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Giovanni Della Casa Rime IntraText CT - Lettura del testo |
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XLV Amor, i’ piango, e ben fu rio destino che cruda tigre ad amar diemmi, e scoglio sordo, cui né sospir né pianto move, e come afflitto e stanco peregrino, che chiuso a sera il dolce albergo trove, pur costei prego, e pur con lei mi doglio; né perché sempre indarno il mio cordoglio al vento si disperga sì come nebbia suol che ’n alto s’erga, men dolermi con lei, né pianger voglio. E così tinge e verga ben mille carte omai l’aspro mio duolo: però che ’l cor quest’un conforto ha solo, né trova incontra gli aspri suoi martìri schermo miglior che lacrime e sospiri.
Qual chiuso albergo in solitario bosco pien di sospetto suol pregar talora corrier di notte traviato e lasso, tal io per entro il tuo dubbioso e fosco e duro calle, Amor, corro e trapasso fin là ’ve ’l dolce mio riposo fôra: ivi pregando fo lunga dimora. Né perch’io pianga e gridi, le selve empiendo d’amorosi stridi, lasso, le porte men rinchiuse ancora del mio ricetto vidi; né per lacrime antiche o dolor novo posa, o soccorso, o refrigerio trovo. Così fe’ ’l mio destin, la stella mia, sorda pietate in lei ch’udir devria.
O fortunato chi sen gìo sotterra, e col suo pianto fea benigna Morte, sì temprar seppe i lacrimosi versi: se non che gran desio trascorre ed erra. A me non val ch’i’ pianga e ’l mio duol versi, quanto m’è dato, in dolci note e scorte; né del martiro che mi duol sì forte in quei begli occhi rei ancor venne pietade. E ben torrei senza mirar la cruda mia consorte girmen per via con lei, fin ch’io scorgesse il ciel sereno e ’l die. Poi che non ponno altrui parole, o mie, impetrar dal bel ciglio atti men feri, fa’ tu, signor, almen sì ch’io no ’l speri.
Ch’io pur m’inganno, e ’n quelle acerbe luci, per cui del mio dolor giamai non taccio, dico le rime mie pietà desta hanno; e forse (o desir cieco ove m’adduci?) lacriman or sovra ’l mio lungo affanno, e noia è lor quant’io mi struggo e sfaccio. Così corro a madonna, e neve e ghiaccio le trovo il cor, e ’nvano di quel nudrirmi, ond’io son sì lontano, col penser cerco; anzi più doglia abbraccio, qual poverel non sano cui l’aspra sete uccide e ber gli è tolto, or chiaro fonte in vivo sasso accolto, e ora in fredda valle ombroso rio membrando, arroge al suo mortal desio.
Lasso, e ben femmi e assetato e ’nfermo febre amorosa, e un penser nudrilla, che gioia imaginando ebbe martiro. Così m’offende lo mio stesso schermo, non pur mi val; ché s’io piango e sospiro incominciando al primo suon di squilla, già non iscema in tanto ardor favilla: anzi il mio duol mortale cresce piangendo e più s’infiamma, quale facella che commossa arde e sfavilla. Fero destin fatale, quando fia mai che la mia fonte viva, perch’io pur lei nel cor formi e descriva e per lei mi consumi e pianga e prieghi, le sue dolci acque un giorno a me non nieghi? Forse (e ben romper suol fortuna rea buono studio talor) ne la dolce onda ch’i’ bramo tanto, almen per breve spazio dato mi fia ch’un dì m’attuffi, e bea fin ch’io ne senta il cor, non dico sazio, però che nulla riva è sì profonda qualora il verno più di piogge abonda, ma sol bagnato un poco. O fortunato il dì, beato il loco, ben potrei dire, adversità seconda mi diede Amore, e foco m’accese il cor di refrigerio pieno, s’un giorno sol, non avampando io meno, la grave arsura mia, la sete immensa, larga pietà consperge e ricompensa.
Che parlo? o chi m’inganna? a tanta sete le dolci onde salubri indarno spera il cor, che morta ha presso e mercé lunge. Ma tu, signor, ché non più salda rete omai distendi? e qual più adentro punge quadrello, aventi a questa alpestra fera? sì ch’ella caggia sanguinosa e pèra, e quel selvaggio core ne le sue piaghe senta il mio dolore; e biasmando l’altrui cruda e guerrera voglia, il suo proprio errore e la sua crudeltà colpi e condanni: e fia vendetta de’ miei gravi affanni veder ne’ lacci di salute in forse l’acerba fera, che mi punse e morse.
Già non mi cal s’in tanta preda parte, canzon, non arò poi; e so che raro i dolci premi suoi con giusta lance Amor libra e comparte: pur ch’ella, che di noi sì lungo strazio feo, con le sue piaghe la vista un giorno di questi occhi appaghe. Ma, lasso, a la percossa ond’io vaneggio vendetta indarno e medicina cheggio.
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