparisce l'uomo nella sua intimità, ne' delicati sentimenti della
sua natura civile. L'uomo nuovo s'integra, il mondo interiore della coscienza
si aggiunge nuovi elementi. Ed è da questa profondità di sentire che sono
uscite le più belle ispirazioni della lirica italiana, il lamento di Cassandra,
le impressioni di Maratona, l'apoteosi di Santa Croce. Il punto di vista è così
elevato che lo spettacolo d'Italia caduta così giù, materia di tanta rettorica,
lo trova rassegnato e meditativo sulle alterne vicende delle umane sorti. Ci è
vista di filosofo, cuore d'uomo e ispirazione di poeta.
Quando
comparvero i Sepolcri, fu come si fosse tócca una corda che vibrava in
tutt'i cuori. E non fu minore l'impressione su' letterati.
La
nuova letteratura si era annunziata con la soppressione della rima. Alla
terzina e all'ottava succedeva il verso sciolto. Era una reazione contro la
cadenza e la cantilena. La nuova parola, confidente nella serietà del suo
contenuto, non pur sopprimeva la musica, ma la rima: bastava ella sola a se
stessa. Foscolo qui sopprime anche la strofa, e non era già una tragedia o un
poema, era una composizione lirica, alla quale egli osa togliere tutt'i mezzi
cantabili e musicali della metrica. Qui è pensiero nudo, acceso nella
immaginazione, e prorompente, caldo di se stesso, con le sue consonanze e le
sue armonie interne. Il verso, domato da tenace lavoro, rotte le forme
tradizionali e meccaniche, vien fuori spezzato in sè, con nuove tessiture e nuovi
suoni, e non è artificio, è voce di dentro, è la musica delle cose, la grande
maniera di Dante. Anche il genere parve nuovo. Al sonetto e alla canzone
succedeva il carme, forma libera di ogni esterno meccanismo. Era il poema
lirico del mondo morale e religioso, l'elevazione dell'anima nelle alte sfere
dell'umanità e della storia, una ricostruzione della coscienza o dell'uomo
interiore al di sopra delle passioni contemporanee, era l'uomo intero, nella
esteriorità della sua vita di patriota e di cittadino e nella intimità de' suoi
affetti privati, era l'aurora di un nuovo secolo. Il carme preludeva all'inno.
Foscolo batteva alle porte del secolo decimonono.
Entrato
in questa via, mette mano ad altri carmi, l'Alceo, la Sventura,
l'Oceano. Ma non trova più la prima ispirazione: compone a freddo,
letterariamente, gli escono frammenti, niente giunge a maturità. Comparvero
ultime le Grazie. Lavoro finissimo di artista, ma il poeta quasi non ci
è più.
Rimane
un Foscolo in prosa. Hai innanzi la sua Prolusione, le sue lezioni, i
suoi scritti critici. Non è prosa francese e non toscana, voglio dire che vi
desideri la grazia e la vivezza toscana, e la logica e il brio francese. È una
prosa personale, ancora in formazione, piena di reminiscenze latine e oratorie,
con una tendenza alla maestà e alla forza. Mostra più calore d'immaginazione
che vigore d'intelletto.
Il
concetto dominante di questa prosa è l'uomo soprapposto al letterato. Foscolo
ti dà la formola della nuova letteratura. La sua forza non è al di fuori, ma al
di dentro, nella coscienza dello scrittore, nel suo mondo interiore. Dante e
Petrarca visti da questo aspetto risplendono di nuova luce. Lo stile si
scioglie dall'elocuzione e da ogni artificio tecnico, e s'interna nel pensiero
e nel sentimento. Lo stesso Beccaria è oltrepassato. Ci avviciniamo
all'estetica. Non ci è ancora la scienza, ma ce n'è il gusto e la tendenza.
E
ci è ancora di più. Vi rinasce il gusto delle investigazioni filologiche e
storiche, tenute in tanto disprezzo da un secolo che faceva tavola di tutto il
passato. L'Italia vi ripiglia le sue tradizioni, e si ricongiunge a Vico e
Muratori.
Foscolo
apriva la via al nuovo secolo. E non è dubbio che se il progresso umano
avvenisse non in modo tumultuario, ma in modo logico e pacifico, l'ultimo
scrittore del secolo decimottavo sarebbe stato anche il primo scrittore del
secolo decimonono, il capo della nuova scuola. Ma quel progresso vestiva
aspetto di reazione, e in quella sua forma negativa e violenta offendeva le
idee e le forme di un secolo, del quale Foscolo si sentiva complice. Gli
spiaceva soprattutto la guerra mossa alle forme mitologiche. Sentiva in quelle
negazioni negato se stesso. E quando avea già moderate molte sue opinioni
religiose e politiche, e s'era fatto della vita un concetto più reale, e s'era
spogliata gran parte delle sue illusioni, quando stava già con l'un piè nel
nuovo secolo; calunniato, disconosciuto, dimenticato, nel continuo flutto delle
sue contraddizioni finì tristo, lanciando al nuovo secolo, come una sfida le
sue Grazie, l'ultimo fiore del classicismo italiano.
Foscolo
morì nel 1827. E già si erano levati sull'orizzonte Pellico, Manzoni, Grossi,
Berchet. Comparsa era la scuola romantica l'audace scuola boreale.
Il
1815 è una data memorabile, come quella del Concilio di Trento. Segna la
manifestazione officiale di una reazione non solo politica, ma filosofica e
letteraria, iniziata già negli spiriti, come se ne veggono le orme anche ne' Sepolcri,
e consacrata nel 18 brumaio. La reazione fu così rapida e violenta come la
rivoluzione. Invano Bonaparte tentò di arrestarla, facendo delle concessioni, e
cercando nelle idee medie una conciliazione. Il movimento impresso giunse a
tale, che tutti gli attori della rivoluzione furono mescolati in una comune
condanna, giacobini e girondini, Robespierre e Danton, Marat e Napoleone. Il
“terrore bianco” successe al “rosso”.
Venne
in moda un nuovo vocabolario filosofico, letterario, politico. I due nemici
erano il materialismo e lo scetticismo, e vi sorse contro lo spiritualismo
portato sino all'idealismo e al misticismo. Al dritto di natura si oppose il
dritto divino, alla sovranità popolare la legittimità, a' dritti individuali lo
Stato, alla libertà l'autorità o l'ordine. Il medio evo ritornò a galla,
glorificato come la culla dello spirito moderno, e fu corso e ricorso dal
pensiero in tutt'i suoi indirizzi. Il cristianesimo, bersaglio fino a quel
punto di tutti gli strali, divenne il centro di ogni investigazione filosofica
e la bandiera di ogni progresso sociale e civile; i classici furono per
istrazio chiamati “pagani”, e le dottrine liberali furono qualificate
senz'altro pretto paganesimo; gli ordini monastici furono dichiarati
benefattori della civiltà, e il papato potente fattore di libertà e di
progresso. Mutarono i criteri dell'arte. Ci fu un'arte pagana, e un'arte
cristiana, di cui fu cercata la più alta espressione nel gotico, nelle ombre,
ne' misteri, nel vago e nell'indefinito, in un di là che fu chiamato
“l'ideale”, in un'aspirazione all'infinito, non capace di soddisfazione, perciò
malinconica: la malinconia fu battezzata, e detta qualità “cristiana”, il
sensualismo, il materialismo, il plastico divenne il carattere dell'arte
“pagana”: sorse il genere cristiano “romantico” in opposizione al genere
“classico”. “Religione”, “fede”, “cristianesimo”, “l'ideale”, “l'infinito”, lo
“spirito”, “il trono e l'altare”, “la pace e l'ordine” furono le prime parole
del nuovo secolo. La contraddizione era spiccata. A Voltaire e Rousseau
succedeva Châteaubriand, Staël, Lamartine, Victor Hugo, Lamennais. E proprio
nel 1815 uscivano in luce gl'Inni sacri del giovane Manzoni. Storia,
letteratura, filosofia, critica, arte, giurisprudenza, medicina, tutto prese
quel colore. Avevamo un neoguelfismo, il medio evo si drizzava minaccioso e
vendicativo contro tutto il Rinascimento.
Il
movimento non era già fittizio e artificiale, sostenuto da penne salariate,
promosso dalle polizie, suscitato da passioni e interessi temporanei. Era un
serio movimento dello spirito, secondo le eterne leggi della storia, al quale
partecipavano gl'ingegni più eminenti e liberi del nuovo secolo. Movimento
esagerato senza dubbio ne' suoi inizi, perchè mirava non solo a spiegare, ma a
glorificare il passato, a cancellare dalla storia i secoli, a proporre come modello
il medio evo. Ma l'una esagerazione chiamava l'altra. La dea Ragione e la
comunione de' beni avea per risposta l'apoteosi del carnefice e la legittimità
dell'Inquisizione.
Ma
l'esagerazione fu di corta durata, e la reazione fallì ne' suoi tentativi di
ricomposizione radicale alla medio evo. Avea contro di sè infiniti nuovi
interessi venuti su con la Rivoluzione, interessi materiali, morali,
intellettuali. D'altra parte il nuovo ordine di cose favoriva in gran parte la
monarchia, che avea pure contribuito a promuoverlo. Non era interesse de'
principi restaurare le maestranze, le libertà municipali, le classi
privilegiate, tutte quelle forze collettive sparite nella valanga
rivoluzionaria, nelle quali essi vedevano un freno al loro potere assoluto. Rimase
dunque in piedi quasi dappertutto e quasi intero l'assetto economico-sociale
consacrato da' nuovi codici, e la monarchia assoluta uscì più forte dalla
burrasca. Perchè il clero e la nobiltà, un giorno suoi rivali, divennero i suoi
protetti e i suoi servitori sotto titoli pomposi, e scomparse le forze
collettive naturali, potè con facilità riordinare la società sopra aggregazioni
artificiali necessariamente sottomesse alla volontà sovrana, burocrazia,
esercito e clero. La burocrazia interessava alla conservazione dello Stato la
borghesia, che si dava alla caccia degl'impieghi, e centralizzando gli affari
sopprimeva ogni libertà e movimento locale, e teneva nella sua dipendenza
provincie e comuni. Una moltitudine d'impiegati invasero lo Stato come cavallette,
ciascuno esercitando per suo conto una parte del potere assoluto, di cui era
istrumento. L'esercito, divenuto permanente, anzi una istituzione dello Stato,
fu ordinato a modo di casta, contrapposto ai cittadini, evirato dall'ubbidienza
passiva, e avvezzo a ufficio più di gendarme che di soldato. Il clero, stretta
l'alleanza fra il trono e l'altare, si recò in mano l'educazione pubblica,
vigilò scuole, libri, teatri, accademie, osteggiò tutte le idee nuove, mantenne
l'ignoranza nelle moltitudini, trattò la coltura come sua nemica. Motrice della
gran mole era la polizia, penetrata in tutte queste aggregazioni governative,
divenuto spia l'impiegato, il soldato e il prete. Ne uscì una corruzione
organizzata, chiamata “governo”, o in forma assoluta, o in maschera
costituzionale.
Una
reazione così fatta era in una contraddizione violenta con tutte le idee
moderne, e non potea durare. Sopravvennero i moti di Spagna, di Napoli, di
Torino, di Parigi, delle Romagne; Grecia e Belgio conquistavano la loro
autonomia. Il sentimento nazionale si svegliava insieme col sentimento
liberale. E il secolo decimottavo ripigliava il suo cammino co' suoi dritti
individuali, co' suoi princìpi d'eguaglianza, con la sua “carta”
dell'Ottantanove. I principi legittimi caddero. La monarchia per vivere si
trasformò, si ammodernò, prese abiti borghesi, divise il suo potere con le
classi colte. E soddisfatta la borghesia, soddisfatti tutti. Il terzo stato era
niente; il terzo stato fu tutto.
Su
questo compromesso visse l'Europa lunghi anni. Le istituzioni costituzionali si
allargarono. Il censo e la capacità apersero la via a' più alti uffici, rotte
tutte le barriere artificiali. Continuò la guerra più aspra al feudalismo, alla
manomorta, a' privilegi. La borghesia trovò largo pascolo alla sua attività e
alla sua ambizione ne' parlamenti, ne' consigli comunali e provinciali, nella
guardia nazionale, nel giurì, nelle accademie, nelle scuole sottratte al clero.
Le industrie e i commerci si svilupparono; si apersero altre fonti alla ricchezza.
Un nuovo nome segnava la nuova potenza venuta su. Non si diceva più
“aristocrazia”, si diceva “bancocrazia”, alimentata dalla libera concorrenza.
Chi aveva più forza, vinceva e dominava, forza di censo, d'ingegno e di lavoro.
L'attività intellettuale, stimolata in tutti i versi, fra tanta pubblica
prosperità faceva miracoli. All'ombra della pace e della libertà fiorivano le
scienze e le lettere. Anche dove gli ordini costituzionali non poterono
vincere, come in Italia, la reazione allentò i suoi freni, la borghesia ebbe
una parte più larga alle pubbliche faccende, e vi s'introdusse un modo di
vivere meno incivile. A poco a poco il vecchio si accostumava a vivere accanto
al nuovo; il dritto divino e la volontà del popolo si associavano nelle leggi e
negli scritti, formola del compromesso sul quale riposava il nuovo edificio; e
venne tempo che una conciliazione parve possibile non solo fra il monarcato e
il popolo, ma fra il papato e la libertà.
Adunque,
sedati i primi bollori, quel movimento che aveva aria di reazione, era in fondo
la stessa Rivoluzione, che ammaestrata dalla esperienza moderava e disciplinava
se stessa. I disinganni, le rovine, tanti eccessi, un ideale così puro, così
lusinghiero, profanato al suo primo contatto col reale, tutto questo dovea fare
una grande impressione sugli spiriti e renderli meditativi. La reazione era il
passato ancora vivo nelle moltitudini, assalito con una violenza, che tirava in
suo favore anche gl'indifferenti, e che ora rialzava il capo con superbia di
vincitore. L'esperienza ammaestrò che il passato non si distrugge con un
decreto, e che si richiedono secoli per cancellare dalla storia l'opera de'
secoli. E ammaestrò pure che la forza allora edifica solidamente quando sia
preceduta dalla persuasione, secondo quel motto di Campanella che “le lingue
precedono le spade”. Evidentemente la Rivoluzione aveva errato, esagerato le
sue idee e le sue forze, ed ora si rimetteva in via con minor passione, ma con
maggior senso del reale, confidando più nella scienza che nell'entusiasmo. Che
cosa fu dunque il movimento del secolo decimonono, sbolliti i primi furori di
reazione? Fu lo stesso spirito del secolo decimottavo, che dallo stato
spontaneo e istintivo passava nello stadio della riflessione, e rettificava le
posizioni, riduceva le esagerazioni, acquistava il senso della misura e della
realtà, creava la scienza della rivoluzione. Fu lo spirito nuovo che giungeva
alla coscienza di sè e prendeva il suo posto nella storia. Châteaubriand,
Lamartine, Victor Hugo Lamennais, Manzoni, Grossi, Pellico erano liberali non
meno di Voltaire e Rousseau, di Alfieri e Foscolo. Sono anch'essi figli del
secolo decimosettimo e decimottavo, il loro programma è sempre la “carta”
dell'Ottantanove, il “credo” è sempre “libertà, patria, uguaglianza, dritti
dell'uomo”. Il sentimento religioso, troppo offeso si vendica, offende a sua
volta; pure non può sottrarsi alle strette della Rivoluzione. Risorge, ma
impressionato dello spirito nuovo, col programma del secolo decimottavo. Ciò a
cui mirano i neo-cattolici non è di negare quel programma, come fanno i puri
reazionari, co' gesuiti in testa, ma è di conciliarlo col sentimento religioso,
di dimostrare anzi che quello è appunto il programma del cristianesimo nella
purezza delle sue origini. È la vecchia tesi di Paolo Sarpi, ripigliata e
sostenuta con maggior splendore di parola e di scienza. La Rivoluzione è
costretta a rispettare il sentimento religioso, a discutere il cristianesimo, a
riconoscere la sua importanza e la sua missione nella storia; ma d'altra parte
il cristianesimo ha bisogno per suo passaporto del secolo decimottavo, e prende
quel linguaggio e quelle idee, e odi parlare di una “democrazia cristiana” e di
un “Cristo democratico”, a quel modo che i liberali trasferiscono a significato
politico parole scritturali, come l'“apostolato delle idee”, il “martirio
patriottico”, la “missione sociale”, la “religione del dovere”. La rivoluzione,
scettica e materialista, prende per sua bandiera: “Dio e popolo”, e la
religione, dommatica e ascetica, si fa valere come poesia e come morale, e
lascia le altezze del soprannaturale e s'impregna di umanismo e di naturalismo,
si avvicina alla scienza prende una forma filosofica. Lo spirito nuovo
raccoglie in sè gli elementi vecchi, ma trasformandoli, assimilandoli a sè, e
in quel lavoro trasforma anche se stesso, si realizza ancora più. Questo è il
senso del gran movimento uscito dalla reazione del secolo decimonono, di una
reazione mutata subito in conciliazione. E la sua forma politica è la monarchia
per la grazia di Dio e per la volontà del popolo.
La
base teorica di questa conciliazione è un nuovo concetto della verità,
rappresentata non come un assoluto immobile a priori, ma come un
divenire ideale, cioè a dire secondo le leggi dell'intelligenza e dello spirito.
Onde nasceva l'identità dell'ideale e del reale, dello spirito e della natura,
o, come disse Vico, la “conversione del vero col certo”. Il qual concetto da
una parte ridonava ai fatti una importanza che era contrastata da Cartesio in
qua, li allogava, li legittimava, li spiritualizzava, dava a quelli un
significato e uno scopo, creava la filosofia della storia; d'altra parte
realizzava il divino, togliendolo alle strettezze mistiche e ascetiche del
soprannaturale, e umanizzandolo. Il concetto adunque era in fondo radicalmente
rivoluzionario, in opposizione ricisa col medio evo, e con lo scolasticismo,
quantunque apparisca una reazione a tutto ciò che di troppo esclusivo e
assoluto era nel secolo decimottavo. Sicchè quel movimento in apparenza reazionario
dovea condurre a un nuovo sviluppo della Rivoluzione su di una base più solida
e razionale.
Il
primo periodo del movimento fu detto “romantico”, in opposizione al
classicismo. Ebbe per contenuto il cristianesimo e il medio evo, come le vere
fonti della vita moderna, il suo tempo eroico, mitico e poetico. Il
Rinascimento fu chiamato “paganesimo”, e quell'età che il Rinascimento chiamava
“barbarie”, risorse cinta di nuova aureola. Parve agli uomini rivedere dopo
lunga assenza Dio e i santi e la Vergine e quei cavalieri vestiti di ferro e i
tempi e le torri e i crociati. Le forme bibliche oscurarono i colori classici:
il gotico, il vaporoso, l'indefinito, il sentimentale liquefecero le immagini,
riempirono di ombre e di visioni le fantasie. Ne uscì nuovo contenuto e nuova
forma. Il papato divenne centro di questo antico poema ringiovanito, il cui
storico era Carlo Troya, e l'artista Luigi Tosti: Bonifacio ottavo e Gregorio
settimo ebbero ragione contro Dante e Federico secondo. Cronisti e trovatori
furono disseppelliti; l'Europa ricostruiva pietosamente le sue memorie, e vi
s'internava, vi s'immedesimava, ricreava quelle immagini e quei sentimenti.
Ciascun popolo si riannodava alle sue tradizioni, vi cercava i titoli della sua
esistenza e del suo posto nel mondo, la legittimità delle sue aspirazioni. Alle
antichità greche e romane successero le antichità nazionali, penetrate e
collegate da uno spirito superiore e unificatore, dallo spirito cattolico. Si
svegliava l'immaginazione, animata dall'orgoglio nazionale e da un entusiasmo
religioso spinto sino al misticismo; e dal lungo torpore usciva più vivace il
senso metafisico e il senso poetico. Risorge l'alta filosofia e l'alta poesia.
Lirica e musica, poemi filosofici e storici sono le voci di questo ricorso.
Ma
il romanticismo, come il classicismo, erano forme sotto alle quali si
manifestava lo spirito moderno. Foscolo e Parini nel loro classicismo erano
moderni, e moderni erano nel loro romanticismo Manzoni e Pellico. Invano cerchi
il candore e la semplicità dello spirito religioso: è un passato rifatto e
trasformato da immaginazione moderna, nella quale ha lasciato i suoi vestigi il
secolo decimottavo. Non ci sono più le passioni ardenti e astiose di quel
secolo, ma ci sono le sue idee, la tolleranza, la libertà, la fraternità umana,
consacrata da una religione di pace e di amore, purificata e restituita nella
sua verginità, nella purezza delle sue origini e de' suoi motivi. Una reazione
così fatta già non è più reazione, è conciliazione, è la rivoluzione stessa
vinta, che non minaccia più, e lascia il sarcasmo, l'ironia, l'ingiuria, e
trasformatasi in apostolato evangelico prende abito umile e supplichevole
dirimpetto agli oppressori, e fa suo il pergamo, fa suo Dio e Cristo, e la
Bibbia diviene l'“ultima parola di un credente”. Lo spirito non rimane nelle
vette del soprannaturale e nelle generalità del dogma. Oramai conscio di sè,
plasma il divino a sua immagine, lo colloca e lo accompagna nella storia. La
“divina Commedia” è capovolta: non è l'umano che s'india, è il divino che si
umanizza. Il divino rinasce, ma senti che già innanzi è nato Bruno, Campanella
e Vico.
La stella di Monti scintillava
ancora cinta di astri minori; Foscolo solitario meditava le Grazie; Romagnosi tramandava
alla nuova generazione il pensiero del gran secolo vinto. E proprio nel 1815,
tra il rumore de' grandi avvenimenti, usciva in luce un libriccino, intitolato Inni,
al quale nessuno badò. Foscolo chiudeva il suo secolo co' Carmi; Manzoni
apriva il suo con gl'Inni. Il Natale, la Passione, la Risurrezione,
la Pentecoste erano le prime voci del secolo decimonono. Natali, Marie e
Gesù ce n'erano infiniti nella vecchia letteratura, materia insipida di canzoni
e sonetti, tutti dimenticati. Mancata era l'ispirazione, da cui uscirono
gl'inni de' santi padri e i canti religiosi di Dante e del Petrarca e i quadri
e le statue e i templi de' nostri antichi artisti. Su quella sacra materia era
passato il Seicento e l'Arcadia, insino a che disparve sotto il riso motteggiatore
del secolo decimottavo. Ora la poesia faceva anche lei il suo “concordato”.
Ricompariva quella vecchia materia, ringiovanita da una nuova ispirazione.
Ciò
che move il poeta non è la santità e il misterioso del dogma. Non riceve il
soprannaturale con raccoglimento, con semplicità di credente. Mira a
trasportarlo nell'immaginazione, e, se posso dir così, a naturalizzarlo. Non è
più un “credo”, è un motivo artistico. Diresti che innanzi al giovine poeta ci
sia il ghigno di Alfieri e di Foscolo, e che non si attenti di presentare a'
contemporanei le disusate immagini, se non pomposamente decorate. Non gli basta
che sieno sante; vuole che sieno belle. L'idea cristiana ritorna innanzi tutto
come arte, anzi come la sostanza dell'arte moderna, chiamata “romantica”. La
critica entrava già per questa via, e fin d'allora sentivi parlare di
“classico” e di “romantico”, di “plastico” e di “sentimentale” di “finito” e
d'“infinito”. L'inno era poesia essenzialmente religiosa, la poesia
dell'infinito e del soprannaturale. Sorgea come sfida a' classici per la
materia e per la forma. Pure il poeta, volendo esser romantico, rimane
classico. Invano si arrampica tra le nubi del Sinai; non ci regge, ha bisogno
di toccar terra; il suo spirito non riceve se non ciò che è chiaro, plastico,
determinato, armonioso; le sue forme sono descrittive, rettoriche e letterarie,
pur vigorose e piene di effetto, perchè animate da immaginazione fresca in
materia nuova. Vi senti lo spirito nuovo, che in quel ritorno delle idee religiose
non abdica, e penetra in quelle idee e se le assimila, e vi cerca e vi trova se
stesso. Perchè la base ideale di quegl'Inni è sostanzialmente
democratica, è l'idea del secolo battezzata e consacrata sotto il nome d'“idea
cristiana”, l'eguaglianza degli uomini tutti fratelli in Cristo la riprovazione
degli oppressori e la glorificazione degli oppressi; è la famosa triade,
“libertà, uguaglianza, fratellanza”, vangelizzata; è il cristianesimo
ricondotto alla sua idealità e penetrato dallo spirito moderno. Onde nasce una
rappresentazione pacata e soddisfatta, pittoresca nelle sue visioni, semplice e
commovente ne' suoi sentimenti, come di un mondo ideale riconciliato e
concorde, ove si armonizzano e si acquietano le dissonanze del reale e i dolori
della terra. Ivi è il Signore, che nel suo dolore pensò a tutt'i figli d'Eva;
ivi è Maria, nel cui seno regale la femminetta depone la sua spregiata lacrima;
ivi è lo Spirito, che scende, aura consolatrice ne' languidi pensieri
dell'infelice; ivi è il regno della pace, che il mondo irride, ma che non può
rapire; il povero, sollevando le ciglia al cielo “che è suo”, volge i lamenti
in giubilo, pensando a cui somiglia.
In
questa ricostruzione di un mondo celeste accanto a una lirica di pace e di
perdono, alta sulle collere e sulle cupidigie mondane, si sviluppa l'epica,
quel veder le cose umane dal di sopra con l'occhio dell'altro mondo. Questa
novità di contenuto, di forma e di sentimento rende altamente originale il Cinque
maggio, composizione epica in forme liriche. L'individuo, grande ch'ei sia,
non è che un'“orma del Creatore”, un istrumento “fatale”. La gloria terrena,
posto pure che sia vera gloria, non è in cielo che “silenzio e tenebre”. Sul
mondano rumore sta la pace di Dio. È lui che atterra e suscita, che affanna e
consola. La sua mano toglie l'uomo alla disperazione, e lo avvia pe' floridi
sentieri della speranza. Risorge il “Deus ex machina”, il concetto
biblico dell'uomo e dell'umanità. La storia è la volontà imperscrutabile di
Dio. Così vuole. A noi non resta che adorare il mistero o il miracolo, “chinar
la fronte”. Meno comprendiamo gli avvenimenti, e più siamo percossi di
maraviglia, più sentiamo Dio, l'incomprensibile. La storia anche di ieri si
muta in leggenda, diviene poesia epica. Napoleone è un gran miracolo, un'orma
più vasta di Dio. A che fine? Per quale missione? L'ignoriamo. È il secreto di
Dio. Così volle. Rimane della storia la parte popolare o leggendaria, quella
che più colpisce le immaginazioni; le battaglie, le vicende assidue, gli avvenimenti
straordinari, le grandi catastrofi, le miracolose conversioni. Il motivo epico
nasce non dall'altezza e moralità de' fini, ma dalla grandezza e potenza del
genio, dallo sviluppo di una forza che arieggia il soprannaturale. Sono nove
strofe, di cui ciascuna per la vastità della prospettiva è quasi un piccolo
mondo, e te ne viene una impressione, come da una piramide. A ciascuna strofa
la statua muta di prospetto, ed è sempre colossale. L'occhio profondo e rapido
dell'ispirazione divora gli spazi, aggruppa gli anni, fonde gli avvenimenti, ti
dà l'illusione dell'infinito. Le proporzioni sono ingrandite da un lavoro tutto
di prospettiva nella maggior chiarezza e semplicità dell'espressione. Le
immagini, le impressioni, i sentimenti, le forme tra quella vastità di
orizzonti ingrandiscono anche loro, acquistano audacia di colori e di
dimensioni. Trovi condensata la vita del grande uomo nelle sue geste, nella sua
intimità, nella sua azione storica, ne' suoi effetti su' contemporanei, nella
sua solitudine pensosa: immensa sintesi, dove precipitano gli avvenimenti e i
secoli, come incalzati e attratti da una forza superiore in quegli sdruccioli
accavallantisi, appena frenati dalle rime.
Questo
è il primo movimento, epico-lirico, del secolo decimonono. Al macchinismo
classico succede il macchinismo teologico. Ma non è mero macchinismo, semplice
colorito o abbellimento. È un contenuto redivivo nell'immaginazione che
ricostruisce a sua immagine la storia dell'umanità e il cuore dell'uomo. È
Cristo smarrito e ritrovato al di dentro di noi. Ritorna la provvidenza nel
mondo, ricomparisce il miracolo nella storia, rifioriscono la speranza e la
preghiera, il cuore si raddolcisce, si apre a sentimenti miti: su' disinganni e
sulle discordie mondane spira un alito di perdono e di pace. Ciò che
intravedeva Foscolo, disegnò Manzoni con un entusiasmo giovanile, riflesso di
quell'entusiasmo religioso, che accompagnava a Roma il papa reduce, ispirava ad
Alessandro la federazione cristiana, prometteva agli uomini stanchi un'era novella
di pace e riposo. La nuova generazione sorgeva tra queste illusioni, e mentre
il vecchio Foscolo fantasticava un paradiso delle Grazie, allegorizzando con
colori antichi cose moderne, Manzoni ricostruiva l'ideale del paradiso
cristiano e lo riconciliava con lo spirito moderno. La mitologia se ne va, e
resta il classicismo; il secolo decimottavo è rinnegato, e restano le sue idee.
Mutata è la cornice, il quadro è lo stesso. Guardate il Cinque maggio.
La cornice è una illuminazione artistica, una bell'opera d'immaginazione, da
cui non esce alcuna seria impressione religiosa. Il quadro è la storia di un
genio rifatta dal genio. L'interesse non è nella cornice è nel quadro.
Ben
presto il movimento teologico diviene prettamente filosofico. Dio è l'assoluto,
l'idea; Cristo è l'idea in quanto è realizzata, l'idea naturalizzata; lo
Spirito è l'idea riflessa e consapevole il Verbo; la trinità teologica diviene
la base di una trinità filosofica. Il Dio teologico è l'essere nel suo
immediato, il nulla, un Dio astratto e formale, vuoto di contenuto. Dio nella
sua verità è lo spirito che riconosce se stesso nella natura. Logica, natura,
spirito, sono i tre momenti della sua esistenza, la sua storia, una storia dove
niente è incomprensibile e arbitrario, tutto è ragionevole e fatale. Ciò che è
stato, dovea essere. La schiavitù, la guerra, la conquista, le rivoluzioni, i
colpi di Stato non sono fatti arbitrari, sono fenomeni necessari dello spirito
nella sua esplicazione. Lo spirito ha le sue leggi, come la natura; la storia
del mondo è la sua storia, è logica viva, e si può determinare a priori.
Religione, arte, filosofia, dritto, sono manifestazioni dello spirito, momenti
della sua esplicazione. Niente si ripete, niente muore: tutto si trasforma in
un progresso assiduo, che è lo spiritualizzarsi dell'idea, una coscienza sempre
più chiara di sè, una maggiore realtà.
In
queste idee codificate da Hegel ricordi Machiavelli, Bruno, Campanella,
soprattutto Vico. Ma è un Vico a priori. Quelle leggi, che egli traeva
da' fatti sociali, ora si cercano a priori nella natura stessa dello
spirito. Nasce un'appendice della Scienza nuova, la sua metafisica sotto
nome di “logica”, compariscono vere teogonie, o epopee filosofiche, con le loro
ramificazioni. Hai la filosofia delle religioni, la storia della filosofia, la
filosofia dell'arte, la filosofia del dritto, la filosofia della storia,
illuminate dall'astro maggiore, la logica, o, come dice Vico, la “metafisica”.
Tutto il contenuto scientifico è rinnovato. E non solo nell'ordine morale, ma
nell'ordine fisico. Hai una filosofia della natura, come una filosofia dello
spirito. Anzi non sono che una sola e medesima filosofia, momenti dell'Idea
nella sua manifestazione.
Il
misticismo, fondato sull'imperscrutabile arbitrio di Dio e alimentato dal
sentimento, dà luogo a questo idealismo panteistico. Il sistema piace alla
colta borghesia, perchè da una parte, rigettando il misticismo, prende un
aspetto laicale e scientifico, e dall'altra, rigettando il materialismo,
condanna i moti rivoluzionari, come esplosioni plebee di forze brute. Piace il
concetto di un progresso inoppugnabile, fondato sullo sviluppo pacifico della
coltura: alla parola “rivoluzione” succede la parola “evoluzione”. Non si dice
più “libertà”, si dice “civiltà”, “progresso”, “coltura”. Sembra trovato oramai
il punto, ove s'accordano autorità e libertà, Stato e individuo, religione e
filosofia, passato e avvenire. Anche le idee fanno la loro pace, come le
nazioni. E il sistema diviene ufficiale sotto nome di “ecletismo”. La rivoluzione
gitta via il suo abito rosso, e si fa cristiana e moderata sotto il vessillo
tricolore, vagheggiando, come ultimo punto di fermata, le forme costituzionali,
e tenendo a pari distanza i clericali col loro misticismo, e i rivoluzionari
col loro materialismo. Queste idee facevano il giro di Europa e divennero il
“credo” delle classi colte. La parte liberale si costituì come un centro tra
una dritta clericale e una sinistra rivoluzionaria, che essa chiamava i
“partiti estremi”. Luigi Filippo realizzò questo ideale della borghesia, e
l'ecletismo lo consacrò. Sembrò dopo lunga gestazione creato il mondo. Il
problema era sciolto, il bandolo era trovato. Dio si poteva riposare. Chiusa
oramai era la porta alla reazione e alla rivoluzione. Regnava il progresso
pacifico e legale, governava la borghesia sotto nome di “partito
liberale-moderato”. Teneva in iscacco la dritta, perchè, se combatteva i
gesuiti e gli oltramontani, onorava il cristianesimo, divenuto nel nuovo
sistema l'idea rifiessa e consapevole, lo spirito che riconosce se stesso. Non
credeva al soprannaturale, ma lo spiegava e lo rispettava; non credeva a un
Cristo divino, ma alzava alle stelle il Cristo umano; e della religione parlava
con unzione, e con riverenza de' ministri di Dio. Così tirava dalla sua i
cristiani liberali e patrioti, e non urtava le plebi. E teneva a un tempo in
iscacco la sinistra rivoluzionaria, perchè se respingeva i suoi metodi, se
condannava le sue impazienze e le sue violenze, accettava in astratto le sue
idee, confidando più nell'opera lenta, ma sicura, dell'istruzione e
dell'educazione, che nella forza brutale. Per queste vie la rivoluzione sotto
aspetto di conciliazione si rendeva accettabile a' più, e si rimetteva in
cammino.
Tra
queste idee si formò la nuova critica letteraria. Rimasta fra le vuote forme
rettoriche empirica e tradizionale, anch'ella gridò “libertà” nel secolo
scorso, e, perduto il rispetto alle regole e all'autorità, acquistò una certa
indipendenza di giudizio, illuminata ne' migliori dal buon senso e dal buon
gusto. L'attenzione dall'esterno meccanismo si volse alla forza produttiva,
cercando i motivi e il significato della composizione nelle qualità dello
scrittore; l'arte ebbe il suo “cogito” e trovò la sua formola nel motto:
“Lo stile è l'uomo”. Ma era una critica d'impressioni più che di giudizi, di
osservazioni più che di princìpi. Con la nuova filosofia il bello prese posto
accanto al vero e al buono, acquistò una base scientifica nella logica, divenne
una manifestazione dell'idea, come la religione, il dritto, la storia: avemmo
una filosofia dell'arte, l'estetica. Stabilito un corso ideale della umanità,
l'arte entrò nel sistema allo stesso modo che tutte le altre manifestazioni
dello spirito, e prese dalla qualità dell'idea la sua essenza e il suo
carattere. Materia principale della critica fu l'idea col suo contenuto: le
qualità formali ebbero il secondo luogo. Avemmo l'idea “orientale”, l'idea
“pagana” o “classica”, l'idea “cristiana” o “romantica” nella religione, nella
filosofia, nello Stato, nell'arte, in tutte le forme dell'attività sociale, uno
sviluppo storico a priori, secondo la logica o le leggi dello spirito.
La filosofia dell'idea divenne un antecedente obbligato di ogni trattato di
estetica, come di ogni ramo dello scibile; e il problema fondamentale dell'arte
fu cercare l'idea in ogni lavoro dell'immaginazione, e misurarlo secondo
quella. Rivenne su il concetto cristiano-platonico dell'arte, espresso da
Dante, ristaurato dal Tasso. La poesia fu il vero “sotto il velo della favola ascoso”,
o il “vero condito in molli versi”. Divenuta la favola un velo dell'idea,
ritornavano in onore le forme mitiche e allegoriche, e le concezioni artistiche
si trasformavano in costruzioni ideali: la Divina Commedia, materia
d'infiniti comenti filosofici, aveva il suo riscontro nel Faust. Venne
in moda un certo filosofismo nell'arte anche presso i migliori, anche presso
Schiller. E non solo la filosofia, ma anche la storia divenne il frontispizio
obbligato della critica, trattandosi di coglier l'idea non nella sua
astrattezza, ma nel suo contenuto, nelle sue apparizioni storiche. Sorsero
investigazioni accuratissime sulle idee, sulle istituzioni, su' costumi, sulle
tendenze dei secoli a cui si riferivano le opere d'arte, sulla formazione
successiva della materia artistica; al motto antico: “Lo stile è l'uomo”,
successe quest'altro: “La letteratura è l'espressione della società”. Ne uscì
un doppio impulso: sintetico e analitico. Posto che la storia non sia una
successione empirica e arbitraria di fatti, ma la manifestazione progressiva e
razionale dell'idea, una dialettica vivente, gli spiriti si affrettarono alla
sintesi, e costruirono vere epopee storiche secondo una logica preordinata. La
storia del mondo fu rifatta, la via aperta da Vico fu corsa e ricorsa dal genio
metafisico, e in tutte le direzioni: religioni, arti, filosofie, istituzioni
politiche, leggi, la vita intellettuale, morale e materiale de' popoli. Questo
fu il momento epico di tutte le scienze; nessuna potè sottrarsi al bagliore
dell'idea; il mondo naturale fu costruito allo stesso modo che il mondo morale.
Ma queste sintesi frettolose, queste soluzioni spesso arrischiate de' problemi
più delicati urtavano alcuna volta co' dati positivi della storia e delle
singole scienze, ed erano troppo visibili le lacune, i raccozzamenti disparati,
le interpretazioni forzate, gli artifici involontari. Accanto a quelle vaste
costruzioni ideali sorse la paziente analisi; il metodo di Vico parve più lungo
e più arduo, ma più sicuro, e si ricominciò il lavoro a posteriori,
ingolfandosi lo spirito nelle più minute ricerche in tutt'i rami dello scibile.
Il movimento di erudizione e d'investigazione, interrotto in Italia dalla
invasione delle teorie cartesiane e da' sistemi assoluti del secolo
decimottavo, tutti di un pezzo, tutti ragionamento, con superbo disdegno di
citazioni, di esempli, di ogni autorità dottrinale, quasi avanzo della
scolastica, ora ripigliava con maggior forza in tutta la colta Europa, massime
in Germania: ritornavano i Galilei, i Muratori e i Vico, si sviluppava lo
spirito di osservazione e il senso storico, si aggrandiva il campo delle
scienze, e dal gran tronco del sapere uscivano nuovi rami, soprattutto nelle
scienze naturali, nelle scienze sociali e nelle discipline filologiche. La materia
della coltura, stata prima poco più che greco-romana, guadagnò di estensione e
di profondità. Abbracciò l'Oriente, il medio evo, il Rinascimento. È con tale
attività di ricerca e di scoperta, che lo scibile ne fu rinnovato.
Stavano
dunque di fronte due tendenze: l'una ideale, l'altra storica. Gli uni
procedevano per via di categorie e di costruzioni; gli altri per via di
osservazioni e d'induzioni. E spesso s'incontravano. La scuola ontologica
teneva molto conto dei fatti, e proclamava che il vero ideale è storia, è
l'idea realizzata. Non rimaneva perciò al di sopra della storia nel regno de'
princìpi assoluti e immobili; anzi la sua metafisica non è altro che un
progressivo divenire, la storia. Parimente la scuola storica era tutt'altro che
empirica, ed usciva dalla cerchia de' fatti, ed aveva anch'essa i suoi
preconcetti e le sue conietture. La più audace speculazione si maritava con la
più paziente investigazione. Le due forze unite, ora parallele, ora in urto,
ora di conserva, posero in moto tutte le facoltà dello spirito, e produssero
miracoli nelle teorie e nelle applicazioni. Al secolo de' lumi succedette il
secolo del progresso. Il genio di Vico fu il genio del secolo. E accanto a lui
risorsero con fama europea Bruno e Campanella. Il secolo riverì ne' tre grandi
italiani i suoi padri, il suo presentimento. E la Scienza nuova fu la
sua Bibbia, la sua leva intellettuale e morale. Ivi trovavano condensate tutte
le forze del secolo: la speculazione, l'immaginazione, l'erudizione. Di là
partiva quell'alta imparzialità di filosofo e di storico, quella giustizia
distributiva ne' giudizi, che fu la virtù del secolo. Passato e presente si
riconciliarono, pigliando ciascuno il suo posto nel corso fatale della storia.
E contro al fato non val collera, non giova dar di cozzo. Il dommatismo con la
sua infallibilità e lo scetticismo con la sua ironia cessero il posto alla
critica, quella vista superiore dello spirito consapevole, che riconosce se
stesso nel mondo, e non si adira contro se stesso.
La
letteratura non potea sottrarsi a questo movimento. Filosofia e storia
diventano l'antecedente della critica letteraria. L'opera d'arte non è
considerata più come il prodotto arbitrario e subiettivo dell'ingegno
nell'immutabilità delle regole e degli esempi, ma come un prodotto più o meno
inconscio dello spirito del mondo in un dato momento della sua esistenza.
L'ingegno è l'espressione condensata e sublimata delle forze collettive, il cui
complesso costituisce l'individualità di una società o di un secolo. L'idea gli
è data con esso il contenuto; la trova intorno a sè, nella società dove è nato,
dove ha ricevuto la sua istruzione e la sua educazione. Vive della vita comune
contemporanea, salvo che di quella è in lui più sviluppata l'intelligenza e il
sentimento. La sua forza è di unirvisi in ispirito, e questa unione spirituale
dello scrittore e della sua materia è lo stile. La materia o il contenuto non
gli può dunque essere indifferente; anzi è ivi che dee cercare le sue
ispirazioni e le sue regole. Mutato il punto di vista, mutati i criteri. La
letteratura del Rinascimento fu condannata come classica e convenzionale, e
l'uso della mitologia fu messo in ridicolo. Quegl'ideali tutti di un pezzo,
ch'erano decorati col nome di “classici”, furono giudicati una contraffazione
dell'ideale, l'idea nella sua vuota astrazione, non nelle sue condizioni
storiche, non nella varietà della sua esistenza. Cadde la rettorica con le sue
vuote forme, cadde la poetica con le sue regole meccaniche e arbitrarie,
rivenne su il vecchio motto di Goldoni: “Ritrarre dal vero, non guastar la
natura.” Il più vivo sentimento dell'ideale si accompagnò con la più paziente
sollecitudine della verità storica. L'epopea cesse il luogo al romanzo, la
tragedia al dramma. E nella lirica brillarono in nuovi metri le ballate, le
romanze, le fantasie e gl'inni. La naturalezza, la semplicità, la forza, la
profondità, l'affetto furono qualità stimate assai più che ogni dignità ed
eleganza, come quelle che sono intimamente connesse col contenuto. Dante,
Shakespeare, Calderon, Ariosto, reputati i più lontani dal classicismo,
divennero gli astri maggiori. Omero e la Bibbia, i poemi primitivi e spontanei,
teologici o nazionali, furono i prediletti. E spesso il rozzo cronista fu
preferito all'elegante storico, e il canto popolare alla poesia solenne. Il
contenuto nella sua nativa integrità valse più che ogni artificiosa
trasformazione di tempi posteriori. Furono sbanditi dalla storia tutti gli
elementi fantastici e poetici, tutte quelle pompe fattizie, che l'imitazione classica
vi aveva introdotto. E la poesia si accostò alla prosa, imitò il linguaggio
parlato e le forme popolari.
“Tutto
questo fu detto “romanticismo”, “letteratura de' popoli moderni”. La nuova
parola fece fortuna. La reazione ci vedeva un ritorno del medio evo e delle
idee religiose, una condanna dell'aborrito Rinascimento, soprattutto del più
aborrito secolo decimottavo. I liberali, non potendo pigliarsela co' governi,
se la pigliavano con Aristotele e co' classici e con la mitologia: piaceva
essere almeno in letteratura rivoluzionario e ribelle alle regole. Il sistema
era così vasto e vi si mescolavano idee e tendenze così diverse, che ciascuno
potea vederlo con la sua lente e pigliarvi ciò che gli era più comodo. I
governi lasciavan fare, contenti che le guerricciuole letterarie distraessero
le menti dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i soliti fenomeni della
servitù: battaglie in favore e contro la Crusca, quistioni di lingua, diverbii
letterari, che finivano talora in denunzie politiche. La Proposta e il Sermone
all'Antonietta Costa erano i grandi avvenimenti che succedevano alla
battaglia di Waterloo. L'Italia risonò di puristi e lassisti, di classici e
romantici. Il giornalismo, mancata la materia politica, vi cercò il suo
alimento. Il centro più vivace di quei moti letterari era sempre Milano, dove
erano più vicini e più potenti gl'influssi francesi e germanici. Là
s'inaugurava nel Caffè il secolo decimottavo. E là s'inaugurava ora nel Conciliatore
il secolo decimonono. Manzoni ricordava Beccaria, e i Verri e i Baretti del
nuovo secolo si chiamavano Silvio Pellico, Giovanni Berchet e gli ospiti di
casa Manzoni, Tommaso Grossi e Massimo d'Azeglio, divenuto sposo di Giulia
Manzoni, e anello fra la Lombardia e il Piemonte, dove sorgevano nello stesso
giro d'idee Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti. La vecchia generazione
s'intrecciava con la nuova. Vivevano ancora, memorie del regno d'Italia,
Foscolo, Monti, Giovanni e Ippolito Pindemonte, Pietro Giordani. Dirimpetto a
Melchiorre Gioia vedevi Sismondi, italiano di mente e di cuore; e mentre il
vecchio Romagnosi scrivea la Scienza della Costituzione, il giovane
Antonio Rosmini pubblicava il trattato Della origine delle idee.
Spuntavano Camillo Ugoni, Felice Bellotti, Andrea Maffei, il traduttore di
Klopstock e di Schiller. Dirimpetto a' poeti vedevi i critici, dilettanti pure
di poesia, Giovanni Torti, Ermes Visconti, Giovanni De Cristoforis, Samuele
Biava. Nelle stesse file militavano Carlo Porta, Niccolò Tommaseo, i fratelli
Cesare e Ignazio Cantù, e Maroncelli, e Confalonieri, e altri minori.
Cosa
volevano i romantici, che levavano così alto la voce nel Conciliatore?
Parlavano con audacia giovanile della vecchia generazione, s'inchinavano appena
al gran padre Alighieri, vantavano gli scrittori stranieri soprattutto inglesi
e tedeschi, non volevano mitologia, si beffavano delle tre unità, e delle
regole si curavano poco, e non curvavano il capo che innanzi alla ragione. Era
il razionalismo o il libero pensiero applicato alla letteratura da uomini che
in religione predicavano fede e autorità. I classici, al contrario, miscredenti
e scettici nelle cose della religione, erano qualificati superstiziosi in fatto
di letteratura. Nè parea ragionevole che Aristotele, detronizzato in filosofia,
dovesse in letteratura rimanere sul suo trono. La lotta fu viva tra il Conciliatore
e la Biblioteca italiana, a cui tenea bordone la Gazzetta di Milano.
Vi si mescolavano ingenui e furfanti, scrittori coscienziosi e mestieranti. E
dopo molto contendere, fra tante esagerazioni di offese e di difese, si venne
in tale confusione di giudizi, che oggi stesso non si sa cosa era il
romanticismo, e in che si distingueva sostanzialmente dal classicismo. Molti
sostenevano che il Monti era un ingegno romantico sotto apparenze classiche, e
altri che Manzoni con pretensioni romantiche era in verità un classico. Si
cominciò a vedere chiaro, quando fu posta da parte la parola “romanticismo”,
materia del litigio, e si badò alla qualità della merce e non al suo nome. Al
romanticismo, importazione tedesca, si sostituì a poco a poco un altro nome,
letteratura nazionale e moderna. E su questo convennero tutti, romantici e
classici. Il romanticismo rimase in Italia legato con le idee della prima
origine germanica, diffuse dagli Schlegel e da' Tieck, in quella forma
esagerata che prese in Francia, capo Victor Hugo. Respingevano il paganesimo, e
riabilitavano il medio evo. Rifiutavano la mitologia classica, e preconizzavano
una mitologia nordica. Volevano la libertà dell'arte, e negavano la libertà di
coscienza. Rigettavano il plastico e il semplice dell'ideale classico, e vi
sostituivano il gotico, il fantastico, l'indefinito e il lugubre. Surrogavano
il fattizio e il convenzionale dell'imitazione classica con imitazioni fattizie
e convenzionali di peggior gusto. E per fastidio del bello classico
idolatravano il brutto. Una superstizione cacciava l'altra. Ciò che era
legittimo e naturale in Shakespeare e in Calderon, diveniva strano, grossolano,
artificiale in tanta distanza di tempi, in tanta differenza di concepire e di
sentire. Il romanticismo in questa sua esagerazione tedesca e francese non
attecchì in Italia, e giunse appena a scalfire la superficie. I pochi tentativi
non valsero che a meglio accentuare la ripugnanza del genio italiano. E i
romantici furono lieti, quando poterono gittar via quel nome d'imprestito,
fonte di tanti equivoci e litigi, e prendere un nome accettato da tutti. Anche
in Germania il romanticismo fu presto attirato nelle alte regioni della
filosofia, e, spogliatosi quelle forme fantastiche e quel contenuto
reazionario, riuscì sotto nome di “letteratura moderna” nell'ecletismo, nella
conciliazione di tutti gli elementi e di tutte le forme sotto i princìpi
superiori dell'estetica, o della filosofia dell'arte.
Pigliando
il romanticismo in quel suo primo stadio, quando si affermava come distinto,
anzi in contraddizione col secolo scorso, e movea guerra ad Alfieri e
proclamava una nuova riforma letteraria, il suo torto fu di non accorgersi che
esso era in sostanza non la contraddizione, ma la conseguenza di quel secolo
appunto, contro il quale armeggiava. In Germania l'idea romantica sorse in
opposizione all'imitazione francese così alla moda sotto il gran Federico. Era
una esagerazione, ma in quell'esagerazione si costituivano le prime basi di una
letteratura nazionale, dalla quale uscivano Schiller e Goethe. E fu lavoro del
secolo decimottavo. Schiller fu contemporaneo di Alfieri. Quando l'idea
romantica s'affacciò in Italia, già in Germania era scaduta, trasformatasi in un
concetto dell'arte filosofico e universale. Goethe era già alla sua terza
maniera, a quel suo spiritualismo panteistico, che produceva il Faust.
Il romanticismo veniva dunque in Italia troppo tardi, come fu poi
dell'eghelismo. parve a noi un progresso ciò che in Germania la coltura aveva
già oltrepassato e assorbito. La riforma letteraria in Italia, tanto
strombazzata, non cominciava, ma continuava. Essa era cominciata nel secolo
scorso. Era appunto la nuova letteratura, inaugurata da Goldoni e Parini, al tempo
stesso che in Germania si gittavano le fondamenta della coltura tedesca. La
differenza era questa, che la Germania reagiva contro l'imitazione francese e
acquistava coscienza della sua autonomia intellettuale; dove l'Italia,
associandosi alla coltura europea, reagiva contro la sua solitudine e la sua
stagnazione intellettuale. L'Italia entrava nel grembo della coltura europea, e
vi prendea il suo posto, cacciando via da sè una parte di sè, il seicentismo,
l'Arcadia e l'accademia; la Germania al contrario iniziava la sua riforma
intellettuale, rimovendo da sè la coltura francese, e riannodandosi alle sue
tradizioni. L'influenza francese non fu che una breve deviazione nel movimento
di continuità della vita tedesca, movimento fortificato nella lotta d'indipendenza,
e che portò quel popolo nel secolo decimonono ad una chiara coscienza della sua
autonomia nazionale e della sua superiorità intellettuale. Perciò la riforma
tedesca procedette armonica e pacata con passaggi chiari, con progresso rapido,
con intima consonanza in tutt'i rami dello scibile, non ricevendo ma dando
l'impulso alla coltura europea. Esclusiva ed esagerata nel principio sotto nome
di “romanticismo”, la sua coltura in breve tempo abbracciò tutti gli orizzonti,
e conciliò tutti gli elementi della storia in una vasta unità, della quale
rimane monumento colossale la Divina Commedia della coltura moderna, il Faust.
Ivi tutte le religioni e tutte le colture, tutti gli elementi e tutte le forme,
si danno la mano e si riconoscono partecipi del redivivo Pane, sottoposte alle
stesse leggi, spirito o natura, espressioni di una sola idea, già inconsapevoli
e nemiche, ora unificate dall'occhio ironico della coscienza. Indi quella
suprema indifferenza verso le forme, che fu detto lo “scetticismo” di Goethe,
ed era la serenità olimpica di una intelligenza superiore, la tolleranza di
tutte le differenze riconciliate e armonizzate nel mondo superiore della
filosofia e dell'arte. Così il misticismo romantico si trasformava
nell'idealismo panteistico, l'idea cristiana nell'idea filosofica, il Cristo
del Vangelo nel Cristo di Strauss, la teologia s'inabissava nella filosofia, il
domma e il dubbio si fondevano nella critica, e il famoso “cogito”
trovava il suo punto di arrivo e di fermata nella coscienza di sè, come spirito
del mondo morale e naturale: punto d'arrivo divenuto stagnante nel superficiale
ecletismo francese.
Quando
Manzoni, tutto ancora pieno di Alfieri, fu a Parigi, ebbe le sue prime
impressioni da quei circoli letterari che facevano opposizione all'Impero, e
dove abitava lo spirito di Châteaubriand e madama di Staël. Di là gli venne un
riflesso della Germania, e si diede alla storia di quella letteratura. Strinse
relazioni con uomini illustri delle due grandi nazioni; Cousin lo chiamava il
suo “amico”, Fauriel e Goethe mettevano su il giovine poeta. Il suo orizzonte
si allargò, vide nuovi mondi, e reagì contro la sua educazione letteraria,
contro le sue adorazioni giovanili, contro Alfieri e Monti. A Milano, caduto il
regno d'Italia, le nuove idee raccolsero intorno a sè i giovani, e Manzoni
divenne il capo della scuola romantica. Così, mentre la Germania, percorso il
ciclo filosofico e ideale della sua coltura, si travagliava intorno
all'applicazione in tutte le sue scienze sociali o naturali, in Italia si
disputava ancora de' princìpi. Naturalmente, nè Manzoni nè altri poteva
assimilarsi tutto il movimento germanico, lavoro di un secolo, e non lo
vedevano che nella sua parte iniziale e superficiale. Ammiravano Schiller,
Goethe, Herder, Kant, Fichte, Schelling, ma conoscevano assai meglio i nostri
filosofi e letterati, e di quelli veniva loro come un'eco, spesso per studi e
giudizi di seconda mano, spesso per intramessa di scrittori francesi. Rimasero
essi dunque nella loro spontaneità, ponendo le quistioni come le si ponevano in
Italia, con argomenti e metodi propri; e ne uscì un romanticismo locale, puro
di stravaganze ed esagerazioni forestiere, accomodato allo stato della coltura,
timido nelle innovazioni, e tenuto in freno dalle tradizioni letterarie e dal
carattere nazionale. Un romanticismo così fatto non era che lo sviluppo della
nuova letteratura sorta col Parini, e rimaneva nelle sue forme e ne' suoi
colori prettamente italiano.
In
effetti, i punti sostanziali di questo romanticismo concordano col movimento
iniziato nel secolo scorso, e non è maraviglia che la lotta continuata con
tanto furore e con tanta confusione finì nella piena indifferenza del popolo
italiano, che riconosceva se stesso nelle due schiere. Volevano i romantici che
l'Italia lasciasse i temi classici? E già n'era venuto il fastidio, e avevi l'Ossian,
il Saul, la Ricciarda, il Bardo della selva nera. Volevano
che i personaggi fossero presi dal vero? E che le forme fossero semplici e naturali?
Ed ecco là Goldoni, che predicava il medesimo. Spregiavano la vuota forma? E
sotto questa bandiera avevano militato Parini, Alfieri e Foscolo, e appunto la
risurrezione del contenuto, la ristorazione della coscienza era il carattere
della nuova letteratura. Cosa erano le tre unità e la mitologia, pomo della
discordia, se non quistioni accessorie nella stessa famiglia? Fino un concetto
del mondo meno assoluto e rigido, umano e anco religioso, intravedevi ne' Sepolcri
di Foscolo e d'Ippolito Pindemonte. Adunque la scuola romantica, se per il suo
nome, per le sue relazioni, pe' suoi studi, e per le sue impressioni si legava
a tradizioni tedesche e a mode francesi, rimase nel fondo scuola italiana per
il suo accento, le sue aspirazioni, le sue forme, i suoi motivi; anzi fu la
stessa scuola del secolo andato, che dopo le grandi illusioni e i grandi
disinganni ritornava a' suoi princìpi, alla naturalezza di Goldoni e alla
temperanza di Parini. Erano di quella scuola più i romantici, i quali avevano
aria di combatterla, che i classici, suoi eredi di nome, ma eredi degeneri,
appo i quali la sua vitalità si mostrava esaurita nella pomposa vacuità di
Monti e nel purismo rettorico di Pietro Giordani. La scuola andava visibilmente
declinando sotto il regno d'Italia, e non avendo più novità di contenuto, si
girava in se stessa, divenuta sotto nome di “purismo” un gioco di frasi,
intenta alla purità del Trecento e all'eleganza del Cinquecento. Ritornavano in
voga i grammatici, i linguisti e i retori; ripullulava sotto altro nome
l'Arcadia e l'accademia. Così fu possibile la Storia americana di Carlo
Botta, uscita a Parigi quando appunto uscirono gl'Inni; e fu tal cosa
che gli stessi accademici della Crusca si sentirono oltrepassati e domandavano
che lingua era quella. Furono i romantici che, insorgendo contro la scuola, la
rinsanguarono, e in aria di nemici furono i suoi veri eredi. Essi le apersero
nuovo contenuto e nuovo ideale, le spogliarono la sua vernice classica e
mitologica, l'accostarono a forme semplici, naturali, popolari, sincere, libere
da ogni involucro artificiale e convenzionale, dalle esagerazioni rettoriche e
accademiche, dalle vecchie abitudini letterarie non ancor dome, di cui vedi le
orme anche tra gli sdegni di Alfieri e di Foscolo. Come, sotto forma di
reazione, essi erano la stessa rivoluzione, che moderandosi e disciplinandosi
ripigliava le sue forze, tirando anche Dio al progresso e alla democrazia;
così, sotto forma di opposizione, essi erano la nuova letteratura di Goldoni e
di Parini che si spogliava gli ultimi avanzi del vecchio, acquistava una
coscienza più chiara delle sue tendenze, e, lasciando gl'ideali rigidi e
assoluti, prendeva terra, si accostava al reale.
Questo
sentimento più vivo del reale era anche penetrato nel popolo italiano. Non era
più il popolo accademico, che batteva le mani in teatro alla Virginia e
all'Aristodemo e applaudiva all'Italia ne' sonetti e nelle canzoni. Vide
la libertà sotto tutte le sue forme, nelle sue illusioni, nelle sue promesse,
ne' suoi disinganni, nelle sue esagerazioni. Il regno d'Italia, la spedizione
di Murat, le promesse degli alleati, la lotta d'indipendenza della Spagna e
della Germania, l'insorgere della Grecia e del Belgio aguzzavano il sentimento
nazionale: l'unità d'Italia non era più un tema rettorico, era uno scopo serio,
a cui si drizzavano le menti e le volontà. I più arditi e impazienti
cospiravano nelle società secrete, contro le quali si ordinavano anche
secretamente i sanfedisti. Fatto vecchio era questo. Ma il fatto nuovo era, che
nella grande maggioranza della gente istrutta si andava formando una coscienza
politica, il senso del limite e del possibile: la rettorica e la declamazione
non avea più presa sugli animi. La grandezza degli ostacoli rendea modesti i
desidèri, e tirava gli spiriti dalle astrazioni alla misura dello scopo e alla
convenienza de' mezzi. La libertà trovava il suo limite nelle forme
costituzionali, e il sentimento nazionale nel concetto di una maggiore
indipendenza verso gli stranieri. Una nuova parola venne su: non si disse più
rivoluzione, si disse “progresso”. E fu il maestoso cammino dell'idea nello
spazio e nel tempo verso un miglioramento indefinito della specie, morale e
naturale. Il progresso divenne la fede, la religione del secolo. Ed avea il suo
lasciapassare, perchè cacciava quella maledetta parola che era la
“rivoluzione”, e significava la naturale evoluzione della storia, e condannava
le violente mutazioni. Il progresso raccomandava pazienza a' popoli, dimostrava
compatibile ogni miglioramento con ogni forma di governo, e si accordava con la
filosofia cristiana, che predicava fiducia in Dio, preghiera e rassegnazione.
Oltre a ciò, “libertà”, “rivoluzione” indicavano scopi immediati e non
tollerabili ai governi, dove progresso nel suo senso vago abbracciava ogni
miglioramento, e dava agio a' principi di acquistarsi lode a buon mercato,
promovendo, non fosse altro, miglioramenti speciali, che parevano innocui,
com'erano le strade ferrate, l'illuminazione a gas, i telegrafi, la libertà del
commercio, gli asili d'infanzia, i congressi scientifici, i comizi agrarii. A
poco a poco i liberali tornarono là ond'erano partiti, e non potendo vincere i
governi, li lusingarono, sperarono riforme di principi, anche del papa,
rifacevano i tempi di Tanucci, di Leopoldo, di Giuseppe, e rifacevano anche un
po' quell'arcadia. Certo, una teoria del progresso, che se ne rimetteva a Dio e
all'Idea, dovea condurre a un fatalismo musulmano, e rendendo i popoli troppo
facilmente appagabili, potea sfibrare i caratteri, trasformare il liberalismo
in una nuova arcadia, come temea Giuseppe Mazzini, che vi contrapponeva la
Giovine Italia. Pure i moti repressi del Ventuno e del Trentuno, i vari
tentativi mazziniani mal riusciti, la politica del non intervento delle nazioni
liberali, la potenza riputata insuperabile dell'Austria, la forza e la severità
de' governi, le fila spesso riannodate e spesso rotte, disponevano gli animi ad
uno studio più attento de' mezzi, li piegavano a' compromessi, fortificavano il
senso politico, rendevano impopolare la dottrina del “tutto o niente”. Lo
stesso Mazzini, ch'era all'avanguardia, avea nel suo linguaggio e nelle sue
formole quell'accento di misticismo e di vaporoso idealismo che era penetrato
nella filosofia e nelle lettere, e che lo chiariva uomo del secolo, e
mostravasi anche lui disposto a tener conto delle condizioni reali della
pubblica opinione, e a sacrificarvi una parte del suo ideale. Così,
rammorbidite le passioni, confidenti nel progresso naturale delle cose, e
persuasi che anche sotto i cattivi governi si può promuovere la coltura e la
pubblica educazione, i più smessero l'azione diretta e si diedero agli studi:
fiorirono le scienze, si sviluppò il senso artistico e il genio della musica e
del canto; la Taglioni e la Malibran, la Rachel e la Ristori, Rossini e
Bellini, le dispute scientifiche e letterarie, i romanzi francesi e italiani
occupavano nella vita quel posto che la politica lasciava vuoto. In breve
spazio uscivano in luce il Carmagnola, l'Adelchi e i Promessi
sposi, la Pia del Sestini; la Fuggitiva, l'Ildegonda,
i Crociati e il Marco Visconti del Grossi, la Francesca da
Rimini del Pellico, la Margherita Pusterla del Cantù, l'Ettore
Fieramosca e più tardi il Niccolò de' Lapi di Massimo d'Azeglio.
Ultime venivano con più solenne impressione le Mie prigioni. Ciclo
letterario che fu detto romantico, un romanticismo italiano, che facea vibrare
le corde più soavi dell'uomo e del patriota, con quella misura, con
quell'ideale internato nella storia, con quella storia fremente d'intenzioni patriottiche,
con quella intimità malinconica di sentimento, con quella finezza di analisi
nella maggiore semplicità de' motivi, che rivelava uno spirito venuto a
maturità e ne' suoi ideali studioso del reale. Con tinte più crude e con
intenzioni più ardite comparivano l'Arnaldo da Brescia e l'Assedio di
Firenze.
Ciascuno
sentiva sotto la scorza del medio evo palpitare le nostre aspirazioni: le
minime allusioni, le più lontane somiglianze erano còlte a volo da un pubblico
che si sentiva uno con gli scrittori. Il romanticismo perdette la serietà del
suo contenuto; la parola stessa usciva di moda. Il medio evo non fu più materia
trattata con intenzioni storiche e positive. Fu l'involucro de' nostri ideali,
l'espressione abbastanza trasparente delle nostre speranze. Si sceglievano
argomenti, che meglio rappresentassero il pensiero o il sentimento pubblico,
come era la Lega lombarda, trasformata in lotta italiana contro la Germania.
Massimo d'Azeglio, che segna il passaggio dalla maniera principalmente artistica
de' romantici ad una rappresentazione più svelatamente politica, volgeva in
mente un terzo romanzo, che dovea avere per materia la Lega lombarda. Il
pittore arieggiava allo scrittore. Uscivano dal suo pennello la Sfida di
Barletta, il Brindisi di Francesco Ferruccio, la Battaglia di
Gavinana, la Difesa di Nizza, la Battaglia di Torino. Il
medesimo era del misticismo. L'ispirazione artistica, da cui erano usciti gl'Inni
e il Cinque maggio e l'Ermengarda, non fu più il quadro, fu
l'accessorio, un semplice colore attaccaticcio sopra un fondo estraneo,
filosofico e politico. Vennero gl'inni alle scienze, alle arti, gl'inni di
guerra. Rimasero madonne, angioli, santi e paradiso, a quel medesimo modo che
prima Pallade, Venere e Cupido, semplici ornamenti e macchine poetiche,
estranee all'intimo spirito della composizione, o puramente arcadiche. Dove la
poesia gitta via ogni involucro romantico e classico, è ne' versi del Berchet.
E non poco vi contribuì lord Byron, vivuto lungo tempo in Venezia, di cui si
sentono i fieri accenti nell'Esule di Parga. Se Giovanni Berchet fosse
rimasto in Italia, probabilmente il suo genio sarebbe rimasto inviluppato nelle
allusioni e nelle ombre del romanticismo. Ma esule portava a Londra i dolori e
i furori della patria tradita e vinta. Fu l'accento della collera nazionale in
una lirica, che, lasciate le generalità de' sonetti e delle canzoni, s'innestò
al dramma, e colse la vita nelle più patetiche situazioni.
La voce
possente di questa lirica drammatica giunse solitaria in un'Italia, dove i
secondi fini della prudenza politica avevano rintuzzata la verità e virilità
dell'espressione. Si era trovata una specie di modus vivendi, come si
direbbe oggi, una conciliazione provvisoria tra principi e popoli. I freni si
allentavano, ci era una maggiore libertà di scrivere, di parlare, di riunirsi,
sempre in nome del progresso, della coltura, della civiltà: gli avversari erano
detti “oscurantisti”. I principi facevano bocca da ridere; promettevano
riforme; e sino il più restio, Ferdinando II, chiamava alle cattedre, alla
magistratura, a' ministeri uomini colti, e per bocca di monsignor Mazzetti
annunziava un largo riordinamento degli studi. Che si voleva più? I liberali,
con quel senso squisito dell'opportunità che ha ciascuno nell'interesse proprio,
inneggiavano a' principi, stringevano la mano a' preti, fino ridevano a'
gesuiti. Fu allora che apparve in Italia un'opera stranissima, il Primato
di Vincenzo Gioberti. Ivi con molta facilità di eloquio, con grande apparato di
erudizione, con superbia e ricercatezza di formole si proclamava il primato
della civiltà italiana riannodata attraverso le glorie romane alle tradizioni
italo-pelasgiche, fondata sul papato restitutore della religione nella sua
purità, riconciliato con le idee moderne, e tendente all'autocrazia
dell'ingegno e al riscatto delle plebi. La creazione sostituita al divenire
egheliano rimetteva le gambe al soprannaturale e alla rivelazione, tutto il
Risorgimento era dichiarato eterodosso o acattolico, e il presente si
ricongiungeva immediatamente col medio evo. Era la conciliazione politica
sublimata a filosofia, era la filosofia costruita ad uso del popolo italiano.
Frate Campanella pareva uscito dalla sua tomba. L'impressione fu immensa.
Sembrò che ci fosse alfine una filosofia italiana. Vi si vedevano conciliate
tutte le opposizioni, il papa a braccetto co' principi, i principi riamicati a'
popoli, Il misticismo internato nel socialismo, Dio e progresso, gerarchia e
democrazia, un bilanciere universale. Il movimento era visibilmente politico,
non religioso e non filosofico. E ciò che ne uscì, non fu già nè una riforma
religiosa nè un movimento intellettuale, ma un moto politico, tenuto in piede
dall'equivoco, e crollato al primo urto de' fatti. Questa era la faccia della
società italiana. Era un ambiente, nel quale anche i più fieri si accomodavano,
non scontenti del presente, fiduciosi nell'avvenire: i liberali biascicavano
“paternostri”, e i gesuiti biascicavano “progresso e riforme”. La situazione in
fondo era comica, e il poeta che seppe coglierne tutt'i segreti fu Giuseppe
Giusti. La Toscana, dopo una prodigiosa produzione di tre secoli, non aveva più
in mano l'indirizzo letterario d'Italia. Si era addormentata col riso del Berni
sul labbro. La Crusca l'aveva inventariata e imbalsamata. Resistè più che potè
nel suo sonno, respingendo da sè gl'impulsi del secolo decimottavo. Quando si
sentì il bisogno di una lingua meno accademica, prossima per naturalezza e brio
al linguaggio parlato, molti si diedero al dialetto locale, altri si gittarono
alle forme francesi, altri col padre Cesari a capo l'andavano pescando nel
Trecento. Non veniva innanzi la soluzione più naturale: cercarla colà dove era
parlata, cercarla in Toscana. La rivoluzione avea ravvicinati gl'italiani,
suscitati interessi, idee, speranze comuni. Firenze, la città prediletta di
Alfieri e di Foscolo, dopo il Ventuno vide nelle sue mura accolti esuli
illustri di altre parti d'Italia. Grazie al Vieusseux, vi sorgeva un centro
letterario in gara con quello di Milano. Manzoni e D'Azeglio andavano pe' colli
di Pistoia raccattando voci e proverbi della lingua viva. Gl'italiani si
studiavano di comparire toscani; i toscani, come Niccolini e Guerrazzi, si
studiavano di assimilarsi lo spirito italiano. Risorgeva in Firenze una vita letteraria,
dove l'elemento locale prima timido e come sopraffatto ripigliava la sua forza
con la coscienza della sua vitalità. Firenze riacquistava il suo posto nella
coltura italiana per opera di Giuseppe Giusti. Sembrava un contemporaneo di
Lorenzo de' Medici che gittasse una occhiata ironica sulla società quale
l'aveva fatta il secolo decimonono. Quelle finezze politiche, quelle ipocrisie
dottrinali, quella mascherata universale, sotto la quale ammiccavano le idee
liberali gli “Arlecchini”, i “Girella”, gli “eroi da poltrona”, furono materia
di un riso non privo di tristezza. Era Parini tradotto dal popolino di Firenze,
con una grazia e una vivezza che dava l'ultimo contorno alle immagini e le
fissava nella memoria. Ciascun sistema d'idee medie nel suo studio di
contentare e conciliare gli estremi va a finire irreparabilmente nel comico.
Tutto quell'equilibrio dottrinale così laboriosamente formato del secolo
decimonono, tutta quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in
costruzioni ideali, quel misticismo impregnato di metafisica, quella metafisica
del divino e dell'assoluto declinante in teologia, quel volterianismo
inverniciato d'acqua benedetta, tutto si dissolveva innanzi al ghigno di
Giuseppe Giusti.
Giacomo
Leopardi segna il termine di questo periodo. La metafisica in lotta con la
teologia si era esaurita in questo tentativo di conciliazione. La moltiplicità
de' sistemi avea tolto credito alla stessa scienza. Sorgeva un nuovo
scetticismo che non colpiva più solo la religione o il soprannaturale, colpiva
la stessa ragione. La metafisica era tenuta come una succursale della teologia.
L'idea sembrava un sostituto della provvidenza. Quelle filosofie della storia,
delle religioni, dell'umanità, del dritto avevano aria di costruzioni poetiche.
La teoria del progresso o del fato storico nelle sue evoluzioni sembrava una
fantasmagoria. L'abuso degli elementi provvidenziali e collettivi conduceva
diritto all'onnipotenza dello Stato, al centralismo governativo. L'ecletismo
pareva una stagnazione intellettuale, un mare morto. L'apoteosi del successo
rintuzzava il senso morale, incoraggiava tutte le violenze. Quella
conciliazione tra il vecchio ed il nuovo, tollerata pure come temporanea
necessità politica, sembrava in fondo una profanazione della scienza, una
fiacchezza morale. Il sistema non attecchiva più: cominciava la ribellione.
Mancata era la fede nella rivelazione: mancava ora la fede nella stessa
filosofia. Ricompariva il mistero. Il filosofo sapeva quanto il pastore. Di
questo mistero fu l'eco Giacomo Leopardi nella solitudine del suo pensiero e
del suo dolore. Il suo scetticismo annunzia la dissoluzione di questo mondo
teologico-metafisico, e inaugura il regno dell'arido vero, del reale. I suoi Canti
sono le più profonde e occulte voci di quella transizione laboriosa che si
chiamava “secolo decimonono”. Ci si vede la vita interiore sviluppatissima. Ciò
che ha importanza, non è la brillante esteriorità di quel secolo del progresso,
e non senza ironia vi si parla delle “sorti progressive” dell'umanità. Ciò che
ha importanza è l'esplorazione del proprio petto, il mondo interno, virtù,
libertà, amore, tutti gl'ideali della religione, della scienza e della poesia,
ombre e illusioni innanzi alla sua ragione e che pur gli scaldano il cuore, e
non vogliono morire. Il mistero distrugge il suo mondo intellettuale, lascia
inviolato il suo mondo morale. Questa vita tenace di un mondo interno, malgrado
la caduta di ogni mondo teologico e metafisico, è l'originalità di Leopardi, e
dà al suo scetticismo una impronta religiosa. Anzi è lo scetticismo di un
quarto d'ora quello in cui vibra un così energico sentimento del mondo morale.
Ciascuno sente lì dentro una nuova formazione.
L'istrumento
di questa rinnovazione è la critica, covata e cresciuta nel seno stesso
dell'ecletismo. Il secolo sorto con tendenze ontologiche e ideali avea posto
esso medesimo il principio della sua dissoluzione: l'idea vivente, calata nel
reale. Nel suo cammino il senso del reale si va sempre più sviluppando, e le
scienze positive prendono il di sopra, cacciando di nido tutte le costruzioni
ideali e sistematiche. I nuovi dogmi perdono il credito. Rimane intatta la
critica. Ricomincia il lavoro paziente dell'analisi. Ritorna a splendere
sull'orizzonte intellettuale Galileo accompagnato con Vico. La rivoluzione,
arrestata e sistemata in organismi provvisori ripiglia la sua libertà, si
riannoda all'Ottantanove, tira le conseguenze. Comparisce il socialismo
nell'ordine politico, il positivismo nell'ordine intellettuale. Il verbo non è
più solo “libertà”, ma “giustizia”, la parte fatta a tutti gli elementi reali
dell'esistenza, la democrazia non solo giuridica ma effettiva. La letteratura
si va anche essa trasformando. Rigetta le classi, le distinzioni, i privilegi.
Il brutto sta accanto al bello, o, per dir meglio, non c'è più nè bello, nè
brutto, non ideale, e non reale, non infinito, e non finito. L'idea non si
stacca, non soprastà al contenuto. Il contenuto non si spicca dalla forma. Non
ci è che una cosa, il vivente. Dal seno dell'idealismo comparisce il realismo
nella scienza, nell'arte, nella storia. È un'ultima eliminazione di elementi
fantastici, mistici, metafisici e rettorici. La nuova letteratura, rifatta la
coscienza, acquistata una vita interiore, emancipata da involucri classici e
romantici, eco della vita contemporanea universale e nazionale, come filosofia,
come storia, come arte, come critica, intenta a realizzare sempre più il suo
contenuto, si chiama oggi ed è la “letteratura moderna”.
L'Italia,
costretta a lottare tutto un secolo per acquistare l'indipendenza e le
istituzioni liberali, rimasta in un cerchio d'idee e di sentimenti troppo
uniforme e generale, subordinato a' suoi fini politici, assiste ora al
disfacimento di tutto quel sistema teologico-metafisico-politico, che ha dato
quello che le potea dare. L'ontologia con le sue brillanti sintesi avea
soverchiate le tendenze positive del secolo. Ora è visibilmente esaurita,
ripete se stessa, diviene accademica, perchè accademia e arcadia è la forma
ultima delle dottrine stazionarie. Vedete Cousin col suo ecletismo dottrinario.
Vedete il Prati in Satana e le Grazie e nell'Armando.
Vedete la Storia universale di Cesare Cantù. Erede dell'ontologia è la
critica, nata con essa, non ancor libera di elementi fantastici e dommatici
attinti nel suo seno, come si vede in Proudhon, in Renan, in Ferrari, ma con
visibile tendenza meno a porre e a dimostrare che a investigare. La paziente e
modesta monografia prende il posto delle sintesi filosofiche e letterarie. I
sistemi sono sospetti, le leggi sono accolte con diffidenza, i princìpi più
inconcussi sono messi nel crogiuolo, niente si ammette più, che non esca da una
serie di fatti accertati. Accertare un fatto desta più interesse che stabilire
una legge. Le idee, i motti, le formole, che un giorno destavano tante lotte e
tante passioni, sono un repertorio di convenzione, non rispondenti più allo
stato reale dello spirito. C'è passato sopra Giacomo Leopardi. Diresti che
proprio appunto, quando s'è formata l'Italia, si sia sformato il mondo
intellettuale e politico da cui è nata. Parrebbe una dissoluzione, se non si
disegnasse in modo vago ancora ma visibile un nuovo orizzonte. Una forza
instancabile ci sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni, si affacciano
le altre.
L'Italia
è stata finora avviluppata come di una sfera brillante, la sfera della libertà
e della nazionalità, e ne è nata una filosofia e una letteratura, la quale ha
la sua leva fuori di lei, ancorchè intorno a lei. Ora si dee guardare in seno,
dee cercare se stessa: la sfera dee svilupparsi e concretarsi come sua vita
interiore. L'ipocrisia religiosa, la prevalenza delle necessità politiche, le
abitudini accademiche, i lunghi ozi, le reminiscenze d'una servitù e abbiezione
di parecchi secoli, gl'impulsi estranei soprapposti al suo libero sviluppo,
hanno creata una coscienza artificiale e vacillante, le tolgono ogni
raccoglimento, ogn'intimità. La sua vita è ancora esteriore e superficiale. Dee
cercare se stessa, con vista chiara, sgombra da ogni velo e da ogni involucro, guardando
alla cosa effettuale, con lo spirito di Galileo, di Machiavelli. In questa
ricerca degli elementi reali della sua esistenza, lo spirito italiano rifarà la
sua coltura, ristaurerà il suo mondo morale, rinfrescherà le sue impressioni,
troverà nella sua intimità nuove fonti d'ispirazione, la donna, la famiglia, la
natura, l'amore, la libertà, la patria, la scienza, la virtù, non come idee
brillanti, viste nello spazio, che gli girino intorno, ma come oggetti concreti
e familiari, divenuti il suo contenuto.
Una
letteratura simile suppone una seria preparazione di studi originali e diretti
in tutt'i rami dello scibile, guidati da una critica libera da preconcetti e
paziente esploratrice, e suppone pure una vita nazionale, pubblica e privata,
lungamente sviluppata. Guardare in noi, ne' nostri costumi, nelle nostre idee,
ne' nostri pregiudizi, nelle nostre qualità buone e cattive, convertire il
mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo,
“esplorare il proprio petto” secondo il motto testamentario di Giacomo
Leopardi: questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna, della
quale compariscono presso di noi piccoli indizi con vaste ombre. Abbiamo il
romanzo storico, ci manca la storia e il romanzo. E ci manca il dramma. Da
Giuseppe Giusti non è uscita ancora la commedia. E da Leopardi non è uscita
ancora la lirica. C'incalza ancora l'accademia, l'arcadia, il classicismo e il
romanticismo. Continua l'enfasi e la rettorica, argomento di poca serietà di
studi e di vita. Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci è
vita nostra e lavoro nostro. E da' nostri vanti s'intravede la coscienza della
nostra inferiorità. Il grande lavoro del secolo decimonono è al suo termine.
Assistiamo ad una nuova fermentazione d'idee, nunzia di una nuova formazione.
Già vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E questa volta non
dobbiamo trovarci alla coda, non a' secondi posti.
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