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Ludovico Ariosto La lena IntraText CT - Lettura del testo |
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Menica, Lena, Corbolo, Pacifico.
Lena, che vuoi? di farmi un gran servigio, da dovertene esser sempre tenuta. Che vuoi? Vuo' mi tu farlo? Io 'l farò, pur che far sia possibile. Va', madre mia, se m'ami, fin a gli Angeli. Ora? io saprò senza te al fuoco una pentola. Va': come sei dritto la chiesa, piegati tra l'orto de li Mosti e 'l monasterio; e va' su al dritto, fin che giungi al volgerti a man sinistra, alla contrada dicono Che vi vuoi, domine, ch'io vada a far? quivi (credo sia il terzo uscio) dove abita la moglie di Pasquin, che insegna a leggere alle fanciulle: Dorotea si nomina. Va' quivi, e dille: - A te, Dorotea, mandami la Lena a tôr li ferri suoi da volgere la seta sopra li rocchetti -; e pregala che me li mandi, perché mi bisognano. Or va', Menica cara: donar voglioti poi tanta tela, che facci una cuffia. La carne è nel catin lavata, e in ordine; non resta se non porla ne la pentola. Troppo cred'io ch'ella sia ben in ordine; ma non è già per porla ne la pentola se venticinque fiorini non s'abbino. Conosco io ben l'amor di questi giovani, che dura solamente fin che bramano aver la cosa amata, e spenderebbono, mentre che stanno in questo desiderio, non che l'aver, ma il cuor. Fa' che possegghino: va l'amor come il fuoco, che spargendovi de l'acqua sopra, suol subito spegnersi: e mancato l'ardor, non ti darebbono di mille l'un, che già ti promesseno. Per questo voglio ir dentro, et interrompere s'alcuna cosa senza me disegnano. Corbolo, or su, spacciati tosto, arrecali alcuna veste; che lo possiàn mettere fuor, mentre l'agio ci abbiamo. Anzi, pregoti, mentre abbiamo agio, fa' che possa mettere dentro, e dategli luogo tu e Pacifico. In fé di Dio, non farà: né ti credere ch'io gli lassi aver cosa che desideri, se prima li danari non mi annovera; et esser guardiana io stessa voglione. Guardala sí che gli occhi vi rimanghino. (Debb'io patir che Flavio da Licinia cosí si debba partir, senza prenderne piacere; et abbia avuto questo incommodo di levarsi, che dieci ore non erano; di star qui dentro chiuso come in carcere; d'esser portato con tanto pericolo serrato in una botte, come proprio fansi l'anguille di Comacchio e i mugini? Ma che farò, vedendomi contraria col becco suo questa puttana femina, con li quali li preghi nulla vagliono, né luogo han le minaccie; né potrebbesi usar forza, che pur troppo è il pericolo, stando cosí, senza levar piú strepito? Venticinque fiorini, in fin, bisognano, ne li qual siamo condennati; e grazia non se n'ha a aver, né voglion darci credito. Dove trovar li potrò? Far prestarmeli su la fede è provato, et è stato opera vana: su i pegni non si può, che Ilario ne gli ha intercetti. A lui di nuovo tendere impresa: non si lasciaria piú cogliere. E pur talor de gli augelli si colgono, che caduti alla rete altre volte erano, e n'erano altre volte usciti liberi. Forse sarà lo ingannarlo piú facile or che gli par, che mal successe essendomi le prime, rinfrancar sí tosto l'animo non debba a porgli le seconde insidie. Ma che farò? Che farò infin? Delibera tosto, che di pensar ci è poco termine. Io farò... che? Io dirò... sí bene; e credere mi potrà? Crederammi. Ma Pacifico scorto per sarto? Oh, par che 'l mio esercizio non sappi: io tengo la zecca, e vo' battere venticinque fiorini ora per darteli. Su in la camera dipinta ho nel camin l'arme di Fazio. Assai n'ho che m'offendono: la povertà, li pensieri, la rabbia di mia moglier, e 'l suo sempre dirmi ingiuria. Dico s'hai spiedo o ronca o spada o simile cosa. Ci è un spiedo antico e tutto ruggine. Ve' se gli è tristo, se gli è male in ordine, che i birri mai non curan di levarmelo. Basta, viemmelo mostra. Or bella alchimia non ti parrà, s'io fo di questa ruggine venticinque fiorini d'oro fonderti?
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