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Giovanni Della Casa
Rime

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  • LE RIME SECONDO LA STAMPA DEL 1558
    • XLV
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XLV

Amor, i’ piango, e ben fu rio destino

che cruda tigre ad amar diemmi, e scoglio

sordo, cui né sospirpianto move,

e come afflitto e stanco peregrino,

che chiuso a sera il dolce albergo trove,

pur costei prego, e pur con lei mi doglio;

né perché sempre indarno il mio cordoglio

al vento si disperga

sì come nebbia suol che ’n alto s’erga,

men dolermi con lei, né pianger voglio.

E così tinge e verga

ben mille carte omai l’aspro mio duolo:

però che ’l cor quest’un conforto ha solo,

trova incontra gli aspri suoi martìri

schermo miglior che lacrime e sospiri.

 

Qual chiuso albergo in solitario bosco

pien di sospetto suol pregar talora

corrier di notte traviato e lasso,

tal io per entro il tuo dubbioso e fosco

e duro calle, Amor, corro e trapasso

fin ’ve ’l dolce mio riposo fôra:

ivi pregando fo lunga dimora.

Né perch’io pianga e gridi,

le selve empiendo d’amorosi stridi,

lasso, le porte men rinchiuse ancora

del mio ricetto vidi;

né per lacrime antiche o dolor novo

posa, o soccorso, o refrigerio trovo.

Così fe’ ’l mio destin, la stella mia,

sorda pietate in lei ch’udir devria.

 

O fortunato chi sen gìo sotterra,

e col suo pianto fea benigna Morte,

temprar seppe i lacrimosi versi:

se non che gran desio trascorre ed erra.

A me non val ch’i’ pianga e ’l mio duol versi,

quanto m’è dato, in dolci note e scorte;

né del martiro che mi duolforte

in quei begli occhi rei

ancor venne pietade. E ben torrei

senza mirar la cruda mia consorte

girmen per via con lei,

fin ch’io scorgesse il ciel sereno e ’l die.

Poi che non ponno altrui parole, o mie,

impetrar dal bel ciglio atti men feri,

fa’ tu, signor, almen sì ch’io no ’l speri.

 

Ch’io pur m’inganno, e ’n quelle acerbe luci,

per cui del mio dolor giamai non taccio,

dico le rime mie pietà desta hanno;

e forse (o desir cieco ove m’adduci?)

lacriman or sovra ’l mio lungo affanno,

e noia è lor quant’io mi struggo e sfaccio.

Così corro a madonna, e neve e ghiaccio

le trovo il cor, e ’nvano

di quel nudrirmi, ond’io son sì lontano,

col penser cerco; anzi più doglia abbraccio,

qual poverel non sano

cui l’aspra sete uccide e ber gli è tolto,

or chiaro fonte in vivo sasso accolto,

e ora in fredda valle ombroso rio

membrando, arroge al suo mortal desio.

 

Lasso, e ben femmi e assetato e ’nfermo

febre amorosa, e un penser nudrilla,

che gioia imaginando ebbe martiro.

Così m’offende lo mio stesso schermo,

non pur mi val; ché s’io piango e sospiro

incominciando al primo suon di squilla,

già non iscema in tanto ardor favilla:

anzi il mio duol mortale

cresce piangendo e più s’infiamma, quale

facella che commossa arde e sfavilla.

Fero destin fatale,

quando fia mai che la mia fonte viva,

perch’io pur lei nel cor formi e descriva

e per lei mi consumi e pianga e prieghi,

le sue dolci acque un giorno a me non nieghi?

Forse (e ben romper suol fortuna rea

buono studio talor) ne la dolce onda

ch’i’ bramo tanto, almen per breve spazio

dato mi fia ch’un m’attuffi, e bea

fin ch’io ne senta il cor, non dico sazio,

però che nulla riva è sì profonda

qualora il verno più di piogge abonda,

ma sol bagnato un poco.

O fortunato il , beato il loco,

ben potrei dire, adversità seconda

mi diede Amore, e foco

m’accese il cor di refrigerio pieno,

s’un giorno sol, non avampando io meno,

la grave arsura mia, la sete immensa,

larga pietà consperge e ricompensa.

 

Che parlo? o chi m’inganna? a tanta sete

le dolci onde salubri indarno spera

il cor, che morta ha presso e mercé lunge.

Ma tu, signor, ché non più salda rete

omai distendi? e qual più adentro punge

quadrello, aventi a questa alpestra fera?

sì ch’ella caggia sanguinosa e pèra,

e quel selvaggio core

ne le sue piaghe senta il mio dolore;

e biasmando l’altrui cruda e guerrera

voglia, il suo proprio errore

e la sua crudeltà colpi e condanni:

e fia vendetta de’ miei gravi affanni

veder ne’ lacci di salute in forse

l’acerba fera, che mi punse e morse.

 

Già non mi cal s’in tanta preda parte,

canzon, non arò poi;

e so che raro i dolci premi suoi

con giusta lance Amor libra e comparte:

pur ch’ella, che di noi

sì lungo strazio feo, con le sue piaghe

la vista un giorno di questi occhi appaghe.

Ma, lasso, a la percossa ond’io vaneggio

vendetta indarno e medicina cheggio.

 




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