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Giovanni Della Casa Rime IntraText CT - Lettura del testo |
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XLVI Come fuggir per selva ombrosa e folta nova cervetta sòle, se mover l’aura tra le frondi sente, o mormorar fra l’erbe onda corrente, così la fera mia me non ascolta; ma fugge immantenente al primo suon talor de le parole ch’io d’amor movo: e ben mi pesa e dole, ma non ho poi vigor, lasso dolente, da seguir lei, che leve prende suo corso per selvaggia via, e dico meco: or breve certo lo spazio di mia vita fia.
Ella sen fugge, e ne’ begli occhi suoi gli spirti miei ne porta nel suo da me partir, lasciando a’ venti quant’io l’ho a dir de’ miei pensier dolenti: né già viver potrei, se non che poi ritorna, e ne’ tormenti, onde questa alma in tanta pena è torta, quasi giudice pio mi riconforta. Non che però ’l mio grave duol s’allenti; ma spero, e ragion fôra, pietà trovar in quei begli occhi rei; ond’io le narro allora tutte le insidie e i dolci furti miei.
Né taccio ove talor questi occhi vaghi sen van sotto un bel velo, s’avien che l’aura lo sollevi e mova, e come il dolce sen mirar mi giova (non che l’ingorda vista ivi s’appaghi), e qual gioia il cor prova dove ’l bel piè si scopra, anco non celo: così gli inganni miei conto e rivelo, né questo in tanta lite anco mi giova. Deh chi fia mai che scioglia ver’ la giudice mia sì dolci prieghi, ch’almen non mi si toglia dritta ragion, se pur pietà si nieghi?
Donne, voi che l’amaro e ’l dolce tempo di lei già per lungo uso saper devete, e i benigni atti e i feri, chiedete posa a i lassi miei pensieri, i quai cangiando vo di tempo in tempo; né so s’io tema o speri, già mille volte in mia ragion deluso: sì m’ha ’l suo duro variar confuso, e ’l dolce riso, e quei begli occhi alteri vòti talor d’orgoglio, ch’altrui prometton pace e guerra fanno. Né già di lei mi doglio, che ’n vita tiemmi con benigno inganno.
Pietosa tigre il cielo ad amar diemmi, donne, e serena e piana procella il corso mio dubbioso face: onde talora il cor riposa e tace, talor ne gli occhi e ne la fronte viemmi pien di duol sì verace, ch’ogni mia prova in acquetarlo è vana. Allor m’adiro, e con la mente insana membrando vo che men di lei fugace donna sentìo fermarsi a mezzo il corso, e se ’l buon tempo antico non mente, arbore farsi, misera, o sasso; e lacrimando dico:
Or vedess’io cangiato in dura selce, come d’alcuna è scritto, quel freddo petto; e ’l viso e i capei d’oro, non vago fior tra l’erbe o verde alloro, ma quercia fatti in gelida alpe, od elce frondosa, e ’l mio di loro penser, dolce novella al core afflitto, contra quel che nel ciel forse è prescritto, recar potesse. Ahi mio nobil tesoro, troppo inanzi trascorre la lingua e quel ch’i’ non detto ragiona: colpa d’Amor, che porre le devria freno, ed ei la scioglie e sprona.
Canzon, tra speme e doglia Amor mia vita inforsa, e ben m’avveggio che l’altrui mobil voglia colpando, io stesso poi vario e vaneggio.
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