XLV
Amor, i’ piango, e ben fu rio
destino
che cruda tigre ad amar diemmi, e
scoglio
sordo, cui né sospir né pianto
move,
e come afflitto e stanco
peregrino,
che chiuso a sera il dolce albergo
trove,
pur costei prego, e pur con lei mi
doglio;
né perché sempre indarno il mio
cordoglio
al vento si disperga
sì come nebbia suol che ’n alto
s’erga,
men dolermi con lei, né pianger
voglio.
E così tinge e verga
ben mille carte omai l’aspro mio
duolo:
però che ’l cor quest’un conforto
ha solo,
né trova incontra gli aspri suoi
martìri
schermo miglior che lacrime e
sospiri.
Qual chiuso albergo in solitario
bosco
pien di sospetto suol pregar
talora
corrier di notte traviato e lasso,
tal io per entro il tuo dubbioso e
fosco
e duro calle, Amor, corro e
trapasso
fin là ’ve ’l dolce mio riposo
fôra:
ivi pregando fo lunga dimora.
Né perch’io pianga e gridi,
le selve empiendo d’amorosi
stridi,
lasso, le porte men rinchiuse
ancora
del mio ricetto vidi;
né per lacrime antiche o dolor
novo
posa, o soccorso, o refrigerio
trovo.
Così fe’ ’l mio destin, la stella
mia,
sorda pietate in lei ch’udir
devria.
O fortunato chi sen gìo sotterra,
e col suo pianto fea benigna
Morte,
sì temprar seppe i lacrimosi
versi:
se non che gran desio trascorre ed
erra.
A me non val ch’i’ pianga e ’l mio
duol versi,
quanto m’è dato, in dolci note e
scorte;
né del martiro che mi duol sì
forte
in quei begli occhi rei
ancor venne pietade. E ben torrei
senza mirar la cruda mia consorte
girmen per via con lei,
fin ch’io scorgesse il ciel sereno
e ’l die.
Poi che non ponno altrui parole, o
mie,
impetrar dal bel ciglio atti men
feri,
fa’ tu, signor, almen sì ch’io no
’l speri.
Ch’io pur m’inganno, e ’n quelle
acerbe luci,
per cui del mio dolor giamai non
taccio,
dico le rime mie pietà desta
hanno;
e forse (o desir cieco ove
m’adduci?)
lacriman or sovra ’l mio lungo
affanno,
e noia è lor quant’io mi struggo e
sfaccio.
Così corro a madonna, e neve e
ghiaccio
le trovo il cor, e ’nvano
di quel nudrirmi, ond’io son sì
lontano,
col penser cerco; anzi più doglia
abbraccio,
qual poverel non sano
cui l’aspra sete uccide e ber gli
è tolto,
or chiaro fonte in vivo sasso
accolto,
e ora in fredda valle ombroso rio
membrando, arroge al suo mortal
desio.
Lasso, e ben femmi e assetato e
’nfermo
febre amorosa, e un penser
nudrilla,
che gioia imaginando ebbe martiro.
Così m’offende lo mio stesso
schermo,
non pur mi val; ché s’io piango e
sospiro
incominciando al primo suon di
squilla,
già non iscema in tanto ardor
favilla:
anzi il mio duol mortale
cresce piangendo e più s’infiamma,
quale
facella che commossa arde e
sfavilla.
Fero destin fatale,
quando fia mai che la mia fonte
viva,
perch’io pur lei nel cor formi e
descriva
e per lei mi consumi e pianga e
prieghi,
le sue dolci acque un giorno a me
non nieghi?
Forse (e ben romper suol fortuna
rea
buono studio talor) ne la dolce
onda
ch’i’ bramo tanto, almen per breve
spazio
dato mi fia ch’un dì m’attuffi, e
bea
fin ch’io ne senta il cor, non
dico sazio,
però che nulla riva è sì profonda
qualora il verno più di piogge
abonda,
ma sol bagnato un poco.
O fortunato il dì, beato il loco,
ben potrei dire, adversità seconda
mi diede Amore, e foco
m’accese il cor di refrigerio
pieno,
s’un giorno sol, non avampando io
meno,
la grave arsura mia, la sete
immensa,
larga pietà consperge e
ricompensa.
Che parlo? o chi m’inganna? a
tanta sete
le dolci onde salubri indarno
spera
il cor, che morta ha presso e
mercé lunge.
Ma tu, signor, ché non più salda rete
omai distendi? e qual più adentro
punge
quadrello, aventi a questa
alpestra fera?
sì ch’ella caggia sanguinosa e
pèra,
e quel selvaggio core
ne le sue piaghe senta il mio
dolore;
e biasmando l’altrui cruda e
guerrera
voglia, il suo proprio errore
e la sua crudeltà colpi e
condanni:
e fia vendetta de’ miei gravi
affanni
veder ne’ lacci di salute in forse
l’acerba fera, che mi punse e
morse.
Già non mi cal s’in tanta preda
parte,
canzon, non arò poi;
e so che raro i dolci premi suoi
con giusta lance Amor libra e
comparte:
pur ch’ella, che di noi
sì lungo strazio feo, con le sue
piaghe
la vista un giorno di questi occhi
appaghe.
Ma, lasso, a la percossa ond’io
vaneggio
vendetta indarno e medicina
cheggio.
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